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Interpretazione consecutiva: un’analisi semiotica, Silvia Moro

Interpretazione consecutiva:

un’analisi semiotica

SILVIA MORO

Fondazione Milano

Civica Scuola Interpreti e Traduttori “Altiero Spinelli”

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Francesco Carchidio 2 – 20144 Milano

Relatore: Professor Bruno Osimo

Diploma in Mediazione linguistica

Aprile 2018

Questa tesi è conforme alla norma UNI ISO 7144:1997

Copyright © Silvia Moro

A Susanna

Silvia Moro

Interpretazione consecutiva: un’analisi semiotica

ABSTRACT IN ITALIANO

L’interpretazione consecutiva è un processo di comunicazione che si realizza attraverso una serie di traduzioni intersemiotiche tra lingue naturali, codice della presa di note e linguaggi interni. I diversi passaggi traduttivi generano un residuo comunicativo. Per gestire tale residuo, l’interprete – che ricopre simultaneamente diverse funzioni di mittente e destinatario – deve elaborare una strategia traduttiva e sviluppare al contempo un sistema di presa di note efficace ed efficiente ai fini dell’autocomunicazione: un linguaggio personale che consiste nell’associazione di segni, oggetti e interpretanti e può essere descritto tramite la triade della significazione di Peirce.

ENGLISH ABSTRACT

Consecutive interpreting is a communication process comprising a series of passages of intersemiotic translation between natural languages, a note-taking code and I-I languages. The translation process implies a translation loss. Being an addresser and an addressee at once, an interpreter needs to handle such loss by working out a translation strategy, as well as by fine-tuning an effective, efficient note-taking system for the purpose of self-communication. Such system is the interpreter’s own note-taking language, consisting in a set of relationships between signs, objects and interpretants, thereby being described by Peirce’s semiotic triad.

RÉSUMÉ EN FRANÇAIS

L’interprétation consécutive est un processus de communication se composant d’une série de traductions intersémiotiques entre des langues naturelles, un code de prise de notes et des langages intérieurs. Ces différents passages traductifs engendrent de la perte communicative. Étant à la fois destinateur et destinataire, l’interprète doit gérer cette perte, en développant une stratégie traductive ainsi qu’un système de prise de notes efficace et efficient pour la communication Moi-Moi. Ce système constitue le langage personnel de prise de notes de l’interprète, se composant d’un ensemble de relations entre des signes, des objets et des interprétants et pouvant être expliqué par la triade sémiotique de Peirce.

Sommario

Introduzione 6

1 L’interpretazione consecutiva 8

1.1 Rozan: la presa di note 9

1.2 Allioni: le fasi dell’interpretazione consecutiva 10

2 Il linguaggio della presa di note 14

2.1 Metalinguaggio o linguaggio 14

2.2 Linguaggi naturali e linguaggi artificiali 17

2.3 Il sistema della presa di note: un linguaggio naturale? 19

2.4 Interpretazione consecutiva e creatività 21

3 La comunicazione nell’interpretazione consecutiva 23

3.1 Il modello della comunicazione di Jakobson 24

3.2 Il modello della comunicazione di Shannon e Weaver 26

4 Segni e semiosi 29

4.1 Una grammatica per l’interpretazione consecutiva 29

4.2 Peirce: la semiosi 31

5 La traduzione intersemiotica nell’interpretazione consecutiva 34

5.1 Lotman: il linguaggio interno 34

5.2 La traduzione intersemiotica 35

5.3 Informazione invariante e residuo comunicativo 38

5.4 Un modello della comunicazione per l’interpretazione consecutiva 41

Conclusioni 46

Riferimenti bibliografici 48

Introduzione

Questa tesi nasce dall’interesse suscitato dall’interpretazione consecutiva e, in particolare, dall’elaborazione di un personale sistema di segni per la presa di note, vissuta come una sfida ma anche e soprattutto come un divertissement. Poiché i manuali e i testi che si propongono come modelli guida per l’aspirante interprete alle prese con i simboli sono già numerosi e sostanzialmente esaustivi, si è pensato di considerare l’interpretazione consecutiva e la presa di note da un punto di vista semiotico. Infatti, se la scienza della traduzione (scritta) gode di ampia considerazione e studio in una prospettiva semiotica, non si può dire altrettanto dell’interpretazione consecutiva. Questa, pur ricoprendo un ruolo talvolta marginale nell’attività lavorativa di un interprete, risulta invece fondamentale nella sua formazione in quanto insegnamento propedeutico all’interpretazione simultanea. Per questa ragione appare utile proporre un’interpretazione semiotica specifica per la traduzione consecutiva.

Verranno ripercorse brevemente le peculiarità e le fasi dell’interpretazione consecutiva secondo la visione di autori scelti, in particolare Jean-François Rozan e Sergio Allioni, per poi proseguire con un’analisi degli aspetti che caratterizzano il codice della presa di note. Ci si propone, nello specifico, di sostenere la tesi della langue tierce: i segni della presa di note e le regole che li organizzano in un sistema costituirebbero un linguaggio a tutti gli effetti. Facendo riferimento ai parametri utilizzati da Lûdskanov per distinguere linguaggi naturali e linguaggi artificiali, si avanza l’ipotesi che il linguaggio della presa di note possa essere assimilato ai primi più che ai secondi.

Si considererà poi l’interpretazione consecutiva in quanto processo comunicativo secondo i modelli della comunicazione di Jakobson, da un lato, e di Shannon e Weaver, dall’altro. Una scelta in tale direzione permette di osservare attraverso una lente di ingrandimento la figura dell’interprete, che si muove tra più livelli comunicativi (il macrocontesto e il microcontesto) con destinatari e priorità diversi, e ricoprendo lui stesso diverse funzioni di produttore e ricevente del messaggio.

Si entrerà quindi nel merito della produzione dei segni per il linguaggio della presa di note, per evidenziare (ancora una volta) quanto questo linguaggio sia soggettivo e personale e spiegare questa soggettività attraverso la triade della significazione di Peirce e i suoi interpretanti, portando degli esempi concreti di segni e di alcune possibilità di significazione per i medesimi. La trattazione proseguirà quindi con il linguaggio interno di Lotman, strettamente legato al concetto di interpretante, e la traduzione intersemiotica, traduzione che interessa l’intero processo dell’interpretazione consecutiva. Si sottolineerà inoltre – facendo riferimento a Shannon e Weaver, Torop, Lûdskanov e Osimo in particolare – la costante presenza, nell’interpretazione consecutiva, di fattori che contribuiscono alla formazione di un residuo comunicativo. Di questo residuo l’interprete deve occuparsi, adottando una strategia traduttiva che contempli il ricorso a metatesti: si proporrà quindi di considerare la memoria, importantissima nel lavoro dell’interprete, un apparato paratestuale.

Si tenterà infine di formulare un modello della comunicazione per l’interpretazione consecutiva che tenga conto degli elementi analizzati, dei diversi passaggi intersemiotici e del residuo comunicativo. L’obiettivo del presente lavoro è dunque presentare l’interpretazione consecutiva in una luce che per questa disciplina è quanto meno inusuale, nella speranza di favorire una più approfondita comprensione e dunque una più consapevole padronanza dei meccanismi e degli strumenti in essa coinvolti.

1

L’interpretazione consecutiva

L’interpretazione consecutiva è «quel particolare tipo di traduzione orale di un discorso orale, da una lingua di partenza LP verso una lingua di arrivo LA […] effettuata solo dopo che l’oratore ha terminato il suo discorso» (Allioni 1998: 3). In questo processo, il traduttore (nello specifico, l’interprete) si avvale di due strumenti principali: la memoria e l’annotazione.

Diverse sono le tesi circa l’essenzialità del ruolo degli appunti (e dei simboli) nell’interpretazione consecutiva: una corrente vuole che si tratti di uno strumento secondario, talvolta superfluo, quando non addirittura d’impiccio, «una forma di masochismo» (Russo 1998: XL). Non mancano i teorici e professionisti del campo che ne sostengono, invece, l’estrema utilità e ne propongono modelli sistematici – per un excursus dei quali si rimanda alla prefazione di Mariachiara Russo in Elementi di grammatica per l’interpretazione consecutiva di Sergio Allioni (1998: XII-XXXVII). Non si vuole qui argomentare a favore di quest’ultima posizione, non si vogliono analizzare i pro e i contro del ricorso agli appunti: già molti testi hanno fornito analisi convincenti in merito. Tra questi, Manuel de l’interprète. Comment on devient interprète de conférences (1952) di Jean Herbert, La prise de notes en interprétation consécutive (1956) di Jean-François Rozan, Handbuch der Notizentechnik für Dolmetscher: ein Weg zur sprachunabhängigen Notation (Manuale di tecnica di presa d’appunti per interpreti: una via all’annotazione indipendente dalla lingua1, 1989) di Heinz Matyssek, Improved ways of teaching consecutive interpretation (1989) di Wilhelm Weber, il già citato Elementi di grammatica per l’interpretazione consecutiva (1998) di Sergio Allioni, Interpretation. Techniques and Exercises (2005) di James Nolan. L’intento è, piuttosto, quello di percorrere brevemente le peculiarità e le fasi dell’interpretazione consecutiva secondo la visione di due autori in particolare, Rozan e Allioni, per proseguire poi con un’analisi dei processi coinvolti in questa disciplina da un punto di vista semiotico.

1.1 Rozan: la presa di note

Quello di Jean-François Rozan, interprete presso l’ONU per dieci anni e professore presso l’Università di Ginevra per quattro, è senza dubbio un contributo importante. È suo infatti La prise de notes en interprétation consécutive (pubblicato nel 1956) – manuale che costituisce ancora oggi «l’ABC della presa di note nella consecutiva»2. Rozan propone un sistema elaborato grazie anche agli insegnamenti di Jean Herbert e al confronto con gli interpreti con cui collabora durante l’esercizio della professione. Nell’introduzione al suo “eserciziario”, Rozan precisa che la tecnica da lui presentata vuole essere di ispirazione per l’utente, il cui compito sarà quello di personalizzarla al fine di garantirne l’efficienza (2004: 11). L’interprete deve elaborare il proprio codice – costituito da regole e segni frutto di una personale ricerca.

Rozan propone sette principi:

  1. annotazione delle idee anziché delle parole;

  2. regole di abbreviazione;

  3. connettivi;

  4. negazione;

  5. enfasi,

  6. disposizione in verticale e

  7. décalage (Allioni 1998: 119, ovvero disposizione in diagonale dei segni)3;

e venti simboli, di cui dieci essenziali, suddivisi in:

  1. simboli di espressione,

  2. simboli di movimento,

  3. simboli di corrispondenza e

  4. simboli per i concetti che ricorrono più frequentemente4.

È importante, per Rozan, che l’attenzione dell’interprete non sia affaticata da un’eccessiva quantità di simboli da dover ricordare e decifrare, ma possa dedicarsi a una buona analisi del testo. Tale analisi non deve essere, infatti, rimandata al momento della lettura delle note, ma deve terminare prima. In questo modo, le note svolgeranno il loro compito: dare all’interprete una visione d’insieme immediata e favorire una restituzione fluente e accurata del messaggio (2004: 25).

Rozan riprende, inoltre, un’indicazione importante di Herbert: che i simboli non rappresentino degli equivalenti di singole parole delle lingue naturali, ma comprendano, invece, un più ampio numero di significati – appartenenti al medesimo campo semantico – i quali dovranno essere via via ricavati dal contesto e dal cotesto (Rozan 2004: 25; Russo 1998: XV). Come infatti si vedrà nei prossimi capitoli, nella traduzione interlinguistica non è possibile compiere una traduzione per equivalenze. Se ne desume che il codice della presa di note non è un glossario di corrispondenze biunivoche simbolo-parola: i segni che lo compongono sono (proprio come le parole delle lingue naturali) polisemici.

1.2 Allioni: le fasi dell’interpretazione consecutiva

Il secondo contributo che si vuole prendere in considerazione è quello di Sergio Allioni, interprete presso la Commissione Europea a Bruxelles. Nel suo Elementi di grammatica per l’interpretazione consecutiva, Allioni affronta le tematiche legate alla disciplina secondo la linguistica e la psicologia cognitiva, occupandosi dei «problemi connessi alla lingua, alla memoria, al pensiero e alla comunicazione» (Russo 1998: XXXVIII).

Allioni propone «il superamento della fatidica (e mitica) barriera dei “venti simboli” […] e l’adozione di regole combinatorie complesse» (1998: 165). A sostegno di questa tesi, spiega che un interprete, essendo solito lavorare con diverse lingue naturali dal lessico ricco e dalla grammatica complicata, non incontrerà particolari difficoltà nell’apprendimento e nell’utilizzo di un ulteriore linguaggio – linguaggio, peraltro, semplificato rispetto alle lingue naturali (1998: 165). Secondo Allioni le note, descrivendo le lingue, svolgono una funzione metalinguistica (funzione che verrà messa in discussione nel prossimo capitolo): si tratta di un metalinguaggio destinato alla comunicazione dell’interprete con sé stesso (1998: IX). Del resto l’interprete – unico autore e destinatario degli appunti – è, generalmente, il solo al quale tali appunti risultino comprensibili (1998: 30). La selezione e l’organizzazione delle componenti di questo codice ha l’obiettivo di creare un sistema di presa di note che svolga la propria funzione – metalinguistica – in modo adeguato. Il codice deve permettere una scrittura rapida durante l’annotazione e una lettura scorrevole durante la resa: deve cioè essere efficiente ed efficace, in modo da ottimizzare il processo di self-communication (Allioni 1998: IX).

Allioni suddivide il processo dell’interpretazione consecutiva in tre fasi: preparazione, elaborazione e ricostruzione, suddivisione principalmente basata «sulle differenze qualitative fra i processi mentali in gioco» (1998: 3). Nella prima fase, l’interprete riceve e integra le nuove informazioni nel suo sistema di conoscenze. Prima che il discorso dell’oratore abbia inizio, l’interprete richiama alla memoria le informazioni e le conoscenze che gli saranno utili in quel frangente, informazioni inerenti l’oratore, il contesto e il tema centrale del discorso. Questo gli consentirà, inoltre, di elaborare dei simboli e/o delle abbreviazioni ad hoc, relativi a concetti e termini specialistici che si aspetta verranno trattati (Allioni 1998: 3-5). In occasione di un incontro dove è previsto che gli oratori portino esempi di scelte sostenibili per la vita quotidiana, per esempio, l’interprete dovrà assicurarsi che non manchino all’appello simboli per il clima, l’ambiente, l’impatto ambientale, lo spreco, il risparmio, le soluzioni ecosostenibili, le energie rinnovabili e così via.

Nella fase centrale dell’interpretazione consecutiva, caratterizzata da un maggior sovraccarico cognitivo, l’interprete «trasforma il discorso LP in […] una “base” strutturata di concetti e informazioni, di cui si avvarrà per sviluppare il suo discorso LA durante la ricostruzione» (1998: 5). Questa fase si articola in processi di micro- e macroelaborazione. Nella prima, che opera a livello di parole, sintagmi e proposizioni (il microlivello del discorso), Allioni distingue le operazioni di:

  1. ricezione;

  2. analisi;

  3. ristrutturazione;

  4. stoccaggio.

Queste operazioni si susseguono e concatenano, intersecandosi in una sorta di mutua cooperazione. Allioni spiega egregiamente cosa succede durante l’interpretazione:

[…] la corretta interpretazione semantica di una proposizione [operazione di analisi] può ad esempio chiarire il senso di una proposizione immediatamente successiva che sia foneticamente ambigua [operazione di ricezione], e viceversa (1998: 6).

La macroelaborazione, invece, si occupa – e preoccupa! – della coerenza globale nell’interpretazione consecutiva, operando un continuo confronto tra «input attuale e conoscenze già presenti in memoria» (1998: 7). Questo consente di costruire quello che Allioni chiama «schema globale», basato sui contenuti semantici significativi del discorso e sull’intenzione comunicativa dell’oratore (1998: 7). I due processi, micro- e macroelaborazione, si influenzano e si completano vicendevolmente: la microelaborazione fornisce infatti materiale per la costruzione dello schema globale che, a sua volta, si presterà come strumento critico durante la microelaborazione consentendo, per esempio, di colmare lacune dovute a una ricezione imperfetta.

Nella terza fase, la ricostruzione, l’interprete recupera e trasmette le informazioni immagazzinate durante la fase di elaborazione. Questa fase si articola in quattro momenti:

  1. lettura dei dati direttamente accessibili;

  2. ristrutturazione dei dati sotto forma di discorso;

  3. attualizzazione dei dati (insieme di conoscenze necessarie alla loro collocazione nel contesto);

  4. produzione di un discorso in LA, attraverso la traduzione delle informazioni e dei concetti elaborati nelle operazioni precedenti in lingua naturale (1998: 9).

L’autore degli Elementi di grammatica si interroga in merito alla forma di appunti più adeguata: quale forma garantisce al tempo stesso la massima rapidità di annotazione (massima trascrivibilità) e di lettura (massima accessibilità)? Una scelta in termini di lingua di partenza LP o lingua di arrivo LA si ripercuote sull’intero processo dell’interpretazione consecutiva. Annotare nella lingua di arrivo significherebbe infatti alleggerire la fase di ricostruzione, ma appesantire eccessivamente quella di elaborazione, durante la quale l’interprete si troverebbe a compiere una traduzione completa. Al contrario, la scelta della lingua di partenza per la presa di note consentirebbe sì una trascrizione rapida, ma lascerebbe tutta la traduzione a carico della fase di ricostruzione, con «conseguente lentezza nell’elaborazione e incertezze nella resa» (1998: 11).

Allioni rilegge la formula basilare della traduzione (segno LP → senso → segno LA) nell’ottica dell’interpretazione consecutiva e delle sue fasi di «comprensione, ritenzione e riproduzione del senso», approdando alla seguente suddivisione:

  1. segno LP → senso compreso;

  2. senso compreso → [elaborazione] → senso ritenuto;

  3. senso ritenuto → segno LA (1998: 12).

[…] la seconda parte del processo di traduzione in IC [interpretazione consecutiva] può operare fondamentalmente su unità di senso, e quindi indipendentemente dalla forma che queste possono assumere in LP o in LA (Allioni 1998: 12).

Questo significa che l’interprete, nella fase di elaborazione, opera su significati che sono svincolati da qualsiasi forma linguistica (delle lingue naturali di partenza e di arrivo) e si presentano sotto forma di materiale mentale, di interpretanti all’interno di un altro codice: il linguaggio interno. Già con la suddivisione in fasi di Allioni, ci si rende conto infatti della presenza imprescindibile – in tutto il processo traduttivo dell’interpretazione consecutiva – di fasi mentali e di traduzioni tra linguaggi verbali e linguaggio mentale interno (per un approfondimento delle quali si rimanda al quarto e al quinto capitolo).

2

Il linguaggio della presa di note

Allioni definisce il sistema della presa di note un «codice metalinguistico artificiale» (1998: 165). Il testo/appunti è una trascrizione che descrive i linguaggi naturali e, in particolare, la struttura più profonda del discorso dell’oratore – di cui sarebbe dunque una rappresentazione semantica (1998: 29; 31). Si tratta, per Allioni, di una «metalingua» che non è direttamente leggibile come possono esserlo i linguaggi naturali:«il testo/appunti è, in sé, povero di valore linguistico, che gli viene invece attribuito tramite l’interazione con la memoria» (Allioni 29).

Si vuole qui presentare tutt’altra ipotesi: che i segni usati dall’interprete nel suo testo/appunti e il relativo sistema rappresentino un vero e proprio linguaggio, linguaggio che condivide pochissimo con i linguaggi artificiali e che sembra invece condividere molto con i linguaggi naturali.

2.1 Metalinguaggio o linguaggio

Il codice della presa di note, con i suoi simboli, le sue abbreviazioni e le sue regole, non si può considerare, qui, un metalinguaggio. Un metalinguaggio descrive il linguaggio stesso: la funzione metalinguistica del discorso si verifica quando «il discorso è centrato sul c o d i c e» (Jakobson 2002b: 189). La lingua che si analizza e si descrive, che si spiega, diventa metalinguaggio (nonché linguaggio-oggetto analizzato, descritto e spiegato) e «[l]’interpretazione di un segno linguistico per mezzo di altri segni della stessa lingua […] è un’operazione metalinguistica» (Jakobson 2002a: 32). Quindi: un metalinguaggio è un linguaggio che parla di sé stesso con i suoi stessi segni. Questo significa che, per farsi metalinguaggio, un codice deve essere un linguaggio.

Il metalinguaggio può descrivere, analizzare e commentare anche altri linguaggi, non solo sé stesso. Il linguaggio verbale effettivamente è:

[…] il mezzo principale per tradurre la pittura, la musica, il balletto, il cinema e le altre espressioni della cultura nella memoria culturale. In questo senso, tradurre significa creare il linguaggio della comprensione e della descrizione, il metalinguaggio (Torop 2010: 2).

Esistono, secondo Louis Trolle Hjelmslev, linguaggi limitati e linguaggi illimitati. Un esempio di linguaggio limitato è quello matematico, mentre linguaggi illimitati sono i linguaggi naturali (Torop 2010: 58). È possibile effettuare una traduzione da un linguaggio illimitato a un altro linguaggio illimitato e da un linguaggio limitato a un linguaggio illimitato, ma l’operazione inversa (traduzione da linguaggio illimitato a linguaggio limitato) non è sempre possibile: «[i]l linguaggio naturale è di conseguenza l’unico sistema di segni in cui possono essere tradotti tutti gli altri sistemi di segni» (Torop 2010: 58).

Se è vero che nell’interpretazione consecutiva l’interprete utilizza il repertorio di simboli, abbreviazioni e regole che ha elaborato in un suo linguaggio, non è altrettanto vero che tale repertorio si auto-descriva svolgendo una funzione metalinguistica. Se, in ogni circostanza, gli appunti trattassero dell’interpretazione consecutiva, della creazione di un proprio modello di note e delle regole di tale modello, o se descrivessero altri linguaggi e le loro regole, ci si troverebbe senza dubbio di fronte a un metalinguaggio. Tuttavia, nel blocco di appunti di un interprete è raro (anche se non del tutto escludibile) che si possano trovare temi simili. Recentemente, il fotografo Michel Comte ha tenuto una lectio magistralis presso La Triennale di Milano, organizzata dall’Associazione Fotografi Italiani Professionisti – AFIP International. Sul palco, Compte e un’interprete con il suo blocco per gli appunti e la sua penna. Blocco che l’interprete ha usato per annotare le esperienze dell’oratore, aneddoti sulle sue fotografie e sui suoi incontri e, infine, la scelta di dedicare delle opere al tema ambientale. Nulla di tutto ciò era metalinguistico, dal punto di vista della presa di note. L’interprete ha usato gli appunti per fissare informazioni, quelle stesse informazioni che Comte esprimeva in inglese e che lei avrebbe dovuto restituire al pubblico in italiano.

Il codice della presa di note non descrive le lingue, né la lingua di partenza né la lingua di arrivo, né tanto meno descrive sé stesso: riporta invece i contenuti di un discorso – espresso in un linguaggio naturale – in un codice altro. Questo codice, talvolta, prende in prestito parole dalle lingue naturali note e condivise, per via della loro brevità (e quindi rapidità di annotazione) e per la loro capacità evocativa – l’efficienza e l’efficacia richieste al sistema cui fa riferimento Allioni. Questi prestiti però, una volta inseriti nel codice, svolgeranno una funzione simile a quella degli altri simboli ed elementi che lo compongono: non significheranno più quella sola parola ma si faranno portatori di più significati, attivati via via dal contesto specifico. Per esempio, prima del suo discorso vero e proprio, l’oratore potrebbe iniziare un incontro salutando i presenti, esprimendo la propria contentezza per l’invito e ringraziando gli organizzatori e sponsor dell’incontro: tutto questo potrebbe essere racchiuso, sul foglio dell’interprete, in un ( HI ) seguito da una rappresentazione stilizzata di un volto sorridente ( ) (ed eventualmente dai nomi degli organizzatori dell’evento o delle persone ringraziate).

Se il codice della presa di note non è un metalinguaggio, è un linguaggio? Da un punto di vista semiotico, linguaggio è ogni tipo di codice verbale e non verbale. In altre parole, linguaggi sono non solo i linguaggi naturali (le lingue), ma anche quelli «non verbali, come la musica, le arti figurative, il cinema, […] la moda, l’ambiente naturale, i segnali stradali» (Osimo 2010a: 10). E, sempre semioticamente parlando, un testo è «qualsiasi cosa venga “letta” come insieme coerente, verbale o non» (Osimo 2011: 46). Non a caso, tra i principi che il testo/appunti dell’interprete deve rispettare, nel modello di Allioni, ci sono proprio coesione (continuità delle occorrenze nel livello superficiale) e coerenza (continuità del senso nel livello profondo) (1998: 38; 64-65). Allora, se il linguaggio non è solo quello verbale ma qualsiasi codice portatore di un significato in un processo comunicativo, e il testo è un insieme coeso e coerente di significati, una traduzione è ogni processo che esprima lo stesso contenuto di un prototesto in un metatesto (Osimo 2010a: 10). Esistono diversi tipi di traduzione e tutti si articolano in diversi passaggi traduttivi che sono riconducibili a un unico tipo di traduzione, quella che Jakobson definisce «traduzione intersemiotica» (di cui si parlerà più approfonditamente nell’ultimo capitolo).

A questo punto sembra opportuno procedere a un’analisi delle peculiarità dei linguaggi naturali e artificiali, in modo da trovare il posto della presa di note in questa suddivisione – ammesso che ciò sia possibile.

2.2 Linguaggi naturali e linguaggi artificiali

Allioni spiega che, se i linguaggi naturali sono condivisi con una comunità (e servono proprio per la comunicazione all’interno di essa), il codice della presa di note è utilizzato da una sola persona: l’interprete (1998: IX). Questo linguaggio si caratterizza in quanto linguaggio muto: si manifesta ed esprime contenuti sulla carta, contenuti che, come vedremo, l’interprete legge mentalmente, decodifica e ricodifica verbalmente nella lingua in cui deve restituire il discorso dell’oratore. Ma sono, queste, ragioni sufficienti per escludere il codice della presa di note dai linguaggi naturali e annoverarlo fra quelli artificiali? Anche i linguaggi artificiali possono essere utilizzati per la comunicazione all’interno di comunità (l’esperanto ne è un esempio) e, delle lingue naturali, la lingua dei segni è un linguaggio muto che si esprime tramite gesti e si percepisce (legge) tramite il canale visivo.

I linguaggi artificiali sono linguaggi regolati dalla convenzione e il significato dei segni di cui sono composti è predeterminato:

I linguaggi artificiali si fondano sul principio della corrispondenza biunivoca: ogni senso è riconducibile a uno e un solo mezzo linguistico e viceversa; ne consegue che i loro elementi (che non hanno mai valore connotativo) non possono essere polisemici […] (Lûdskanov 2008: 49).

I linguaggi artificiali sono isomorfi (Osimo 2010a: 13). In questo tipo di codici, basati su precise relazioni biunivoche che non dipendono dal contesto, non esiste omonimia né sinonimia: ciò rende la decodifica di testi e messaggi codificati in linguaggi artificiali molto più semplice rispetto alla decodifica di testi e messaggi codificati in linguaggi naturali (Lûdskanov 2008: 49-50). Lûdskanov definisce la decodifica degli elementi dei linguaggi artificiali «meccanica»: le associazioni sono predeterminate dal codice e dalle sue regole e questo consente la massima invarianza (concetto che si approfondirà nel quinto capitolo) nella traduzione (2008: 50). In altre parole, l’informazione contenuta nel prototesto e nel metatesto è la medesima e il residuo comunicativo è pari a zero.

Anche nei linguaggi naturali può verificarsi una situazione simile, ma solo con i «termini», quella categoria di segni linguistici che, in un contesto specialistico, hanno un significato preciso:

La terminologia diventa quindi un codice artificiale all’interno di un codice naturale, e al suo interno vige la monosemia al posto della polisemia del discorso informale; grazie alla monosemia che caratterizza questo tipo di linguaggio, nella traduzione interlinguistica si può parlare appropriatamente di «equivalenza» lessicale (Osimo 2011: 132).

Come nei linguaggi artificiali, nella terminologia non ci sono sinonimi, i termini prevedono una sola interpretazione possibile e i significati hanno valore denotativo e non connotativo (Osimo 2011: 184). Questo implica che, nella traduzione di termini, sarà possibile un alto grado di invarianza e il residuo sarà minimo se non nullo.

I linguaggi naturali non sono però composti solo da «termini», ma anche e soprattutto da «parole»: queste sono caratterizzate dalla polisemia, hanno cioè più sensi e interpretazioni possibili. Nella traduzione interlinguistica, perciò, non esiste l’equivalenza e i segni linguistici verbali non presentano corrispondenze biunivoche tra di essi: questo rende i linguaggi naturali dei linguaggi anisomorfi che, a differenza dei linguaggi artificiali, prevedono l’omonimia, la sinonimia, nonché una «diversa segmentazione della realtà» (Lûdskanov 2008: 51). Non solo: la traduzione interlinguistica esclude la possibilità di un’equivalenza segno-segno perché prevede, come si vedrà nel quinto capitolo, passaggi tra diversi tipi di codici, verbale e mentale, discreto e continuo (Osimo 2011: 63). E questi passaggi (intersemiotici) comportano inevitabilmente un residuo comunicativo. L’interpretazione degli elementi dei linguaggi naturali è di conseguenza strettamente legata al contesto:

[…] il significato di una parola o di un enunciato, che fa parte di un messaggio (testo), non è lo stesso di quello che quella parola o quell’enunciato possiede nel vocabolario, ma solo una sua parte attualizzata, specifica per un determinato contesto o per una serie ben delimitata di contesti (Straniero Sergio: 106).

La polisemia intrinseca ai linguaggi naturali mette l’interprete nella condizione di dover effettuare delle scelte. In funzione delle sue scelte, l’interprete attualizzerà un significato e non un altro, una sfumatura e non un’altra: si configura così un processo traduttivo «creativo» che è ben diverso dalla sostituzione meccanica che consentono – e a cui incatenano – i linguaggi artificiali:

[…] la traduzione verbale interlinguistica è un insieme di trasformazioni creative che un traduttore effettua dai segni del prototesto a quelli di un altro linguaggio naturale, conservando un’informazione invariante rispetto a un certo sistema di riferimento (Lûdskanov 2008: 51).

Così, le scelte di senso non sono predeterminate come nel caso dei linguaggi artificiali, ma vengono effettuate dall’interprete sulla base del contesto (Lûdskanov 2008: 51). Contesto che non è solamente quello esterno e oggettivo, ma anche quello interno al traduttore – e quindi soggettivo (Osimo 2017: 89).

2.3 Il sistema della presa di note: un linguaggio naturale?

In questa classificazione bipolare, dove si colloca il linguaggio usato nel testo/appunti dell’interprete di consecutiva? Come nei linguaggi artificiali, nel codice della presa di note i sinonimi (e gli omonimi) sono – quasi – del tutto assenti. Sarebbe controproducente pensare e utilizzare un sistema dotato di segni diversi per «Nazione», «Stato», «Paese», «State», «Country», «Nation», «Pays», «Patrie», «État», «Staat», ecc. Come esposto dal primo principio di Rozan (annotare i concetti e non le parole), sarà molto più efficiente ed efficace prevedere un solo segno per i concetti assimilabili che racchiuda tutto il campo semantico in un semplice ed evocativo ( ). O ancora, la presa di note sarà facilitata se l’interprete avrà a disposizione un segno unico ( : ) che esprima «dire», «affermare», «dichiarare», «sostenere», «precisare», «to say», «to state», «to declare», «affirmer», «déclarer», «sagen», «besagen», ecc. Un sistema efficiente ed efficace rispetterà così il principio di economia linguistica, cosa che non si potrebbe dire di un sistema di corrispondenze biunivoche segno-parola. Il codice della presa di note può essere (ed è auspicabile che sia) economico nel tempo impiegato per la scrittura, nel numero di tratti che deve compiere la mano e nello sforzo mentale richiesto per la produzione dei segni (Alexieva 1994: 203-204). Inoltre, maggiore sarà il carico informativo (semantico) dei segni, maggiore sarà il loro potere di attivazione (Alexieva 1994: 204). Per quanto riguarda l’omonimia, difficilmente l’interprete avrà un simbolo per «radio» associato sia all’osso dell’avambraccio sia all’apparecchio elettronico. Ancora più difficile è che il simbolo scelto per «vita», «esistenza», «vite», «life», «vie», «Leben» possa prestarsi a significare anche la pianta della «vite».

L’assenza (in linea di massima) di sinonimi e omonimi è forse l’unica delle caratteristiche analizzate in precedenza che si riscontra sia nei linguaggi artificiali sia nel linguaggio della presa di note. Contrariamente a quanto si sarebbe detto sulla base della definizione iniziale di Allioni, infatti, linguaggi naturali e linguaggio della presa di note hanno molto in comune.

I segni linguistici della presa di note sono polivalenti: sono associati non a singoli vocaboli ma a insiemi di significati, a campi semantici più o meno vasti. Questo vuol dire che «ogni segno potrà veicolare un contenuto estremamente ampio e differenziato» (Allioni 1998: 91). Le associazioni segno-significato possono inoltre avere sia valore denotativo che valore connotativo: quando un simbolo viene scelto provvisoriamente come portatore di un certo significato in una singola interpretazione per poi scomparire, ha carattere connotativo. Quando invece l’uso di un simbolo e della sua associazione a un dato significato viene mantenuto e consolidato, tale simbolo acquista carattere denotativo (si parlerà ancora del carattere denotativo/connotativo nel quarto capitolo). Si tratta, come per i linguaggi naturali, di un linguaggio caratterizzato dalla polisemia e, quindi, dall’impossibilità di un’equivalenza assoluta. Questo costituisce un vantaggio per l’interprete, che può disancorarsi dal singolo vocabolo, sfuggendo così al rischio di perdere il filo del discorso qualora non ricordi l’esatta e univoca traduzione di un simbolo. Un esempio di polisemia nel linguaggio della presa di note può essere il seguente: dopo aver scelto un simbolo per «concorrenza» ( ) e aver preso in prestito da un’insegnante il simbolo per «guerra» ( ), si è notato che il secondo era sì evocativo (e quindi efficace) ma non di rapida scrittura (e quindi inefficiente). Si è allora pensato di racchiudere i campi semantici dei due simboli in uno solo, o meglio, di estendere il campo semantico del primo simbolo ( ), che ora include i significati di «battaglia», «lotta», «guerra», «competizione», «concorrenza» e così via – tra cui si dovrà via via scegliere in base al contesto specifico.

2.4 Interpretazione consecutiva e creatività

Torop definisce la traduzione un processo nel quale gli elementi testuali, a seconda della loro importanza e della loro traducibilità, vengono conservati (tradotti), omessi, modificati e aggiunti:

[…] in qualsiasi processo traduttivo vi è interrelazione di elementi tradotti, omessi, modificati e aggiunti. Questa interrelazione riflette, da una parte, differenze culturali-linguistiche tra i testi, dall’altra le peculiarità del lavoro del traduttore e le funzioni della traduzione (Torop 2010: 78).

Lavoro del traduttore che – nella traduzione interlinguistica – si distingue per il suo carattere creativo. Questo deriva dal fatto che i linguaggi naturali sono anisomorfi (sono costituiti cioè da elementi polisemici) e rendono una traduzione interlinguistica molto diversa da una semplice sostituzione di equivalenti (Torop 2010: 8). Mentre i linguaggi artificiali (e la terminologia settoriale) si basano sulla convenzione e la loro traduzione è determinata da scelte predeterminate e sostituzioni meccaniche, tra i linguaggi naturali non ci sono corrispondenze biunivoche e non esiste «una traduzione assoluta o ideale» (Torop 2010: 79). Anzi, la traduzione interlinguistica tra linguaggi naturali si realizza attraverso una serie di scelte creative:

[…] il meccanismo del processo traduttivo verbale interlinguistico ha sempre, indipendentemente dal genere testuale che si traduce, un carattere creativo condizionato dalla natura linguistica di questa operazione e dallo specifico dei linguaggi naturali che presuppone scelte non predeterminate riguardo ai mezzi linguistici dovute a tutte le differenze strutturali dei linguaggi naturali (Lûdskanov 2008: 61).

Contrariamente a quanto avviene nei linguaggi artificiali, i significati del linguaggio della presa di note non sono univocamente predeterminati, ma sono di volta in volta inferiti in base al contesto (e al cotesto). Dato che i segni delle lingue naturali sono polisemici, ma lo sono anche i segni del linguaggio della presa di note, ogni passaggio traduttivo dell’interpretazione consecutiva comporta un certo grado di creatività. La decodifica del testo/appunti e la sua ricodifica nella lingua di arrivo avviene tramite una serie di scelte soggettive in base alle quali l’interprete, a seconda dei casi, attualizza uno o un altro significato. E, proprio per via della creatività insita nel processo traduttivo, non esiste una sola traduzione possibile ma «sulla base di un unico prototesto si può creare una serie di metatesti diversi potenzialmente di pari valore» (Torop 2010: 79).

L’ultima barriera che rimane a separare il linguaggio della presa di note dai linguaggi naturali è il suo utilizzo strettamente personale: se infatti le lingue si sono sviluppate spontaneamente per favorire la comunicazione interpersonale, quello della presa di note resta un linguaggio (un sistema) elaborato intenzionalmente dall’interprete per comunicare con sé stesso ai fini dell’interpretazione consecutiva.

3

La comunicazione nell’interpretazione consecutiva

Il codice e il testo della presa di note sono finalizzati esclusivamente alla comunicazione dell’interprete con sé stesso in quello che Allioni definisce «autoconsumo linguistico» (1998: 30). Nessuno oltre all’interprete legge il testo/appunti che, essendo scritto in un codice estremamente personale, risulta decifrabile a lui e lui solo.

Nell’interpretazione consecutiva coesistono due situazioni comunicative che Allioni distingue in:

    1. situazione globale o macrocontesto, che si riferisce ai passaggi della comunicazione tra oratore e interprete, e successivamente tra interprete e ricettore, e

    2. un secondo tipo di situazione comunicativa più ristretta, il microcontesto, che interessa il «processo di comunicazione con sé stesso dell’interprete» (1998: 70).

Il fine dell’interpretazione consecutiva intesa come macrocontesto è quello di favorire l’interazione comunicativa tra mittente e ricevente (oratore e suo interlocutore o pubblico), interazione dove l’interprete fa da tramite. Nel microcontesto, invece, l’interprete si rivolge a sé stesso: «emittente e ricettore coincidono nella figura dell’interprete, che scrive il testo a proprio esclusivo uso e consumo» (Allioni 1998: 30).

Come ogni evento comunicativo, anche l’interpretazione consecutiva, il macrocontesto e il microcontesto si possono analizzare dal punto di vista dei modelli che descrivono la comunicazione. In particolare, si sceglie qui di fare un confronto iniziale tra l’interpretazione consecutiva e il modello della comunicazione di Jakobson, mettendo in evidenza le diverse sfaccettature che caratterizzano il ruolo dell’interprete a seconda che si consideri il macrocontesto o il microcontesto. Seguirà un confronto con il modello di Shannon e Weaver, che permette di introdurre un elemento assente in quello jakobsoniano, ma presente nell’interpretazione consecutiva: il rumore semiotico.

3.1 Il modello della comunicazione di Jakobson

Nel saggio Linguistica e poetica, Roman Jakobson definisce i sei elementi che costituiscono la comunicazione verbale:

Il m i t t e n t e invia un m e s s a g g i o al d e s t i n a t a r i o. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un c o n t e s t o […], contesto che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un c o d i c e interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario (o, in altri termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine un c o n t a t t o, un canale fisico e una connessione psicologia fra il mittente e il destinatario, che consenta loro di stabilire e di mantenere la comunicazione (2002b: 185).

 

CONTESTO

MITTENTE MESSAGGIO DESTINATARIO

CONTATTO

CODICE

Figura 3.1 Lo schema della comunicazione di Jakobson.

Applicando il modello comunicativo di Jakobson all’interpretazione consecutiva intesa come macrocontesto, si può individuare un mittente-oratore che produce un messaggio rivolgendosi a un destinatario-interlocutore (o pubblico). Il codice in cui il messaggio è formulato non è però condiviso da mittente e destinatario ed è proprio per questo motivo che si rende necessaria la figura dell’interprete: questi si fa carico di decodificare il messaggio del mittente (formulato in LP) e di ricodificarlo in modo che sia comprensibile al destinatario (riformulandolo in LA). L’interprete permette quindi di stabilire e mantenere la comunicazione tra mittente-oratore e destinatario-interlocutore – comunicazione altrimenti impossibile – svolgendo così la funzione di canale comunicativo. Non solo: l’interprete è anche il primo ricevente del messaggio dell’oratore e, nel riportare tale messaggio al destinatario a seguito di una decodifica e di una ricodifica, diventa mittente a sua volta. La presenza di codifica e decodifica in tutti questi e nei passaggi del microcontesto indica, ancora una volta, che si tratta di processi caratterizzati da un certo residuo dovuto ai diversi cambi di codice (oggetto dell’ultimo capitolo).

Figura 3.2 Macrocontesto e microcontesto nell’interpretazione consecutiva.

Se si considera il livello del microcontesto, ai passaggi e ai ruoli considerati finora se ne aggiungono altri. All’interno della comunicazione superiore mittente-destinatario, dove l’interprete fa da tramite tra oratore e interlocutore, si configura infatti un ulteriore processo comunicativo: la presa di note, dove l’interprete usa il testo/appunti per comunicare con sé stesso. In questo processo l’interprete è mittente e destinatario al tempo stesso, e usa un linguaggio che lui solo conosce per produrre un messaggio (testo/appunti) cui lui solo avrà accesso, in una comunicazione dove il canale è rappresentato dalla penna e dal blocco per gli appunti di cui l’interprete si serve per annotare i contenuti del discorso dell’oratore e impostare la traduzione consecutiva. E, poiché «ogni comportamento verbale è orientato verso uno scopo» (Jakobson 2002b: 183), si considera la comunicazione tra oratore e interlocutore lo scopo nel macrocontesto, mentre lo scopo nel microcontesto è la comunicazione dell’interprete con sé stesso affinché possa adeguatamente svolgere il ruolo di canale comunicativo nel macrocontesto.

Nel microcontesto, l’interprete è non solo autore, ma anche lettore modello e lettore empirico del testo/appunti. In quanto autore, l’interprete opera delle scelte (creative) in funzione del suo lettore modello (ovvero lui stesso) che leggerà le note in un momento successivo per tradurle in un messaggio nella lingua dell’interlocutore (LA). Dall’interprete-lettore modello, l’interprete-autore si aspetta che abbia ben memorizzato il discorso dell’oratore e che sappia interpretare e fare buon uso del testo/appunti come supporto alla memoria, risolvendo anche eventuali parti di testo lasciate incerte in fase di annotazione a causa della fretta. Il lettore empirico (che è l’interprete-lettore reale, con le sue lacune e i suoi lapsus) condivide, in linea di massima, il codice dell’autore, ma potrà essere agitato e leggere un passaggio in maniera inaccurata, potrà non ricordare con esattezza un passaggio che non è stato ben annotato e quindi non corrispondere all’immagine ideale di lettore per cui l’interprete-autore ha scritto il testo/appunti. L‘interprete-autore deve perciò scrivere il suo testo/appunti in modo che sia quanto più comprensibile e utile al suo lettore, ricordando che il residuo comunicativo è dato anche «dall’errore di calcolo nell’elaborazione del lettore modello» (Osimo 2010a: 41). In questo senso, si sconsiglia (il più delle volte) di improvvisare, in fase di annotazione, un simbolo che poi, in fase di lettura, l’interprete-lettore empirico potrebbe non riuscire a decodificare.

Da una simile analisi risulta quindi che, nel processo comunicativo dell’interpretazione consecutiva, l’interprete ricopre il ruolo di ricevente → mittente → destinatario → mittente, in una continua mediazione tra macro- e microcontesto.

3.2 Il modello della comunicazione di Shannon e Weaver

Jakobson deriva il suo modello dal modello matematico della comunicazione di Shannon e Weaver (Osimo 2011: 24). Secondo il modello di Shannon e Weaver (1949), nella comunicazione (telefonica) sono coinvolte due figure: emittente e ricevente. La mente dell’emittente è la fonte del messaggio, che viene elaborato, codificato e trasmesso tramite un canale (il telefono). Il messaggio viene recepito dal ricevente e arriva alla sua destinazione, la mente del ricevente, dopo una sua decodifica.

Figura 3.3 Lo schema della comunicazione di Shannon e Weaver.

L’elemento importante che manca nel modello di Jakobson è il rumore semiotico, che può interferire con la trasmissione del messaggio. Il rumore semiotico è costituito da tutti quegli elementi che vanno a ostacolare la comunicazione: dalle interferenze o malfunzionamenti della linea telefonica ai rumori esterni che coprono la voce del parlante, fino alla mancata condivisione (da parte di emittente e ricevente) del bagaglio linguistico e culturale necessario per la comprensione del messaggio – quello che Lûdskanov definisce «un sistema di riferimento comune» che rispecchia un’esperienza condivisa della realtà (2008: 28).

Nell’interpretazione consecutiva, il rumore semiotico può essere dato dai rumori vari che non permettono all’interprete di cogliere tutte le parole del discorso (colpi di tosse dei presenti, una sedia che viene spostata) oppure dalla fine dell’inchiostro della penna con cui l’interprete sta prendendo appunti. O ancora, da interferenze di altro tipo come: incompetenza linguistica dell’interprete, culture diverse, interpretazioni diverse, diversi passaggi di codifica e decodifica… Ora, se il rumore semiotico è costituito da quei disturbi che alterano o possono alterare il segnale «eliminandolo, [o] rendendone difficile la captazione» (Eco 2016: 65), sicuramente interessa anche il caso in cui l’interprete (a causa di “buchi” nel testo/appunti che fatica a integrare con la memoria) non riesce a ricostruire un passaggio del discorso. Oppure il caso in cui simboli particolarmente polisemici rallentano l’interprete nella (de)codifica del significato più consono. O ancora, il caso in cui simboli tra loro simili, annotati frettolosamente, si prestano a essere confusi e interscambiati, diventando così fonte di rumore semiotico e, quindi, di un potenziale residuo. Tuttavia, è bene ricordare che l’interprete non si affida esclusivamente al supporto cartaceo, bensì a un’interazione e integrazione costanti tra appunti e memoria: questo – e la logica che mai lo deve abbandonare – gli consente di interpretare nel modo corretto gli appunti. Durante la lettura, inoltre, la mente attinge al suo repertorio di grafemi e trascura in modo automatico errori e imperfezioni presenti nel testo «a vantaggio della possibilità sensata più prossima» (Osimo 2011: 91). Nella proposizione «il cane rincore l gtto», si riconosce immediatamente che il cane rincorre il gatto. Si tratta di un esempio decisamente banale, ben lontano dai disorsi on cui si tova a che fre un itrprete. Ma di fronte ad annotazioni errate o ambigue, la mente dell’interprete attua inferenze, correzioni e scelte, aiutata dalla memoria, dalle conoscenze e dalla logica. Se nel testo/appunti l’interprete ha annotato in maniera ambigua un simbolo che potrebbe essere «Paese» ( ) o «prodotto» ( ), nella sua mente userà contesto, cotesto e corrispondenze logiche possibili (oltre alla memoria, naturalmente) per desumere l’interpretazione corretta.

4

I segni e la semiosi

Dopo aver analizzato l’interpretazione consecutiva dal punto di vista comunicativo, sembra ora opportuno entrare nello specifico della produzione dei segni che ne compongono il linguaggio (o meglio, il linguaggio personale che l’interprete elabora per l’autocomunicazione) e di come tali segni abbiano e/o acquistino significato.

4.1 Una grammatica per l’interpretazione consecutiva

La proposta procedurale di Allioni vuole essere una grammatica per l’interpretazione consecutiva, un sistema di regole per la produzione di segni e «per la loro organizzazione in sintagmi, proposizioni e frasi nell’ambito del testo/appunti» (1998: 81). I simboli e le abbreviazioni della presa di note costituiscono un linguaggio proprio perché regolati da convenzioni grammaticali e sintattiche, che ne garantiscono l’efficienza comunicativa (Russo 1998: XLII). Lo sviluppo di un linguaggio organizzato e stabile per l’interpretazione consecutiva (come organizzati e stabili sono i linguaggi naturali) non è il fine ultimo dell’interprete (Russo 1998: XLIII). Lo sforzo che la produzione e l’apprendimento del linguaggio richiede (come del resto richiede l’apprendimento di ogni nuova lingua) viene ampiamente «[ri]compensato dalla padronanza dell’interprete, in sede ufficiale di lavoro, derivante dall’affidabilità e solidità della tecnica sviluppata» (Russo 1998: XLIII).

Allioni, come Rozan, non dimentica di sottolineare che la sua proposta fornisce una serie di regole e procedure affinché l’interprete possa sviluppare il «proprio personale repertorio di segni» che, organizzati, andranno a costituire il codice (1998: 85). Queste regole non interessano soltanto l’elaborazione di un personale sistema di presa di note con le sue associazioni tra forma e contenuto dei segni, ma anche la continua verifica alla quale tale sistema deve essere sottoposto. Allioni distingue tra sistema virtuale (repertorio di segni e regole) e sistema attuale (il testo/appunti): l’interprete osserva l’uso effettivo nel testo/appunti (attualizzazione del linguaggio) dei segni scelti (sistema virtuale) e verifica l’efficacia e l’efficienza del linguaggio da lui elaborato. Efficacia ed efficienza sono i parametri necessari perché i segni soddisfino il principio di adeguatezza: i segni dovranno quindi essere quanto più prontamente «accessibil[i] in memoria, rapidamente trascrivibil[i], e direttamente riconoscibil[i] durante la rilettura» (Allioni 1998: 86). Il processo di verifica permette all’interprete di effettuare una selezione a posteriori dei segni adeguati, selezione che avviene in funzione dell’uso riscontrato nel sistema attuale (il testo/appunti) (Allioni 1998: 103).

Si può dire allora che i segni sono soggetti al «ciclo della connotazione» (Osimo 2010b: 76). Quando viene introdotto un nuovo simbolo o quando si aggiunge un significato a un simbolo già presente nel proprio repertorio, l’associazione tra il simbolo e il concetto ha carattere connotativo, ovvero non è ancora consolidata. Non tutti i significati connotativi hanno lunga vita: «alcuni hanno fortuna e si diffondono, mentre altri si spengono» (Osimo 2010b: 75). La nuova associazione attraversa una fase di verifica di adeguatezza, fase durante la quale il simbolo o la associazione hanno fortuna o sfortuna. Nel primo caso, vengono mantenuti, acquistando carattere denotativo: si perpetua così una relazione costante tra segno e contenuto che stabilisce quella che Eco chiama «convenzione semiotica» (2016: 41). Nel secondo caso l’uso di quel simbolo o di quella associazione decade, a favore di altri tipi di scelte. È comunque bene ricordare che, trattandosi di segni polisemici, gli elementi del linguaggio della presa di note rimangono caratterizzati da un certo valore connotativo.

L’interprete può ricavare segni per il suo sistema sia dai linguaggi naturali sia dai codici artificiali. Fonti utili sono il cirillico, i sinogrammi (caratteri cinesi), la punteggiatura, i segnali stradali, le emoticon e le icone delle applicazioni dei telefoni cellulari, i loghi commerciali, i simboli matematici. L’interprete metterà in atto una «parziale risemantizzazione» (Allioni 1998: 87). I segni scelti andranno infatti a costituire elementi del codice personalissimo dell’interprete e, in quanto tali, non denoteranno più ciò che denotano nel codice da cui vengono presi in prestito, ma acquisiranno nuovi significati, quelli che l’interprete – istintivamente o arbitrariamente – avrà attribuito loro. Spesso infatti la forma dei simboli è:

[…] totalmente arbitraria (ovvero culturale, legata a preferenze individuali), anche se spesso tali scelte vengono giustificate sulla base dell’iconismo: la pretesa “affinità” tra forma del segno e ciò che il segno designa, o il suo contenuto (Allioni 1998: 88).

Le associazioni tra forma e contenuto sono quindi arbitrarie e soggettive (nonché creative). Ma come avvengono queste associazioni?

4.2 Peirce: la semiosi

Quello che in semiotica viene chiamato «segno» deriva dall’interazione di un soggetto con il mondo esterno: un oggetto determina un segno che a sua volta determina un’idea nella mente di un soggetto, idea che vuole rappresentare quello stesso oggetto che ha determinato il segno. È la triade della significazione di Charles Sanders Peirce, dove l’idea nella mente del soggetto determinata dal segno (o dall’oggetto) viene chiamata «interpretante».

Figura 4.1 La triade della significazione di Peirce.

I passaggi fra i tre poli della triade di Peirce, oggetto-segno-interpretante, si realizzano tramite una mediazione creativa: «il significato non è dunque passivamente causato dall’oggetto» (Bonfantini 1980: XXXI), così come il segno non è intrinsecamente correlato all’oggetto – che esiste indipendentemente da esso – ma rappresenta una convenzione per indicarlo. Dunque il segno, che ha funzione informativa e carattere convenzionale, sta per un oggetto e «questa relazione (stare-per) è mediata da un interpretante» (Eco 2016: 38; Lûdskanov 2008: 26). Significato è quindi il contenuto, il senso di un segno, mentre il segno è il mezzo linguistico codificato per esprimere tale contenuto: entrambi – significato e segno – sono rappresentazioni (traduzioni) di un oggetto del mondo esterno (Lûdskanov 2008: 27). E, se si considera il significato (l’interpretante) alla stregua di una traduzione, il segno diventa prototesto e l’oggetto metatesto – o viceversa l’oggetto prototesto e il segno metatesto (Osimo 2011: 211).

Secondo Peirce, l’interpretante (il significato del segno) non è altro che l’«effetto» che quel segno veicola. In altre parole, è la rappresentazione emotiva, soggettiva che «stabilisce e riconosce la relazione» tra segno e oggetto nel processo semiotico (Osimo 2010a: 58). Questo significa che il soggetto è entrato in relazione con quel segno e quell’oggetto e ne ha prodotto una rappresentazione mentale. Questa rappresentazione mentale è tutt’altro che un’entità fissa e invariabile: è provvisoria e locale (Osimo 2010a: 83). Costituisce cioè una rappresentazione temporanea frutto degli affetti e delle esperienze del soggetto, rappresentazione che si evolve via via che l’individuo matura nuove esperienze, visioni ed emozioni in relazione a quel segno e a quell’oggetto, rendendo l’intero processo della significazione un processo soggettivo e in continua evoluzione:

Secondo Peirce, il segno sta per un oggetto secondo un certo punto di vista soggettivo, e in una determinata circostanza, con la mediazione di un segno mentale, l’interpretante. L’interpretante è soggettivo ed evolutivo, e quindi anche la semiosi è un processo variabile nello spazio, nel tempo, e nelle diverse culture (Osimo 2010a: 159-160).

Lo stesso segno produce quindi interpretanti diversi (soggettivi) in ogni persona: l’interpretante che media tra un oggetto e un segno in un soggetto sarà solo parzialmente assimilabile all’interpretante che media tra lo stesso oggetto e lo stesso segno in un altro soggetto (Osimo 2011: 27).

Ora, si è più volte sottolineato che il linguaggio della presa di note è particolarmente personale. E proprio nel personale meccanismo della significazione e nei personali interpretanti va ricercata la causa: ciò a cui istintivamente un segno rimanda nella mente di un interprete non è ciò a cui lo stesso segno rimanda nella mente di altri soggetti e interpreti. I segni della presa di note – ma ancor più i loro significati – derivano dalle personali esperienze dell’interprete, dagli stimoli a cui è soggetto, dagli input che accoglie (si tenga presente che si può prendere spunto da qualsiasi cosa). Derivano anche, banalmente, dalle sue conoscenze linguistiche. Ecco un esempio: nell’elenco di segni compilato per la presa di note, si è scelto di indicare «luogo», «territorio» con il simbolo di Google Maps che rappresenta la destinazione: (). Un interprete che ha tra le sue lingue attive (o passive) il tedesco potrebbe aver invece optato per la parola tedesca «Ort», che sicuramente offre altrettanta efficienza (rapidità di annotazione), ma talvolta non sufficiente efficacia (immediata significazione). O ancora: il segno che in musica rappresenta una pausa di un ottavo () può essere associato (per la somiglianza con le prime due lettere di «opportunità», «opportunity», «opportunité») a «opportunità», «possibilità», «chance», «occasion», mentre per un altro interprete potrà significare «pausa», «stallo», o qualcos’altro ancora, o nulla. O ancora: è dal logo della casa produttrice di ventilatori e climatizzatori Vortice che si è ottenuto il simbolo per «colpire», «ripercuotersi», «affecter»: ( ).

Dato che il processo di significazione tutto (ogni interpretazione di un segno in un interpretante, di un interpretante in un oggetto, di un oggetto in un interpretante e di un interpretante in un segno) è una traduzione, non potrà sfuggire a «una parziale perdita (residuo traduttivo) e [a] un’invarianza (coincidenza di senso) solo parziale» (Osimo 2017: 53). Questi passaggi semiotici e le relative perdite sono l’oggetto del prossimo e ultimo capitolo.

5

La traduzione intersemiotica nell’interpretazione consecutiva

In questo ultimo capitolo verranno introdotti il linguaggio interno di Lotman, il concetto di informazione invariante di Lûdskanov e la traduzione totale di Torop, per arrivare, infine, a una proposta di modello comunicativo per l’interpretazione consecutiva che tenga conto di tutti gli elementi utilizzati – in questo e negli scorsi capitoli – per analizzarne i meccanismi.

5.1 Lotman: il linguaggio interno

Jurij Mihailovič Lotman individua due tipi di canale comunicativo, rispettivamente determinati da due possibili direzioni della trasmissione di un messaggio: comunicazione Io-Egli e comunicazione Io-Io (2001: 112). Nella comunicazione tradizionale Io-Egli, un messaggio viene trasmesso da un soggetto Io, che possiede l’informazione, a un destinatario terzo Egli. Esiste però un secondo tipo di comunicazione, dove un soggetto Io comunica a sé stesso un’informazione già nota, ed è questo il caso della direzione Io-Io. L’annotazione in un diario dei propri stati d’animo costituisce un esempio di quella che Lotman definisce «autocomunicazione» (2001: 113). Questa autocomunicazione è resa possibile dal linguaggio Io-Io che, prima di Lotman, Vygotskij ha definito «discorso interno», un discorso muto – privo di vocalizzazione – che riduce le parole, trasformandole in segni di parole (Lotman 2001: 119-120; Osimo 2011: 68).

Riprendendo il modello della comunicazione di Jakobson, Lotman spiega che, nel sistema Io-Egli, variabili sono i due poli estremi del modello (mittente e destinatario), mentre codice e messaggio rimangono costanti. Nel sistema Io-Io, invece, il depositario dell’informazione rimane invariato – mittente e destinatario sono la stessa persona – ed è il messaggio che, riformulato, acquisisce un nuovo significato. Questo nuovo significato deriva dal fatto che il messaggio iniziale viene ricodificato in «un secondo codice supplementare, […] ricevendo così i connotati di un messaggio nuovo» (2001: 113). Ciò significa che si ha non più uno, bensì due messaggi, in due codici differenti. Inoltre, se nel sistema Io-Egli il mittente, nel trasmettere il messaggio a un altro destinatario, rimane immutato, nel sistema Io-Io il destinatario è il mittente ristrutturato (tramite l’autocomunicazione): il processo autocomunicativo trasforma l’Io (Lotman 2001: 114).

In altre parole, l’Io emittente è più giovane dell’Io ricevente, anche se può trattarsi di poche frazioni di secondo; ciò che conta è che non è più interamente la stessa persona, perché quel frammento d’esperienza in più l’ha modificata, ciò che permette l’evoluzione del senso e il dialogo intrasoggettivo. Tale dialogo, secondo Lotman, è l’unico ad aggiungere significato all’enunciato iniziale, poiché il suo scopo non è informare l’altro di qualcosa che al mittente era già noto, ma di stimolare sé stesso a formulare una visione più evoluta di qualcosa (Osimo 2011: 65).

Il linguaggio interno di Lotman è il linguaggio mentale personale che permette all’individuo di “tradurre” e comprendere la realtà esterna ed è fatto proprio delle rappresentazioni mentali di Peirce, gli interpretanti: è un «codice interno individuale e non condivisibile in quanto tale, non verbale, che permette a ciascuno di conoscere e riconoscere» (Osimo 2011: 95).

5.2 La traduzione intersemiotica

Nel suo saggio sugli aspetti linguistici della traduzione, Jakobson elabora «una concezione semiotica della traduzione» (Osimo 2010a: 14), distinguendo tre forme di interpretazione di un segno linguistico:

  1. traduzione endolinguistica o riformulazione, quando i segni linguistici sono tradotti in altri segni della stessa lingua;

  2. traduzione interlinguistica (traduzione propriamente detta), quando i segni linguistici sono tradotti in un’altra lingua;

  3. traduzione intersemiotica o trasmutazione, quando i segni linguistici sono tradotti per mezzo di sistemi di segni non linguistici (2002: 57).

Per meglio comprendere l’ultima tipologia di traduzione, basti pensare all’adattamento cinematografico di un romanzo o alla messa in musica di un componimento poetico. La traduzione intersemiotica è dunque un «processo che comport[a] un cambiamento di tipo di codice» (Osimo 2010a: 20). Cambiamento che può essere da un linguaggio non verbale a un altro linguaggio non verbale, da un linguaggio verbale a un altro linguaggio verbale, da un linguaggio verbale a un linguaggio non verbale (e allora è una traduzione «deverbalizzante») e da un linguaggio non verbale a un linguaggio verbale (e allora è una traduzione verbalizzante) (Lûdskanov 2008: 46; Torop 2010: 11).

Applicando questa distinzione ai processi coinvolti nell’interpretazione consecutiva, si può dire che in essa coesistono e si intersecano traduzione interlinguistica e traduzione intersemiotica. A livello di macrocontesto (comunicazione oratore-interlocutore) l’interprete svolge la funzione di canale comunicativo e traduce il messaggio dell’oratore da una lingua A in una lingua B perché possa essere compreso dal suo destinatario finale, effettuando così una traduzione interlinguistica. Invece, a livello di microcontesto (comunicazione interprete mittente-interprete destinatario), l’interprete traduce il messaggio dalla lingua A dell’oratore nel suo linguaggio della presa di note per poi tradurlo da quest’ultimo nella lingua B per il destinatario finale. In questo caso si hanno quindi due traduzioni intersemiotiche tra codici di tipo diverso: le lingue naturali A e B e il codice della presa di note.

La traduzione intersemiotica non comprende però solo le traduzioni tra linguaggi verbali e linguaggi non verbali, ma anche:

[…] ogni singolo atto di comprensione (passiva) o codifica (attiva), perché si dà per scontato che ciascuna codifica/decodifica necessita di una traduzione da/verso un discorso interno mentale […] perché ciascun individuo pensi e decodifichi/produca un discorso (Osimo 2011: 215).

La traduzione intersemiotica sta dunque alla base della semiosi (che è una traduzione) e di qualsiasi processo traduttivo, comprese le prime due tipologie jakobsoniane di traduzione, endolinguistica (intralinguistica) e interlinguistica. Aleksandăr Lûdskanov afferma infatti che la traduzione interlinguistica non è altro che una serie di processi di traduzione intersemiotica, di passaggi «dal verbale al mentale e dal mentale al verbale» (Osimo 2008: XIII). E così anche la traduzione intralinguistica. Ma anche la lettura, la scrittura, l’ascolto e la produzione di un discorso sono processi traduttivi intersemiotici e tutti attraversano una fase mentale, fase fondamentale e intrinseca a «qualsiasi atto di significazione (e traduzione)» (Osimo 2017: 27; 95). Nella lettura e nell’ascolto si ha un processo di deverbalizzazione, dove il prototesto (insieme di segni scritti in un caso, orali nell’altro) è verbale e viene tradotto (decodificato) in un metatesto non verbale (fatto di interpretanti): «[l]a percezione delle parole lette [o ascoltate] diventa, in prima istanza, una serie d’interpretanti, elaborati poi nel linguaggio interno» (Osimo 2011: 94). Nella scrittura e nella produzione orale di un discorso si ha invece un processo di verbalizzazione: il prototesto è un insieme di segni mentali (non verbali), di interpretanti che vengono tradotti (codificati) in un metatesto verbale.

A questo punto, dal momento che la traduzione – qualsiasi traduzione – comporta «necessariamente un passaggio attraverso il codice mentale, non verbale, e quindi una trasmutazione semiotica» (Osimo 2011: 66), si deve riconsiderare quanto detto in merito ai passaggi traduttivi dell’interpretazione consecutiva. Questa si configura infatti come una serie di traduzioni intersemiotiche: l’interprete ascolta l’oratore e comprende il suo messaggio, effettuando una traduzione intersemiotica deverbalizzante dal linguaggio verbale A al linguaggio interno. Dopodiché produce un messaggio che annota sul blocco degli appunti, traducendo dal linguaggio interno al codice della presa di note. Quando arriva il momento di rendere il messaggio al destinatario finale, l’interprete rilegge il testo/appunti e lo traduce dal linguaggio della presa di note nel linguaggio interno. Infine compie una traduzione intersemiotica verbalizzante e, partendo dal linguaggio interno, formula il messaggio nel linguaggio verbale B del destinatario finale, l’interlocutore dell’oratore (o il suo pubblico).

La traduzione – e l’interpretazione consecutiva – consiste quindi in una serie di atti di codifica e decodifica:

Per «codifica» s’intende la rappresentazione di una certa informazione attraverso i mezzi messi a disposizione da una certa lingua, mentre per «decodifica» s’intende l’operazione opposta; in altre parole l’estrapolazione di una certa informazione da un messaggio codificato nella forma di una certa lingua (Lûdskanov 2008: 25).

Lûdskanov individua cinque livelli gerarchicamente ordinati nella struttura dei linguaggi naturali, che sono il livello grafico o fonetico (livello più superficiale), il livello semico, il livello morfologico, il livello sintattico e il livello semantico (livello più profondo) (2008: 24). La decodifica segue «passaggi successivi dal livello superficiale a quello profondo», quindi dal livello grafico o fonetico al livello semantico, mentre la codifica segue «passaggi successivi dal livello più profondo a quello superficiale», dal livello semantico al livello grafico o fonetico (Lûdskanov 2008: 55-56).

All’interno della traduzione intesa come processo, Lûdskanov distingue due fasi, una di analisi e una di sintesi. Queste due fasi rappresentano, rispettivamente, l’inizio e la fine del processo traduttivo, processo che «scorre tra due testi, [è] una relazione tra originale e traduzione» (Torop 2010: 25; 37). Va precisato che analisi e sintesi non si susseguono in modo lineare nella mente del traduttore: non rappresentano cioè «un ordine cronologico del lavoro del traduttore, ma rappresentano il suo orientamento, che ci permette di stabilire lo scopo complessivo della traduzione, la sua dominante» (Lûdskanov 2008: 55; Torop 2010: 37). Se infatti il processo di analisi è rivolto al prototesto e consiste nella sua decodifica e comprensione (significazione, attribuzione di senso), il processo di sintesi è rivolto al metatesto e al lettore della traduzione (o al consumatore del metatesto, quindi anche alla persona che ascolta un discorso) (Torop 2010: 37). Questo perché il traduttore (e quindi anche l’interprete) dovrà mettere in atto una strategia che definisca la sua dominante e il suo lettore modello, in modo da trasmettere un’informazione invariante e gestire quanto meglio possibile il residuo comunicativo.

5.3 Informazione invariante e residuo comunicativo

Peeter Torop introduce il concetto di «traduzione totale» e vi racchiude non solo la traduzione interlinguistica in senso stretto, ma tutti i tipi di traduzione (intralinguistica, metatestuale, intersemiotica, intertestuale, ecc.), aspirando a un modello unico, tassonomico e virtuale, che possa descrivere ogni processo traduttivo:

Tassonomico perché permette di descrivere tutti i tipi di traduzione possibili. Virtuale perché il processo traduttivo è sempre una relazione tra prototesto e metatesto, e l’attualizzazione concreta del modello è legata, da una parte, allo specifico del prototesto e ai fini del metatesto, e dall’altra è definita dalla presenza della personalità creativa del traduttore nel processo traduttivo (Torop 2010: 95).

Poiché non esiste traduzione – interlinguistica quanto meno – senza residuo comunicativo (senza cioè una perdita di parte del messaggio), la traduzione totale prevede una strategia traduttiva per la gestione di tale residuo: il traduttore deve in primo luogo individuare la dominante e il lettore modello del testo e della sua traduzione e, in secondo luogo, individuare quegli «elementi che, se necessario, vanno sacrificati pregiudicando quanto meno possibile l’integrità del testo» (Torop 2010: 78; 99). Gli elementi che non vengono tradotti nel metatesto (nella traduzione) andranno inseriti, per quanto possibile, nell’apparato metatestuale, ovvero nei testi che accompagnano la traduzione, completandola e agevolandone la decodifica, supplendo così «a ciò che non viene espresso direttamente nel testo tradotto» (Osimo 2010a: 27; 95). Sono esempi di metatesti le note, le postfazioni e i commentari, ma anche il titolo stesso di un testo.

Il processo traduttivo (e comunicativo) si configura quindi come processo di approssimazione il cui scopo è quello di «veicolare un’informazione invariante rispettando quella veicolata dal prototesto» (Lûdskanov 2008: 46). In altre parole, nel processo traduttivo c’è un prototesto, un messaggio fonte dell’informazione che il traduttore percepisce, decodifica, comprende, codifica e restituisce in un metatesto, e l’informazione contenuta nel metatesto «deve, per quanto possibile, essere invariante rispetto all’informazione contenuta [nel prototesto]» (Lûdskanov 2008: 41-42).

L’informazione invariante (la dominante) viene definita anche in base al lettore modello che ci si prefigura. È anche in funzione del lettore modello, infatti, che il traduttore definisce la dominante e il non-detto, l’implicito e di conseguenza il residuo:

Individuare la dominante di un testo – e decidere di conseguenza quale sia questo residuo – è legato anche alla prefigurazione del lettore modello. In funzione di un determinato lettore modello, il traduttore sceglie come dominante l’aspetto di quel dato testo che ritiene più importante, e tollera come residuo gli elementi che ritiene secondari (Osimo 2011: 102-103).

Il residuo è un dunque elemento inevitabile di qualsiasi passaggio comunicativo e traduttivo. Esso è dovuto al rumore semiotico, interferenza che si presenta potenzialmente in ogni scambio tra un mittente e un destinatario e quindi – nella traduzione interlinguistica – tra mittente e traduttore-ricevente prima e tra traduttore-mittente e lettore (destinatario finale) poi. Non solo: il semplice fatto che ogni traduzione (e comunicazione) attraversa una fase mentale con il suo linguaggio interno e la differenza stessa tra il linguaggio interno e il linguaggio verbale implicano un residuo. Il linguaggio interno infatti è «molto più veloce; molto più prontamente disponibile; molto più facilmente comprensibile dall’interno; molto più preciso» del linguaggio verbale e quindi molto più economico (Osimo 2010a: 34). Questo perché, mentre il linguaggio verbale è discreto (ha una sintassi lineare e si possono individuare i singoli elementi o unità che lo compongono), il linguaggio Io-Io è continuo: è fatto di pensieri che «sfumano uno nell’altro» e non sono circoscrivibili in singoli elementi distinti gli uni dagli altri (Osimo 2011: 20; 142). Così il linguaggio interno e il linguaggio verbale sono di «natura intrinsecamente e strutturalmente diversa» e qualsiasi traduzione tra i due linguaggi comporta inevitabilmente la perdita di una parte del messaggio, dunque un certo residuo comunicativo (Osimo 2011: 21).

Un altro aspetto da tenere in considerazione è che il linguaggio interno è fatto di interpretanti (rappresentazioni mentali della realtà esterna): questi sono per definizione personali e soggettivi e determinano, di conseguenza, la soggettività dei processi di semiosi e di interpretazione. La comunicazione (e la traduzione) presuppone la formulazione e la comprensione di un messaggio, che viene sottoposto a una codifica e a una decodifica. Codifica e decodifica vengono effettuate da due persone diverse, mittente e destinatario, che avranno ai rispettivi poli – come prototesto nel primo caso e come metatesto nel secondo caso – interpretanti soggettivi e dunque rappresentazioni mentali differenti di quello stesso messaggio:

Il residuo comunicativo è dovuto in parte – ed è una parte molto importante – proprio alla discrepanza tra le modalità di codifica dell’emittente e le modalità di decodifica del ricevente. In altre parole, il residuo comunicativo è dovuto alla discrepanza tra gli interpretanti dell’emittente e gli interpretanti del ricevente (Osimo 2011: 27).

Questo implica che ogni consumatore del metatesto, nella decodifica del messaggio avrà una perdita di informazione rispetto a quanto espresso dal mittente e quindi un residuo.

C’è poi il residuo dato dalla strategia narrativa dell’autore prima e dalla strategia traduttiva del traduttore poi, strategia volta alla scelta della dominante e del lettore modello del testo di cui si è parlato poc’anzi. Da non dimenticare infine il fatto che possono verificarsi casi in cui il traduttore ha un’insufficiente conoscenza linguistica e culturale, a causa della quale può estrapolare (in fase di analisi) solo una minore quantità d’informazione, generando così un ulteriore residuo (Lûdskanov 2008: 54).

5.4 Un modello della comunicazione per l’interpretazione consecutiva

Bruno Osimo rielabora il modello classico della comunicazione (emittente, ricevente, codice, canale, residuo, messaggio) mettendo in evidenza i vari passaggi intersemiotici e i residui via via generati nel processo traduttivo (2011: 153). Partendo da tale modello si propone qui un’analisi dell’interpretazione consecutiva che, come ogni processo comunicativo (e traduttivo), avviene tramite passaggi intersemiotici e che, come ogni processo comunicativo (e traduttivo), comporta un residuo.

Figura 5.1 Il linguaggio interno nell’interpretazione consecutiva

L’oratore ha preparato e pronuncia un discorso in una lingua A. Non è però riuscito (sia in fase di preparazione sia in fase di enunciazione) a convertire del tutto il materiale mentale in parole: si ha un primo residuo (R), dato dalla traduzione intersemiotica tra linguaggio mentale continuo e linguaggio verbale discreto (e dalla strategia comunicativa dell’oratore in funzione di una certa dominante e di un certo destinatario modello). Tra oratore e interprete-ricevente si presentano delle interferenze (rumori vari) che ostacolano la ricezione del messaggio e portano – potenzialmente – alla generazione di un secondo residuo (R₂). L’interprete-ricevente ascolta e, per comprendere il messaggio, lo decodifica: compie una traduzione intersemiotica deverbalizzante dal linguaggio verbale discreto al linguaggio interno continuo (fatto di interpretanti che differiscono dagli interpretanti dell’oratore), generando ulteriore residuo comunicativo che si decide qui di accorpare al residuo precedente (R₂). Bisogna ricordare che questa traduzione intersemiotica comprende già (almeno parzialmente) una traduzione interlinguistica in senso stretto: l’interprete svolge pur sempre la funzione di canale del macrocontesto e deve quindi trasferire i contenuti espressi nella lingua A dell’oratore in una lingua B per il destinatario finale. Ipotizzando che la lingua A sia la lingua “straniera” e che la lingua B sia la lingua madre dell’interprete, l’interprete potrebbe (in questa fase, ma anche in tutte quelle successive) avere difficoltà nella comprensione o compiere errori traduttivi, dovuti a una conoscenza incompleta della lingua “altra” (ma anche a lacune di ordine culturale), e accrescere quindi la mole del secondo residuo. Quanto detto per la traduzione da una lingua A straniera alla lingua B madre vale naturalmente anche per il processo inverso, ovvero per la traduzione dalla lingua madre a una lingua straniera.

Figura 5.2 L’interferenza nell’interpretazione consecutiva

Avendo compreso il messaggio dell’oratore per mezzo delle sue rappresentazioni mentali, l’interprete deve poi produrre un messaggio scritto per sé stesso. È l’autocomunicazione: l’interprete si fa mittente e compie una traduzione intersemiotica verbalizzante dal suo linguaggio interno (continuo) al suo linguaggio della presa di note (che è scritto e discreto). Ma poiché non tutto quello che ha elaborato nel linguaggio interno viene inserito nel testo/appunti si ha un terzo residuo (R₃) – sempre incrementato dalla discrepanza tra i suoi interpretanti e quelli dell’oratore e da una potenziale incompetenza (inter)linguistica, nonché dalla strategia traduttiva adottata. In questa fase (come in ogni atto comunicativo tra un mittente e un destinatario) si possono inoltre presentare delle interferenze (la penna mal funzionante, un foglio che si strappa inavvertitamente nel cambiare pagina) che possono andare a disturbare l’annotazione e ad accrescere ulteriormente il residuo (R₃).

Quando il discorso dell’oratore termina, giunge il momento per l’interprete di rileggere il testo/appunti, che viene sottoposto a una decodifica: l’interprete opera una traduzione intersemiotica deverbalizzante dal codice (discreto) della presa di note al linguaggio interno (continuo). Gli interpretanti che rappresentano mentalmente il messaggio in questa fase (interpretanti dell’interprete-produttore del discorso per l’interlocutore) non sono più gli interpretanti della fase di decodifica del discorso dell’oratore (interpretanti dell’interprete-ricevente del discorso). Va ricordato infatti che il linguaggio interno stesso attribuisce un nuovo significato al messaggio e che gli interpretanti sono entità provvisorie e locali: nell’ascoltare il discorso dell’oratore, l’interprete avrà approfondito in qualche modo la sua conoscenza della realtà e modificato le sue rappresentazioni mentali a riguardo. Nella fase di decodifica del testo/appunti, si possono poi presentare delle interferenze: un segno può risultare di difficile decodifica a causa dell’annotazione frettolosa o dell’impossibilità di ricordare un certo passaggio del discorso. L’interprete-lettore empirico si stacca dall’interprete-lettore modello per cui il testo/appunti è stato scritto e questo determina un quarto residuo (R₄).

Dopodiché, l’interprete effettua un’ultima traduzione intersemiotica – verbalizzante – dal suo linguaggio interno (continuo) alla lingua B (discreta) del destinatario finale, l’interlocutore (o pubblico). Ma anche qui parte del materiale mentale non arriva a essere espresso verbalmente e lascia così un quinto residuo (R₅), al quale non mancano di contribuire la potenziale incompetenza (inter)linguistica dell’interprete e le scelte determinate dalla strategia traduttiva. Tra interprete-mittente e destinatario finale del messaggio (come sempre tra un mittente e un destinatario) si possono poi interporre delle interferenze come rumori vari che coprono la voce dell’interprete, malfunzionamenti del microfono e differenze culturali. Queste interferenze generano un ulteriore residuo (R₆). Lo stesso destinatario finale della comunicazione nell’interpretazione consecutiva (l’interlocutore dell’oratore), per comprendere il messaggio, deve sottoporlo a una decodifica nel suo linguaggio mentale. Opera quindi una traduzione intersemiotica deverbalizzante dal linguaggio verbale discreto al suo linguaggio interno (continuo), accrescendo il residuo finale (R₆). Quest’ultimo residuo è dato anche, a sua volta, dalla differenza tra gli interpretanti del destinatario finale-interlocutore, gli interpretanti dell’interprete e gli interpretanti dell’oratore, nonché dallo scarto tra l’interlocutore come consumatore empirico del messaggio e l’interlocutore modello che invece l’interprete si è prefigurato nella sua strategia traduttiva.

L’interprete deve prevedere una gestione del residuo derivato da tutti i passaggi traduttivi dell’interpretazione consecutiva. Parte di questo residuo – nella traduzione scritta – può essere collocato nei metatesti, i testi che affiancano e trattano del testo principale. Nell’interpretazione consecutiva intesa a livello di macrocontesto (comunicazione oratore-interlocutore), è però difficile pensare a possibilità paratestuali per la gestione del residuo: il metatesto (testo principale) è costituito dalla traduzione orale dell’interprete, che non viene generalmente accompagnata da altri testi come avviene invece nel caso di un’opera scritta.

A livello di microcontesto (comunicazione dell’interprete con sé stesso), si può considerare invece la memoria come apparato paratestuale per la gestione di una parte del residuo. Del resto, anche la memorizzazione è un processo traduttivo, nel quale «si verificano trasformazioni di segni di un prototesto in segni di un altro codice conservando un’informazione invariante» (Lûdskanov 2008: 45). L’interprete non annota infatti tutte le informazioni del discorso nel suo testo/appunti, ma effettua una cernita sulla base delle possibilità tempistiche e anche sulla base delle sue conoscenze, individuando la dominante in funzione dell’interprete-lettore modello. Un esempio: se si parla di una decisione del Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, al cui noto disinteresse e ostruzionismo nei confronti delle tematiche ambientali si fa cenno in un inciso, l’interprete potrà appuntare ( Trump ) (che racchiude nel suo significato anche «Presidente degli Stati Uniti d’America») e rappresentare quell’inciso con due parentesi ( ( ) ), o inserire al più il simbolo di ambiente sbarrato tra le parentesi ( () ) (principio di negazione di Rozan) per aiutare la memoria a ricordare il tema dell’inciso. Si può dire quindi che la memoria, per l’interprete, funge da apparato metatestuale per una migliore decodifica e comprensione del testo/appunti, che viene integrato con le informazioni memorizzate e non annotate.

Conclusioni

L’interprete, nell’interpretazione consecutiva, fa affidamento su due strumenti: i suoi appunti e la sua memoria. E, considerata l’interpretazione consecutiva secondo i modelli della comunicazione, si possono distinguere due livelli comunicativi, macrocontesto e microcontesto. Nel macrocontesto, l’interprete è canale comunicativo tra oratore e interlocutore. Nel microcontesto, si può notare come l’interprete svolga diverse funzioni: è ricevente del messaggio dell’oratore, è mittente del messaggio scritto nel testo/appunti di cui è anche lettore modello e lettore empirico (quindi destinatario) ed è infine mittente del messaggio finale che verrà ascoltato dal vero destinatario del processo dell’interpretazione consecutiva, l’interlocutore o pubblico. L’interprete produce quindi due metatesti: il testo/appunti e le informazioni memorizzate. Se si considera il testo/appunti il testo principale, la traduzione, si può considerare la memoria come apparato paratestuale per esprimere ciò che non è stato riportato nel testo/appunti. Testo/appunti e testo memorizzato sono entrambi volti alla produzione del messaggio ultimo, il metatesto orale nella lingua dell’interlocutore.

Il testo/appunti è scritto in quello che si configura come un vero e proprio linguaggio, elaborato dall’interprete stesso. Malgrado l’intento iniziale di dichiarare quello della presa di note un linguaggio naturale al pari di inglese, tedesco, lingua dei segni e cinese, non si è potuto prescindere dalla caratteristica prima delle lingue naturali: il loro spontaneo sviluppo per la comunicazione tra membri di un gruppo. Il codice della presa di note condivide molti principi regolatori e strutturali con i linguaggi naturali, ne condivide la polisemia degli elementi e l’impossibilità di una traduzione interlinguistica basata su sostituzioni meccaniche tra equivalenti, ma non ne condivide il primo principio fondante: il linguaggio della presa di note resta artificiale nella sua genesi, elaborato consapevolmente dall’interprete e utile a lui solo, ai fini dell’autocomunicazione.

La creazione di questo linguaggio si spiega attraverso la semiosi peirciana e gli interpretanti, che ne determinano la singolarità – si può quasi dire che esista un linguaggio della presa di note per ciascun interprete e per ciascuno studente di mediazione linguistica. I segni del linguaggio della presa di note sono messi in relazione a oggetti della realtà esterna e alle idee mentali dell’interprete relative a quegli oggetti: sono scelti e dotati di significato proprio in funzione della loro capacità evocativa e quindi della loro stretta relazione con le esperienze dell’interprete e i suoi interpretanti.

L’interpretazione consecutiva e i passaggi in cui la medesima si articola pongono dunque il problema della distinzione tra linguaggio verbale (esterno) e linguaggio mentale (interno), tra linguaggio discreto e continuo. I ripetuti passaggi di codifica e decodifica, nonché i diversi linguaggi che si relazionano e vicendevolmente si traducono, comportano un residuo comunicativo – aumentato inoltre dal rumore semiotico e dalla strategia traduttiva dell’interprete. Il modello finale proposto, lungi dall’essere comprensivo di tutte le variabili presenti nell’interpretazione consecutiva, vuole semplicemente tirare le fila dell’analisi compiuta. Tale modello ricalca i modelli classici della comunicazione integrandoli con le figure presenti nell’interpretazione consecutiva, i concetti di residuo e interferenza, di linguaggio interno e dunque di traduzione verbalizzante e deverbalizzante.

Analizzare l’interpretazione consecutiva e la presa di note da un punto di vista semiotico potrebbe rivelarsi non solo interessante ma anche utile. Utile perché si mette in evidenza – e soprattutto si motiva – l’estrema soggettività della significazione dei simboli e delle associazioni segno-contenuto. Troppo spesso infatti lo studente, per pigrizia o per riverenza, si lascia affascinare e intimidire dai simboli proposti nei manuali e dai docenti, rinunciando allo sviluppo di un proprio sistema e sottovalutando il potenziale di segni che, elaborati e/o scelti da lui personalmente, possono rivelarsi estremamente più efficienti ed efficaci. Un linguaggio e un repertorio di segni messi a punto dallo studente in prima persona risponderebbero maggiormente al principio di adeguatezza, favorendo una più completa padronanza dell’autocomunicazione (la scrittura del testo/appunti e la sua lettura) e garantendo, di conseguenza, una migliore performance nel macrocontesto.

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1Traduzione italiana del titolo in Russo 1998: XXVI.

2Traduzione personale. In originale: «the ABC of consecutive note-taking» (Gillies 2004: 7).

3Traduzione personale. Nel testo consultato: «1. Noting the Idea Rather than the Word 2. The Rules of Abbreviation 3. Links 4. Negation 5. Emphasis 6. Verticality 7. Shift» (Rozan 2004: 15).

4Traduzione personale. Nel testo consultato: «A. The Symbols of Expression», «B. The Symbols of Motion», «C. The Symbols of Correspondence», «D. Symbols for Things» – in particolare, in merito all’ultima categoria, «symbols for concept words which recur most frequently» (Rozan 2004: 25-31).

La comprensione nella semiosfera: testualità di Peeter Torop FRANCESCA POTITO

La comprensione nella semiosfera: testualità
di Peeter Torop

FRANCESCA POTITO

Scuole Civiche di Milano
Fondazione di partecipazione
Dipartimento di Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica
primavera 2008

© Peeter Torop 2007
© Francesca Potito per l’edizione italiana 2008

ABSTRACT IN ITALIANO

La tesi contiene la traduzione italiana dell’articolo Semiospherical understanding: textuality di Peeter Torop, il più autorevole esponente della scuola semiotica di Tartu. L’importanza della semiotica sia nel campo della scienza che in quello della cultura è in costante aumento. Ma, come risultato della creolizzazione, cultura e natura, in quanto ambienti della vita umana, sono cambiate e questo ha a sua volta generato la necessità di capire come comprendere e spiegare questo cambiamento, ossia come definire epistemologicamente l’oggetto d’indagine. Dal momento, quindi, che la cultura, in quanto sistema di sistemi, è in continua evoluzione a causa delle interrelazioni che si instaurano costantemente tra le parti del tutto, la semiotica diventa non solo una risorsa metodologica ma anche una risorsa applicativa atta a garantire lo sviluppo delle singole scienze. In questo contesto, il suo compito diventa quello di descrivere la semiosfera e, per osservare e interpretare i meccanismi della cultura, si serve della testualità (che combina in sé il testo come artefatto ben definito e la testualizzazione come astrazione), della metatestualità (l’analisi delle relazioni tra prototesto e metatesto), e dell’intertestualità (l’analisi delle relazioni che un testo ha con gli altri testi). In definitiva, la testualità è una possibilità che la cultura offre ai suoi analizzatori e, nello stesso tempo, è una proprietà ontologica della cultura e un principio epistemologico per analizzare la cultura. Oltre alla traduzione, la tesi propone un approfondimento sul contesto semiotico e un’analisi traduttologica dell’articolo sopra citato.

ENGLISH ABSTRACT

The thesis consists in the translation into Italian of the article Semiospherical understanding: textuality by Peeter Torop, the most influential exponent of the Tartu School of Semiotics. The relevance of semiotics is increasing both in sciences and culture. But, due to the creolization, culture and nature, as the environment of human life, have changed and this, in turn, caused the necessity to understand how to comprehend and explain this changing, that is how to define epistemologically the object of inquiry. Therefore, since culture, as a system of systems, is an incessantly evolving order because of the interrelationships constantly established between the parts of the whole, semiotics becomes not only a methodological but also an applicational resource for securing the development of sciences. In this context, its task is to describe the semiosphere and, in order to observe and interpret the mechanisms of culture, it makes use of textuality (which combines in itself text as a well-defined artifact and textualization as an abstraction), metatextuality (the investigation of the relations between a prototext and a metatext), and of intertextuality (the investigation of the relationships between a text and the other texts). All things considered, textuality is a possibility that culture offers to its analyzers, and at the same time it is an ontological property of culture and an epistemological principle for investigating culture. Besides the translation, the thesis contains the analysis of the semiotic context and a translational analysis of the above mentioned article.

RESUMEN EN ESPAÑOL

La tesis consiste en la traducción al italiano del artículo Semiospherical understanding: textuality de Peeter Torop, el exponente más notable de la escuela de semiótica de Tartu. La importancia de la semiótica tanto en el sector de las ciencias como en el sector de la cultura aumenta constantemente. Pero, como resultado de la creolización, cultura y naturaleza, en cuanto entornos de la vida humana, han cambiado generando a su vez la necesidad de entender cómo comprender y explicar dicha transformación, es decir cómo definir epistemológicamente el objeto de investigación. Por consiguiente, dado que la cultura, en cuanto sistema de sistemas, es en continua evolución a causa de las interrelaciones que se establecen etre las partes y el todo, la semiótica se convierte no sólo en un recurso metodológico, sino también en un recurso aplicativo apto a garantizar el desarrollo de las mismas ciencias. En este contexto, su función es la de describir la semiosfera y, para observar e interpretar los mecanismos de la cultura, usa la textualidad (que combina en sí misma el texto como artefacto bien definido y la textualización como abstracción), la metatextualidad (la investigación de las relaciones entre prototesto y metatexto), y la intertextualidad (la investigación de las relaciones que un texto establece con otros textos). En resumidas cuentas, la textualidad es una posibilidad que la cultura ofrece a sus analizadores y, al mismo tiempo, es una propriedad ontológica de la cultura y un principio epistemológico para analizar la cultura. Además de la traducción, la tesis contiene un ahondamiento del entorno semiótico y un análisis traductológica del artículo mencionado.

Sommario

1. Prefazione 7
1.1. Biografia 8
1.2. La scuola di semiotica di Tartu-Mosca 8
1.3 L’evoluzionismo letterario di Ûrij Tynianov e le dinamiche lotmaniane 11
1.4. Strategia traduttiva 14
1.5. Analisi traduttologica 15
1.5.1. La gestione delle citazioni 21
1.5.2. L’abbondanza di connettori logici 22
Riferimenti bibliografici 23
2. Traduzione con testo a fronte 25
Riferimenti bibliografici 54

1. Prefazione

1.1. Biografia

Peeter Torop nasce in Estonia nel 1950. Allievo di Ûrij Lotman dal 1993 al 2007, si laurea all’università di Tartu e consegue un dottorato di ricerca, avendo come advisor prima Lotman e, dopo la sua morte, Uspenskij.
Dal 1993 ricopre il ruolo di capo del Dipartimento di Semiotica dell’Università, sostituendosi al maestro, fondatore dello stesso dipartimento. Sono questi gli anni più fecondi della sua carriera.
Il volume Total´nyj perevod, pubblicato in russo nel 1995 (è in corso di preparazione l’edizione èstone ampliata) e in italiano nel 2000, rappresenta il segno tangibile dell’interesse di Torop per la semiotica della traduzione. È questo libro a renderlo molto noto tra i ricercatori sulla traduzione.
Seguendo Roman Jakobson, Torop ha ampliato la portata dello studio semiotico della traduzione comprendendo la traduzione intratestuale, intertestuale ed extratestuale e sottolineando la produttività del concetto di «traduzione» nella semiotica generale.
Oggi è condirettore del prestigioso Sign Systems Studies (Σημειωτικη), la prima rivista scientifica internazionale di semiotica, all’interno della quale, nel 2003 (vol. 31.2), è stato pubblicato l’articolo di cui più avanti sarà fornita una traduzione con testo a fronte: Semiospherical understanding: Textuality.

1.2. La scuola di semiotica di Tartu-Mosca

Dal momento che Peeter Torop è uno dei più noti semiotici europei, risulta doveroso inquadrare l’autore nel contesto culturale in cui si inserisce, tanto più che si tratta di un terreno scientificamente assai fertile e di origini nobili: la scuola di semiotica di Tartu-Mosca.
Nel Novecento, l’evoluzione degli studi linguistici e letterari ha avuto tra i suoi punti focali tre paesi dell’Europa orientale: Russia, Cechia ed Estonia. Tra il 1914 e 1915, nasce il Circolo linguistico di Mosca, sotto l’egida dell’Accademia delle scienze russa, seguito a breve distanza (1917) dalla formazione a Pietroburgo dell’OPOÂZ, sigla della Società per lo studio del linguaggio poetico. Tra i due circoli si instaura una relazione dialettica molto feconda fondata sulla loro complementarità: i moscoviti, per formazione linguisti, si occupavano prevalentemente di critica letteraria e sono approdati alla semiotica proprio dalla linguistica. Successivamente alcuni di loro si sono occupati in modo più o meno professionale di letteratura, ma la base e gli interessi linguistici sono sempre rimasti al primo posto; i pietroburghesi, invece, per formazione studiosi della letteratura, dedicavano molta della loro attenzione al linguaggio poetico. Questo diverso background culturale si è rivelato molto fruttuoso, poiché i due gruppi si sono arricchiti reciprocamente, comunicandosi i rispettivi interessi. Così, l’incontro con la scienza letteraria ha determinato l’interesse dei moscoviti (linguisti) per il testo e il contesto culturale, cioè per le condizioni di funzionamento del testo. A sua volta, l’incontro con i linguisti ha orientato l’interesse degli studiosi di letteratura (i pietroburghesi) verso la lingua, per la sua capacità di generare e produrre testi. Inizialmente si proponevamo un obiettivo: guardare il mondo con gli occhi del linguista, trovare e descrivere una lingua ovunque fosse possibile. Secondo questi due circoli, infatti, la cultura appare un insieme di lingue eterogenee, relativamente più specifiche. In questo senso, la cultura comprende i linguaggi dell’arte (della letteratura, della pittura, del cinema), quello della mitologia, e così via. Il funzionamento di tali linguaggi è interrelato in modo complesso, e il carattere stesso dell’interrelazione è, in generale, determinato dalla cultura, cioè risulta diverso in situazioni storiche diverse. La cultura, in senso semiotico ampio, è dunque intesa come sistema di relazioni che si instaurano fra l’uomo e il mondo. Questo sistema da un lato regola il comportamento umano, dall’altro determina il modo in cui viene modellizzato il mondo. Ciò permette, tra l’altro, di guardare la storia in prospettiva semiotica: da un certo punto di vista il processo storico appare un sistema di comunicazione fra la società e la realtà che la circonda, in particolare fra le diverse società e, allo stesso tempo, come dialogo fra la personalità storica e la società. A questo proposito sono particolarmente interessanti le situazioni di conflitto in cui i partecipanti al processo comunicativo parlano lingue (culturali) diverse, cioè quando i medesimi testi vengono letti in modo diverso. Questo spiega anche il motivo per cui questa scuola pone testi culturali concreti come oggetto dei suoi studi semiotici.
Ma torniamo alle origini della scuola semiotica di Tartu-Mosca. Nella città di Mosca lavora inizialmente Romàn Jakobson, che in un secondo tempo diviene anche membro dell’OPOÂZ a Pietroburgo, per poi trasferirsi in Cechia nel 1920 (fino al 1939), e fondare il Circolo linguistico di Praga. A Pietroburgo lavorano, tra gli altri, Èjhenbàum, Tomaševskij, Bahtìn, Propp e Tynânov, il gruppo poi divenuto noto come «i formalisti russi».
Ma, per la nascita della scuola semiotica di Tartu, bisogna risalire agli anni Quaranta, a Pietroburgo, dove il giovane Ûrij Lotman si iscrive all’università, laureandosi in lettere nella facoltà dove insegnano molti dei docenti che, nel ventennio precedente, sono stati protagonisti del formalismo e dello strutturalismo, tra i quali citiamo Propp, a noi noto soprattutto per gli studi sul folclore e sulla fiaba.
Lotman comincia, quindi, la propria carriera universitaria a Tartu, interessandosi particolarmente ai metodi di analisi del «testo poetico» (termine con cui intende qualsiasi testo “aperto”, non settoriale) e alle ricerche sui modelli ideologici della cultura. Siamo negli anni Sessanta quando Lotman tiene il primo corso di poetica strutturale, che sarà poi pubblicato in Lezioni di poetica strutturale nel 1964. Due anni prima, nel 1962, viene organizzato a Mosca un simposio sullo studio strutturale dei sistemi di segni, nel corso del quale vengono lette relazioni di semiotica della lingua, di semiotica generale, di semiotica dell’arte, della comunicazione coi sordi, dei rituali. Tali relazioni saranno poi pubblicate nelle ormai famose Tesi.
Entrato in possesso delle tesi del simposio moscovita, Lotman va a Mosca per prendere contatti con i suoi colleghi russi e per proporre loro una collaborazione avente come base geografica proprio la città di Tartu. Nasce così, da questa collaborazione, la prestigiosa rivista Trudy po znakovym sistemam [Lavori sui sistemi segnici], che esiste e prospera tuttora (lo stesso Torop ne è direttore) e ha un titolo in altre tre lingue: Sign System Studies, Töid märgisüsteemide alalt (in èstone) e Semeiotikè. E sempre nel 1964 si tiene la prima conferenza della neonata “scuola” a Tartu. Il fatto che molti chiamino questa scuola semplicemente «scuola di Tartu» è dovuto proprio al fatto che in questa città ha sede la rivista che, uscendo con cadenza semestrale, costituisce uno dei punti di riferimento più importanti per la semiotica mondiale.
Nel 1992, un anno prima della morte di Lotman, il Dipartimento di letteratura russa di Tartu, fondato e reso celebre da Lotman, si scinde, e nasce il Dipartimento di semiotica (la denominazione ufficiale del corso di laurea è «Semiotica e teoria della cultura»). A capo di questo dipartimento sta proprio il professor Peeter Torop, uno degli studiosi più competenti per quanto riguarda la semiotica applicata allo studio della traduzione.

1.3 L’evoluzionismo letterario di Ûrij Tynianov e le dinamiche lotmaniane

In Semiospherical understanding, l’articolo pubblicato nel 2003 nella rivista Sign System Studies, Torop delinea quella che è l’importanza della semiotica non solo nel campo della scienza, ma anche in quello della cultura. Secondo l’autore, la semiotica è non solo un sostegno metodologico delle scienze stesse ma anche una risorsa applicativa atta a garantire lo sviluppo di queste ultime. Ma non solo; Torop sottolinea quello che è il valore, la funzione della semiotica (aiutarci a orientarci nella storia) e, per farlo, attinge all’epilogo di V. Ivanov, uno dei fondatori della scuola semiotica di Tartu. Ma Ivanov non è l’unico studioso di semiotica citato da Torop. Come precedentemente accennato, l’ambiente dell’Università di Tartu era particolarmente fecondo: numerose personalità entravano in contatto tra loro comunicandosi i reciproci interessi, le idee, le convinzioni, e l’articolo di Torop ne è la testimonianza. Per argomentare il suo discorso, infatti, l’autore cita diversi suoi colleghi, mutuandone il pensiero.
Una delle personalità che più emergono nell’articolo, oltre ovviamente al maestro per eccellenza di Torop, Lotman, è Ûrij Tynânov. Allievo di Vèngerov, un uomo il cui metodo era l’empirismo, Û. Tynânov scriveva in versi, e non si limitava ad accumulare i fatti; li selezionava, e sapeva vedere quello che sfuggiva agli altri. È forse il suo spirito di osservazione ad attrarre Torop.
Per Tynânov la storia della letteratura, dove per «letteratura» si intende un sistema di segni in correlazione con altri sistemi, non è la storia di un susseguirsi di errori, bensì quella di un avvicendarsi di sistemi grazie ai quali si conosce il mondo.
Ma cosa ha dato Tynânov alla storia della letteratura? Lo studioso cercava di esaminare ogni fenomeno, ogni fatto letterario, sia nella teoria, sia nella storia della letteratura, storicamente, riferendosi al contenuto concreto del fenomeno stesso e alla sua relazione con gli altri fenomeni. La sua concezione della letteratura lo ha portato a mettere in rilievo non il mutamento dei singoli fatti dell’opera, ma l’avvicendarsi dei sistemi. Tale avvicendarsi fa sì che la realtà letteraria si evolva, procedendo come a balzi, a passaggi che, per la loro bruschezza, provocano lo stupore dei contemporanei. Per «evoluzione letteraria», quindi, Tynânov intende l’alternanza di sistemi i cui elementi assumono nuove funzioni. Tali sistemi entrano in rapporto tra loro, instaurando sia rapporti di «sin-funzione» (relazioni tra elementi simili di sistemi diversi) sia di «auto-funzione» (relazioni tra elementi di uno stesso sistema). Ecco spiegata l’eterogeneità della realtà testuale, o meglio, per usare un termine di Torop, la «diacronia» della realtà testuale (Tynânov 1968).
A riflettere sulla cultura, anche Û. Lotman, spesso citato da Torop. Ûrij Michajlovič Lotman (1922-1993) è stato uno dei massimi studiosi di semiotica, nonché storico della letteratura e della cultura. Nato a Pietrobugo, dal 1963 è stato professore presso l’Università di Tartu, in Estonia, dove ha fondato la Scuola semiotica di Tartu.
Ideatore del concetto di «semiosfera», un continuum semiotico pieno di formazioni di tipo diverso, collocato a vari livelli di organizzazione e che rende possibile la vita sociale, di relazione e comunicazione, Lotman individua come oggetto della semiotica la «letteratura», che a questo punto si configura come una semiosfera densa di testi e metatesti che si richiamano e rigenerano gli uni con gli altri. Ecco, quindi, che i termini «testo» e «testualizzazione» diventano concetti fondamentali della semiotica: la testualizzazione è qui intesa come traduzione appropriativa del reale che, filtrato dai linguaggi, si trasforma in «testo». Siamo dunque davanti a una testualità allargata che finisce per comprendere tutte le forme culturali. Ora va detto che il singolo testo, rispetto all’insieme della semiosfera, può assumere il ruolo del frammento, del «ricordo» a partire dal quale ricostruire il tutto: ma, avverte Lotman, la ricostruzione necessaria alla decodifica di un testo porta sempre, in realtà, alla creazione di un nuovo linguaggio. L’idea della continua riformulazione del senso è un tratto ricorrente del pensiero lotmaniano, che accoglie la lezione strutturale accompagnandola a una grande attenzione per gli aspetti dinamici e quindi anche diacronici dei fenomeni studiati.
In Semiospherical Understanding Torop cita anche le dinamiche lotmaniane che si instaurano tra la parte e il tutto. Per spiegare i rapporti fra parti e intero, tra testo – sempre inteso come singolo organo rispetto a un organismo più complessivo, e non come parte di un meccanismo priva di un significato proprio – e sistema culturale, Lotman ricorre alla metafora dello specchio, che è il punto di partenza di una sua approfondita riflessione sulle leggi della simmetria, che paiono rappresentare una chiave di senso a livello “micro” quanto “macro”:

Come un volto che si riflette in uno specchio, si riflette anche un qualunque suo frammento, che appare così parte dello specchio e nel contempo tempo simile a esso (Lotman 1985: 66).

Fra le parti deve esserci però non solo un rapporto di somiglianza ma anche una qualche differenza, che renda possibile la dialogicità del sistema, così come nello scambio comunicativo è necessaria la presenza di due partner simili e allo stesso tempo diversi. Ogni elemento della semiosfera è quindi un partner del dialogo, mentre l’insieme della semiosfera è lo spazio del dialogo, la sua condizione di possibilità.
Questo rapporto fra ordini diversi di complessità si riscontra anche nello studio dei contatti fra le varie aree culturali, come fra Oriente e Occidente: perché il dialogo sia possibile è necessario che il testo trasmesso e quello ricevuto in sua risposta debbano formare, da un terzo punto di vista, un unico testo: «Il testo trasmesso, prevenendo la risposta, deve contenere gli elementi capaci di permettere la traduzione in un’altra lingua, altrimenti il dialogo è impossibile» (Lotman 1985: 68). I testi che trasmutano da una cultura all’altra si trasformano, recando in sé le tracce dei percorsi e dei tragitti che hanno compiuto: è la loro duttilità che permette lo scambio e l’arricchimento .
Ancora una volta torna, quindi, la concezione di una cultura feconda perché eterogenea e in continua evoluzione, dove ogni testo non solo assume il suo significato autonomo e dipendente dal suo funzionamento interno, ma acquisisce il suo significato anche attraverso le relazioni con gli altri testi, ossia, come parte di un tutto. Ecco perché la scienza ha bisogno di ricreare costantemente il suo oggetto di ricerca, perché nella cultura come organismo vivente emergono costantemente nuove relazioni e nuovi sistemi, e la testualizzazione è una possibilità che la cultura offre ai suoi analizzatori per analizzare la cultura stessa.

1.4. Strategia traduttiva

Semiospherical understanding viene pubblicato nel 2003, nel volume n. 31.2 della prestigiosa rivista di semiotica Sign Systems Studies, An international journal of semiotics and sign processes in culture and nature.
La rivista scientifica viene fondata nel 1964 da Ûrij Lotman, ed è per questo che è la più storica rivista internazionale di semiotica. Inizialmente (e fino al 1992) pubblicata esclusivamente in russo – lingua ufficiale dell’Unione sovietica –, è ora pubblicata anche e soprattutto in inglese, ed è diventata un’istituzione centrale nella semiotica della cultura. Dal 1998, la Sign Systems Studies viene pubblicata come rivista internazionale peer-reviewed sulla semiotica della cultura e biosemiotica. Pubblicata regolarmente, un volume all’anno, è presente nelle più importanti banche dati scientifiche.
Considerando, dunque, la portata della rivista in cui è stato pubblicato, il prototesto ha le caratteristiche di un saggio scientifico e, in quanto tale, ha come obiettivo principale quello di informare, di veicolare un’informazione a un pubblico sicuramente competente ed esperto in materia. Questo obiettivo si è concretizzato nello stile scelto dall’autore: argomentativo, rigoroso, scientifico e ricco di termini settoriali.
Il saggio è incentrato sull’importanza della semiotica sia nel campo della scienza che della cultura e solo un pubblico competente può comprendere i ragionamenti di Torop senza doversi specificamente documentare. Tuttavia, bisogna osservare la differenza tra il lettore modello del prototesto e un ipotetico lettore della mia proposta di metatesto: per la mia proposta di traduzione non è prevista nessuna pubblicazione in nessuna rivista scientifico-settoriale sulla semiotica, né tantomeno a leggerla sarà un pubblico di studiosi di semiotica. Ovviamente questo ha influito senza dubbio sulle scelte che ho dovuto fare per la stesura della versione italiana, benché la fluidità dei ragionamenti e il “tipo” di inglese utilizzato nel prototesto non siano risultati estremamente complessi.
In breve, posso dire di aver seguito il filo logico e lineare dell’autore, pur prestando attenzione al significato e ai vari traducenti delle parole, e pur coniando a volte anch’io neologismi sulla base dei neologismi proposti dall’autore stesso. Il tutto con l’obiettivo di ricreare una versione avente la stessa dominante del prototesto: informare un lettore specialistico.

1.5. Analisi traduttologica

Se, da una parte, l’inglese impiegato nel prototesto è un inglese abbastanza corretto (non va dimenticato che il prototesto è, a sua volta, stato scritto da una persona di madrelingua estone con una lingua B (il russo) fortissima, ma un inglese coltivato solo negli ultimi quindici anni), “semplice” e lineare, privo di balzi temporali o periodi subordinati eccessivamente lunghi, dall’altra una delle più grandi difficoltà nella stesura del metatesto è stata l’individuazione e la scelta del traducente di alcune parole polisemiche, primo fra tutte il termine inglese «language».
In un dizionario monolingue britannico, la definizione di «language» è la seguente:

Language /’lG1gwIdZ/
n
1. a system for the expression of thoughts, feelings, etc., by the use of spoken sounds or conventional symbols
2. the faculty for the use of such systems, which is a distinguishing characteristic of man as compared with other animals
3. the language of a particular nation or people
the French language
4. any other systematic or nonsystematic means of communicating, such as gesture or animal sounds
5. the specialized vocabulary used by a particular group (Collins 2008).

Sulla base di queste accezioni, i traducenti di «language» nel nostro metatesto possono essere i seguenti: «linguaggio» o «lingua». Ma su quale base operare la scelta?
Considerando le definizioni delle due parole italiane

Lin|guàg|gio
s.m.
1 AU capacità comune a tutti gli esseri umani di apprendere una o più lingue storico–naturali e di servirsene per ragionare, intendersi reciprocamente, comunicare sia oralmente sia, tra le popolazioni che conoscono la scrittura, graficamente, scrivendo e leggendo
TS ling., psic., facoltà umana ricca di elementi innati, universali, presenti in ogni lingua
3a TS semiol., capacità d’utilizzazione di qualunque tipo di codice che, pur diverso dalle lingue storico–naturali, sia in grado di ordinare la produzione e comprensione di segnali della più varia natura: linguaggi animali, studiati dalla zoosemiotica, l. delle api, dei delfini; linguaggi logici, simbolici, convenzionali | l. gestuale, in cui il significante è realizzato con gesti visibili per il destinatario, cui si possono ricondurre le lingue dei segni in uso tra i sordomuti
3c TS log., ling., inform., qualsiasi insieme di stringhe di simboli le quali siano generabili a partire da un vocabolario finito, non creativo, secondo un numero finito di regole sintattiche applicabili infinitamente, talché sia decidibile l’appartenenza di una stringa all’insieme

e

Lìn|gua
s.f.
3a FO parlata, idioma, ant. favella, loquela, talora linguaggio come facoltà umana; più spesso modo di parlare peculiare di una comunità umana, appreso dagli individui (in condizioni normali) fin dai primi mesi di vita, affiancato, per le popolazioni alfabetizzate, da modalità ortografiche e di stile connesse alla pratica dello scrivere e del leggere; […]
3c TS ling., insieme (cui spesso si attribuisce carattere di sistema) di morfi, il cui significante è costituito adoperando un insieme finito e poco numeroso di unità distintive asemantiche, dette fonemi; nei morfi in generale si riconoscono morfemi lessicali e morfemi grammaticali, che, combinati secondo regole sintagmatiche e regole di assegnazione di ruoli sintattici, consentono di generare (cioè descrivere in modo ordinato) un numero potenzialmente infinito di frasi (e, quindi, di discorsi o testi), ciascuna realizzabile in un numero indefinito di enunciazioni concrete (atti di parole, speech acts) consistenti in una espressione (fonica o grafica e simili) e di una significazione (o senso, riferimento), entrambe ricche di elementi (prosodici, sul versante dell’espressione fonica, pragmatici, sul versante della significazione) importanti nell’esecuzione, ma di più problematica attribuzione all’insieme in quanto sistema astratto […]. (De Mauro 2008)

e considerando il contenuto centrale del prototesto, sebbene la parola «lingua» sembri interscambiabile con il termine «linguaggio», nella scelta del traducente ho dovuto prestare molta attenzione al contesto in cui «language» si trovava. Sulla base di questa premessa, ho ritenuto opportuno utilizzare «linguaggio» ogni qualvolta «language» stava a significare «qualunque tipo di codice»; e «lingua» ogni qualvolta «language» significava un linguaggio naturale. Fatta questa prima distinzione, nel corso del saggio la parola «language» si trovava spesso in coppia con altri sostantivi, come ad esempio «description» o «object», i quali, specificando contestualmente la parola in questione, mi hanno aiutato nella scelta del traducente più idoneo.

Un altro caso, questa volta un traducente appartenente alla lingua italiana, in cui ho avuto la stessa difficoltà nell’identificazione della parola più idonea è stato quello di «genere». La lingua italiana ha un solo vocabolo, «genere» per l’appunto, per esprimere significati che in inglese sono veicolati da almeno tre parole diverse, vale a dire «genre», «gender» e «kind». Per non parlare dei diversi traducenti che ognuna di queste parole potrebbe avere col variare del contesto.
Infatti, le mie difficoltà sono cominciate quando mi sono trovata davanti la parola inglese «genre». Al momento della ricerca del traducente, che a prima vista era ovviamente «genere», mi sono resa conto che, nel contesto in cui si trovava la parola inglese (cito il prototesto),

Text of tradition, on the other hand, expresses explicit belonging to a movement, style, grouping or genre, as well as causal or typological relations with predecessors or successors.

il solo traducente italiano non bastava. Questo perché, come precedentemente sottolineato, «genere», nella lingua italiana, è una parola riccamente polisemica

Gè|ne|re
s.m.
1a FO insieme, raggruppamento concettuale di cose o individui che hanno caratteristiche fondamentali comuni; tipo, specie: non sono abituato a questo g. di cose, conoscere persone di ogni g., che g. di vita fai?; non mi piace questo g. di mobili, di abiti; scherzo di cattivo g., di cattivo gusto
2 TS zool., bot., biol., categoria sistematica superiore alla specie e inferiore alla famiglia: un g. comprendente due sole specie
3a CO forma di espressione, categoria in cui vengono tradizionalmente raggruppate opere artistiche con caratteristiche strutturali e contenutistiche simili: g. epico, narrativo; g. comico, tragico; g. strumentale, melodrammatico; g. poliziesco, horror
3b TS ret., ciascuno dei tre stili dell’oratoria classica, differenziato in base alla destinazione e allo scopo dell’orazione
4 TS ling., gramm., categoria grammaticale presente nelle lingue indoeuropee, semitiche e in molte altre famiglie linguistiche, in base a cui nomi, aggettivi, pronomi e alcuni numerali si distinguono in maschili e femminili (ad es. in italiano, francese, spagnolo) o maschili, femminili e neutri (ad es. in latino e tedesco): essa si manifesta attraverso l’opposizione di desinenze e attraverso i meccanismi dell’accordo e, a seconda delle lingue, può essere più o meno correlata col genere naturale di ciò che è designato dal vocabolo (abbr. g., gen.) | categoria grammaticale che in alcune lingue, come l’urdu, è riconoscibile anche nel verbo e che in italiano appare in forme analitiche del passato e del passivo
5 TS mus., una delle tre modalità della musica greca antica
6 CO spec. al pl., merce, prodotto, spec. alimentare: generi di prima necessità, di lusso, di importazione
7 TS mat., numero che esprime alcune proprietà analitiche e topologiche della curva algebrica (De Mauro: 2008)

e, in quel contesto, necessitava di un aggettivo per rendere il suo significato meno ambiguo. Ecco il perché della scelta dell’aggiunta dell’aggettivo «testuale», indispensabile, qui, per disambiguare l’attualizzazione.

Diverso è stato invece il caso del compound «album verse». Il problema non è stato tanto tradurre questa espressione, in quanto i due sostantivi, se presi singolarmente, sono molto semplici da tradurre. Il problema è stato, piuttosto, il loro accostamento. Nel prototesto i due termini li troviamo citati in questo modo:

Of course, the relations of cultural text and literary text are more complicated than that. Texts with prestige such as the Classics or the Bible function above all as cultural texts. On the other hand, cultural text can bring about the emergence of literary text, as can be witnessed in the case of salon literature or album verse.

In questo caso, a veicolarmi verso la traduzione più idonea dell’espressione sopra citata è stata la presenza, nello stesso passo, della locuzione «salon literature». Quest’ultima mi ha aiutato a focalizzarmi su un periodo ben preciso: tra Settecento e Ottocento. Allora ho intrapreso una ricerca sul portale di Google, nella speranza di trovare una minima spiegazione di cosa fosse un album verse. Ma niente mi ricollegava al significato della locuzione. La soluzione mi è stata, invece, fornita dal professor Torop in persona, contattato per email. Le sue parole sono state le seguenti:

Salonnaja literatura i al´bomnaja poezija javlenija dvorjanskoi kul´tury v Rossii. So vremjon Pushkina i Lermontova eti teksty voshli v literaturu kak vo vremja sentimentalizma dnevnik voshol v literaturu (do etogo byl bytovym kul´turnym
javlenijem). Al´bomnye stihi ochen´ chasto posvjasheny hozjaikam literaturnyh salonov itd. Eti stihi chitali gosti salona, no potom ih stali i pechatat´ v zbornikah avtorov .

Ovvero:

La letteratura da salotto e la poesia da album sono fenomeni della cultura nobiliare in Russia. Dai tempi di Puškin e Lermontov questi testi sono entrati nella letteratura come al tempo del sentimentalismo il diario era entrato nella letteratura (prima era un fenomeno della vita quotidiana). I versi da album molto spesso sono dedicati alla padrona di casa dei salotti letterari ecc. Questi versi li recitavano gli ospiti del salotto, ma poi si sono messi anche a pubblicarli nelle antologie degli autori.

Dunque, sulla base di questa esauriente spiegazione, ho optato per la seguente traduzione: poesia da album.

Il problema della scelta dei traducenti non è stato l’unico che ho dovuto affrontare. Come già precedentemente accennato, il prototesto presenta un alto uso di termini settoriali. Quando però il termine settoriale in questione è un neologismo, le decisioni traduttologiche da prendere sono diverse. In particolare, mi riferisco alle difficoltà incontrate con il termine «noosphere».
In Semiospherical understanding, la prima volta in cui viene menzionata la parola è nella citazione di Ivanov, assieme alla parola «semiosphere».

The task of semiotics is to describe the semiosphere without which the noosphere is inconceivable […] (Semiospherical understanding 2003: 1).

Per quanto la traduzione di «semiosphere» potesse essere chiara, così come era chiaro il concetto stesso di «semiosphere», quello che al momento risultava oscuro era il concetto di «noosphere» e, a questo punto, anche il suo traducente.
Il primo passo è stato quello di capire il significato della parola «noosphere» e, conseguentemente, cercare un traducente idoneo per quel concetto. Tra i lemmi di un dizionario monolingue britannico, la parola «noosphere» non era menzionata, così come non lo era tra i lemmi di un dizionario bilingue italiano-inglese. Fallita questa ricerca, il secondo passo è stato cercare il significato della parola nella Rete ma, nonostante l’aiuto degli operatori booleani, la ricerca non ha prodotto risultati soddisfacenti. Allora ho optato per la consultazione dell’enciclopedia libera Wikipedia, dove mi è stato possibile trovare il significato di «noosphere» (the “sphere of human thought” being derived from the Greek νους (“nous“) meaning “mind“) ma solo in lingua inglese. Nella lingua italiana, infatti, la parola inglese non aveva nessun traducente.
Più avanti, nel prototesto, la parola «noosphere» ricompare. Questa volta, però, ne viene fornita una spiegazione:

As noosphere is the future living environment of the humankind, created in mutual agreement and on rational principles, it follows from this definition that semiotics must assist mankind in understanding both history and future (Semiosherical understanding 2003: 12).

Sulla base di questa parafrasi, mi sono resa conto che la definizione di «noosphere» fornita da Wikipedia non poteva essere applicata al mio contesto e che, nonostante il dizionario di italiano non includesse tra i suoi lemmi la parola «noosfera», quest’ultima era il traducente più preciso per la parola inglese «noosphere». E così, ricalcando il neologismo dell’autore, anche nella mia versione del metatesto ho deciso di riproporre lo stesso neologismo.

1.5.1. La gestione delle citazioni

Tornando al concetto di «semiosfera», quel gigantesco macrosistema nel quale le singole culture interagiscono, arricchendosi reciprocamente, essa ha una forte influenza sulla genesi di qualsiasi enunciazione che facciamo, scritta o orale che sia. Essendo, infatti, ogni enunciazione inserita in un contesto (la semiosfera), più questo è arricchito dalla cultura altrui, più l’enunciazione può essere influenzata da quest’ultima. E lo stesso Lotman, autore e semiotico spesso citato da Torop, vedeva questo interagire, questo rapporto tra culture (la cultura propria e la cultura altrui) come una possibilità benefica, per la semiosfera stessa, di fecondarsi e quindi evolversi.
Partendo da questa dinamica proprio-altrui, le singole culture all’interno della semiosfera si sviluppano soprattutto grazie al confronto con l’altro. E allo stesso modo Torop ha sviluppato il suo percorso discorsivo grazie al confronto con i pensieri e le idee dei suoi contemporanei. Da qui la presenza, nel suo articolo, di numerose citazioni che nel corso del tempo hanno influenzato il suo pensiero. Esse, e il modo in cui sono state gestite, oltre a rivelare lo stile di Torop, sono in qualche modo la testimonianza degli studi fatti dall’autore nel campo della semiotica, il frutto delle consultazioni di scritti esistenti. Nel caso di Semiospherical understanding, la citazione guida il lettore nella comprensione del messaggio, ma guida anche l’autore nella stesura del suo stesso pensiero, lungi però dall’essere sterile e statica. In questo modo, il prototesto presenta tutte le caratteristiche per potersi considerare un saggio compilativo, ossia un intertesto.

L’«intertesto» è il testo che contiene una citazione, un rimando o un’allusione a un altro testo (Osimo 2005: 15).

Sulla base dei parametri di implicitezza-esplicitezza di un intertesto, oltre a essere un saggio compilativo in quanto prodotto della consultazione di opere già esistenti, il prototesto è un intertesto esplicito in quanto sia la citazione sia la sua fonte sono dichiarate. La costante presenza di delimitatori grafici, infatti, aiuta il lettore a comprendere che l’autore ha inserito una citazione; la presenza tra parentesi dell’autore della citazione stessa, d’altro canto, rende noto l’autore e il documento da cui è stata estrapolata la citazione. Il tutto per mantenere il lettore costantemente informato sul percorso argomentativo sviluppato dal professore stesso.
Un’ultima osservazione in merito alle citazioni riguarda la loro “provenienza”. Se la funzione della citazione nel nostro prototesto è prevalentemente quella di informare, o meglio, di arricchire l’informazione veicolata dal prototesto stesso o magari di giustificarla, individuarne la provenienza può aiutare ancora di più nella comprensione del messaggio. Analizzando gli autori citati da Torop, tutti studiosi di semiotica presso l’università di Tartu, si evince che le fonti delle citazioni fanno parte sia del patrimonio culturale dell’autore stesso sia della cultura emittente di quel periodo (gli anni Novanta) e, ancora una volta, non fanno altro che arricchire il prototesto.

1.5.2. L’abbondanza di connettori logici

Infine, un’ultima osservazione in merito all’uso dei «connettori logici», quella parte invariabile del discorso che unisce due unità sintattiche in un rapporto di coordinazione o subordinazione, in funzione della dominante del prototesto.
A testimoniare il fatto che il prototesto ha come funzione principale quella di veicolare un messaggio, un’informazione, Torop fa un uso direi quasi abbondante di connettori logici, in particolare di «congiunzioni coordinate conclusive». Queste “parole gancio”, come «hence», «thus» o «therefore», sono elementi grammaticali che svolgono la funzione di collegare due proposizioni, periodi o parti di un testo e, nel caso particolare delle conclusive, hanno l’obiettivo di unire tra loro due elementi di cui il secondo costituisce la logica conclusione del primo. Infatti, ogni qualvolta Torop usa, all’interno di un periodo, un connettore di questo tipo, lo fa perché vuole concludere il suo ragionamento, indirizzando il lettore verso la spiegazione più logica del concetto.
Ancora una volta, dunque, grazie all’uso di questi connettori, il prototesto risulta avere una maggiore chiarezza e coesione, oltre ad essere ben strutturato, testimonianza di uno stile lineare e preciso.

Riferimenti bibliografici

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LOTMAN, ÛRIJ, La Semiosfera, Venezia, Marsilio, 1985, 66, ISBN 88-317-4703-7
OSIMO, BRUNO, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2001, ISBN 88-203-2935-2.
PEZZINI, ISABELLA e SEDDA, FRANCISCO, Semiosfera, Cultural Studies, consultato nel mese di dicembre 2007, http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/semiosfera_b.html
TOROP, PEETER, La traduzione totale, (a cura di) B. Osimo, Rimini, Guaraldi, 2000, ISBN 88-8049-195-4
TYNÂNOV, ÛRIJ, Avanguardia e tradizione, traduzione di S. Leone, Dedalo, 1968, ISBN 88-2200-104-4, disponibile all’indirizzo http://books.google.com/books?id=pFVMNZkhS5UC&dq=isbn:8822001044&hl=it
VITACOLONNA, LUCIANO, Qualcosa di semiotica, Theorèin, Nozioni di semiotica, Maggio 2004, http://www.theorein.it/letteratura/letita/vitacolonna/articoli/articolo%2002%20qualcosa%20di%20semiotica.html

2. Traduzione con testo a fronte

Semiospherical Understanding: Textuality

The relevance of semiotics is increasing both in science and in culture. On the one hand, semiotics offers methodological support to the sciences the development of which has been bound up with interdisciplinary dialogue with other sciences and which are in need of methodological innovation in order to locate their shifted borders. On the other hand, culture and nature as the environment of human life have also changed, and this, in turn, requires a new understanding of how to comprehend and explain this changed environment or, in other words, how to define epistemologically the object of inquiry. Thus, the disciplinary structure of sciences has changed, interdisciplinarity has given rise to new types of scientific dialogue in the form of multi-, cross- or transdisciplinarity, but at the same time also objects of sciences have changed. Especially in the humanities and in the social sciences, due to the (technological) development of media environment and due to the creolization and hybridisation of languages of culture, objects of research have changed so rapidly that semiotics has become both a methodological as well as an applicational resource for securing sustainable development of these sciences. Traditional science and traditional culture have arrived at a stage where fragmented understanding of culture, society and nature has reached a crisis of holism. Restoration of holistic approach presupposes that the methodological principles of applicational analysis of culture, of the sciences that investigate culture, and the principles of cultural autocommunication and identity education are fruitfully combined into a unified whole. Compared to other sciences, semiotics has great advantages in creating such symbiosis.
One of the founders of the Tartu-Moscow School of Semiotics, Vyatscheslav Vs. Ivanov, has concluded his study “The outlines of the prehistory and history of semiotics” with an epilogue where he emphasizes both the scientific as well as the social value of semiotics and defines the main task of semiotics: “The task of semiotics is to describe the semiosphere without which the noosphere is inconceivable. Semiotics has to help us in orienting in history. The joint effort of all those who have been active in this science or the whole cycle of sciences must contribute to the ultimate future establishment of semiotics” (Ivanov 1998: 792).

La comprensione nella semiosfera: testualità

L’importanza della semiotica è in costante aumento sia nel campo della scienza che in quello della cultura. Da un lato, la semiotica dà un sostegno metodologico alle scienze, il cui sviluppo è stato legato al dialogo interdisciplinare con altre scienze, che necessitano di un’innovazione metodologica al fine di individuare i loro nuovi confini. Dall’altro, anche cultura e natura, in quanto ambienti della vita umana, sono cambiate e questo, a sua volta, comporta capire nuovamente come comprendere e spiegare questo cambiamento “ambientale” o, in altre parole, come definire epistemologicamente l’oggetto di indagine. Perciò, la struttura disciplinare delle scienze è cambiata, l’interdisciplinarità ha dato luogo a nuovi tipi di dialogo scientifico sotto forma di multidisciplinarità, disciplinarità incrociata e transdisciplinarità, ma, allo stesso tempo, anche gli oggetti delle singole scienze sono cambiati. Soprattutto nelle scienze umanistiche e sociali, in séguito allo sviluppo (tecnologico) dell’ambiente mediatico e alla creolizzazione e ibridazione dei linguaggi della cultura, gli oggetti di ricerca sono cambiati così rapidamente che la semiotica non solo è diventata una risorsa metodologica, ma è anche una risorsa applicativa per garantire lo sviluppo sostenibile di queste scienze. La scienza tradizionale e la cultura tradizionale sono arrivate al punto in cui la concezione frammentata della cultura, della società e della natura ha messo in crisi la visione olistica. Il ripristino dell’approccio olistico presuppone che i princìpi metodologici dell’analisi applicativa della cultura, delle scienze che esaminano la cultura, e i princìpi dell’autocomunicazione culturale e della formazione d’identità siano proficuamente combinati in un insieme unitario. Rispetto ad altre scienze, la semiotica ha grandi vantaggi nel creare tale simbiosi.
Uno dei fondatori della scuola semiotica di Tartu-Mosca, Vâčeslav V. Ivanov, ha concluso il suo studio I lineamenti della storia e della preistoria della semiotica con un epilogo dove metteva in evidenza sia il valore scientifico che quello sociale della semiotica, definendo la funzione principale sella stessa: «La principale funzione della semiotica è quella di descrivere la semiosfera, senza la quale sarebbe inconcepibile la noosfera. La semiotica deve aiutarci ad orientarci nella storia. Lo sforzo comune di tutti quelli che si sono attivati per questa disciplina o per l’intero insieme di discipline deve contribuire all’istituzione definitiva della semiotica» (Ivanov 1998: 792).
The semiospheric approach to semiotics and especially to semiotics of culture entails the need of juxtaposing several terminological fields. Among the most important, the fields of textuality, chronotopicality, and multimodality or multimediality should be listed.
The field of textuality is related to the development of semiotics of culture, especially in view of the works of Y. Lotman; the field of chronotopicality originated in the works of Mikhail Bakhtin, and the field of multimodality (multimediality) is connected at its roots with the works of Roman Jakobson. It is the interweaving of these three terminological and conceptual fields that has brought about both methodological and metalinguistic interference, as a result of which we now have to speak about creolization and hybridisation of metalanguage. But the same processes take place also inside these fields and therefore it would be expedient to investigate the three fields first of all individually. The present paper is devoted to the first one of these, the field of textuality.
Textuality in this paper denotes a general principle with the help of which it is possible to observe and to interpret different aspects of the workings of culture. The concept of textuality is meant to bridge two poles between which the main problems of describing and explaining cultures are located. One pole is marked by the opposition statics – dynamics, the other by the opposition part – whole. These two pairs of concepts are in fact closely related and their separation into two poles is necessary only for observing temporal dynamics. Through the concept of textuality, also the productivity of cultural-semiotic way of reasoning and the ability of semiotics of culture to function as a foundation science for other disciplines studying culture will become apparent.
The concept of textuality merges several questions that are methodologically relevant for all the disciplines investigating culture. First of all, there is the question of models that are used to describe culture. There does not exist a general science of culture as a separate discipline, and therefore a general study of culture must take into account the different notions that different disciplines have of this universal research object, and to look for correlations between different models of culture.
Models of culture are methodologically designed and metalinguistically formulated by the disciplines that have created them, and therefore it is vital that

L’approccio semiosferico alla semiotica e, soprattutto, alla semiotica della cultura, implica il bisogno di giustapporre diversi campi terminologici. Tra i più importanti, vanno citati i campi della testualità, della cronotopicità e della multimodalità o multimedialità.
Il campo della testualità è legato allo sviluppo della semiotica della cultura, soprattutto in considerazione delle opere di Û. Lotman; il campo della cronotopicità è nato dalle opere di Mihail Bahtin; mentre le radici del campo della multimodalità (multimedialità) sono legate alle opere di Roman Jakobson. È l’intrecciarsi di questi tre campi terminologici e concettuali ad aver determinato un’interferenza metodologica e metalinguistica a un tempo. Come risultato di ciò, siamo costretti a parlare di creolizzazione e ibridazione del metalinguaggio. Ma gli stessi processi si verificano anche all’interno di questi campi; sarebbe, pertanto, opportuno analizzare i tre campi prima di tutto separatamente. Questo articolo è completamente dedicato al primo di questi campi, la testualità.
In questo articolo, la testualità rappresenta un principio generale con l’aiuto del quale è possibile osservare e interpretare i diversi aspetti dei meccanismi della cultura. Il concetto di testualità vuole collegare due poli, in mezzo ai quali sono localizzati i principali problemi di descrizione e spiegazione delle culture. Un polo è caratterizzato dall’opposizione statico-dinamico, l’altro dall’opposizione parte-tutto. In realtà, queste due coppie di concetti sono strettamente collegate e la loro separazione in due poli è necessaria solo per l’osservazione delle dinamiche temporali. Attraverso il concetto di «testualità», diventeranno evidenti anche la produttività del ragionamento semiotico-culturale e la capacità della semiotica della cultura di funzionare come scienza fondatrice delle altre discipline che studiano la cultura.
Il concetto di «testualità» raggruppa diversi principi metodologicamente importanti per tutte le discipline che studiano la cultura. Prima di tutto, emerge la questione dei modelli usati per descrivere la cultura. Non esiste una scienza generale della cultura come disciplina a sé stante; pertanto, uno studio generale della cultura deve prendere in considerazione le diverse concezioni che le diverse discipline hanno di questo oggetto di ricerca universale e deve cercare una relazione tra i vari modelli della cultura.
I modelli della cultura sono progettati metodologicamente e formulati metalinguisticamente dalle discipline che li hanno creati ed è perciò fondamentale che
a general treatment of culture identifies the autonomy and blending of description languages and takes into account the metalinguistic translation process. Besides the characteristics of the description language, deriving from the specificity of a particular cultural model, also the existence of prestige languages in culture and the tendency of several research areas to translate themselves into the prestige language should be taken into account. Therefore, in some cases there is no direct correspondence between the object described, the describing discipline and the description language used. This brings us to the issue of relations that a metalanguage has with the object described and with other metalanguages or a prestige language.
Between culture as a complex research object and culture as a functioning system, or, methodologically speaking, between description languages (metalanguages) of culture and (object language(s) of) the process of culture there is a linguistically heterogeneous sphere of culture’s self-description. In the self-description of culture, meta- and object levels are not usually easily discernible, as self-description is a dynamic autocommunicative process that is difficult to observe due to its mutability. An answer to the question of the observability of culture’s self-description can be sought, through the concept of textuality, foremost from the aspect of the relations between communication and metacommunication.
Another issue that arises in connection with a dynamic research object is the definition of research- or articulation units. Textuality combines in itself text as a well-defined artefact and textualization as an abstraction (presentation or definition as text). In culture, we can pose in principle the same questions both to a concrete and to an abstract text, although an abstract text is only an operational means for defining, with the help of textualization, a certain phenomenon in the interests of a holistic and systemic analysis. The practice of textualization in turn helps us to understand the necessity of distinguishing between articulation emerging from the textual material itself and articulation ensuing from textuality or textualization — the former provides for comparability between texts made from the same material, the latter makes comparable all textualized phenomena irrespective of their material.

una trattazione generale della cultura identifichi l’autonomia e la fusione dei linguaggi descrittivi, oltre a prendere in considerazione il processo di traduzione metalinguistica. Oltre alle caratteristiche dei linguaggi descrittivi, che derivano dalla specificità di un dato modello culturale, vanno prese in considerazione anche la presenza dei linguaggi di prestigio nella cultura e la tendenza di diverse aree di ricerca a tradursi in linguaggi di prestigio. Per questo, in alcuni casi, non c’è una corrispondenza diretta tra l’oggetto descritto, la disciplina che descrive e il linguaggio descrittivo usato. E ciò ci conduce alle relazioni che un metalinguaggio ha con l’oggetto descritto e con altri metalinguaggi o linguaggi di prestigio.
Tra la cultura come oggetto di ricerca complesso e la cultura come sistema di funzionamento o, metodologicamente parlando, tra i linguaggi descrittivi (metalinguaggi) della cultura e il (linguaggio(i) oggetto del) processo della cultura c’è una sfera dell’autodescrizione della cultura linguisticamente eterogenea. Nell’autodescrizione della cultura, il livello del metalinguaggio e quello del linguaggio oggetto di solito non sono facilmente distinguibili, dal momento che l’autodescrizione è un processo autocomunicativo dinamico difficile da osservare a causa della sua mutevolezza. Una risposta al quesito dell’osservabilità dell’autodescrizione della cultura può essere ricercata, mediante il concetto di «testualità», anzitutto nell’aspetto delle relazioni tra comunicazione e metacomunicazione.
Un altro problema che sorge in relazione all’oggetto di ricerca dinamico è la definizione delle unità di ricerca o articolazione. La testualità combina in sé il testo come manufatto ben definito e la testualizzazione come concetto astratto (presentazione o definizione come testo). Nella cultura, possiamo in teoria porci le stesse domande sia per un testo concreto sia per uno astratto, sebbene un testo astratto sia solo un mezzo operativo per definire, con l’aiuto della testualizzazione, un certo fenomeno, nell’interesse di un’analisi olistica e sistemica. A sua volta, la pratica della testualizzazione ci aiuta a comprendere la necessità di distinguere tra l’articolazione che emerge dal materiale testuale in sé e l’articolazione che deriva dalla testualità o dalla testualizzazione – la prima tiene conto della comparabilità tra i testi dello stesso materiale; la seconda rende tutti i fenomeni testualizzati paragonabili, indipendentemente dal loro materiale.

The question of textuality is also a question of understanding the ontology of text. Both the ontology of text and the stance toward it have gradually altered in relation to many changes in culture. First, there can be observed a decrease in logocentrism and increase in the role of visual and audiovisual perception, and consequently it has to be acknowledged that there has been a shift in the hierarchy of perception channels in culture. An early and intensive visual experience leaves its mark also on traditional spheres of culture, and therefore, with each successive generation, there is reason to speak about changed attitudes with respect to literature, theatre, cinema or art, and, accordingly, also about changes in the relationships between those areas in culture. Secondly, processes of culture are so intensive and so diffuse that perceptual processes have become complementary: the consumption of metatexts can precede the consumption of the texts themselves, or, in other words, the boundary between the properties of being primary or secondary is not always visible nor important. Another important feature is the perception of a single event in communities of different types — in intertextual, interdiscursive or intermedial spaces. This, in turn, brings about transformation in whole-part relationships: the diffuse existence of a whole causes the autonomy of parts, and on the principle of pars pro toto, the whole may be represented by very different parts, while the relationship of parts with the whole can be implicit, discernible only to an expert. Hence, also the expert’s mission in culture has changed, since the observing of a diffused whole and the uniting of diffused parts into a whole are becoming an important activity securing the coherence of culture, observing, diagnosing and making prognoses for the functioning of culture as a whole. The emergence of new processes in culture has created a double identity for texts: on the one hand, every text is a result of individual creation, while on the other hand, a text exists in culture as a diffuse mental whole and subsists in this form in the collective cultural memory. A mental text is an abstract whole the structure of which depends on the amount and types of textual transformations (including transformations of text’s parts) in a given culture or, more narrowly, in a given cultural situation. Following from the principle of textuality, investigation of a text means juxtaposing both individual and cultural ontologies, juxtaposing both in time and in space.

La questione della testualità è anche una questione di comprensione dell’ontologia del testo. Sia l’ontologia del testo sia l’atteggiamento nei suoi confronti si sono progressivamente alterati in relazione ai diversi cambiamenti avvenuti nella cultura. In primo luogo, è possibile osservare una diminuzione del logocentrismo e un aumento del ruolo della percezione visiva e audiovisiva, e bisogna poi ammettere che c’è stato un cambiamento nella gerarchia dei canali di percezione nella cultura. Un’esperienza visiva intensiva lascia il segno persino nelle sfere tradizionali della cultura e, quindi, per ogni generazione successiva, c’è motivo di parlare di cambio d’atteggiamento in merito alla letteratura, al teatro, al cinema o all’arte e, di conseguenza, di cambi nelle relazioni tra quelle aree della cultura. In secondo luogo, i processi della cultura sono così intensivi e diffusi che i processi percettivi sono diventati complementari: il consumo dei metatesti può precedere il consumo dei testi stessi o, in altre parole, il confine tra le proprietà dell’essere primario o secondario non è sempre visibile, tanto meno importante. Un’altra caratteristica rilevante è la percezione di un singolo evento nelle comunità di diverso tipo – negli spazi intertestuali, interdiscorsivi o intermediali. Questo, a sua volta, determina la trasformazione delle relazioni tra il tutto e le parti: l’esistenza diffusa di un tutto causa l’autonomia delle parti e, nel principio della pars pro toto, il tutto potrebbe essere rappresentato da parti molto differenti, mentre la relazione tra le parti con il tutto può essere implicita, percepibile solo dagli esperti. Pertanto, anche la missione degli esperti nel campo della cultura è cambiata, dal momento che l’osservazione di un tutto diffuso e l’unione delle parti diffuse in un tutto stanno diventando un’attività importante per assicurare coerenza alla cultura, osservare, diagnosticare e pronosticare il funzionamento della cultura come un tutto. L’emergere dei nuovi processi culturali ha generato una doppia identità dei testi: da un lato, ogni testo è il risultato della creazione individuale, mentre, dall’altro, un testo esiste nella cultura come un tutto mentale e diffuso e sussiste in questa forma nella memoria culturale collettiva. Un testo mentale è un tutto astratto la cui struttura dipende dalla quantità e dai tipi di trasformazioni testuali (comprese le trasformazioni delle parti dei testi) in una data cultura o, più precisamente, in una data situazione culturale. Dal principio di «testualità» discende che analizzare un testo significa giustapporre sia le ontologie individuali che quelle culturali, una giustapposizione temporale e spaziale a un tempo.

Synchrony and diachrony as statics and dynamics
Polemics with F. de Saussure has influenced the development of ideas of several disciplinary trends, including Russian formalism, Prague Linguistic Circle and Danish glossematics. F. de Saussure’s “Cours de linguistique générale” contrasts synchrony and diachrony, denying at the same time the possibility of panchronic analysis of concrete linguistic facts. The reason for this lies in the divergent nature of facts belonging to the diachronic order and to the synchronic order. It is characteristic that F. de Saussure deliberately avoids the term “historical linguistics” and he prefers, when contrasting the two linguistics, to use the term “evolutionary linguistics” to denote the branch investigating the succession of linguistic states, and the term “static linguistics” to denote the branch investigating the linguistic states themselves. In order to secure greater clarity in this contrast, F. de Saussure started calling anything related to statics, “synchrony”, and anything related to evolution, “diachrony” (Saussure 1977: 114).
One of the leading figures of Russian Formalism, in many ways yet undiscovered Y. Tynianov, wrote in his 1924 paper “Literary fact”: “Literary fact is [internally] heterogeneous, and in this sense literature is an incessantly evolutioning order” (Tynianov 1977: 270). A few years later in the paper “On literary evolution” (1927) he specifies that the study of literary history needs to address also the living contemporary literature. As Tynianov claims, historical studies of literature were until then occupied either with the genesis of literary phenomena or with the evolution of literary order (Tynianov 1977: 271). The question of literary order or system is for Tynianov inseparable from the question of function: “A literary system is first of all a system of the functions of the literary order which are in continual interrelationship with other orders. Systems change in their composition, but the differentiation of human activities remains. The evolution of literature, as of other cultural system, does not coincide either in tempo or in character with the systems with which it is interrelated. This is owing to the specificity of the material with which it is concerned. The evolution of the structural function occurs rapidly; the evolution of the literary function occurs over epochs; and the evolution of the functions of a whole literary system in relation to neighbouring systems occurs over centuries”(Tynianov 1977:277). In Tynianov’s system, we can observe the relatedness

Sincronia e diacronia: statica e dinamica
La polemica nei confronti di F. de Saussure ha influenzato lo sviluppo delle idee di diverse tendenze disciplinari, compreso il formalismo russo, il Circolo linguistico di Praga e la glossematica danese. Il Cours de linguistique générale di F. de Saussure mette a confronto la sincronia con la diacronia, negando allo stesso tempo la possibilità di un’analisi pancronica dei fatti linguistici concreti. La ragione di ciò sta nella natura contrastante dei fatti appartenenti all’ordine diacronico e a quello sincronico. È tipico di F. de Saussure evitare intenzionalmente la denominazione «linguistica storica» e preferire, quando si mettono a confronto le due linguistiche, l’uso del nome «linguistica evolutiva» per denotare la branca che analizza la successione degli stati linguistici e del nome «linguistica statica» per denotare la branca che analizza gli stati stessi della linguistica. Per rendere le cose più chiare in questo contrasto, F. de Saussure ha cominciato a chiamare ogni cosa che si riferisse alla statica «sincronico» e ogni cosa si riferisse al movimento «diacronico» (Saussure 1977: 114).
Una delle figure principali del formalismo russo, per molti aspetti ancora sconosciuto, Û. Tynânov, nel suo articolo Il fatto letterario del 1924 ha scritto: «La realtà letteraria è [al suo interno] eterogenea e, in questo senso, la letteratura è un ordine in continua evoluzione» (Tynânov 1977: 270). Pochi anni più tardi, nell’articolo Sulla evoluzione letteraria (1927) ha specificato che lo studio della storia letteraria ha bisogno di dedicarsi anche alla letteratura contemporanea. Come afferma Tynânov, gli studi storici della letteratura sino ad allora si occupavano o della genesi dei fenomeni letterari o dell’evoluzione dell’ordine letterario (Tynânov 1977: 271). Per Tynânov la questione dell’ordine o del sistema letterario è inseparabile da quella della funzione: «Un sistema letterario è prima di tutto un sistema di funzioni dell’ordine letterario, funzioni in constante interrelazione le une con le altre. I sistemi cambiano nella loro composizione, ma la differenziazione delle attività umane persiste. L’evoluzione della letteratura, come degli altri sistemi culturali, non coincide con i sistemi con cui è correlata né per ritmo né per carattere. Ciò è dovuto alla specificità del materiale di cui si occupa. L’evoluzione della funzione strutturale si verifica rapidamente; l’evoluzione della funzione letteraria si verifica nel corso di epoche; e l’evoluzione delle funzioni dell’intero sistema letterario in relazione ai sistemi vicini si verifica nell’arco di secoli» (Tynânov 1977: 277). Nel sistema di Tynânov, è possibile osservare la relazione

of literary order to other orders — with the order of everyday life, the order of culture, social order. Everyday life is correlated with literary order in its verbal aspect, and thus, literature has a verbal function in relation to everyday life. An author’s attitude towards the elements of his text expresses structural function, and the same text as a literary work has literary function in its relations to the literary order. The return influence of literature on everyday life, again, expresses social function. The study of literary evolution presupposes the investigation of connections first of all between the closest neighbouring orders or systems, and the logical path leads from the structural to the literary function, from the literary to the verbal function. This follows from the position that “evolution is the change in interrelationships between the elements of a system – between functions and formal elements” (Tynianov 1977:281; see also Torop 1995-1996). Hence, evolution is understood as the alternation of systems (at times, alternation is slow and continuous; at times, abrupt) where formal elements do not disappear but gain new functions. It is necessary to understand that a system is not a reciprocal influence of all the elements: some elements have greater import (dominant) and deform others, and it is through the dominant that a work gains its literary importance (Tynianov 1977: 277). The interpretation of the structural function coincides to a large extent with the interpretation of the dominant, since the relations between the elements of a work can be described in at least two ways. Every element of a work can be juxtaposed with other similar elements in other works-systems, even in other orders — this is called “synfunction” by Tynianov. At the same time, each element is related to other elements of its own system, which is called “auto-function” by Tynianov (1977: 272). Thus, each element has at least two functional parameters.
Better known in the modern reception of Tynianov’s works is the opposition genesis and tradition, originally presented in his earlier article “Tyutchev and Heine” (1922). Genesis of a literary phenomenon belongs to the sphere of accidental transferences from a language into another language, from a literature into another literature, while tradition refers to regularities taking place within one particular national literature (Tynianov 1977: 29). Thus, also genesis and tradition constitute two parameters of one phenomenon, and these two parameters need to be juxtaposed in order to

dell’ordine letterario con gli altri ordini – con l’ordine della vita di tutti i giorni, della cultura, con l’ordine sociale. La vita di tutti i giorni, nei suoi aspetti verbali, è collegata all’ordine letterario e, perciò, la letteratura ha una funzione verbale in relazione alla vita di tutti di giorni. L’atteggiamento di un autore verso gli elementi del testo esprime una funzione strutturale, e lo stesso testo come opera letteraria ha una funzione letteraria verso l’ordine letterario. E ancora: l’influenza di ritorno della letteratura sulla vita di tutti i giorni esprime una funzione sociale. Lo studio dell’evoluzione letteraria presuppone di indagare le connessioni prima di tutto tra gli ordini o i sistemi più vicini, e il sentiero logico porta dalla funzione strutturale a quella letteraria, dalla funzione letteraria a quella verbale. Da ciò discende la posizione secondo la quale «l’evoluzione è il cambiamento delle interrelazioni tra gli elementi del sistema – tra le funzioni e gli elementi formali» (Tynânov 1977: 281; vedi anche Torop 1995-1996). Pertanto, per «evoluzione» s’intende l’alternanza di sistemi (a volte l’alternanza è lenta e continua; a volte è brusca) dove gli elementi formali non scompaiono ma assumono nuove funzioni. È necessario comprendere che un sistema non è un’influenza reciproca di tutti gli elementi: alcuni elementi hanno un’importanza maggiore (la dominante) e deformano gli altri, ed è attraverso la dominante che un’opera acquisisce la sua importanza letteraria (Tynânov 1977: 277). L’interpretazione della funzione strutturale coincide in larga misura con l’interpretazione della dominante, dal momento che le relazioni tra gli elementi di un’opera possono essere descritte in almeno due modi. Ogni elemento di un’opera può essere giustapposto con altri elementi simili in altri sistemi di opere, persino in altri ordini – questo è ciò che Tynânov chiama «sin-funzione». Allo stesso tempo, ogni elemento è relazionato agli altri elementi del suo stesso sistema, ciò che Tynânov chiama «auto-funzione» (Tynânov 1977: 272). Pertanto, ogni elemento ha almeno due parametri funzionali.
Meglio conosciuta nella ricezione moderna delle opere di Tynânov è l’opposizione «genesi» e «tradizione», originariamente presentata nel suo primo articolo Tûtčev e Heine (1922). La genesi di un fenomeno letterario appartiene alla sfera dei trasferimenti casuali da una lingua a un’altra, da una letteratura a un’altra, mentre la tradizione si riferisce alle regolarità che hanno luogo all’interno di una data letteratura nazionale (Tynânov 1977: 29). Pertanto, anche la genesi e la tradizione costituiscono due parametri di uno stesso fenomeno, ed è necessario giustapporre questi parametri per
get a maximally multifaceted picture of reality. The distinction between genesis and tradition makes it possible, in the case of one and the same text, to speak about TEXT OF GENESIS and TEXT OF TRADITION. Text of genesis is an implicit system reflecting the subjectivity and the fortuitous nature of the creative process, a system that a researcher can reconstruct as unique. Text of tradition, on the other hand, expresses explicit belonging to a movement, style, grouping or genre, as well as causal or typological relations with predecessors or successors. A text exhibiting explicit characteristics of classicism or romanticism is certainly a text of tradition, but at the same time it does not lose its uniqueness, which remains present in the implicit authorial poetics and in which text of genesis can be discerned. Whether it is text of tradition, text of genesis or their symbiosis — what is searched for in a literary text depends on the epoch and on the reader.
The movement of Russian Formalism toward Prague Linguistic Circle is marked by a programmatic article “Problems of investigating literature and language” (1928), written jointly by Y. Tynianov and R. Jakobson. This short research program reveals already a direct polemics with F. de Saussure. The authors object to the opposition of synchrony and diachrony on the grounds that in reality these two cannot be studied in isolation: “History of a system is in turn a system. Pure synchronism now proves to be an illusion: every synchronic system has its past and its future as inseparable structural elements of the system…[…] The opposition between synchrony and diachrony was an opposition between the concept of system and the concept of evolution; thus it loses its importance in principle as soon as we recognize that every system necessarily exists as an evolution, whereas, on the other hand, evolution is inescapably of a systemic nature” (Tynianov 1977:282). Therefore, what is of foremost importance in this approach is the understanding that synchrony incorporates different time periods, that each cross-segment of synchrony may be related to most different epochs: “The concept of a synchronic literary system does not coincide with the naively envisaged concept of a chronological epoch, since the former embraces not only works of art which are close to each other in time but also works which are drawn into the orbit of the system from foreign literatures or previous epochs. An indifferent cataloguing of coexisting phenomena is not sufficient; what is important is

avere un quadro il più poliedrico possibile della realtà. La distinzione tra genesi e tradizione ci permette, nel caso di un testo, di parlare di «testo della genesi» e di «testo della tradizione». Il testo della genesi è un sistema implicito che riflette la soggettività e la natura fortuita del processo creativo, un sistema che un ricercatore può ricostruire in quanto unico. Il testo della tradizione, d’altro canto, esprime l’appartenenza esplicita a un movimento, uno stile, un’organizzazione o un genere testuale, così come le relazioni fortuite o tipologiche con i predecessori o successori. Un testo che mostra le caratteristiche esplicite del classicismo o del romanticismo è senza dubbio un testo della tradizione, ma allo stesso tempo non perde la sua unicità, che rimane presente nella poetica implicita dell’autore e dalla quale si può discernere il testo della genesi. Che sia il testo della tradizione, il testo della genesi o la loro simbiosi, ciò che si ricerca in un testo letterario dipende dall’epoca e dal lettore.
Rispetto al Circolo linguistico di Praga, il formalismo russo è caratterizzato da un articolo programmatico, I problemi di studio della letteratura e del linguaggio (1928), scritto in comune da Û. Tynânov e R. Jakobson. Questo breve programma di ricerca rivela già una polemica diretta contro F. de Saussure. Gli autori si oppongono alla contrapposizione sincronia-diacronia ritenendo che in realtà i due concetti non possano essere studiati isolatamente: «La storia di un sistema è a sua volta un sistema. La pura sincronia dimostra ora di essere un’illusione: ogni sistema sincronico ha il suo passato e il suo futuro, inseparabili elementi strutturali del sistema […] L’opposizione tra sincronia e diacronia era un’opposizione tra il concetto di sistema e quello di evoluzione; pertanto, in linea di principio, perde la sua importanza non appena si riconosce che ogni sistema esiste necessariamente come un’evoluzione, mentre, dall’altro lato, l’evoluzione è inevitabilmente di natura sistemica» (Tynânov 1977: 282). Pertanto, la cosa più importante in questo approccio è comprendere che la sincronia incorpora diverse epoche, che ogni segmento incrociato della sincronia può essere collegato alle epoche più diverse: «Il concetto di un sistema letterario sincronico non coincide con il concetto semplicemente immaginato di epoca cronologica, dal momento che il primo comprende non solo opere d’arte vicine nel tempo ma anche opere attratte nell’orbita del sistema dalle letterature straniere di epoche precedenti. Una catalogazione indifferente dei fenomeni coesistenti non è sufficiente; ciò che ha rilievo è
their hierarchical significance for the given epoch” (Tynianov 1977:283). On the other hand, it is emphasized that the identification of immanent regularities of literary history should be inseparably connected with the identification of the ways in which literary order and other historical orders (systems) relate to each other. Relatedness as a system of systems has its own structural laws that need to be identified. The authors caution us against isolated study: “It is methodologically detrimental to investigate correlation of systems without taking into account immanent laws of each individual system” (Tynianov 1977: 283). In the program of Y. Tynianov and R. Jakobson, it is possible to foresee the modern juxtaposition of TEXT OF HISTORY and TEXT OF CULTURE as parameters of a single text.
In linguistics, the same trend is continued during the 1930-1940ies by the Danish glossematician L. Hjelmslev. He starts out with an observation that humanities have neglected their most important task — to establish the investigation of social phenomena as a science. The description of social phenomena must choose between two possibilities.
The first possibility is poetic description; the second possibility lies in the combination of poetic and scientific treatment as two coordinate forms of description. The choice between the two possibilities should proceed from an answer to the question whether a process has an underlying system: “A priori it would seem to be a generally valid thesis that for every process [including historical processes] there is a corresponding system, by which the process can be analysed and described by means of a limited number of premisses. It must be assumed that any process can be analysed into a limited number of elements recurring in various combinations. Then, on the basis of this analysis, it should be possible to order these elements into classes according to their possibilities of combination” (Hjelmslev 1963: 9). In L. Hjelmslev’s view, it should be feasible to calculate the number of all possible combinations, and this would yield a much more objective description: “A history so established should rise above the level of mere primitive description to that of a systematic, exact, and generalizing science, in the theory of which all events (possible combinations of elements) are foreseen” (Hjelmslev 1963: 9). L Hjelmslev juxtaposes process as a relational (both-and function) hierarchy and system as a correlational (either-or function) hierarchy,

la loro importanza gerarchica per quella data epoca» (Tynânov 1977: 283). D’altro canto, si sottolinea che l’identificazione di regolarità immanenti della storia letteraria dovrebbe essere collegata in modo inseparabile all’identificazione dei modi in cui l’ordine letterario e gli altri ordini (sistemi) storici si relazionano gli uni con gli altri. La connessione in un sistema di sistemi ha le sue regole strutturali che è necessario identificare. Gli autori ci mettono in guardia contro uno studio isolato: «È metodologicamente dannoso analizzare la correlazione di sistemi senza prendere in considerazione le regole immanenti di ogni singolo sistema» (Tynânov 1977: 283). Nel programma di Û. Tynânov e R. Jakobson è possibile prevedere la giustapposizione moderna tra «testo della storia» e «testo della cultura» come parametri di un singolo testo.
Nella linguistica, la stessa tendenza è stata portata avanti nel corso degli anni Trenta e Quaranta dal glossematico danese L. Hjelmslev. Egli parte dall’osservazione secondo la quale le discipline umanistiche hanno trascurato il loro compito più importante: fare dell’investigazione dei fenomeni sociali una scienza. La descrizione dei fenomeni sociali deve scegliere tra due possibilità. La prima riguarda la descrizione poetica; la seconda consiste nella combinazione tra la trattazione poetica e quella scientifica come due forme coordinate di descrizione. La scelta tra le due possibilità dovrebbe procedere da una risposta alla domanda: «Un processo ha un sistema soggiacente?»: «A priori sembrerebbe una tesi valida a livello generale il fatto che per ogni processo [compresi i processi storici] ci sia un sistema corrispondente, attraverso il quale il processo può essere analizzato e descritto mediante un numero limitato di premesse. Bisogna supporre che ogni processo può essere analizzato in un numero limitato di elementi che ricorrono in varie combinazioni. Allora, sulla base di questa analisi, potrebbe essere possibile ordinare questi elementi in classi in base alle loro possibili combinazioni» (Hjelmslev 1963: 9). Nell’ottica di Hjelmslev, il numero di tutte le combinazioni possibili dovrebbe essere calcolabile, e ciò darebbe luogo ad una descrizione molto più oggettiva: «una storia così stabilita potrebbe superare il livello di una descrizione puramente primitiva fino a diventare una scienza sistematica, esatta e generalizzante, nella cui teoria sono previsti tutti gli eventi (combinazioni possibili di elementi)» (Hjelmslev 1963: 9). L. Hjelmslev giustappone il processo come gerarchia relazionale (funzione both-and) e il sistema come gerarchia correlazionale (funzione either-or),
associating these terms also with text and language, respectively. What is noteworthy here is not the association of this opposition with the treatment of paradigmatics and syntagmatics (especially in the works of R. Jakobson), but L. Hjelmslev’s aim to create separate metalanguages for investigating system and process. Thus, a process would be investigated in one metalanguage and the system underlying this process would be investigated in another metalanguage, although the two metalanguages would be correlated with each other. This is exactly the issue that is encountered by researchers who attempt to analyse e.g. a literary work as simultaneously a historical phenomenon and as a contemporary with a particular epoch. In such case, metalinguistic bilingualism would help to avoid mixed language. To extend this logic further, L. Hjelmslev’s innovative insight could be marked with the terminological pair TEXT OF SYSTEM and TEXT OF PROCESS, where text as system and text as process would manifest only as special cases of this opposition. Although to a different degree, the dimension of history would be present in both descriptions, similarly to the case of Y. Tynianov’s concepts of genesis and tradition.
Closer to the present time, among the manifestations of the same trend of thinking the New Historicist approach should be mentioned first, in whose vocabulary “historical context” has been substituted with “cultural system” and where relations between text and culture are seen as inherently intertextual, with intertextuality taking place between two types of text, text of literature and text of culture (see White 1989: 294). Any literary event is therefore a diachronic text of the autonomous history of literature and a synchronic text of the cultural system (White 1989: 301).
An example of the further development of the same line of thinking is provided by A. Assmann’s concept of cultural text. As a subsystem of culture, literature itself is also a cultural text; however, one and the same text has different properties as a literary text and as a cultural text. From the aspect of the relationship of identity, a literary text is a means of individual communication, while for a cultural text, a reader is foremost a representative of a group or a community. From the viewpoint of reception, between a receiver and a literary text there is an aesthetic distance, while in the case of a cultural text, there is an insistence on truth. From the aspect

associando questi termini, rispettivamente, anche al testo e al linguaggio. Ciò che qui è degno di nota non è l’associazione di questa opposizione con la trattazione della paradigmatica e della sintagmatica (soprattutto nelle opere di R. Jakobson), ma l’obiettivo di L. Hjelmsev di creare metalinguaggi separati per analizzare il sistema e il processo. Quindi, un processo potrebbe essere analizzato in un metalinguaggio e il sistema che sta alla base di questo processo in un altro metalinguaggio, sebbene i due metalinguaggi sarebbero correlati l’uno con l’altro. Questo è esattamente ciò che stanno affrontando i ricercatori che tentano di analizzare, per esempio, un’opera letteraria come fenomeno a un tempo storico e contemporaneo a una certa epoca. In questo caso, il bilinguismo metalinguistico aiuterebbe a evitare un linguaggio misto. Per estendere ulteriormente questa logica, l’intuito innovativo di L. Hjelmslev potrebbe essere contrassegnato con la coppia terminologica «testo di sistema» e «testo di processo», dove il testo come sistema e il testo come processo si manifesterebbero solo come casi speciali di questa opposizione. Anche se a un livello diverso, la dimensione della storia sarebbe presente in entrambe le descrizioni, analogamente al caso dei concetti di genesi e tradizione di Û. Tynânov.
Più vicino alla nostra epoca, tra le manifestazioni della stessa linea di pensiero, sarebbe necessario menzionare per primo il nuovo approccio stroricistico, nel cui vocabolario «contesto storico» è stato sostituito da «sistema culturale» e dove le relazioni tra testo e cultura sono viste come intrinsecamente intertestuali, dove l’intertestualità ha luogo tra due tipi di testo, il testo della letteratura e il testo della cultura (vedere White 1989: 294). Ogni evento letterario è, pertanto, un testo diacronico della storia autonoma della letteratura e un testo sincronico del sistema culturale (White 1989: 301).
Un esempio dell’ulteriore sviluppo della stessa linea di pensiero è dato dal concetto di «testo culturale» di A. Assmann. Come un sottosistema della cultura, la letteratura stessa è anche un testo culturale; ciononostante, uno stesso testo ha proprietà diverse in quanto testo letterario e testo culturale. Dal punto di vista del rapporto di identità, un testo letterario è un mezzo di comunicazione individuale, mentre per un testo culturale, il lettore è, soprattutto, un rappresentante di un gruppo o di una comunità. Dal punto di vista della ricezione, tra un destinatario e un testo letterario c’è una distanza estetica, mentre nel caso di un testo culturale, c’è un’insistenza sulla verità. Dal punto di vista
of innovation and canonicity, literary text strives toward innovation, while cultural text is associated with canonization. From the aspect of resistance to time, the background system for literary text is formed of history, of different readings done by different generations, while for cultural text, the background system is average tradition (Assmann 1995). Of course, the relations of cultural text and literary text are more complicated than that. Texts with prestige such as the Classics or the Bible function above all as cultural texts. On the other hand, cultural text can bring about the emergence of literary text, as can be witnessed in the case of salon literature or album verse.
The study of a text in culture is inseparable from the search for parameters in order to characterize the different functions of the text. Every text has its own history and at the same time it exists in general history; every text is contemporary and historical at the same time. Every text is a framed whole and as such, unchangeable. At the same time, each text is a part of culture (of cultural situation and of cultural history) and as such, ambiguous, multifunctional and changing. TEXT OF CULTURE and TEXT OF LITERATURE (or text of any other form of art) can be different forms of existence of the same text, they can be contained in each other as a part is contained in a whole, they can be autonomous wholes, temporal or atemporal, concrete or abstract, static or dynamic; however, with all these oppositions the boundary between the two sides will remain vague and ambivalent. Pure diachrony and synchrony or pure statics and dynamics are but idealized concepts. Therefore, in this context it would often be more accurate to speak not about texts, but about textuality, about complicated relations in time and space for the description of which it is convenient to use the operational term “text”. Becoming a text and being as text have to do in the analysis of cultural phenomena both with ontology and epistemology and help to understand culture as a hierarchy of (textual) identities.

Textuality, metatextuality and intertextuality
In parallel and in relation to the linguistically oriented developments there emerged similar issues also in the anthropological disciplines. At the end of the 1950ies, C. Lévi-Strauss wrote in his book “Structural Anthropology” (1958) about the necessity to describe rules of marriage and kinship systems as a kind of

dell’innovazione e della canonicità, il testo letterario tende verso l’innovazione, mentre il testo culturale è associato alla canonizzazione. Dal punto di vista della resistenza al tempo, il sistema di fondo del testo letterario è costituito dalla storia, da letture diverse di generazioni diverse, mentre per il testo culturale, il sistema di fondo è costituito dalla tradizione media (Assmann 1995). Sicuramente, le relazioni tra testo letterario e testo culturale sono molto più complesse di così. I testi prestigiosi come i classici o la Bibbia funzionano soprattutto come testi culturali. D’altro canto, il testo culturale può determinare l’emergere del testo letterario, come può essere dimostrato nel caso della letteratura da salotto o della poesia da album.
Lo studio di un testo nella cultura è inseparabile dalla ricerca di parametri per caratterizzare le diverse funzioni del testo. Ogni testo ha la sua storia e, nello stesso tempo, esiste nella storia generale; ogni testo è contemporaneo e storico a un tempo. Ogni testo è un tutto compatto e, come tale, invariabile. Nello stesso tempo, ogni testo è parte della cultura (di una situazione culturale e di una storia culturale) e, come tale, ambiguo, multifunzionale e mutevole. Il «testo della cultura» e il «testo della letteratura» (o il testo di qualsiasi altra forma d’arte) possono consistere in diverse forme d’esistenza dello stesso testo, possono essere contenuti l’uno nell’altro come una parte è contenuta in un tutto, possono essere dei tutti autonomi, temporali o atemporali, concreti o astratti, statici o dinamici; tuttavia, con tutte queste opposizioni, il confine tra le due parti rimarrà vago e ambivalente. La pura diacronia e la pura sincronia o la pura statica e la pura dinamica sono, però, concetti idealizzati. Quindi, in questo contesto, sarebbe spesso più preciso parlare non di testi ma di testualità, di complicate relazioni nello spazio e nel tempo per la descrizione delle quali è opportuno usare il termine operativo «testo». Diventare un testo ed esserlo ha a che fare, nell’analisi dei fenomeni culturali, sia con l’ontologia sia con l’epistemologia e ci aiuta a comprendere la cultura come una gerarchia di identità (testuali).

Testualità, metatestualità e intertestualità
Parallelamente e in relazione agli sviluppi a orientamento linguistico, sono emerse questioni simili anche nelle discipline antropologiche. Alla fine degli anni Cinquanta, C. Lévi-Strauss nel suo libro Antropologia strutturale (1958) ha scritto in merito alla necessità di descrivere i sistemi di regole matrimoniali e di parentela come un
language, serving as a means of communication between individuals and groups of individuals. In the year 1973 C. Geertz voices his objection to isolated descriptions that stem from ethnographic fieldwork. His book “The Interpretation of Cultures” provides an example of textualization of description of culture. Here, interpretative anthropology forms a parallel to semiotics of culture. C. Geertz’s concept of thick description refers to the ability of a researcher to explicate or reconstruct the whole on the basis of very heterogeneous, commingled or ambivalent data. In such approach, a foreign culture becomes an acted document that can be interpreted in communication. This document is comparable to a foreign and incoherent manuscript where graphic signs are replaced by examples of behaviour (Geertz 1993: 10). Such text of behaviour is one example of how a complex research object can be textualized.
Textuality as a methodological principle has a significant role also in the development of the Tartu-Moscow School of Semiotics. One of the most renowned members of the school, A. Pyatigorski, has post factum observed that this tradition started out with an undelimited research object. While in the first works at the beginning of the 1960ies the object of semiotics was “anything”, then after the publication of Y. Lotman’s first semiotic book “Lectures on Structural Poetics” (1964) the object became specified as literature: “In Lotman’s “Lectures”, a huge role was played by the introduction of the term “text” as a fundamental concept of semiotics and at the same time, as a neutral concept with respect to its object, literature. It was precisely the concept of “text” which made it possible for Yuri Mikhailovich to pass from literature over to culture as a universal object of semiotics” (Pyatigorski 1996: 54-55). “Theses on the Semiotic Study of Cultures” (1973), the programmatic work of the Tartu-Moscow School, defines semiotics of culture as a science investigating the functional correlation of different sign systems, which proceeds from the position that “none of the sign systems possesses a mechanism which would enable it to function culturally in isolation” (Theses 1973: 33). Text has been defined in “Theses” as a bridging link between a general semiotic and a concrete empirical investigation: “The text has integral meaning and integral function (if we distinguish between the position of the investigator of culture and the position of its carrier, then from the point of view of the former the text appears as the carrier of

linguaggio che funge da mezzo di comunicazione tra gli individui e i gruppi di individui. Nel 1973 C. Geertz esprime la sua obiezione nei confronti di descrizioni isolate che derivano dalla ricerca etnografica. Il suo libro Interpretazione di culture fornisce un esempio della testualizzazione della descrizione della cultura. Qui, l’antropologia interpretativa sta a fianco della semiotica della cultura. Il concetto di «descrizione densa» di C. Geertz si riferisce alla capacità dei ricercatori di spiegare nel dettaglio o ricostruire il tutto sulla base di informazioni molto eterogenee, miste o ambivalenti. In questo approccio, una cultura straniera diventa un documento attualizzato che può essere interpretato nella comunicazione. Questo documento è paragonabile a un manoscritto straniero e incoerente dove i segni grafici sono sostituiti da esempi di comportamento (Geertz 1993: 10). Tale testo-comportamento è un esempio di come possa essere testualizzato un oggetto di ricerca complesso.
La testualità come principio metodologico ha un ruolo significativo anche nello sviluppo della scuola semiotica di Tartu-Mosca. Uno degli esponenti più rinomati della scuola, A. Pâtigorskij, ha osservato post factum che questa tradizione era partita da un oggetto di ricerca non delimitato. Mentre nelle sue prime opere agli inizi degli anni Sessanta l’oggetto della semiotica era «qualsiasi cosa», dopo la pubblicazione del primo libro di semiotica di Û. Lotman, Lezioni di poetica strutturale (1964), l’oggetto è stato specificato come «letteratura»: nel libro di Lotman Lezioni, un ruolo importante è svolto dall’introduzione del termine «testo» come concetto fondamentale della semiotica e, nello stesso tempo, come concetto neutrale in merito al suo oggetto, la letteratura. È stato proprio il concetto di «testo» a permettere a Ûrij Mihailovič di passare dalla letteratura alla cultura come oggetto universale della semiotica (Pâtigorskij 1996: 54-55). Le Tesi sullo studio semiotico delle culture (1973), il lavoro programmatico della Scuola di Tartu-Mosca, definiscono la semiotica della cultura come scienza che indaga la correlazione funzionale dei diversi sistemi di segni, basandosi sulla posizione secondo la quale «nessuno dei sistemi di segni possiede un meccanismo in grado di permettergli di funzionare culturalmente in isolamento» (Tesi 1973: 33). Nelle Tesi, il testo è definito come ponte tra l’analisi semiotica generale e l’analisi empirica concreta: «Il testo ha un significato integrale e una funzione integrale (se distinguiamo tra la posizione di colui che analizza la cultura e la posizione del portatore della cultura stessa, allora dal punto di vista del primo il testo appare come il portatore di una
integral function, while from the position of the latter it is the carrier of integral meaning). In this sense it may be regarded as the primary element (basic unit) of culture. The relationship of the text with the whole of culture and with its system of codes is shown by the fact that on different levels the same message may appear as a text, part of a text, or an entire set of texts” (Theses 1973:38). In the tradition of the Tartu-Moscow School, the concept of text is, above all, dynamic: text can be an integral sign or a sequence of signs; it can be a part or a whole. On the other hand, a text can be a linguistically concrete TEXT OF LANGUAGE or a culturally concrete TEXT OF CULTURE: “In defining culture as a certain secondary language, we introduce the concept of a „culture text”, a text in this secondary language. So long as some natural language is a part of the language of culture, there arises the question of the relationship between the text in the natural language and the verbal text of culture” (Theses 1973:43). As three subtypes of this relationship there are mentioned cases where (1) a text in a natural language is not a text of a given culture (e.g. oral texts in a writing-oriented culture); (2) a text in a secondary language, i.e. a text of culture is at the same time also a text of language, i.e. a text in a natural language (e.g., a poem that is expressed simultaneously in a secondary, poetic language and in a primary language, for instance, in the poet’s mother tongue); (3) a verbal text of culture is not a text in a natural language (e.g., a Latin prayer for Slavs).
From the modern perspective, “Theses on the Semiotic Study of Cultures” written in 1973 touched upon an important aspect — virtuality: “The place of the text in the textual space is defined as the sum total of potential texts” (Theses 1973:45). Where J. Derrida would call this sum total “discourse”, Y. Lotman has used the term “homeostasis”. In his book “Universe of the Mind” (1990), expanding upon the ideas of F. de Saussure, he has claimed that synchrony is homeostatic and that diachrony is a sequence of external and accidental disturbances, reacting to which synchrony restores its integral wholeness (Lotman 1990: 6).
On the background of cultural homeostasis, the advance toward semiosphere appears as natural. Let us recall once again the already-quoted thought of V. Ivanov: “The task of semiotics is to describe the semiosphere without which

funzione integrale, mentre dal punto di vista del secondo è portatore del significato integrale). In questo senso, potrebbe essere considerato l’elemento primario (unità basilare) della cultura. La relazione che il testo ha con il tutto della cultura e con il suo sistema di codici è resa evidente dal fatto che a livelli diversi uno stesso stesso messaggio può apparire come testo, parte di un testo o un intero insieme di testi» (Tesi 1973: 38). Nella tradizione della Scuola di Tartu-Mosca, il concetto di «testo» è, soprattutto, dinamico: il testo può essere un segno integrale o una sequenza di segni; può essere una parte o un tutto. Dall’altro lato, un testo può essere «testo del linguaggio» linguisticamente concreto o «testo della cultura» culturalmente concreto. «Nel definire la cultura come linguaggio secondario indefinito, introduciamo il concetto di «testo culturale», un testo in questo linguaggio secondario. Nella misura in cui alcuni linguaggi naturali fanno parte del linguaggio della cultura, emerge la questione della relazione tra testo nella lingua naturale e testo verbale della cultura» (Tesi 1973: 43). Tre sottotipi di questa relazione sono i casi dove (1) il testo nel linguaggio naturale non è un testo della cultura data (per esempio testi orali in una cultura orientata verso la scrittura); (2) un testo in un linguaggio secondario, ossia un testo della cultura è allo stesso tempo anche un testo del linguaggio, ossia un testo in un linguaggio naturale (per esempio una poesia espressa contemporaneamente in un linguaggio secondario, poetico e in un linguaggio primario, ad esempio, nella lingua madre del poeta); (3) un testo verbale della cultura non è un testo in un linguaggio naturale (per esempio una preghiera in latino per gli slavi).
Dalla prospettiva moderna, le Tesi sullo studio semiotico delle culture, scritte nel 1973, trattano brevemente un importante aspetto – la virtualità: «Il luogo del testo nello spazio testuale è definito come somma totale di testi potenziali» (Tesi 1973: 45). Dove J. Derrida avrebbe chiamato questa somma totale «discorso», Û. Lotman ha usato il termine «omeostasi». Nel suo libro L’universo della mente (1990), sviluppando le sue idee nei confronti di F. de Saussure, ha affermato che la sincronia è omeostatica e che la diacronia è una sequenza di disturbi esterni e casuali, e reagendo a questi ultimi la sincronia ristabilisce la sua totalità integrale (Lotman 1990: 6).
Sulla base dell’omeostasi culturale, il progresso verso la semiosfera appare naturale. Ricordiamo ancora una volta il pensiero già menzionato di V. Ivanov: «La funzione della semiotica è descrivere la semiosfera, senza la quale
the noosphere is inconceivable” (Ivanov 1998: 792). As noosphere is the future living environment of the humankind, created in mutual agreement and on rational principles, it follows from this definition that semiotics must assist mankind in understanding both history and future. Hence, in addition to the relationship with the present, semiosphere has also its dimensions of history and future. What is more important, however, is that semiosphere establishes the dynamics between the part and the whole: “Since all the levels of the semiosphere — ranging from a human individual or an individual text to global semiotic unities — are all like semiospheres inserted into each other, then each and one of them is both a participant in the dialogue (a part of the semiosphere) as well as the space of the dialogue (an entire semiosphere)” (Lotman 1999: 33). This whole-part relationship is joined, in turn, by the dynamics between the subjective and the objective: “The structural parallelism between semiotic characteristics of a text and of a personality enables us to define any text on any level as a semiotic personality, and to regard any personality on any sociocultural level as a text” (Lotman 1999: 66).
The semiospherical perspective in the analysis of culture implies the establishment of textuality as an operational principle in which texts in the ordinary sense and phenomena described as texts in the interests of better comprehension exist together on equal terms. The question of their differentiation and comparability is a question of delimitation — in other words, a question of the boundaries of textuality. From the aspect of scientific accuracy, the only requirement that will stand is the traditional demand of cultural semiotics — that the position of the observer or the analyser must remain visible. This provides for the necessary degree of precision in the case where the units of analysis cannot be formalized and are not unequivocally clear-cut. Textualization should not be regarded as arbitrary delimitation but as identification of different levels in the holistic dimension in culture. The universality of and necessity for this method stems from the need to preserve the interrelations between different parts of a whole and the need to see that the whole itself exists also both as a part and as a division into parts. Each particular act of communication can be analysed as such, but it can also always be shown that the relations between a prototext and its metatext are not exhausted with the creation of the typology of metatexts. Usually, the prototext itself is also in some respect already a metatext — it is difficult to envision the existence of pure original texts in culture.

sarebbe inconcepibile la noosfera» (Ivanov 1998: 792). Dal momento che la noosfera è l’ambiente vivo e futuro dell’umanità, creato in accordo reciproco e su princìpi razionali, ne deriva la definizione secondo la quale la semiotica deve aiutare l’umanità a comprendere sia la storia sia il futuro. Quindi, oltre alla relazione con il presente, la semiosfera ha anche una dimensione della storia e del futuro. La cosa più importante, comunque, è che la semiosfera stabilisce le dinamiche tra la parte e il tutto: «Dal momento che tutti i livelli della semiosfera – dall’individuo o dal testo individuale alle unità semiotiche globali – sono come semiosfere inserite le une nelle altre, ognuna o qualunque di esse è sia partecipante al dialogo (parte della semiosfera) sia spazio del dialogo (l’intera semiosfera)» (Lotman 1999: 33). Questa relazione parte-tutto è condivisa, a sua volta, dalle dinamiche tra il soggettivo e l’oggettivo: «il parallelismo strutturale tra le caratteristiche semiotiche di un testo e di una personalità ci permette di definire ogni testo o ogni livello come una personalità semiotica, e ci permette di considerare testo ogni personalità a ogni livello socioculturale» (Lotman 1999: 66).
La prospettiva semiosferica nell’analisi della cultura implica l’affermazione della testualità come principio operazionale in cui il testo in senso ordinario e i fenomeni descritti come testi nell’interesse di una comprensione migliore coesistono a pari condizioni. La loro differenziazione e confrontabilità è questione di delimitazione – in altre parole, una questione di confini della testualità. Dal punto di vista della precisione scientifica, l’unico requisito importante è la domanda tradizionale di semiotiche culturali – dove la posizione dell’osservatore o dell’analizzatore devono rimanere visibili. Questo stabilisce il grado di precisione necessario nel caso in cui le unità di analisi non possano essere formalizzate e siano inequivocabilmente nitide. La testualizzazione non va considerata come delimitazione arbitraria ma come identificazione di livelli diversi nella dimensione olistica della cultura. L’universalità e la necessità di questo metodo derivano dal bisogno di preservare le interrelazioni tra le diverse parti del tutto e dal bisogno di vedere che il tutto esiste sia come parte sia come divisione in parti. Ogni singolo atto di comunicazione può essere analizzato in questo modo, ma può anche essere dimostrato che le relazioni tra prototesto e metatesto non sono esaurite dalla creazione di una tipologia di metatesti. Di solito, il prototesto stesso è anche, sotto alcuni aspetti, già un metatesto: è difficile immaginare l’esistenza, nella cultura, di testi puri e originali.

Textuality of culture is accompanied by the possibility to conduct analysis on many levels. A text can be investigated as autonomous and focused at by exploring its inner workings. At the same time, it can be investigated as participating in metacommunication and here, now regarded as a prototext, the text is seen as accompanied by a number of metatexts of different kinds (see also Torop 1999: 27-41). The bulk of textual transformations ranging from translations to annotations can, on the one hand, be described from the aspect of relations between the prototext and the metatext, but on the other hand each metatext belongs to its own discourse and can be analysed as a part of this. By investigating metatexts as a textual whole it is possible to analyse the ways in which a particular prototext exists in culture. This kind of investigation makes it also possible to reconstruct a missing prototext. History of theatre provides a good example of the need for metatexts in order to describe a missing prototext. It is possible to reconstruct old untaped theatre performances, but also hypothetical primal forms of different types of fairy tales (as invariants of the later variants) etc. In addition, the investigation of the relations between a prototext and metatexts makes it possible to talk about the capacity of a particular text to communicate with culture, with its audience, about the possible world of the ways the text can be interpreted and understood.
Related to this, but functioning in a completely different manner, is another unity — the intertextual association of texts, where each particular text gains its meaning through relations with other texts, that is, as a part of a whole. Such association can also be interdiscursive or intermedial. Unlike metatextuality, intertextual association is more difficult to delimit and its holistic dimension many not be as concrete.
Both the metatextual and the intertextual associations are subtypes of textuality and indicate that science needs to find possibilities first to define and then to give as multifaceted explanation as possible of the functioning of a complex cultural mechanism. A science investigating culture must constantly recreate its research object, must define and re-define its borders since in culture as a living organism there constantly emerge new relations and new systems. Culture changes, culture’s textuality is constant. Textuality is a possibility that culture offers to its analyser, and at the same time it is an ontological property of culture and an epistemological principle for investigating culture.

La testualità della cultura è accompagnata dalla possibilità di condurre analisi a diversi livelli. Un testo può essere analizzato come autonomo e focalizzato dall’esplorazione del suo funzionamento interno. Nello stesso tempo, può essere analizzato come partecipante a una metacomunicazione e qui, ora considerato come un prototesto, il testo può essere visto come accompagnato da un numero di metatesti di diverso tipo (vedere anche Torop 1999: 27-41). Il volume delle trasformazioni culturali, che varia dalle traduzioni alle annotazioni, può, da un lato, essere descritto partendo dalle relazioni tra prototesto e metatesto, ma dall’altro ogni metatesto appartiene al suo discorso e può essere analizzato come parte di questo. Analizzando i metatesti come un tutto testuale, è possibile analizzare i modi in cui un certo prototesto esiste nella cultura. Questo tipo di analisi rende possibile anche la ricostruzione di un prototesto mancante. La storia del teatro costituisce un buon esempio del bisogno di metatesti per la descrizione di un prototesto mancante. È possibile ricostruire vecchie interpretazioni teatrali non utilizzate, ma anche ipotetiche forme primitive di tipi diversi di fiabe (come invarianti delle ultime varianti) ecc. Inoltre, l’analisi delle relazioni tra prototesto e metatesto ci dà modo di parlare della capacità di un certo testo di comunicare con la cultura, con il suo pubblico, dei modi possibili in cui un testo può essere interpretato e compreso. In merito a ciò, ma con un funzionamento completamente diverso, esiste un’altra unità: l’associazione intertestuale di testi, dove ogni singolo testo acquisisce il suo significato attraverso le relazioni con gli altri testi, ossia, come parte di un tutto. Tale associazione può anche essere interdiscorsiva o intermediale. Diversamente dalla metatestualità, l’associazione intertestuale è più complicata da delimitare e la sua dimensione olistica potrebbe non essere così concreta.
Sia le associazioni metatestuali che quelle intertestuali sono sottotipi della testualità e dimostrano che la scienza ha bisogno di trovare delle possibilità prima per definire e poi per dare una spiegazione più sfaccettata possibile del funzionamento del complesso meccanismo culturale. Una scienza che analizza la cultura deve costantemente ricreare il suo oggetto di ricerca, deve definire e ridefinire i suoi confini dal momento che nella cultura come organismo vivente emergono costantemente nuove relazioni e nuovi sistemi. I cambiamenti culturali – la testualità della cultura – è costante. La testualità è una possibilità che la cultura offre ai suoi analizzatori e, nello stesso tempo, è una proprietà ontologica delle culture e un principio epistemologico per analizzare la cultura.

Riferimenti bibliografici

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Sütiste, Torop: I confini processuali della traduzione Processual Boundaries of Translation

Sütiste, Torop: I confini processuali della traduzione

Processual Boundaries of Translation

 

   

IRENE CALABRIA

 

 

 

Université de Strasbourg

Institut de Traducteurs d’Interprètes et de Relations Internationales

Fondazione Milano

Master in Traduzione

 

 

 

Primo supervisore: Professor Bruno OSIMO

Secondo supervisore: Professoressa Valentina BESI

 

Master: Arts, Lettres, Langues

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction et Interprétation

Parcours: Traduction littéraire

estate 2011


 

 

 

 

 

© Walter de Gruyter, 2007

© Irene Calabria per l’edizione italiana, 2011

 


Abstract

 

In their essay «Processual Boundaries of Translation: Semiotics and translation studies», Elin Sütiste and Peeter Torop analyse the evolution of translation science applying a semiotic approach to it. They start from the consideration that translation activity in culture cannot take place in isolation from experience of culture and technological environment: the progression from printed media towards hypermedia and new media is underlying the diversity of communication processes. In this new situation, the peculiarity of translation activity consists in the actualization of intralingual and intersemiotic translation alongside interlingual translation. The widening of the boundaries of translation process results in the intensified search for appropriate methodologies. One indication of this is the repeated reconceptualization or further elaboration of Jakobson’s typology of intralingual, interlingual, and intersemiotic translation at the intersection of semiotics, translation studies, analysis of culture, and communication. This dissertation presents a translation into Italian of Sütiste and Torop’s article and its analysis.


Sommario

 

 

1. Traduzione con testo a fronte. 7

2. Analisi testuale dell’originale. 9

2.1 Contenuto. 67

2.2 Struttura. 71

2.3 Qualche considerazione aggiuntiva. 72

3. Analisi traduttologica. 67

3.1 Introduzione. 74

3.2 La dominante e il residuo traduttivo: Jakobson e la semiotica della traduzione. 77

3.3 Strategia traduttiva. 79

3.3.1 Una questione d’invariante. 79

3.3.2 All’insegna della traduzionalità. 82

3.4 Conclusione. 84

3.5 Riferimenti bibliografici 88

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Traduzione con testo a fronte

 

Processual boundaries of translation: Semiotics and translation studies*

ELIN SÜTISTE and PEETER TOROP

 

The development of sciences –­ regarded as scientific disciplines mapping cultural terrain – is dependent on the dynamics of culture and does not take place as a linear movement. In order to see the logic of exchange and development in such disciplines, the relations both between the ways of thinking characteristic of different times as well as between the metalanguages in which the ways of thinking are expressed have to be understood. This understanding in turn is shaped by the dynamics of the cultural environment and, hence, also by the (technological) dynamics of modes of communication that influence creative processes. The technological dynamics concern primarily textual messages since the proportions of the oral, the written, the pictorial, and the aural in one and the same text depend on the environment of text consumption or generation. A written text on paper or in hyper- or multimedia form may be the same text, but its interpretation as an original text or as a translation requires taking into account the nature of the medium in which it is presented.

The arising semiotics of multimedia refreshes the study of ordinary texts (for example, a multimedia approach to a picture book) establishing a new methodological perspective for the analysis of this new type of texts. Accordingly, the concept of communication changes into ‘multimedia communication’ defined as

. . . the production, transmission, and interpretation of a composite text, when at least two of the minitexts use different representational systems in either modality. Each minitext needs to have its own organization: any of syntactic categories of individual, linguistic, schematic, temporal, or network may be used. (Purchase 1999:255)


I confini processuali della traduzione: semiotica e scienza della traduzione*

ELIN SÜTISTE e PEETER TOROP

 

Lo sviluppo delle scienze – considerate in quanto discipline scientifiche che mappano il terreno culturale – dipende dalla dinamica della cultura e non avviene secondo un movimento lineare. Per capire la logica di scambio e sviluppo in tali discipline si devono comprendere i rapporti sia tra i modi di pensare tipici di periodi diversi, sia tra i metalinguaggi in cui si esprimono i modi di pensare. Questa comprensione è, a sua volta, condizionata dalla dinamica dell’ambiente culturale e perciò anche dalle dinamiche (tecnologiche) delle modalità di comunicazione che influenzano il processo creativo. Le dinamiche tecnologiche riguardano in primo luogo i messaggi verbali, poiché le proporzioni tra orale, scritto, pittorico e uditivo nello stesso testo dipendono dall’ambiente di consumo o creazione del testo. Un testo scritto su carta, o in forma ipermediale o multimediale sarà anche lo stesso testo, ma la sua interpretazione in quanto testo originale o in quanto traduzione richiede che si prenda in considerazione la natura del medium in cui si presenta.

La semiotica della multimedialità che ne deriva rinnova lo studio dei testi ordinari (per esempio, con un approccio multimediale a un libro d’immagini) affermando una nuova prospettiva metodologica per l’analisi di questo nuovo tipo di testi. Di conseguenza, il concetto di «comunicazione» si trasforma in «comunicazione multimediale», definita come:

[…] la produzione, trasmissione e interpretazione di un testo composito, quando almeno due dei minitesti usano sistemi di rappresentazione diversi in qualsiasi modalità. Ogni minitesto deve avere la propria organizzazione: si può usare qualunque categoria sintattica, individuale, linguistica, schematica, temporale o di rete (Purchase 1999:255)[1] .


The relation of message to its medium has acquired a new meaning and the message’s dependence on and/or independence of the medium has become a methodological problem. In a discipline close to translation studies – narratology – a new branch, transmedial narratology, has arisen from the hypothesis that ‘although narratives in different media exploit a common stock of narrative design principles, they exploit them in different, media-specific ways, or rather, in a certain range of ways, determined by the properties of each medium’ (Herman 2004: 51). This hypothesis also makes it necessary to review traditional approaches and to establish a productive dialogue. In the article referred to above, this is done using the structure of thesis-antithesis. The thesis is ‘narrative is medium independent’: ‘The strong version of thesis, that all aspects of every narrative can be translated into all possible media, has enjoyed prominence in the study of narrative. But a weaker version, that certain aspects of every narrative are medium independent, forms one of the basic research hypotheses of structuralist narratology’ (Herman 2004: 51). The antithesis that opposes this thesis is ‘narrative is (radically) medium dependent’ so that ‘the basic intuition underlying antithesis is that every retelling alters the story told, with every representation of a narrative changing what is presented’ (Herman 2004: 53).

Narratology is a good example of how fast disciplinary boundaries can shift. It also demonstrates the connection between recognizing empirical narrative forms and the dynamics of the terminological field as well as points to the fact that the relationship between narrative forms and the metalanguage signifying these is specifically semiotic. In 1975, Roman Jakobson as associate of the semiotics of Charles S. Peirce, put forward the concept of ‘invariance’ relevant for scholarship in different sciences. Jakobson stated:


Il rapporto di un messaggio con il suo medium ha acquisito un nuovo significato e la dipendenza e/o l’indipendenza del messaggio dal medium è diventata un problema metodologico. In una disciplina vicina alla scienza della traduzione – la narratologia – dall’ipotesi che «anche se le narrazioni in media diversi sfruttano una scorta comune di princìpi di progettazione narrativa, li sfruttano in modi diversi, specifici del medium, o piuttosto, in una serie particolare di modi, determinati dalle proprietà di ogni medium» (Herman 2004: 51) è nata una nuova disciplina: la narratologia transmediale. Quest’ipotesi rende necessario anche rivedere gli approcci tradizionali e istituire un dialogo produttivo. Nell’articolo citato qui sopra, lo si fa usando la struttura tesi-antitesi. La tesi è «la narrazione è indipendente dal medium»: «La versione forte della tesi, ovvero che tutti gli aspetti di ogni narrazione possono essere tradotti in tutti i media possibili, ha ottenuto una certa rilevanza nello studio della narrazione. Ma una versione più debole, ovvero che certi aspetti di ogni narrazione sono indipendenti dal medium, costituisce una delle ipotesi di ricerca fondamentali della narratologia strutturalista» (Herman 2004: 51). L’antitesi è «la narrazione dipende (radicalmente) dal medium» e quindi «l’intuizione essenziale alla base dell’antitesi è che ogni nuova versione altera la storia raccontata, e ogni rappresentazione di una narrazione cambia ciò che è presentato» (Herman 2004: 53).

La narratologia è un buon esempio di quanto velocemente possano cambiare i confini di una disciplina. Dimostra anche la connessione tra il riconoscimento di forme narrative empiriche e le dinamiche in campo terminologico, oltre a mostrare che il rapporto tra forme narrative e il metalinguaggio che le esprime è specificamente semiotico. Nel 1975, Roman Jakobson, rifacendosi a Charles S. Peirce, ha introdotto nella semiotica il concetto di «invarianza», importante a livello accademico in varie scienze. Jakobson ha affermato:


Peirce belonged to the great generation that broadly developed one of the most salient concepts and terms for geometry, physics, linguistics, psychology, and many other sciences. This is the seminal idea of INVARIANCE. The rational necessity of discovering the invariant behind the numerous variables, the question of the assignment of all these variants to relational constants unaffected by transformations underlies the whole of Peirce’s science of signs. The question of invariance appears from the late 1860s in Peirce’s semiotic sketches and he ends by showing that on no level is it possible to deal with a sign without considering both an invariant and a transformational variation. (Jakobson 1985 [1977]:252)

‘Invariance’ is one of those concepts that enable different areas of study to be combined in terms of their common methodology, so that the approaches to narrative and translation can be observed together.

In order to better understand the development of cultural and communication processes, it is necessary to create a dialogue between different disciplines both on the object level and metalevel, with special attention to the dialogue between old and new ideas. Each culture develops in its own way, has its own technological environment and its own traditions of analyzing culture texts. A culture’s capacity for analysis reflects its ability to describe and to understand itself. In the process of description and understanding, an important role is played by the multiplicity of texts, by the interrelatedness of communication with metacommunication. The multiplicity of texts makes it possible to view communication processes as translation processes. But besides immediate textual transformations, the analysis of these transformations – that is, their translation into various metalanguages – has a strong significance in culture. Both in the case of textual transformations and their translations into metalanguages, an important role is performed by the addressees, their ability to recognize the nature of the text at hand, and their readiness to communicate. Just as in translation culture, there is also an infinite retranslation and variation taking place in translation studies. In order to understand different aspects of translation activity, new description languages are constantly being created in translation studies, and the same phenomena are at different times described in different metalanguages.


Peirce apparteneva alla grande generazione che sviluppò ampiamente un concetto e termine saliente per la geometria, la fisica, la linguistica, la psicologia e molte altre scienze. Si tratta dell’idea fondamentale di INVARIANZA. La necessità razionale di scoprire l’invariante dietro le numerose variabili, la questione dell’assegnazione di tutte queste varianti a costanti relazionali non influenzate dalle trasformazioni è alla base dell’intera scienza dei segni di Peirce. La questione dell’invarianza appare negli appunti semiotici dalla fine degli anni 1860 e Peirce conclude mostrando che a nessun livello è possibile prendere in considerazione un segno senza prendere in considerazione sia un’invariante sia una variazione trasformazionale (Jakobson 1985 [1977]:252).

«Invarianza» è uno di quei concetti che fanno sì che diverse aree di studio abbiano una metodologia comune, così che gli approcci alla narrazione e alla traduzione possano essere studiati insieme.

Per comprendere meglio lo sviluppo dei processi culturali e di comunicazione è necessario creare un dialogo tra discipline diverse sia a livello dell’oggetto, sia a metalivello, con un’attenzione speciale per il dialogo tra idee vecchie e nuove. Ogni cultura si sviluppa a modo proprio, ha il proprio ambiente tecnologico e le proprie tradizioni di analisi dei testi culturali. La capacità di analisi di una cultura riflette la sua abilità nel descrivere e capire sé stessa. Nel processo di descrizione e comprensione, la molteplicità di testi, l’interrelazione tra comunicazione e metacomunicazione hanno un ruolo importante. La molteplicità di testi rende possibile considerare i processi di comunicazione processi traduttivi. Ma, oltre alle trasformazioni testuali immediate, l’analisi di queste trasformazioni – ovvero la loro traduzione in vari metalinguaggi – ha una profonda rilevanza nella cultura. Nel caso sia di trasformazioni testuali, sia delle loro traduzioni in metalinguaggi, i riceventi, la loro capacità di riconoscere la natura del testo in questione e la prontezza con cui comunicano svolgono un ruolo importante. Proprio come nella cultura della traduzione, anche nello studio della traduzione ha luogo una ritraduzione e una variazione infinita. Per comprendere i diversi aspetti dell’attività traduttiva, nella scienza della traduzione si creano di continuo nuovi linguaggi descrittivi e si descrivono gli stessi fenomeni in momenti e con metalinguaggi diversi.


And just as in culture, also in disciplines studying cultural phenomena, variance has its limits and at some point an invariant is needed in order to organize the variance.

1.         On the identity of translation studies

The present-day translation studies do not form a methodologically unified discipline, although a movement into this direction takes place. The existing textbooks and readers on translation studies are either school- or problem-centered or arranged chronologically. They register metalingual variety, but do not strive to hierarchize the history of translation studies. At the same time there is also some invariance observable in this variety of metalanguages, especially if we start looking for the implicit roots of explicitly formulated views.

It is interesting to observe the dynamics that the attitudes of influential translation scholars have undergone in the course of some thirty years of modern translation studies. Eugene Nida distinguished three tendencies in the translation studies of the 1970s. Philological theories are interested in literature, in the translatability of genre and other literary characteristics; linguistic theories are engaged in the relationships between content and form found in languages and in the structural comparison of languages; sociolinguistic theories regard translation as part of a concrete communi- cation process (see Nida 1976). Two decades later, Nida also characterizes multimedial communication as natural, ordinary communication: ‘But even in printed texts, differences of typeface, format, and book covers have also carried messages’ (Nida 1999:119). At the end of this article he advises the leaders of Bible Societies to understand ‘that the use of new media is not designed to replace the printed text, but to lead people to the text’ (Nida 1999:130).


E proprio come nella cultura, anche nelle discipline che studiano i fenomeni culturali, la variante ha i suoi limiti e, a un certo punto, si ha bisogno di un’invariante per organizzare la variante.

1.         Sull’identità della scienza della traduzione

La scienza della traduzione contemporanea non è una disciplina unificata a livello metodologico, anche se si sta muovendo in questa direzione. I libri di testo e le antologie di scienza della traduzione o si concentrano su un problema o sulla scuola di appartenenza, oppure sono organizzati cronologicamente. Riconoscono la molteplicità metalinguistica, ma non si sforzano di creare una gerarchia nella storia della scienza della traduzione. Nello stesso tempo, si può anche osservare un’invarianza in questa molteplicità di metalinguaggi, in special modo se cominciamo a ricercare le radici implicite delle opinioni formulate in modo esplicito.

È interessante osservare la dinamica delle opinioni di influenti studiosi della traduzione nel corso di circa trent’anni. Eugene Nida ha individuato tre tendenze nella scienza della traduzione degli anni Settanta. Le teorie filologiche s’interessano di letteratura, della traducibilità del genere e di altre caratteristiche testuali; le teorie linguistiche si occupano dei rapporti tra contenuto e forma presenti nelle lingue e del raffronto strutturale tra lingue; le teorie sociolinguistiche considerano la traduzione parte del processo concreto di comunicazione (Nida 1976). Vent’anni più tardi, Nida descrive anche la comunicazione multimediale come comunicazione naturale, ordinaria: «Ma perfino nei testi stampati, le differenze di carattere, formato e copertina sono stati portatori di messaggi» (Nida 1999:199). Alla fine di questo suo articolo, consiglia ai coordinatori delle Bible Societies di capire «che l’uso dei nuovi media non è pensato per sostituire il testo stampato, ma per condurre le persone verso il testo» (Nida 1999:130).


Translation activities performed on cultural facts and phenomena cannot take place in isolation from experience of the whole of culture and technological environment. Underlying the diversity of communication processes is the process from printed media towards hypermedia and new media, and in the course of this process complementary text forms and modes of communication are born. Gunther Kress has formulated this new shift as follows:

I would say in relation to communication that we have come from a period in which there had been a stable constellation of the mode of writing with the medium of the book […]. The new constellation, culturally increasingly dominant, is that of the mode of the image and the medium of the screen. This will lead to quiet new representational forms, new possibilities for communicational action, and new understandings of human social meaning making. (Kress 2004:446)

The new situation also influences the study of traditional communication forms. The peculiarity of translation activity relevant in this new situation consists in the actualization of intralinguistic and intersemiotic translation alongside interlinguistic translation: first, in synthetic form, combining all three types of translation (interlinguistic translation is characterized as including intralinguistic and intersemiotic translation) and second, in analytic form, where the three autonomous types of translation produce their own types of texts. The evolution of Nida’s views reflects the attempt to accommodate the changes happening in the entire culture in one segment of culture – translation culture.

Modern translation studies (1970–1980s) are characterized by a growing tendency to (1) bring closer translation practice and theory; (2) increase the capacity of different concepts for the dialogue within translation studies; and (3) arrive at the creation of comprehensive systematic translation studies. The first tendency is represented by Wolfram Wilss who held that translation studies could escape their immanent stagnation by expanding their methodological perspective. In his pursuit of explicit analysis of translation process Wilss aimed for the study of general translation problems


Le attività traduttive compiute sui fatti e i fenomeni culturali non possono avvenire in isolamento dalla cultura e dall’ambiente tecnologico nell’insieme. Alla base della molteplicità dei processi di comunicazione vi è il processo che va dai media stampati agli ipermedia e ai nuovi media, e durante questo processo nascono forme testuali e modalità di comunicazione complementari. Gunther Kress ha così descritto questo nuovo cambiamento:

Per quanto riguarda la comunicazione, direi che veniamo da un periodo in cui c’è stata una costellazione stabile della modalità della scrittura con il libro come medium […]. La nuova costellazione, sempre più dominante a livello culturale, è quella della modalità dell’immagine e dello schermo come medium. Ciò porterà a nuove forme di rappresentazione, nuove possibilità di azione comunicazionale e una nuova concezione della creazione sociale umana di significato (Kress 2004:446).

La nuova situazione influenza anche lo studio delle forme di comunicazione tradizionali. La peculiarità dell’attività traduttiva importante in questa nuova situazione consiste nell’attualizzazione della traduzione intralinguistica e intersemiotica insieme alla traduzione interlinguistica: in primo luogo, in forma sintetica, combinando tutti e tre i tipi di traduzione (la traduzione interlinguistica è caratterizzata dal fatto che racchiude in sé la traduzione intralinguistica e quella intersemiotica) e in secondo luogo, in forma analitica, dove i tre tipi di traduzione producono i propri tipi di testo in modo autonomo. L’evoluzione dell’opinione di Nida riflette il tentativo di adeguare a un segmento della cultura, la cultura della traduzione, i cambiamenti che avvengono nell’intera cultura.

La scienza della traduzione moderna (anni Settanta-Ottanta) è caratterizzata da una crescente tendenza a (1) avvicinare la pratica e la teoria della traduzione; (2) aumentare la portata di diversi concetti per il dialogo all’interno della scienza della traduzione; e (3) arrivare alla creazione di una scienza della traduzione sistematica e completa. La prima tendenza è rappresentata da Wolfram Wills che ritiene che la scienza della traduzione possa salvarsi dalla stagnazione immanente espandendo il proprio orizzonte metodologico. Nella ricerca di un’analisi esplicita del processo traduttivo Wills punta ad avvicinare al massimo grado lo studio dei problemi traduttivi


independent of a particular language pair (competence in translation) to be brought maximally close to the study of questions rising from immediate contacts between two languages (performance in translation) (Wilss 1982).

By that time, translation studies as a discipline – methodologically still in the development phase – had arrived at a state of multidisciplinarity using disparate metalanguages (which is different from interdisciplinarity as a methodological whole). The second tendency is therefore well represented by György Radó who held that for the development of translation studies the synthesis of the existing trends and languages would be crucial. Synthesis should start from the composition of bibliographies in order to record dispersed studies (Radó 1985:305). Also characteristic of this period is the call to use general academic metalanguage, accessible to all scholars in their discussion of theory (Bassnett-McGuire 1980:134).

The third tendency is represented by James S. Holmes who, in his works, deductively created a new translation studies as a taxonomically describable hierarchical system resting on the complementarity of several theories together. He held that first of all a theory of translation process is needed in order to reflect on what happens when a person decides to translate something. Next comes a theory of translation product, which is required in order to determine the specifics of translation as a particular text type. Third, there is a need for a theory of translation function in order to understand the behavior of translation in the receiving culture. These three theories cannot be normative as they try to describe the already existing situation and do not prescribe any rules. Normativity, however, is important in the fourth, theory of translation didactics (Holmes 1988:95). Holmes has, in effect, formulated a program of interdisciplinary translation studies although different translation theories elaborate it in different ways and the development is far from being balanced.


generali, indipendenti dalla particolare coppia di lingue (competenza traduttiva), allo studio dei problemi derivanti dai contatti diretti tra due lingue (prestazione traduttiva) (Wilss 1982).

A quell’epoca la scienza della traduzione come disciplina – ancora in fase di sviluppo metodologico – era arrivata a un livello di multidisciplinarità con metalinguaggi disparati (da non confondersi con l’interdisciplinarità come insieme metodologico). La seconda tendenza è perciò ben rappresentata da György Radó che crede che per lo sviluppo della scienza della traduzione sia vitale la sintesi delle tendenze e dei linguaggi esistenti. La sintesi deve partire dalla creazione di bibliografie per documentare i vari studi (Radó 1985:305). Un’altra caratteristica di questo periodo è l’invito a usare un metalinguaggio accademico generico, accessibile a tutti gli studiosi (Bassnett-McGuire 1980:134).

La terza tendenza è rappresentata da James S. Holmes che, nei suoi scritti, ha abduttivamente creato i translation studies come sistema gerarchico descrivibile in chiave tassonomica, basandosi sulla complementarità di diverse teorie messe insieme. Sostiene che, per prima cosa, sia necessaria una teoria del processo traduttivo per poter riflettere su ciò che accade quando una persona decide di tradurre qualcosa. L’esigenza successiva riguarda la teoria del prodotto traduttivo, che serve per determinare lo specifico della traduzione in quanto tipo di testo particolare. E, come terza esigenza, una teoria della funzione traduttiva per comprendere il comportamento della traduzione nella cultura ricevente. Queste tre teorie non possono essere normative, poiché cercano di descrivere la situazione e non impongono alcuna regola. Tuttavia, la normatività è importante nella quarta teoria, quella della didattica della traduzione (Holmes 1988:95). Holmes ha, infatti, formulato il programma di una scienza interdisciplinare della traduzione, anche se le varie teorie della traduzione elaborano il programma in modi diversi e lo sviluppo è lungi dall’essere equilibrato.


Holmes did not create any illusions for himself, calling balanced translation studies a disciplinary utopia (Holmes 1988:109). Although Holmes’s taxonomy is in active use today, methodological innovation has not yet taken place and it is too early to speak of integrated translation studies. In the opinion of Edwin Gentzler who values Holmes’s model highly the enrichment of translation studies adding other cultural disciplines is still neglected: ‘With regard to the future of translation theory within the field of Translation Studies, while many date the cultural turn in Translation Studies as beginning in the 1990s, it is still in its infant stages’ (Gentzler 2003:22). Thus, before consolidation translation studies should open up. Gentzler states:

James Holmes called for a dialectical interchange among the various branches within Translation Studies. I agree with him and yet would open his directive to a broader enterprise. My hope is that a truly open, interdisciplinary, and dialectical interchange of ideas can now take place with scholars outside the discipline, from any number of other fields. (2003:23)

 

2.         The aspect of translation semiotics

Translation semiotics has its own identity but it is also closely related to translation studies. On the one hand, translation semiotics and, more generally, semiotics of culture are metadisciplines that enable translation studies to move towards the necessary methodological synthesis and provide a descriptive language. On the other hand, it can be argued that explicit translation semiotics is at the same time implicit translation studies. It is characteristic that when projecting modern translation studies on Holmes’s model of translation studies, semiotic translation theoreticians are forced to admit that the ‘pure’ theoretical branch of translation studies is still weak. This is expressed, among other things, in the incompetence of translation theory to answer the basic question what makes a translation a translation (Stecconi 2004:472-473).


Holmes non si era fatto illusioni, considerando i translation studies equilibrati un’utopia disciplinare (Holmes 1988:95). Anche se la tassonomia di Holmes è ancora in auge, non è avvenuta un’innovazione metodologica ed è troppo presto per parlare di scienza della traduzione integrata. Secondo Edwin Gentzler, che dà molta importanza al modello di Holmes, l’arricchimento dei translation studies aggiungendo altre scienze della cultura è ancora trascurato: «Per quanto riguarda il futuro della teoria della traduzione nell’ambito dei Translation Studies, anche se molti fanno risalire la svolta culturale all’inizio degli anni ’90, i Translation Studies sono ancora in una fase infantile» (Gentzler 2003:22). Perciò, prima di consolidarsi i translation studies dovrebbero aprirsi. Gentzler afferma:

James Holmes invocava uno scambio dialettico tra le varie discipline all’interno dei Translation Studies. Sono d’accordo con lui, ma amplierei il senso della sua indicazione. Ciò che spero è che possa esserci uno scambio interdisciplinare e dialettico veramente aperto con studiosi al di fuori della disciplina, provenienti da tanti ambiti diversi (2003:23).

 

2. L’aspetto della semiotica della traduzione

La semiotica della traduzione ha una propria identità, ma è anche strettamente collegata alla scienza della traduzione. Da un lato, la semiotica della traduzione e, più in generale, la semiotica della cultura sono metadiscipline che permettono alla scienza della traduzione di spingersi verso la necessaria sintesi metodologica e forniscono un linguaggio descrittivo. Dall’altro, si può sostenere che la semiotica della traduzione esplicita è allo stesso tempo la scienza della traduzione implicita. Un aspetto curioso è che nel proiettare la scienza della traduzione moderna sul modello dei translation studies di Holmes, i teorici di semiotica della traduzione sono obbligati ad ammettere che l’ambito “puramente” teorico della scienza della traduzione è ancora debole. Ciò si esprime, tra le altre cose, nell’incapacità della teoria della traduzione di rispondere alla domanda di base su cosa fa di una traduzione una traduzione (Stecconi 2004:472-473).


At the same time, the search for an answer to this question demonstrates that translation studies are essentially semiotic.

The key point for defining translation is establishing the boundaries of the translation text, which in semiotic analysis is one of the first procedural moves towards understanding something in its wholeness or as a whole. Thus, the starting point for defining translation is the question of the boundary between translation and non-translation. One possible answer to this question is ‘translation is everything called translation,’ in which case the notion of boundary has to be further specified. The result is a distinction between two more boundaries. The first one is the boundary between the translation and the original, and the second one is the boundary between the translation and the recipient culture (Torop 2000c:599).

Another option for defining translation has been suggested by Andrew Chesterman and Rosemary Arrojo. They have employed the polarity ‘essentialism versus non-essentialism’ to emphasize the complexity of the problem for translation studies in the twenty-first century, arguing:

In general, essentialism claims that meanings are objective and stable, that the translator’s job is to find and transfer these and hence to remain as invisible as possible. Non-essentialism, on the other hand, basically claims that meanings (including the meaning of the concept of ‘translation’) are inherently non-stable, that they have to be interpreted in each individual instance, and hence that the translator is inevitably visible. (Chesterman and Arrojo 2000:151)

From this polarity, a new logic for defining translation can be derived. Chesterman and Arrojo argue further:

The question ‘What is a translation?’ is closely linked to the question ‘What is a good translation?’. TS [1⁄4 translation studies] is interested in studying how opinions and criteria concerning translation quality vary within and across cultures and periods. It is also interested in seeing whether there are quality criteria that are shared across cultures and periods. (2000:154)

From this argument, we are back at the issues of invariance and variance.

By the end of the 1990s, the replacement of the concept of adequacy by the concept of acceptability had created a new need for paying close attention to the issue of translation quality (Schäffner 1998).


Allo stesso tempo, la ricerca di una risposta a questa domanda dimostra che la scienza della traduzione è essenzialmente semiotica.

Il punto chiave nel definire «traduzione» è stabilire i confini del testo tradotto, che nell’analisi semiotica è uno dei primi passi della procedura per comprendere qualcosa nella sua interezza o nell’insieme. Perciò il punto di partenza per definire «traduzione» è la questione del confine tra «traduzione» e «non traduzione». Una risposta possibile è «traduzione è tutto ciò chiamato “traduzione”», nel qual caso il concetto di «confine» dev’essere specificato ulteriormente. Il risultato è la distinzione tra altri due confini. Il primo è il confine tra la traduzione e l’originale e il secondo è il confine tra la traduzione e la cultura ricevente (Torop 2000b:599).

Un’altra opzione per definire «traduzione» è stata suggerita da Andrew Chesterman e Rosemary Arrojo, che hanno utilizzato la polarità «essenzialismo versus non essenzialismo» per evidenziare la complessità del problema della scienza della traduzione nel ventunesimo secolo, sostenendo:

In generale, l’essenzialismo afferma che i significati sono oggettivi e stabili, che il compito del traduttore è di trovarli e trasferirli e perciò di rimanere invisibile il più possibile. Il non essenzialismo, invece, praticamente afferma che i significati (compreso il significato del concetto di «traduzione») sono intrinsecamente non-stabili, che devono essere interpretati in ogni singolo caso, e perciò il traduttore è inevitabilmente visibile. (Chesterman e Arrojo 2000:151)

Da questa polarità può derivare una nuova logica per definire «traduzione». Chesterman e Arrojo continuano:

La domanda «Cos’è una traduzione?» è strettamente legata alla domanda «Cos’è una buona traduzione?» La scienza della traduzione s’interessa di studiare in che modo variano le opinioni e i criteri che riguardano la qualità della traduzione in culture e periodi diversi. S’interessa anche di scoprire se ci sono criteri qualitativi condivisi in culture e periodi diversi. (2000:154)

Da quest’argomentazione ritorniamo ai concetti d’invarianza e varianza.

Alla fine degli anni ’90, la sostituzione del concetto di accettabilità al concetto di adeguatezza aveva creato la necessità di fare molta attenzione alla questione della qualità della traduzione (Schäffner 1998).


The concerns with the quality of translation brought into focus the possibility of a theory of ‘good’ translation, which started from distinguishing two levels of questions. First, when comparing two texts, the questions that need to be asked on the first level are: ‘Is this text a translation of the other, or is it not? And if it is, is it a good translation?’ (Halliday 2001:14). On the second level, the same questions become more precise: ‘Why is this text a translation of the other? And why is it, or is it not, a good translation? In other words: how we know?’ (Halliday 2001:14).

But these new kinds of questions are really eternal questions. For a long time attempts have been made to find out the reasons why readers, given the choice between two (or more) translations of one original text, prefer certain translation(s) over others. A possible answer (the whole question is problematic) is the perceptual integrity of translation. The convincing proof is that both linguistic well-formedness and semiotic coherence are functional. It is vital for both translators as well as readers of translations that the text would activate flights of imagination, engaging all human senses. The senses include perceiving the visuality of the text, a feature difficult to pinpoint. In addition to translators’ own comments on their visualization techniques, it has also been argued within translation theory that the precondition to composing a ‘good’ translation is the translator’s recognition of the visual perceptibility of the text to be translated (Schulte 1980:82), while the failure to recreate the visual perceptibility of the text is listed among the shortcomings of translation (Caws 1986:60-61). Thus, a ‘good’ translation is perceptually an integrated whole and can be effectively visualized in the imagination of the reader.

The study of textual visuality and more broadly of all perceptibility of a verbal translation has developed in three main directions.


preoccupazioni per la qualità della traduzione hanno messo a fuoco la possibilità di una teoria della traduzione “buona”, che cominciava distinguendo due livelli di domande. Per prima cosa, nel raffrontare due testi, le domande che vanno poste al primo livello sono: «Questo testo è la traduzione dell’altro, o non lo è? E se lo è, è una buona traduzione?» (Halliday 2001:14). Al secondo livello, le stesse domande diventano più precise: «Perché questo testo è la traduzione dell’altro? E perché è, o non è, una buona traduzione? In altre parole: come facciamo a saperlo?» (Halliday 2001:14).

Ma questi nuovi tipi di domande in realtà sono domande che continueremo a porci per sempre. A lungo si è cercato di scoprire le ragioni per cui i lettori, dovendo scegliere tra due (o più) traduzioni di un testo originale, preferiscano certe traduzioni rispetto ad altre. Una possibile risposta (l’intera questione è problematica) è l’integrità percettiva della traduzione. La prova decisiva è che sia una buona struttura linguistica, sia la coerenza semiotica sono determinanti. È vitale sia per i traduttori, sia per i lettori delle traduzioni, che il testo riesca ad attivare fughe d’immaginazione, coinvolgendo tutti i cinque sensi. I sensi includono la percezione della visualità del testo, un aspetto difficile da individuare. Oltre ai commenti dei traduttori riguardo alle proprie tecniche di visualizzazione, all’interno della scienza della traduzione si è anche sostenuto che la condizione necessaria per fare una “buona” traduzione sia il riconoscimento da parte del traduttore della percettibilità visuale del testo da tradurre (Schulte 1980:82), mentre l’impossibilità di ricreare la percettibilità visuale del testo è catalogato tra i difetti della traduzione (Caws 1986:60-61). Perciò una “buona” traduzione è un tutto integrato a livello percettivo e può essere visualizzata in modo efficace nell’immaginazione del lettore.

Lo studio della visualità testuale e, in senso più ampio, dell’intera percettibilità di una traduzione verbale si è sviluppato in tre direzioni principali.


One direction is the wide uses of linguistic means including paralinguistic elements in the analysis (Poyatos 1997). This direction pays attention to the performance qualities of a text and regards narrative or other non-dramaturgic texts as framing scenes to which are added the author’s comments on the objects, movements, facial expressions, manner of speaking, and so forth. A second direction is psychological, and focuses on the interaction between the verbal and the visual, the speech and the picture both in inner speech as well as in the processes of perception and reception (cf. Osimo 2002). The third direction is comparative, displaying the broader nature of translation activity through film, especially through film adaptations of literary works. The last alternative is not only material but reveals the semiotic side of translation mechanisms and shows the division of the verbal text into audial, visual, and verbal components (Cattrysse 1992; Remael 1995; Torop 2000a).

With the introduction of multimedia studies, many authors who had so far focused on comparing translation with film adaptation of literary works, turned their attention to multimedia. The study of multimedia and of the related phenomenon of multimodality has broadened the methodological perspective towards a more accurate understanding of the semiotic nature of translation. Thus Aline Remael assures that

[…] the nature of multimodal or even multimedia texts need not require translation scholars to abandon all their trusted methods . . . I have demonstrated the usefulness of the simple application of a few concepts from a branch of socio-semiotics concerned with the production of multimodal texts which can easily be incorporated into existing methods in translation studies. (Remael 2001:21)

Whereas Patrick Cattrysse ends his article with his own proposal for a new kind of collaboration that would benefit all parties:

To me, the largest challenge for multimedia translation seems to be the new types of collaboration. Such new types of collaboration will be necessary on three levels: on the level of scientific research, on the level of education and training, and on the level of MM [multimedia] production. (Cattrysse 2001:11)


Una di queste riguarda gli ampi usi del mezzo linguistico, inclusi gli elementi paralinguistici, nell’analisi (Poyatos 1997). Questa direzione fa attenzione alle qualità della prestazione di un testo e considera le narrazioni, o altri testi non drammaturgici, cornici nelle quali vengono aggiunti i commenti dell’autore sugli oggetti, i movimenti, le espressioni facciali, i modi di parlare e così via. Una seconda direzione è quella psicologica, che si focalizza sull’interazione tra il verbale e il visivo, il discorso e l’immagine sia nel discorso interno, sia nei processi di percezione e ricezione (Osimo 2002).  La terza direzione è quella comparativa, che mostra la natura più ampia dell’attività traduttiva attraverso i film, in special modo attraverso gli adattamenti filmici di opere verbali. Quest’ultima alternativa non è solo materiale, ma rivela il lato semiotico dei meccanismi traduttivi e mostra la divisione di un testo in componenti uditive, visive e verbali (Cattrysse 1992; Remael 1995; Torop 2000a).

Con l’introduzione degli studi sulla multimedialità, molti autori, che fino ad allora si erano concentrati sul paragone tra traduzione e adattamento filmico di opere verbali, hanno rivolto la loro attenzione alla multimedialità. Lo studio della multimedialità e il relativo fenomeno della multimodalità hanno ampliato l’orizzonte metodologico verso una più accurata comprensione della natura semiotica della traduzione. Perciò Aline Remael assicura che

[…] la natura dei testi multimodali o addirittura multimediali non rende necessario che gli studiosi abbandonino tutti i loro metodi fidati. […] Ho dimostrato l’utilità della semplice applicazione di alcuni concetti, provenienti da un ramo della sociosemiotica che si occupa della produzione di testi multimodali, che possono essere facilmente compresi nei metodi esistenti nella scienza della traduzione (Remael 2001: 21).

Mentre invece Cattrysse conclude il suo articolo con la proposta di un nuovo tipo di collaborazione, di cui tutti beneficerebbero:

A me la sfida più grande per la traduzione multimediale sembrano i nuovi tipi di collaborazione. Questi nuovi tipi di collaborazione saranno necessari a tre livelli: a livello di ricerca scientifica, a livello di istruzione e formazione e a livello di produzione multimediale (Cattrysse 2001: 11).


Cattrysse links comparative communication studies (or better, comparative semiotics) with translation studies (2001:6) in order to reply to these essential questions of modern translation activity:

How can we compare messages expressed in different semiotic systems? How can we establish tertia comparationes? How can we describe and explain the different translational processes in a systemic way? How can we describe and explain the final results of the translational processes? How can we describe and explain the functioning of these results within their respective target contexts? (Cattrysse 2001:8–9)

These are just some of the fundamental questions that Cattrysse poses in his article.

Disciplines studying translation have thus reached a stage where the nature of translation text is being reinterpreted and the semiotic fidelity of the translation text to the original is being defined. Therefore, it has become important to distinguish between isosemiotic and polysemiotic texts, both on the level of autonomous texts as well as on the level of textual parameters (Gottlieb 2003:178-179). The changes that the ontology of the translation text and the status of translation activity have undergone in culture imply that the object of translation studies is equally subject to a complex semiotic treatment and that the methodology of translation studies needs to reach an agreement with the dynamics of culture.

The contacts between translation studies and translation semiotics have multiplied and created a common methodological translatability. As part of translation studies, translation semiotics has provided a different outlook on the problems of translatability, from the linguistic worldview to the functions of translation text as a text of culture. A new approach to translatability has in turn made it possible to raise the problem of semiotic coherence. As part of semiotics, translation semiotics engages in comparative analysis of sign systems and functional relations between different sign systems. As an autonomous discipline, translation semiotics is one of the primary disciplines


Cattrysse collega lo studio della comunicazione comparativa (o meglio, la semiotica comparativa) con la scienza della traduzione (2001:6) per rispondere a queste domande fondamentali sull’attività traduttiva moderna:

Come facciamo a comparare messaggi espressi in diversi sistemi semiotici? Come facciamo a stabilire i tertia comparationis? Come facciamo a descrivere e spiegare i diversi processi traduttivi in modo sistemico? Come facciamo a descrivere e spiegare i risultati finali dei processi traduttivi? Come facciamo a descrivere e spiegare il funzionamento di questi risultati all’interno dei rispettivi contesti di ricezione? (Cattrysse 2001:8-9)

Queste sono solo alcune delle domande fondamentali che Cattrysse pone nel suo articolo.

Le discipline che studiano la traduzione hanno, quindi, raggiunto uno stadio in cui si reinterpreta la natura del testo tradotto e si definisce la fedeltà semiotica del testo tradotto all’originale. Perciò è diventato importante distinguere tra testi isosemiotici e polisemiotici, sia a livello di testi autonomi, sia a livello di parametri testuali (Gottlieb 2003:178-79). I cambiamenti dell’ontologia del testo tradotto e dello status dell’attività traduttiva nella cultura implicano che l’oggetto della scienza della traduzione sia ugualmente soggetto a un complesso trattamento semiotico e che la metodologia della scienza della traduzione debba trovare un accordo con la dinamica della cultura.

I contatti tra scienza della traduzione e semiotica della traduzione si sono moltiplicati e hanno determinato una traducibilità metodologica comune. Come parte della scienza della traduzione, la semiotica della traduzione ha fornito una prospettiva diversa riguardo ai problemi di traducibilità, dalla visione linguistica del mondo alle funzioni del testo tradotto in quanto testo della cultura. Un nuovo approccio alla traducibilità ha a sua volta reso possibile sollevare il problema della coerenza semiotica. Come parte della semiotica, la semiotica della traduzione si occupa dell’analisi comparativa dei sistemi di segni e dei rapporti funzionali tra diversi sistemi di segni. Come disciplina autonoma, la semiotica della traduzione è una delle discipline primarie


of cultural analysis as it provides the means, through its semiotic approach, to distinguish and discern the degree of sign systems’ translatability, then to describe both communication and metacommunication, and subsequently to associate these communication processes with the intertextual, interdiscursive, and intermedial space in the present-day culture (Torop 2001). But the theoretical formulation of present-day problems already had its beginnings a long time ago, and the present problems of translation studies and translation semiotics have largely been formulated already in the works of Roman Jakobson. This means that the endeavor to innovate can sometimes lead us into historical perceptions.

3.         Jakobsonian perspective

The genesis of Jakobson’s translation semiotic thinking was influenced by his reading of Peirce. This aspect of genesis has been closely observed by one of the most renowned representatives of translation semiotics, Dinda L. Gorlée, in her chapter ‘Translation after Jakobson after Peirce’ (Gorlée 1994:147-168). The aim of this chapter is

[…] to discuss translation as singled out by Jakobson among Peirce’s sign- theoretical concepts, and which Jakobson utilized again in a more restricted sense than originally intended by Peirce. For Jakobson, and in contradistinction to Peirce, translation is a metalinguistic process always involving language. I will propose and argue that the three kinds of translation put forth by Jakobson (1959:233; 1971b:261) can be construed and (re)refined in terms of Peirce’s three ontological categories, or modes of being. (Gorlée 1994:148)

Thus, Jakobson can be analyzed by means of methodological back translation into the contours that had earlier inspired him, into the works of Peirce. Gorlée, as a true expert on Peirce, carries out this project. Without stopping there, Gorlée develops a concept of semiotranslation, which ‘is a unidirectional, future-oriented, cumulative, and irreversible process, a growing network which should not be pictured as a single line emanating from a source text toward a designated target text’ (Gorlée 2004:103-104).


dell’analisi culturale, poiché fornisce i mezzi, attraverso il suo approccio semiotico, per distinguere e discernere il grado di traducibilità dei sistemi segnici, poi per descrivere sia la comunicazione, sia la metacomunicazione, e di conseguenza per associare questi processi di comunicazione allo spazio intertestuale, interdiscorsivo e intermediale nella cultura contemporanea (Torop 2001). Ma la formulazione teorica dei problemi contemporanei ha avuto inizio molto tempo fa e gli attuali problemi della scienza della traduzione e della semiotica della traduzione sono stati ampiamente elaborati già negli scritti di Roman Jakobson. Ciò significa che lo sforzo verso l’innovazione talvolta può portarci verso prospettive storiche.

3. La prospettiva di Jakobson

La nascita delle riflessioni semiotiche di Jakobson intorno alla traduzione è stata influenzata dalla lettura di Peirce. Questo aspetto è stato studiato minuziosamente da uno dei più noti rappresentanti della semiotica della traduzione, Dinda L. Gorlée, nel suo capitolo «Translation after Jakobson, after Peirce» (Gorlée 1994:147-168). Lo scopo di questo capitolo è:

[…] discutere la traduzione individuata da Jakobson tra le teorie del segno di Peirce, e che Jakobson ha riutilizzato in senso più ristretto di quanto intendesse Peirce in origine. Per Jakobson, e in contraddizione con Peirce, la traduzione è un processo metalinguistico che coinvolge sempre la lingua. Io propongo e sostengo che i tre tipi di traduzione elaborati da Jakobson (1959:233; 1971b:261) possono essere interpretati e (ri)rifiniti nei termini delle tre categorie ontologiche di Peirce, o modalità dell’essere. (Gorlée 1994:148)

Perciò si può analizzare Jakobson per mezzo di una traduzione metodologica inversa nei termini degli scritti di Peirce che lo avevano ispirato. Gorlée, in quanto vera esperta di Peirce, realizza questo progetto. Ma non si ferma qui. Sviluppa, infatti, il concetto di «semiotraduzione», che è «un processo unidirezionale, orientato al futuro, cumulativo e irreversibile, una rete in espansione che non deve essere rappresentata come una linea singola che deriva da un prototesto verso un determinato metatesto» (Gorlée 2004:103-104).


Semiotranslation is a complex metadisciplinary concept, which also influences the definition of translator’s competence and defines the knowledge of the translator as follows:

[…] the professional translator must have learned and internalized a vast number of associations and combinations with reference to individual languages (intralingual translation), language pairs (interlingual translation), and the interactions between language and nonverbal sign systems (intersemiotic translation). (Gorlée 2004:129)

Other scholars associated with semiotics have developed Jakobson’s views on translation according to their own ways of thinking and aims. A good example is provided by a series of modifications based on Jakobson’s typology of three kinds of translation, proposed by Gideon Toury in 1986, Umberto Eco in 2001, 2003 and Susan Petrilli in 2003.1 All of these authors have their own interpretation of Jakobson’s typology seen from their own angle, and come with their own theoretical premises.

In Jakobson’s now classic article of 1959 ‘On linguistic aspects of translation’ he distinguishes ‘three ways of interpreting a verbal sign’ (Jakobson 1971 [1959]:261): a verbal sign may be translated into other signs of the same language (intralingual translation), into another language (interlingual translation), or into another, nonverbal system of symbols (intersemiotic translation or transmutation).2 At the time of its appearance, the victory of Jakobson’s article lay in the introduction of a wider perspective on translation (cf. Levy ́ 1974:35; Steiner 1998 [1975]:274), which made possible the introduction of intersemiotic translation (Eco 2001:67).

The first revision of Jakobson’s typology was offered by Gideon Toury in his article ‘Translation: A cultural-semiotic perspective’ written for the Encyclopedic Dictionary of Semiotics (1986). Toury tries to form a systematic view of translation-related issues as seen from a cultural-semiotic angle and is forced to admit that translation studies is short of typologies of translating processes and translating activities.


La semiotraduzione è un complesso concetto metadisciplinare, che influenza anche la definizione della competenza del traduttore e definisce la conoscenza del traduttore come segue:

[…] il traduttore professionale deve aver imparato e interiorizzato un gran numero di associazioni e combinazioni in riferimento a singole lingue (traduzione intralinguistica), coppie di lingue (traduzione interlinguistica) e le interazioni tra lingua e sistemi di segni non verbali (traduzione intersemiotica) (Gorlée 2004:129).

Altri studiosi che si occupano di semiotica hanno sviluppato le opinioni di Jakobson sulla traduzione in base ai loro modi di pensare e ai loro scopi. Una serie di modifiche basate sulla tipologia di Jakobson dei tre tipi di traduzione, proposte da Gideon Toury nel 1986, da Umberto Eco nel 2001 e nel 2003 e da Susan Petrilli nel 2003 ne offrono un buon esempio1. Tutti questi autori hanno interpretato dal proprio punto di vista la tipologia di Jakobson e sono partiti dai propri presupposti teorici.

Nell’articolo del 1959 «Sugli aspetti linguistici della traduzione», ormai diventato un classico, Jakobson distingue «tre modi di interpretare un segno verbale» (Jakobson 1971 [1959]: 261): un segno verbale può essere tradotto in altri segni della stessa lingua (traduzione intralinguistica), in un’altra lingua (traduzione interlinguistica) o in un altro sistema non verbale di simboli (traduzione intersemiotica o trasmutazione)2. Al momento della pubblicazione, la conquista dell’articolo di Jakobson stava nell’introduzione di una prospettiva più ampia sulla traduzione (Levy 1974:35; Steiner 1998 [1975]:274), che ha reso possibile l’introduzione della traduzione intersemiotica (Eco 2001:67).

Gideon Toury ha proposto la prima rilettura della tipologia di Jakobson nel suo articolo «Translation: A cultural-semiotic perspective», scritto per l’Enciclopedic Dictionary of Semiotics (1986). Toury cerca di formare un punto di vista sistematico sulle questioni inerenti alla traduzione, viste da una prospettiva semiotico-culturale ed è obbligato ad ammettere che la scienza della traduzione è a corto di tipologie per i processi traduttivi e le attività traduttive.


Jakobson’s classification, Toury maintains, is the ‘only typology which has gained some currency’ in translation studies (Toury 1986:1113), and is an elaboration of the relations between the basic types of two codes. Toury has several objections to Jakobson’s classification: his typology is obviously biased towards linguistic translating,3 and it is ‘readily applicable only to texts, that is, to semiotic entities which have surface, overt representations’ (Toury 1986:1113) adding that Jakobson’s typology is unable to account for the fact that texts, ‘when undergoing an act of translating … may have more than one semiotic border to cross’ (Toury 1986:1113). For Toury, however, the notion that ‘translating is an act (or a process) which is performed (or occurs) over and across systemic borders’ (1986:1112) is precisely the differentia specifica of translating as a type of semiotic activity and should therefore be taken account of. In his opinion, a typology of translating processes based on the relations between the underlying codes could have been rendered more general, and by way of example, he offers his own version based on Jakobson’s typology where the most general division is made between intrasemiotic and intersemiotic translating, with the first category further divided into intrasystemic and intersystemic translating. Thus, in Toury’s scheme, ways of translating that involve language (intralingual, interlingual, and translation from language to non-language) are reduced to the level of possible examples of translative processes within or between different systems (Toury 1986:1114).

Toury’s typology is constructed from a different viewpoint than Jakobson’s approach. Jakobson’s point of departure is natural language: he outlines the various possibilities of interpreting a verbal sign. Toury so-to-say steps outside the natural language, decentralizes it, and reorganizes Jakobson’s single-level tripartition into a two-level typology.

Another scholar to have taken up Jakobson’s typology and developed it according to his views is Umberto Eco


La classificazione di Jakobson, afferma Toury, è «l’unica tipologia che ha ottenuto un minimo di diffusione» nella scienza della traduzione (Toury 1986:1113), ed è un’elaborazione dei rapporti tra i tipi base di due codici. Toury contesta in vari modi la classificazione di Jakobson: la sua tipologia è ovviamente sbilanciata verso la traduzione verbale3 ed è «applicabile senza difficoltà solo ai testi, ovvero a entità semiotiche che hanno delle rappresentazioni superficiali ed evidenti» (Toury 1986:1113) e aggiunge che la tipologia di Jakobson non è in grado di giustificare il fatto che i testi «quando sono soggetti a un atto traduttivo […] possono avere più di un confine semiotico da attraversare» (Toury 1986:1113). Tuttavia, per Toury l’idea che «tradurre è un atto (o un processo) che si compie (o avviene) al di là di e attraverso confini sistemici» (1986:1112) è precisamente la differentia specifica della traduzione come tipo di attività semiotica e perciò dovrebbe essere presa in considerazione. Secondo lui, una tipologia dei processi traduttivi basata sui rapporti tra i codici coinvolti sarebbe potuta essere più generale e, con un esempio, propone la propria versione basata sulla tipologia di Jakobson, in cui la divisione più generale è tra traduzione intrasemiotica e intersemiotica e la prima categoria è a sua volta divisa in traduzione intrasistemica e intersistemica. Perciò, secondo lo schema di Toury, i modi di tradurre che coinvolgono la lingua (traduzione intralinguistica, interlinguistica o traduzione da una lingua a una non lingua) si riducono al livello di possibili esempi di processi traduttivi in o tra sistemi diversi (Toury 1986:1114).

La tipologia di Toury è costruita da un punto di vista diverso dall’approccio di Jakobson. Il punto di partenza di Jakobson è il linguaggio naturale e delinea le varie possibilità d’interpretazione di un segno verbale. Toury, per così dire, esce dal mondo del linguaggio naturale, lo decentra e riorganizza la tripartizione Jakobsoniana a un livello in una tipologia a due livelli.

Un altro studioso che ha ripreso la tipologia Jakobsoniana e la ha sviluppata secondo il proprio punto di vista è Umberto Eco,


in his book Experiences in Translation (2001) and later in its Italian and expanded version Dire quasi la stessa cosa (2003). Eco suggests, first, that Jakobson most probably meant that his three types of translation are in fact three types of interpretation, and if one did not pay closer attention, ‘it would be easy to succumb to the temptation to identify the totality of semiosis with a continuous process of translation; in other words, to identify the concept of translation with that of interpretation’ (Eco 2001:68). Eco explains Jakobson’s indifference towards clarifying the relations between translation and interpretation with the fact that Jakobson, the first linguist to discover ‘the fecundity of Peircean concepts’ (Eco 2001:68), fell prey to Peirce’s ‘notoriously protean and often impressionistic’ vocabulary (Eco 2001:69), which led to the use of the word ‘translation’ as a synecdoche for ‘interpretation.’ Eco, however, insists that the identification of the concepts of translation and interpretation should be avoided and sets out to ‘to show that the universe of interpretations is vaster than that of translation proper’ (Eco 2001:73).

Thus, Eco proposes a different classification of the forms of interpretation, a classification where ‘due importance is attached to the problems posed by variations in both the substance and the purport of the expression’ (Eco 2001:99-100). As is evident from Eco’s choice of words, his point of reference here is Louis Hjelmslev’s theory of language with the distinctions between form, substance, and purport (or continuum).4 Besides the influence of Hjelmslev and the obvious point of departure in Jakobson’s tripartition, Eco’s classification shows also some similarities with Toury’s typology as discussed above (although Toury’s name goes unmentioned in Eco). While Jakobson’s original typology distinguished between three categories and Toury’s modification resulted in four general categories divided between two levels, Eco’s classification has a total of thirteen categories divided between three levels.


nel suo libro Experiences in Translation (2001) e poi in Dire quasi la stessa cosa (2003), la versione italiana più estesa. Eco sostiene, per prima cosa, che molto probabilmente Jakobson pensava che i suoi tre tipi di traduzione fossero in realtà tre tipi di interpretazione e se non ci si prestasse particolare attenzione «sarebbe facile soccombere alla tentazione di identificare la semiosi nella sua totalità con un continuo processo di traduzione; in altre parole, di identificare il concetto di “traduzione” con quello d’“interpretazione”» (Eco 2001:68). Eco spiega l’indifferenza di Jakobson nei confronti della precisazione dei rapporti tra traduzione e interpretazione con il fatto che Jakobson, il primo linguista a scoprire «la fecondità delle idee di Peirce» (Eco 2001:68), è stato vittima del vocabolario di Peirce «notoriamente mutevole e spesso impressionistico» (Eco 2001:69), che ha portato all’uso della parola «traduzione» come sineddoche di «interpretazione». Tuttavia, Eco sostiene che si debba evitare l’identificazione dei concetti di «traduzione» e «interpretazione» e si propone «di mostrare che l’universo delle interpretazioni è più vasto di quello della traduzione vera e propria» (Eco 2001:73).

Perciò Eco propone una diversa classificazione delle forme d’interpretazione, una classificazione in cui «si dà la giusta importanza ai problemi posti dalle variazioni sia nella sostanza, sia nella portata dell’espressione» (Eco 2001:99-100). Come appare evidente dalla scelta di parole di Eco, qui il suo punto di riferimento è la teoria del linguaggio di Louis Hjelmslev e le distinzioni tra forma, sostanza e portata (o continuum)4. Oltre all’influenza di Hjelmslev e all’ovvio punto di partenza nella tripartizione di Jakobson, la classificazione di Eco mostra anche qualche somiglianza con la tipologia di Toury di cui sopra (anche se il nome di Toury non viene menzionato da Eco). Mentre la tipologia originale di Jakobson distingueva tre categorie e la variazione di Toury ha avuto come risultato quattro categorie generali divise in due livelli, la classificazione di Eco ha un totale di tredici categorie divise in tre livelli.


Similarly to Jakobson, Eco’s initial division on the highest level is tripartite, but since the first class, interpretation by transcription, is soon dismissed as taking place by automatic substitution and therefore as uninteresting for the discussion at hand (Eco 2001:100), the initial division is left essentially with two classes, intrasystemic interpretation and intersystemic interpretation.

This division is already rather similar to Toury’s typology, with the main difference lying in the fact that for Toury, the word ‘semiotic’ is more general than ‘systemic’ (e.g. in Toury’s typology, intrasemiotic translating is subdivided into intrasystemic and intersystemic translating). For Eco, on the contrary, ‘systemic’ is a wider concept than ‘semiotic.’ As already mentioned, the first class of the most general level (interpretation by transcription) has no further subdivisions at all. The second class (intrasystemic interpretation) has three subclasses (intralinguistic interpretation, intrasemiotic interpretation, and performance), and the third class (intersystemic interpretation) falls into two subdivisions (with marked variation in the substance and with mutation of continuum), the first one of which has three further subclasses (interlinguistic interpretation, rewriting, and translation between other semiotic systems) and the second has two subclasses (parasynonymy and adaptation).

Since Eco’s central concern is to single out ‘translation proper’ (that is, what is generally understood by ‘translation’ and takes place between natural languages) from among other types of interpretation, translation in natural language remains the implicit focal point of his typology. This may explain why the word ‘linguistic’ appears in Eco’s classification on the same classificatory level as ‘semiotic,’ not as a subclass of ‘semiotic.’ The semiolinguistic category is further supported by the long tradition in (anthropo)semiotics that regards natural language as the central and pri- mary means of communication, the primary modeling system.5


Similmente a Jakobson, la divisione iniziale di Eco al livello più elevato è tripartita, ma poiché la prima classe, «interpretazione per trascrizione», viene presto scartata perché avviene tramite sostituzione automatica e perciò non è rilevante per la discussione in questione (Eco 2001:100), la divisione iniziale rimane essenzialmente con due classi, l’interpretazione intrasistemica e l’interpretazione intersistemica.

Questa divisione è già piuttosto simile alla tipologia di Toury; la differenza principale risiede nel fatto che per Toury la parola «semiotico» è più generica di «sistemico» (per esempio, nella tipologia di Toury la traduzione intrasemiotica è suddivisa in traduzione intrasistemica e intersistemica). Per Eco, invece, «sistemico» è un concetto più ampio di «semiotico». Come già accennato, la prima classe del livello più generico (interpretazione per trascrizione) non ha ulteriori suddivisioni. La seconda classe (interpretazione intrasistemica) ha tre sottoclassi (interpretazione intralinguistica, interpretazione intrasemiotica e performance) e la terza classe (interpretazione intersistemica) è soggetta a due suddivisioni (in base a una variazione marcata nella sostanza o a una mutazione del continuum), la prima delle quali ha altre tre sottoclassi (interpretazione interlinguistica, riscrittura, e traduzione tra altri sistemi semiotici) e la seconda ha due sottoclassi (parasinonimia e adattamento).

Poiché l’interesse principale di Eco è selezionare la «traduzione vera e propria» (ovvero, ciò che generalmente s’intende con «traduzione» e che avviene tra linguaggi naturali) da altri tipi d’interpretazione, la traduzione in una lingua naturale rimane il punto focale implicito della sua tipologia. Questo forse spiega perché la parola «linguistico» nella classificazione di Eco appaia allo stesso livello classificatorio di «semiotico», non come sottoclasse di «semiotico». La categoria semiolinguistica è inoltre sostenuta dalla lunga tradizione dell’antroposemiotica che considera il linguaggio naturale il mezzo di comunicazione principale e più importante, il sistema di modellizzazione più importante.5


The most recently published interpretation of Jakobson’s typology comes from Susan Petrilli in her article ‘Translation and semiosis. Introduction’ (2003). Combining Jakobson’s typology with Peircean semiotics, she states at the very beginning that ‘in the first place to translate is to interpret’ (Petrilli 2003:17), that translation is constitutive of the sign and that sign activity is, in fact, a translative process. This means that, quoting Petrilli, ‘translation does not only concern the human world, anthroposemiosis, but rather is a constitutive modality of semiosis, or more exactly, of biosemiosis’ (Petrilli 2003:17) and therefore, translative processes can be said to pervade the entire living world, the biosphere.6

Petrilli proposes a comprehensive typology of translating processes, ranging from intersemiosic translation (translative processes across two or more sign systems) and endosemiosic translation (translative processes internal to a given system) in biosemiosphere to diamesic, diaphasic, and diglossic translation (translation between written and oral language, across registers, and between a standard language and a dialect, respectively) (Petrilli 2003:19-20). Petrilli prefers to use the prefix endo- instead of intra- in the terms endosemiosic, endolinguistic, endoverbal, endolingual. Usually, terms that work together belong to the same system: thus, a term with a prefix ‘endo-’ would normally assume the use of its counterpart, a term with a prefix ‘exo-,’ and similarly, ‘inter-’ would assume its counterpart ‘intra-’. Therefore the terminological field of Petrilli’s classification makes a somewhat heterogeneous and disorienting model, particularly in the case of endolingual translation which essentially corresponds to Jakobson’s intralingual translation. Also, following Petrilli’s argument, it seems that the typology could include two more categories, endosemiotic and interverbal translation, which, however, are missing.


L’interpretazione della tipologia di Jakobson di più recente pubblicazione è quella di Susan Petrilli, nel suo articolo «Traduzione e semiosi. Considerazioni introduttive» (2000). Unendo la tipologia di Jakobson con la semiotica di Peirce, afferma fin dall’inizio che «tradurre è in primo luogo interpretare» (Petrilli 2000:9), che la traduzione è una parte costitutiva del segno e che l’attività segnica è di fatto un processo traduttivo. Ciò significa che, citando Petrilli, «la traduzione non riguarda soltanto il mondo umano, l’antroposemiosi, ma è una modalità costitutiva della semiosi […], della biosemiosi» (Petrilli 2000:9) e perciò si può affermare che i processi traduttivi pervadono l’intero mondo vivente, la biosfera6.

Petrilli propone una tipologia globale dei processi traduttivi, spaziando dalla traduzione intersemiosica (processi traduttivi tra due o più sistemi di segni) e dalla traduzione endosemiosica (processi traduttivi all’interno di un sistema dato) nella biosemiosfera alla traduzione diamesia, diafasica e diglossica (rispettivamente la traduzione tra lingua scritta e orale, tra registri diversi e tra una lingua standard e un dialetto) (Petrilli 2000:10). Petrilli preferisce usare il prefisso «endo-» invece di «intra-» nei termini «endosemiosico», «endolinguistico», «endoverbale», «endolinguale». Di solito i termini collegati tra loro appartengono allo stesso sistema: perciò un termine con il prefisso «endo-» dovrebbe di norma far presumere l’uso della sua controparte, ovvero un termine con il prefisso «eso-» e, similmente, «inter-» dovrebbe avere come controparte «intra-». Di conseguenza, il campo terminologico della classificazione di Petrilli forma un modello alquanto eterogeneo e confusionario, in particolare nel caso della traduzione endolinguale che in realtà corrisponde alla traduzione intralinguistica di Jakobson. E poi, seguendo l’argomentazione di Petrilli, sembra che la tipologia possa comprendere altre due categorie, la traduzione endosemiotica e interverbale, che, tuttavia, mancano.


When compared to Jakobson’s typology and its later modifications by Toury and Eco, Petrilli’s scheme has an explicit conceptual innovation: the inclusion of translative processes outside the human world. In contrast to Eco, who tries to establish the boundaries of translation (in its ‘proper’ sense), drawing attention to the fact that ‘the variety of semiosis gives rise to phenomena whose difference is of the maximum importance for the semiologist’ (Eco 2001:73), Petrilli goes to the other extreme, maximally extending the notion of translation.

It seems natural that the search for translational processes extending beyond human verbal language would start with the generality of semiotic laws. Jakobson found in Peirce’s works fundamental rules for discussing the nature of sign and meaning as well as translation and ‘insisted that a widened definition of translation – as the interpretation of sign by another – was an essential aspect of semiotic activity’ (Rudy and Waugh 1998:2262). Peirce is naturally present in the discussions about translation of the semioticians Eco and Petrilli. Toury is the only one of the three who, commenting on Jakobson, does not mention Peirce at all (even though he is writing for a specifically semiotic encyclopedia); his semiotic background is more in line with the tradition of semiotics of culture. Surprisingly, Toury radically decentralizes natural language in his typology of translation. Eco remains centered on translation in natural language and, in fact, so does Petrilli, even though she extends the notion of translation beyond the human sphere. Petrilli’s typology unfolds into more and more detail with regard to specifically natural language, ending with a tripartite division between varieties of translational processes within a single natural language. In general, however, ‘methodologically the tradition that has its roots in Jakobson and in part also in Peirce has been characterized by bringing the concepts of meaning, interpretation and translation close to one another and viewing culture as a mechanism of translation’ (Torop 2002:598).


Se messo a confronto con la tipologia Jakobsoniana e le successive modifiche di Toury ed Eco, lo schema di Petrilli ha un’innovazione concettuale esplicita: l’inserimento dei processi traduttivi al di fuori della sfera umana. Diversamente da Eco, che cerca di stabilire i confini della traduzione (in senso “vero e proprio”) e si concentra sul fatto che «la molteplicità della semiosi dà origine a fenomeni di cui la differenza è dimassima importanza per il semiologo» (Eco 2001:73), Petrilli va verso il polo opposto e amplia al massimo grado il concetto di «traduzione».

Sembra del tutto naturale che la ricerca di processi traduttivi che si estendono al di là del linguaggio verbale umano parta dai concetti generali delle leggi semiotiche. Negli scritti di Peirce, Jakobson ha trovato le leggi fondamentali per discutere della natura sia del segno e del significato, sia della traduzione e «ha sostenuto che una definizione estesa di traduzione – come interpretazione di un segno in un altro – fosse un aspetto essenziale dell’attività semiotica» (Rudy and Waugh 1998:2262). È naturale che, nella discussione sulla traduzione dei semiotici Eco e Petrilli, sia presente Peirce. Toury è l’unico dei tre che, commentando Jakobson, non cita per nulla Peirce (anche se scrive per un’enciclopedia specificamente semiotica); la sua formazione semiotica è più in linea con la tradizione della semiotica della cultura. A sorpresa, nella sua tipologia della traduzione, Toury decentra il linguaggio naturale in modo radicale. Eco rimane concentrato sulla traduzione nel linguaggio naturale e, in effetti, anche Petrilli, anche se quest’ultima estende il concetto di traduzione al di là della sfera umana. La tipologia di Petrilli ha delle suddivisioni sempre più dettagliate riguardo al linguaggio naturale nello specifico e si conclude con una divisione tripartita tra le varietà dei processi traduttivi all’interno di una singola lingua. Tuttavia, in generale, «a livello metodologico la tradizione che affonda le proprie radici in Jakobson e, in parte, anche in Peirce è caratterizzata dall’avvicinamento dei concetti di significato, interpretazione e traduzione e dalla considerazione della cultura come meccanismo traduttivo» (Torop 2002:598).


Jakobson’s concepts of intralingual, interlingual, and intersemiotic translation as a repeatedly reconceptualized three-way typology brings the problems of the present-day translation studies as well as semiotics back to the turning point that Jakobson seems to represent. Jakobson’s interest in the issues of translation can be regarded as a quest for deeper understanding of communication processes, and his views on translation cannot be isolated from his general theory of communication. Jakobson envisioned a total science of communication within which he distinguished between linguistics as a means to study verbal messages and semiotics as a means to study any messages (Jakobson 1971:666). He anticipated that the study of communication would grow increasingly aware of the relevance of translation and related issues, for example: ‘Besides encoding and decoding, also the procedure of recoding, code switching, briefly, the various facets of translation, is becoming one of the focal concerns of linguistics and of communication theory […]’ (Jakobson 1971 [1961]:576).

Part of the complexity of the phenomenon of communication comes from the realization that ‘the nature of the signans itself is of great importance for the structure of messages and their typology. All five external senses carry semiotic functions in human society’ (Jakobson 1971 [1968]:701). From here, Jakobson starts to unfold the logic of translation: ‘Signans meant the perceptible and signatum the intelligible, translatable aspect of the signum (sign)’ (Jakobson 1985 [1974]:99). Intelligibility as translation is, however, only the first step, for understanding messages in a communication process presupposes a more elaborated approach: ‘The study of communication must distinguish between homogeneous messages which use a single semiotic system and syncretic messages based on a combination or merger of different sign patterns’ (Jakobson 1971 [1961]:705).


I concetti Jakobsoniani di traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica in quanto tipologia a tre riconcettualizzata più volte, riportano i problemi della scienza della traduzione contemporanea e la semiotica al punto di svolta rappresentato da Jakobson. Si può considerare l’interesse di Jakobson verso la questione della traduzione la ricerca di una comprensione più profonda dei processi di comunicazione e non si possono separare le sue considerazioni sulla traduzione dalla teoria generale della comunicazione. Jakobson ha immaginato una scienza totale della comunicazione all’interno della quale distingueva tra la linguistica come mezzo per studiare i messaggi verbali e la semiotica come mezzo per studiare qualsiasi messaggio (Jakobson 1971:666). Ha previsto che lo studio della comunicazione sarebbe diventato sempre più consapevole della rilevanza della traduzione e delle questioni affini, per esempio: «Oltre alla codifica e alla decodifica, anche la procedura di ricodifica, il cambiamento di codice, in poche parole le varie sfaccettature della traduzione stanno diventando uno degli interessi fondamentali della linguistica e della teoria della comunicazione […]» (Jakobson 1971 [1961]:576).

Una parte della complessità del fenomeno della comunicazione deriva dalla presa di coscienza che «la natura del signans in sé è di grande importanza per la struttura dei messaggi e la loro tipologia. Tutti e cinque i sensi esterni hanno funzioni semiotiche nella società umana» (Jakobson 1971 [1968]:701). Da qui Jakobson comincia a sviluppare la logica della traduzione: «Il signans è percepibile e il signatum intellegibile, l’aspetto traducibile del signum (segno)» (Jakobson 1985 [1974]:99). Tuttavia, l’intelligibilità come traduzione è solo il primo passo, perché la comprensione dei messaggi in un processo comunicativo presuppone un approccio più elaborato: «Lo studio della comunicazione deve fare una distinzione tra messaggi omogenei che usano un signolo sistema semiotico e messaggi sincretici basati sulla combinazione o fusione di pattern di segni diversi» (Jakobson 1971 [1961]:705).


This means that the investigation of the functions of language must be transferred to a more semiotic framework:

The cardinal functions of language – referential, emotive, conative, phatic, poetic, and metalingual – and their different hierarchy in the diverse types of messages have been outlined and repeatedly discussed. This pragmatic approach to language must lead mutatis mutandis to an analogous study of the other semiotic systems: with which of these or other functions are they endowed, in what combinations and in what hierarchical order? (Jakobson 1971 [1961]:703)

Seeing language and other sign systems in their mutual relationship and juxtaposing them hierarchically, paying attention to both the processes of perception and of understanding as well as the processes of message production and reception, leads to a systemic view of communication, which accommodates syncretic messages and the association of (sensual) perception with (intellectual) understanding. On the other hand, an important presumption to understanding translation process as well as any communication is the realization that language as a means of communication works not only in interpersonal communication, but has an equally important role also in intrapersonal communication: ‘While interpersonal communication bridges space, intrapersonal communication proves to be the chief vehicle for bridging time’ (Jakobson 1985 [1974]:98).

These considerations form the background to Jakobson’s distinction between three kinds of translation. The interest of various outstanding scholars in a deeper examination of these kinds of translation is brought about by the need to understand in the present-day culture the ways of existence of both the inter- and intrapersonal, of the homogeneous and the syncretic, of the invariant and the variance. As the concept of translation broadens, it approaches the concept of understanding – understanding through translation and understanding the translation itself. To understand different kinds of translation means to understand both communication and autocommunication processes, and to understand


Ciò significa che l’indagine sulle funzioni del linguaggio deve essere inserita in una struttura più semiotica:

Le funzioni cardinali del linguaggio – referenziale, emotiva, conativa, fatica, poetica e metalinguistica – e la loro diversa gerarchia in diversi tipi di messaggi sono state esposte e discusse più volte. Questo approccio pragmatico al linguaggio deve portare, mutatis mutandis, a uno studio analogo degli altri sistemi semiotici: di quali tra queste o altre funzioni sono dotati, in quale combinazione e secondo quale ordine gerarchico? (Jakobson 1971 [1961]:703)

Prendere in considerazione il linguaggio e altri sistemi di segni nei loro rapporti reciproci e confrontandoli a livello gerarchico, prestare attenzione sia ai processi di percezione e comprensione, sia ai processi di produzione e ricezione dei messaggi porta a una visione sistemica della comunicazione, che concilia i messaggi sincretici e l’associazione della percezione (dei sensi) con la comprensione (dell’intelletto). D’altro canto, un presupposto importante per la comprensione sia del processo traduttivo, sia di qualsiasi (atto di) comunicazione è la consapevolezza che il linguaggio come mezzo di comunicazione non è attivo solo nella comunicazione interpersonale, ma ha un ruolo ugualmente importante anche nella comunicazione intrapersonale: «Mentre la comunicazione interpersonale crea ponti nello spazio, la comunicazione intrapersonale prova di essere il veicolo fondamentale per creare ponti nel tempo» (Jakobson 1985 [1974]:98).

Queste considerazioni formano il contesto della distinzione jakobsoniana fra tre tipi di traduzione. L’interesse di vari eminenti studiosi per un esame più profondo di questi tipi di traduzione nasce dal bisogno di comprendere le modalità di esistenza sia della componente interpersonale, sia di quella intrapersonale, di quella omogenea e di quella sincretica, dell’invariante e della varianza nella cultura contemporanea. A mano a mano che il concetto di «traduzione» si amplia, raggiunge il concetto di «comprensione»: comprensione attraverso la traduzione e comprensione della traduzione stessa. Comprendere tipi di traduzione diversi significa comprendere sia i processi di comunicazione, sia di autocomunicazione, e comprendere la


communication means to understand the infinite transformation processes of culture, including translation.

4.         Conclusion: Processual boundaries

The dynamics of the development of culture towards integrating interdiscursivity and intermediality have strongly affected the conceptions of identities. Alongside textual identity, we speak of discursive or medial identity, but also of interdiscursive and inter- or multimedial identity. Translation is no longer simply translation of a text into another text; it is also a translation of a text into a medium or a discourse. The ontological status of the text in culture has changed as well. One and the same verbal text may exist within culture simultaneously as a verbal, multi-medial, audiovisual, or audial text. These diverse texts form a simultaneous set in which causal relations, the order of original text production and translation do not play any significant role any more. More important is the influence of this set as a simultaneous semiotic whole on the processes of reception, on cultural memory, and hence on the mental existence of the text in culture. This intracultural process of translation is as important as intercultural translation for it reflects the changing of verbal language under the influence of different communication technologies and environments, but also the ways in which verbal language is related to other semiotic systems in culture.

Today, translation studies are in a difficult position, especially considering the integration of the technological aspect of cultural dynamics. However, the processes taking place within new media can be regarded as a transfer of the experiences of earlier periods in culture into new technological conditions. This means that one result of the use of new media is a better understanding of traditional interlinguistic translation, since several aspects of translation activity, which had so far remained implicit,


comunicazione significa comprendere gli infiniti processi di trasformazione della cultura, compresa la traduzione.

4. Conclusione: i confini processuali

La dinamica dello sviluppo della cultura verso l’integrazione di interdiscorsività e intermedialità ha influenzato in modo considerevole le concezioni delle identità. Insieme all’identità testuale parliamo di identità discorsiva o mediale, ma anche di identità interdiscorsiva e intermediale, o multimediale. La traduzione non è più la semplice traduzione di un testo in un altro testo; è anche la traduzione di un testo in un medium o in un discorso. Anche lo status ontologico del testo nella cultura è cambiato. Uno stesso testo verbale può esistere in una cultura contemporaneamente come testo verbale, multimediale, audiovisivo o uditivo. Questi testi diversi formano una serie simultanea in cui i rapporti causali, l’ordine della produzione del testo originale e la traduzione non hanno più un ruolo fondamentale. È più importante l’influenza di questa serie, in quanto blocco semiotico simultaneo, sui processi di ricezione, sulla memoria della cultura e perciò sull’esistenza mentale del testo nella cultura. Questo processo intraculturale di traduzione è importante quanto la traduzione interculturale poiché riflette il cambiamento del linguaggio influenzato da tecnologie e ambienti di comunicazione diversi, ma anche i modi in cui il linguaggio verbale è collegato ad altri sistemi semiotici della cultura.

Oggi la scienza della traduzione è in una posizione difficile, specie se si prende in considerazione l’integrazione dell’aspetto tecnologico della dinamica culturale. Tuttavia, si possono considerare i processi che hanno luogo all’interno dei nuovi media come trasferimento delle esperienze di periodi precedenti della cultura nelle condizioni tecnologiche nuove. Ciò significa che uno dei risultati dell’uso dei nuovi media è la migliore comprensione della traduzione interlinguistica tradizionale, poiché diversi aspetti dell’attività traduttiva, che finora erano rimasti impliciti,


have become explicit under new conditions. The visual side of a verbal (translation) text, once an invisible problem regarding the quality of the text, has become visible by the comparison of translation and film adaptations of literature. The new multimedia and new media environment has brought back the relevance of the old methods of translator training, that in the first stages of teaching placed great emphasis on intralinguistic translation in the form of either interdiscursive translation or textual manipulation (abridgement, recomposition etc.). Another new tendency in the training of translators is the introduction of intersemiotic translation, for reasons that are both pedagogical (comprehension of the visual aspect of the text) and pragmatic (translating into a visual environment, such as newspaper layout etc.). Translation pedagogy is perhaps the best indication of the changing boundaries of translation processes.

The widening of the boundaries of translation process results in the intensified search for appropriate methodologies. One indication of this is the repeated reconceptualization or further elaboration of Jakobson’s typology of intralingual, interlingual, and intersemiotic translation at the intersection of semiotics, translation studies, analysis of culture, and communication. This broadening of Jakobson’s works must be integrated into the growth of translation studies, where the signs of methodological innovation are accompanied by steps toward semiotics. Semiotics, on the other hand, seems to be undergoing an actualization of translation issues, and the concept of semiotranslation refers to the possibilities of methodological synthesis between translation studies and semiotics. Methodological innovation is needed both in translation studies as a separate discipline and within semiotics in its complex interpretation of communication processes. Translating into the totality of culture exists side by side with culture as total translation.


sono diventati espliciti alle condizioni nuove. Il lato visivo di un testo verbale (traduzione), una volta un problema invisibile che riguardava la qualità del testo, è diventato visibile grazie al confronto fra traduzione e adattamenti filmici delle opere testuali. L’ambiente dei nuovi multimedia e dei nuovi media ha reintrodotto la rilevanza degli antichi metodi di formazione del traduttore, che nelle prime fasi d’insegnamento davano grande importanza alla traduzione intralinguistica sotto forma di traduzione interdiscorsiva o manipolazione testuale (versioni ridotte, ricomposizioni, eccetera). Un’altra nuova tendenza nella formazione dei traduttori riguarda l’introduzione della traduzione intersemiotica, per ragioni sia pedagogiche (comprensione dell’aspetto visivo del testo) sia pragmatiche (tradurre in un ambiente visivo, come per esempio l’impaginazione di un giornale, eccetera). La pedagogia della traduzione è forse il segno migliore del cambiamento dei confini dei processi traduttivi.

L’ampliarsi dei confini del processo traduttivo ha come risultato una ricerca più intensa di metodologie appropriate. La riconcettualizzazione ripetuta o l’ulteriore elaborazione della tipologia Jakobsoniana di traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica come punto d’incrocio tra semiotica, scienza della traduzione, analisi della cultura e comunicazione è indicativa di questo fenomeno. Questo patrimonio allargato delle opere di Jakobson va inserito nello sviluppo della scienza della traduzione, dove i segni dell’innovazione tecnologica sono accompagnati dal progresso verso la semiotica. La semiotica, invece, sembra sottoposta all’attualizzazione delle questioni traduttive e il concetto di «semiotraduzione» fa riferimento alle possibilità di sintesi metodologica tra scienza della traduzione e semiotica. È necessaria un’innovazione metodologica sia nella scienza della traduzione in quanto disciplina a sé stante, sia all’interno della semiotica nella complessa interpretazione dei processi di comunicazione. La traduzione della cultura nella sua totalità esiste fianco a fianco con la cultura come traduzione totale.


Notes

* Special thanks are due to the Estonian Science Foundation (ETF) for its support (Grant no. 5717), which granted us the time to devote to writing this article.

1 An affinity with Jakobson’s typology and thought is discussed in Peeter Torop’s model of total translation. As a taxonomic model of the translation process it is based on ‘the general characteristics of text and communication and leads to the conviction that a description of the translation process is applicable to other types of text communication’ (Torop 2000a:72). For further details, see Torop (1995, 2000b).

2 Although references to Jakobson’s distinction between three kinds of translation are generally made on the basis of his article published in 1959, one can be reminded here that Jakobson spoke of the three kinds of translation already in 1952 in his concluding report at the conference of anthropologists and linguists. This report was also published as an article in 1953 (Jakobson 1971 [1953]). Here, Jakobson discussed the possibilities of interpreting the word ‘pork’: it can be interpreted by using the intralingual method, that is, by circumlocution; or it can be interpreted by using interlingual method, that is, it can be translated into another language; and finally, it can be interpreted by using the intersemiotic method if, for example, non-linguistic pictorial signs are resorted to (Jakobson 1971 [1953]:566).

3 Toury softens his objection stating that Jakobson’s ‘preference [for linguistic translating] is understandable, if not to say acceptable’ (Toury 1986:1113) – perhaps especially in view of the fact that, for Jakobson, language always remained the primary communication system and linguistics, respectively, the science around which other sciences of man centered (Jakobson 1971 [1961], 1971).

4 For an overview of Eco’s interpretation of Hjelmslev, see Eco (2001:82-88).

5 In his book Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (2003), Eco sets forth a similar classification with slight but nonetheless significant adjustments comparable to those made by Toury in his revision of Jakobson’s typology (1986). Compared to the classification presented in Experiences in Translation, in the subdivision of intrasystemic interpretation (interpretazione intrasistemica) Eco exchanges the positions of intralinguistic (intralinguistica) and intrasemiotic (intrasemiotica) interpretations. At the same time, in the subdivision of intersystemic interpretation (interpretazione intersistemica) he rearranges the order of the slightly rephrased types of interlinguistic interpretation, rewriting, and translation between other semiotic systems. Eco now gives: first, interpretazione intersemiotica, second, interpretazione interlinguistica, and last, rifacimento (Eco 2003: 236). In other words, Eco reorders his types according to the logic that ‘semiotic’ is a broader, more comprehensive category than ‘linguistic’ and should therefore come first.

Note

 

1 Nel modello di traduzione totale di Peeter Torop si discute l’affinità con la tipologia e il pensiero di Jakobson. In quanto modello tassonomico del processo traduttivo, si basa sulle «caratteristiche generali del testo e della comunicazione e porta all’idea che una descrizione del processo traduttivo è applicabile ad altri tipi di comunicazione» (Torop 2000a:72). Per ulteriori dettagli consultare Torop (1995, 2000b).

2 Anche se generalmente i riferimenti alla distinzione Jakobsoniana fra tre tipi di traduzione si fanno sulla base del suo articolo pubblicato nel 1959, in questo caso bisogna ricordare che Jakobson aveva parlato di tre tipi di traduzione già nel 1952 nella sua relazione finale a una conferenza di antropologi e linguisti. Questa relazione è stata anche pubblicata come articolo nel 1953 (Jakobson 1971 [1953]). Qui Jakobson discuteva le possibilità d’interpretare la parola «carne di maiale»: si può interpretarla usando il metodo intralinguistico, ovvero con la circonlocuzione; o si può interpretarla usando il metodo interlinguistico, ovvero si può tradurla in un’altra lingua; e infine si può interpretarla usando il metodo intersemiotico se, per esempio, si ricorre a segni pittorici non linguistici (Jakobson 1971 [1953]:566).

3 Toury smorza il suo dissenso affermando che «la preferenza» di Jakobson «[per la traduzione linguistica] è comprensibile, anche se non accettabile» (Toury 1986: 1113), forse proprio in vista del fatto che, per Jakobson, il linguaggio è sempre rimasto il sistema primario di comunicazione e la linguistica, rispettivamente, la scienza intorno a cui gravitavano la altre scienze umane (Jakobson 1971 [1961], 1971).

4 Per una panoramica dell’interpretazione di Hjelmslev da parte di Eco consultare Eco (2001:82-88).

5 Nel suo libro Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (2003), Eco mette in atto una classificazione simile con cambiamenti minimi ma comunque significativi, paragonabili a quelli fatti da Toury nella sua revisione della tipologia Jakobsoniana (1986). Facendo un confronto con la classificazione presentata in Experiences in Translation, nella suddivisione dell’interpretazione intrasistemica Eco scambia le posizioni delle interpretazioni intralinguistica e intrasemiotica. Allo stesso tempo, nella suddivisione dell’intepretazione intersistemica, riorganizza l’ordine dei tipi – leggermente riformulati – d’interpretazione interlinguistica, rifacimento e traduzione tra altri sistemi semiotici. Ora Eco espone per prima l’interpretazione intersemiotica, per seconda l’interpretazione interlinguistica e per ultimo il rifacimento (Eco 2003:236). In altre parole Eco riordina le tipologie in base alla logica che «semiotica» è una categoria più ampia, più generale di «linguistica» e perciò deve venire per prima.


6 The idea of translational processes taking place outside human culture transpiring in the rest of the biosphere, has been dealt with in the description of biotranslation in the article written by Kalevi Kull and Peeter Torop (2003). Translation is said to mean ‘that some signs in one Umwelt are put into correspondence with some signs in another Umwelt’ (Kull and Torop 2003:318).


6 Nella descrizione della biotraduzione presente nell’articolo scritto da Kalevi Kull e Peeter Torop (2003) si affronta l’idea che i processi traduttivi che avvengono al di fuori della cultura umana si espandono nel resto della biosfera. Si dice che la traduzione significa «che alcuni segni in un Umwelt corrispondono ad alcuni segni in un altro Umwelt» (Kull e Torop 2003:318).

 

 


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2. Analisi testuale dell’originale

 

 


2.1 Contenuto

Il saggio che ho tradotto s’intitola «Processual boundaries of translation: Semiotics and translation studies» ed è stato scritto a quattro mani nel 2007 da Peeter Torop ed Elin Sütiste, allora dottoranda dell’Università di Tartu. Come si evince già dal titolo, l’articolo propone un’analisi dei confini processuali della traduzione e del rapporto tra scienza della traduzione e semiotica.

La trattazione comincia con la constatazione che, per riuscire a comprendere l’evoluzione delle scienze – di qualunque scienza, che sia la scienza della traduzione, la sociologia, o la psicologia –, bisogna per prima cosa comprendere i metalinguaggi usati e i modi di pensare che si celano dietro quest’ultimi nei diversi periodi storici. Per dirla con parole che ricordano quelle di Lyotard, bisogna analizzare le «piccole narrative» (Lyotard:74) tramite le quali si esprimono i concetti all’interno di una scienza, senza perdere di vista il medium utilizzato per esprimerli.

Nella nostra società, soprattutto nell’ultimo secolo, i mezzi di comunicazione si sono rapidamente evoluti e si è verificato un grande cambiamento nei metodi di rappresentazione, caratterizzati sempre più da una crescente presenza di multimedialità e ipermedialità. Gunther Kress ha affrontato in modo molto esaustivo questo argomento, constatando che i cambiamenti tecnologici hanno portato alla compenetrazione di diverse forme di rappresentazione – immagine e testo scritto, per esempio – e alla compresenza di diversi media in un solo testo:

Multimedia messaging is already available. […] a Californian company is developing ‘multimodality’ in the form of programs that convert gesture to writing. […] the possibility of direct voice-to-machine interaction has existed for some time now, even though with limitations. There are the major forms of transduction which already exist – in the latter case from a mode based on sound to a mode based on graphic substance. All we can do at the moment is […] to imagine the characteristics of a theory which can account for the processes of making meaning in the environments of multimodal representation in multimediated communication, of cultural plurality and of social and economic instability. Such a theory will represent a decisive move away from the assumptions of mainstream theories of the last century about meaning, language and learning. The major shifts concern a whole range of hitherto taken-for-granted understandings, for instance about stable systems of representation, about the stability (guaranteed by the force of convention) of rule-systems, about the arbitrariness of the constitution of signs (Kress 2003:245).

 

Tenendo ben presente quest’evoluzione e osservando come nella nostra quotidianità l’immagine ormai è un elemento quasi imprescindibile per un testo scritto (siti web, le icone di qualsiasi programma informatico di elaborazione testuale) appare inevitabile la graduale scomparsa delle regole fisse legate al concetto di «testo», così come a quello di «traduzione». Un metatesto (testo tradotto) non può prescindere dal prototesto, dal suo originale, ma la domanda che s’interroga su “cosa è testo” complica ulteriormente la questione: sono proprio i confini processuali analizzati da Sütiste e Torop a sfumare sempre di più e a rendere difficile l’individuazione di un confine netto tra ciò che è traduzione e ciò che non lo è. Le categorie classificatorie della narratologia di Genette non possono più esserci d’aiuto, proprio a causa di quei continui cambiamenti che rendono sdrucciolevole il terreno su cui si muove la scienza della traduzione.

Superando la questione dei media in cui si presenta una traduzione e di quanto essi possano influenzare il significato, l’unico appiglio che «enable(s) different areas of study to be combined in terms of their common methodology» (Sütiste, Torop:2) è il concetto di «invarianza»[2] che rappresenta quella costante comune a diverse discipline in grado di mettere ordine tra le numerose variabili. Nel caso della scienza della traduzione, tra il concetto di «traduzione», i media di rappresentazione, la cultura della traduzione, la ricezione del testo e tutte le trasformazioni insite nel processo traduttivo. Di questo concetto si occupa ampiamente il semiotico bulgaro Lûdskanov, mettendo in evidenza come sia inevitabile un approccio semiotico alla traduzione.

Nel saggio di Sütiste e Torop viene messo in evidenza come la scienza della traduzione non sia ancora una disciplina unificata a livello metodologico, soprattutto a causa della sua “giovane età”. Gli studi sulla traduzione – translation studies – sono una disciplina nata nel secolo scorso e sviluppatasi soprattutto negli ultimi decenni, a partire dalle tre tendenze della scienza della traduzione individuate da Nida negli anni Settanta. Le teorie di Wolfram Wills hanno poi spostato il focus verso un orizzonte puramente metodologico – la necessità di una metodologia comune sia alla teoria, sia alla pratica della traduzione, considerata anche in quanto fenomeno culturale – mentre il contributo di James Holmes ha puntato verso la creazione di una teoria del processo traduttivo tenendo conto della ricezione del testo nella cultura ricevente. Tutte queste teorie sono tutt’oggi valide, anche se quello che manca è un vero dialogo multidisciplinare, soprattutto in Italia, dove la traduzione è considerata pura letteratura e non viene analizzata da un punto di vista scientifico, e ancor meno semiotico.

Tornando alla domanda «da cosa capiamo che una traduzione è una traduzione?», la risposta non è certo semplice. Innanzitutto bisogna riconoscere un confine tra la traduzione e il testo originale, e poi la traduzione e la cultura ricevente. Una traduzione è facilmente riconoscibile da numerosi tratti della sua struttura e a questo proposito si è già espresso il teorico slovacco della letteratura Anton Popovič, teorizzando il concetto di «traduzionalità»[3]. Un metatesto – in quanto prodotto di una metacomunicazione – può presentare un livello di traduzionalità più o meno elevato, ovvero possiamo accorgerci più o meno immediatamente che il testo in questione è stato tradotto. Un elemento determinante nel riconoscere la qualità di una traduzione, inoltre, è «the perceptual integrity of translation» (Sütiste, Torop:3), ovvero una buona struttura linguistica, la coerenza semiotica e la capacità del testo di attivare delle fughe d’immaginazione, nonché il fatto che la traduzione sia «perceptually an integrated whole and can be effectively visualized in the imagination of the reader» (Sütiste, Torop:4).

Il fenomeno della multimedialità ha perciò contributo alle riflessioni sulla natura semiotica della traduzione, ma si deve fare un passo indietro per citare la preziosissima classificazione jakobsoniana[4] di traduzione interlinguistica, intralinguistica e intersemiotica, espressa nel suo famoso articolo del 1959 «Sugli aspetti linguistici della traduzione». Queste categorie sono state riviste nel corso degli anni da molti studiosi, tra cui Gideon Toury, Umberto Eco e Susan Petrilli. L’articolo di Sütiste e Torop prende in esame tutte queste rielaborazioni della classificazione traduttiva di Jakobson, evidenziandone le differenze e le premesse di base. È interessante rilevare come lo studioso israeliano consideri la «differentia specifica» della traduzione proprio il fatto che sia un’attività semiotica, ovvero che si muova tra sistemi di segni diversi:

[…] from a semiotic point of view, the differentia specifica of this type of process, is of a twofold nature:

(a) like any other semiotic entity, it is part of the system to which it belongs (namely, the “target,” or “recipient” system);

(b) unlike “ordinary” (that is, primary, underived) semiotic entities, it is also a representation of another entity, belonging to another system, in a certain way and/or to a certain extent, by virtue of the invariant common to it and to theinitial entity (Toury 1980:13).

 

Per quanto riguarda la tipologia traduttiva, Toury divide la traduzione in intersemiotica e intrasemiotica, proponendo una classificazione generale dei fenomeni interpretative di un segno verbale senza concentrarsi sul linguaggio naturale – allontanandosi, quindi, dal punto di partenza di Jakobson.

La classificazione proposta da Eco, invece, è molto più complessa e orientata verso la catalogazione dei fenomeni traduttivi “veri e propri”. Secondo il semiotico italiano, infatti, Jakobson non avrebbe compreso bene i concetti peirciani facendosi trarre in inganno dallo stile del grande semiotico americano e accostando il concetto di «traduzione» a quello più generico di «interpretazione»:

È noto come il lessico peirciano sia mutevole e non di rado impressionistico, ed è facile accorgersi che […], Peirce usi translation in senso figurato: non come una metafora, bensì come pars pro toto (nel senso che assume traduzione come sineddoche di interpretazione) (Eco 2003:227).

 

Petrilli, dal canto suo, presenta una tipologia globale dei processi traduttivi sia tra sistemi di segni diversi, sia all’interno dello stesso sistema di segni. La sua classificazione, però, risulta incoerente dal punto di vista terminologico poiché teorizza l’esistenza di alcune tipologie traduttive – come la traduzione endolinguale – senza proporne poi un corrispettivo con il prefisso opposto.

Nonostante le varie rielaborazioni successive, bisogna tener presente che le considerazioni di Jakobson sulla traduzione non prescindevano affatto dalla teoria generale della comunicazione, sia interpersonale sia intrapersonale. Ampliando l’orizzonte di analisi si può quindi arrivare ad affermare che «to understand communication means to understand the infinite transformation processes of culture, including translation» (Sütiste, Torop:17).

La summa delle riflessioni di Sütiste e Torop si può riassumere nella consapevolezza che la scienza della traduzione necessita di un approccio semiotico e di una metodologia comune per ampliarsi ed evolversi, mantenendo come punto di partenza e concetto cardine la tipologia jakobsoniana quale «intersection of semiotics, translation studies, analysis of culture, and communication».

2.2 Struttura

La struttura del saggio appare molto chiara ed efficace, rispetta i parametri del genere in cui si inscrive il testo e rende la lettura abbastanza scorrevole. L’articolo è diviso in quattro paragrafi, ciascuno dei quali affronta un aspetto specifico dell’argomento generale indicato dal titolo, ed è corredato di una breve introduzione.

Il primo paragrafo s’intitola «Sull’identità della scienza della traduzione» ed è una panoramica dell’evoluzione di questa disciplina negli ultimi decenni. Risulta scorrevole, piuttosto breve e con due sole citazioni ad altri testi.

Anche il secondo paragrafo, «L’aspetto della semiotica della traduzione», non è particolarmente lungo, ma sono presenti numerosi riferimenti ad altri testi. In questo paragrafo si affronta l’annosa questione “cosa è traduzione” e, a sostegno della tesi di fondo, sono forniti diversi estratti da pubblicazioni di altri studiosi, quali Cattrysse, Chesterman e Arrojo e Remael.

Il terzo paragrafo, intitolato «La prospettiva di Jakobson», è il più lungo tra i quattro ed è quello in cui si affronta la tipologia jakobsoniana e la sua rielaborazione nel corso degli anni da parte di diversi studiosi che si sono occupati di scienza della traduzione.

Nel quarto e ultimo paragrafo «Conclusione: i confini processuali» troviamo un breve riassunto delle riflessioni dei due autori che funge, appunto, da conclusione del saggio.

2.3 Qualche considerazione aggiuntiva

Sarebbe del tutto superfluo dilungarsi in una disquisizione sullo stile degli autori di questo saggio, poiché il testo è una pubblicazione accademica usata come parte di una tesi di dottorato. Però si può comunque riflettere sul modo in cui è stato scritto.

Il lessico appare appropriato e la ricerca terminologica è evidente, come si può facilmente intuire non solo dalla terminologia, ma anche dall’ampia documentazione fornita dalle numerose citazioni a sostegno della tesi espressa. La sintassi è caratterizzata dalla presenza di paratassi, i periodi sono di media lunghezza e non sono presenti frasi particolarmente involute o oscure. Essendo un trattato di semiotica di traduzione, però, il lessico molto specifico e la complessità dei contenuti rendono la lettura poco scorrevole. Per un testo di questo tipo, infatti, è necessaria una lettura attenta e molta concentrazione da parte del lettore.

Nonostante gli autori non siano di madrelingua inglese, mostrano una perfetta padronanza della lingua in cui scrivono e non sono presenti errori di alcun tipo.

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Analisi traduttologica

 

 


3.1 Introduzione

Dopo aver tradotto il saggio di Sütiste e Torop ho capito che il concetto imprescindibile alla base di tutte le riflessioni sul rapporto tra semiotica e scienza della traduzione presuppone che la traduzione – intesa come semiosi, ma a maggior ragione anche come traduzione interlinguistica – sia considerata un insieme di processi traduttivi intersemiotici. Quando facciamo associazioni mentali osservando un oggetto compiamo un atto semiotico, ma la questione si complica quando dobbiamo tradurre un testo scritto in una lingua diversa da quella dell’originale o, per usare un termine coniato da Lûdskanov, in un diverso «linguaggio d’intermediazione»:

Il traduttore deve individuare il significato facendo riferimento a qualcosa. Questo “qualcosa” è il suo “sistema di riferimenti”. Per i traduttori e per tutti i bilingui, questo sistema è un metalinguaggio in cui deve essere codificata la conoscenza della lingua della cultura emittente, della lingua della cultura ricevente e della realtà riflessa in entrambe le lingue (Lûdskanov in Osimo 2008:XIII-XIV).

Per prima cosa, durante la lettura, ogni simbolo – parola – che leggiamo scatena nella nostra mente una serie pressoché infinita di interpretanti, ovvero di segni mentali tramite i quali interpretiamo le parole scritte. Questa è una prima forma di traduzione intersemiotica, ovvero una traduzione da un codice verbale scritto al nostro codice mentale. La presenza di un «linguaggio interno» è stata teorizzata negli anni Trenta dallo psicolgo russo Lev Vygotskij durante i suoi studi sulla relazione tra linguaggio e pensiero nei bambini e negli adulti. Il linguaggio interno è un linguaggio particolare, a sé, che necessita di una traduzione nel linguaggio esterno – quello naturale, con cui ci esprimiamo in qualsiasi atto di comunicazione interpersonale – proprio per le sue caratteristiche intrinseche:

La prima e più importante caratteristica del linguaggio interno è la sua particolare sintassi. […] Questa particolarità si manifesta nella frammentarietà apparente, nella discontinuità, nell’abbreviazione del linguaggio interno rispetto a quello esterno. […] conserva il predicato e le parti della proposizione che gli sono legate a spese dell’omissione del soggetto e delle parole che gli sono legate (Vygotskij in Osimo 2002:139).

Già a questo livello, quindi, avviene una prima traduzione interlinguistica e intersemiotica spontanea, perché traduciamo automaticamente le parole di una lingua straniera in interpretanti nella nostra lingua madre. La componente intersemiotica si ha poiché si verifica un passaggio dalla parola al pensiero, ossia un processo di «volatilizzazione»:

Qui abbiamo un processo […] dall’esterno all’interno, un processo di volatilizzazione del discorso nel pensiero. Da qui la struttura di questo linguaggio e tutte le sue differenze rispetto alla struttura del linguaggio esterno (Vygotskij in Osimo 2002:138).

Quando poi ci accingiamo a produrre un metatesto scritto, la traduzione interlinguistica si compie del tutto grazie a un ulteriore passaggio di traduzione intersemiotica: dal linguaggio mentale traduciamo in linguaggio verbale scritto – ma questa volta in un’altra lingua – il materiale mentale formatosi dalla prima fase. Questa seconda fase si chiama «materializzazione del pensiero»:

[…] il linguaggio interno è una formazione particolare per la sua natura psicologica, un tipo particolare di attività linguistica, che ha caratteristiche assolutamente specifiche e sta in un rapporto complesso con gli altri tipi di attività linguistica. […] Il linguaggio esterno è un processo di trasformazione del pensiero nella parola, la sua materializzazione e oggettivazione (Vygotskij in Osimo 2002:138).

Oggi questi concetti possono sembrare scontati, soprattutto a chi si occupa da anni delle riflessioni sul rapporto tra semiotica e traduzione, ma non è sempre stato così. La scienza della traduzione è una scienza molto giovane e ancora oggi non molto diffusa in Italia, perché il nostro ambiente accademico è lungi dal considerare la traduzione – soprattutto la pratica quotidiana della traduzione – una scienza. In Italia paghiamo le conseguenze di una classe di studiosi e accademici antiquata e rigida nel sostenere l’obsoleta distinzione tra scienza e letteratura. La traduzione e gli studi riguardanti questa materia ricadono nell’ambito della “letteratura” intesa come insieme di opere letterarie, perciò non viene loro riservato un approccio scientifico. A tale proposito si è espresso lo studioso bulgaro Aleksandăr Lûdskanov nella sua pubblicazione, uscita nell’edizione italiana a cura di Bruno Osimo nel 2008, Un approccio semiotico alla traduzione:

[…] i primi passi dei fautori della concezione linguistica della traduzione hanno incontrato una forte resistenza da parte degli esponenti della concezione teorico-letteraria (soprattutto dei traduttori stessi). Questi contestavano la natura linguistica del processo traduttivo che, secondo loro, avrebbe carattere puramente letterario (o quasi) (Lûdskanov 1967:61).

Leggendo questo estratto, però, ci rendiamo subito conto che, per comprendere a fondo il significato delle parole dello studioso bulgaro, è necessario specificare che con «concezione linguistica» egli intendeva  quella che noi chiamiamo «concezione scientifica», ossia semiotica, la controparte di quella concezione che fa ricadere la scienza della traduzione all’interno del grande gruppo delle letterature comparate. In base a questa concezione, imperante nel nostro Paese, per la traduzione letteraria è necessario un approccio letterario, quindi a rigor di logica per ogni tipo di testo sarà necessario un approccio particolare:

Si pensi al punto di vista molto diffuso e in sé giusto secondo cui il traduttore di testi scientifici (per esempio un trattato di chimica organica o zoologia) deve avere conoscenze nei rispettivi àmbiti scientifici. Queste conoscenze però sono necessarie unicamente alla realizzazione dell’analisi extralinguistica. Questo incontestabile fatto ci permette di affermare che la traduzione di testi scientifici di questo tipo è di natura chimica o zoologica e richiede un approccio chimico o zoologico? (Lûdskanov 1967:62-63).

È evidente l’ironia di fondo di Lûdskanov ma, nonostante il suo prezioso contributo, in Italia l’approccio semiotico alla traduzione resta quasi inesistente e gli accademici che si occupano dell’insegnamento di questa disciplina in numerosi atenei potranno giovarsi di queste riflessioni. Considerata la natura del saggio che ho tradotto, oltre alla tradizionale analisi traduttologia in cui individuo e spiego i concetti cardine di lettore modello, dominante e strategia traduttiva, mi accingo a fornire una panoramica cronologica dell’evoluzione del rapporto tra semiotica e scienza della traduzione, che è andato sviluppandosi soprattutto negli ultimi sessant’anni grazie a numerosi contributi. Il tema è talmente ampio che sarebbe sciocco prefiggersi come scopo quello di delineare una panoramica esaustiva e approfondita di tutti i contributi dati in questo campo negli ultimi decenni. Per questo motivo mi concentrerò su alcuni autori – o su alcuni concetti elaborati da questi autori – che ho incontrato durante il mio percorso di studi e che hanno stimolato la mia curiosità.

 

3.2 La dominante e il residuo traduttivo: Jakobson e la semiotica della traduzione

Il punto di partenza delle mie riflessioni non può che essere l’opera di Roman Jakobson, personalità poliedrica e complessa, nonché pilastro in molteplici discipline: linguistica, critica letteraria, semiotica, filologia e molte altre. Ma, soprattutto, è di Jakobson la famosa tipologia della traduzione – interlinguistica, intralinguistica e intersemiotica – rielaborata più volte negli anni ed esaminata nell’articolo di Torop e Sütiste. Jakobson espone per la prima volta la sua tipologia nell’articolo del 1959 «Sugli aspetti linguistici della traduzione», che, però, non è stato del tutto compreso dagli studiosi europei: si è diffusa la convinzione che Jakobson, parlando di traduzione intralinguistica e intersemiotica, parlasse di un tipo di traduzione totalmente diverso da quella interlinguistica. Quando Jakobson parla del processo traduttivo come intersemiotico e intralinguistico, non vuole fare riferimento soltanto a processi traduttivi diversi da quello interlinguistico, ma alla traduzione vera e propria. Non bisogna dimenticare che Jakobson aveva già ampiamente studiato Peirce, e si era anche già allontanato dalla semiologia saussuriana, criticandola in termini peirceiani. Jakobson pone alla base delle sue riflessioni il secondo elemento della significazione secondo Peirce, l’interpretante, che nasce proprio nella mente soggettiva dell’individuo: l’interpretante è nella mente dell’interprete. E questo elemento è riconducibile al discorso interno di Vygotskij: si tratta di decodificare mentalmente un segno e di collegarlo a un oggetto, collegamento che ha una coincidenza solo parziale con quello operato da altre persone che parlano la stessa lingua, poiché in ognuno di noi nasce una lunga serie di interpretanti diversi:

For us, both as linguists and as ordinary word-users, the meaning of any linguistic sign is its translation into some further, alternative sign, especially a sign “in which is more fully developed”, as Peirce, the deepest inquirer into the essence of signs, insistently stated (Jakobson 1959:261).

Da queste riflessioni si evince che ogni processo traduttivo interlinguistico può essere considerato un insieme di processi traduttivi intersemiotici:

[…] intersemiotic translation or transmutation is an in interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal sign systems (Jakobson 1959:261).

Un altro problema che ha portato molti studiosi a interpretare in modo forse incompleto l’articolo di Jakobson è l’aggettivo «linguistic» nel titolo: Jakobson suggeriva un approccio scientifico alla traduzione, mentre nell’Europa Occidentale – a causa del’enfasi saussuriana sulla componente verbale – l’aggettivo linguistico è stato interpretato in riferimento a un testo senza alcuna implicazione extraverbale. Jakobson partiva da premesse totalmente diverse rispetto agli studiosi europei, considerava la traduzione e la lingua da un punto di vista scientifico, molto vicino a quello della matematica e della fisica:

[…] linguistics is recognized both by anthropologists and pychologists as the most progressive and precise among sciences of man and, hence, as a methodological model for the remainder of those disciplines (Jakobson 1967:656).

È abbastanza chiaro che l’approccio jakobsoniano alla traduzione, imbevuto della semiotica peirceiana e inserito in un contesto in cui la traduzione è considerata una scienza, sia stato la prima grande svolta nell’evoluzione della scienza della traduzione, senza la quale oggi non potremmo nemmeno concepire un approccio semiotico alla traduzione e baseremmo le nostre riflessioni solo sulla dicotomia signifiant-signifié di Saussure.

Alla luce di tutte queste affermazioni, la dominante applicata nella traduzione del saggio di Sütiste e Torop è sicuramente orientata verso la precisa e impeccabile trasposizione del contenuto del prototesto. Durante la traduzione è stato inevitabile considerare non solo la forma, ma anche il contenuto di ciò che stavo traducendo, e questo mi ha spinto a privilegiare scelte non addomesticanti – anche se, considerata la natura del testo, non ho incontrato frasi che necessitassero di essere “addomesticate”, ovvero rese più vicine alla cultura ricevente. La dominante nella mia traduzione si è fondata, quindi, sulla necessità di rendere chiari i concetti enunciati nel prototesto, senza però rinunciare alla precisione terminologica e all’esattezza lessicale in favore di generalizzazioni che avrebbero impoverito il testo o alterato il senso delle enunciazioni.

3.3 Strategia traduttiva

3.3.1 Una questione d’invariante

Ho potuto attuare senza difficoltà una strategia traduttiva che avesse come dominante la piena conservazione del contenuto del prototesto anche grazie al fatto che il mio lettore modello è un lettore adulto, colto e specializzato nella materia e nell’argomento di cui tratta il saggio in questione. Essendo un articolo di scienza della traduzione – nonché parte di una tesi di dottorato dell’Università di Tartu – il prototesto sarà letto da studiosi di scienza della traduzione, teorici, semiotici e, presumibilmente, accademici in generale. All’individuazione di questo tipo di lettore modello si lega anche la mancanza di un cospicuo apparato metatestuale, proprio perché la presenza di lessico specialistico in un articolo pubblicato su una rivista specializzata Semiotica fa sì che non ci sia bisogno di note esplicative che avvicinino il lettore italiano al testo. La precisione lessicale elimina casi di ambiguità nella cultura ricevente, ulteriormente ridotti dalla totale mancanza di realia o riferimenti culturali impliciti alla cultura emittente.

Perciò alla base della mia strategia traduttiva, per dirlo in termini un po’ più semiotici, c’è stato il trasferimento di un nucleo informativo necessario e per forza presente sia nel prototesto sia nel metatesto. Questo mi permette di riallacciarmi al pensiero di Aleksandr Lûdskanov, che ho già citato nel paragrafo 3.1. Bisogna per prima cosa affermare che l’intento di Lûdskanov era quello di teorizzare e riuscire a mettere in pratica la traduzione automatica: il suo scopo ha certamente contribuito a rendere il suo approccio alla traduzione il più scientifico possibile. Non si deve però fare l’errore di considerare le riflessioni di questo grande studioso pertinenti soltanto all’area della traduzione tecnico-scientifica, bensì sono utili e fondamentali per lo studio e l’approccio verso qualsiasi tipo di testo. Come ho già sottolineato nell’introduzione, la formazione dello studioso bulgaro non risente della divisione tra scienza e letteratura tipica dell’Europa occidentale: Lûdskanov rientra nel novero di quegli studiosi dell’Europa dell’Est che non considerano “scandaloso” un approccio scientifico anche alle cosiddette traduzioni “letterarie”.

Lûdskanov parla di approccio e punto di vista semiotico proprio perché crede che la semiotica, con la sua terminologia esatta e precisa, sia la scienza migliore per approcciarsi alla traduzione: la traduzione interlinguistica non è altro che la comunicazione di informazioni in codici diversi e la semiotica si occupa dello studio della trasformazione di un messaggio da un codice all’altro, ovvero della formazione del senso. Il rapporto tra semiotica e traduzione è imprescindibile, così come l’applicazione pratica delle sue teorie. La scienza della traduzione trova posto all’interno della semiotica: Lûdskanov non crede che il suo posto sia nella linguistica, nella letteratura o in altre discipline:

Una scienza della traduzione è possibile. Questa scienza deve essere una teoria generale delle trasformazioni semiotiche. (ciò definisce l’oggetto di studio di questa scienza.) Il suo posto è nella semiotica, non nella linguistica, né nella letteratura (Lûdskanov in Osimo 2008:XVII).

Dovendo riuscire a mettere in pratica la traduzione automatica, ovvero a ridurre il processo traduttivo a varianti e invarianti logiche – algoritmi traduttivi – per Lûdskanov era impensabile scindere la teoria dalla pratica. È per questo che le sue riflessioni possono esserci oggi molto utili.

Essendo la traduzione il trasferimento di informazioni da un codice all’altro, Lûdskanov teorizza un concetto fondamentale, quello di «invariante», ovvero quell’informazione che si trasmette in ogni atto di comunicazione:

Poiché lo scopo di qualsiasi atto comunicativo consiste nella trasmissione di una certa informazione, lo scopo del processo traduttivo è lo stesso, cioè trasmettere la medesima informazione. […] il processo che si è abituati a chiamare «traduzione» consiste in una trasformazione (sostituzione) di elementi linguistici del messaggio nel linguaggio naturale del prototesto con elementi di linguaggio naturale del metatesto, conservando la stessa informazione (Ludskanov 1967:41).

In ogni traduzione c’è una parte d’informazione che deve necessariamente essere trasferita da un codice in un altro. L’invariante è sicuramente un parametro molto importante per la valutazione delle traduzioni e per la pratica della traduzione stessa, perché permette un vero e proprio approccio scientifico (approccio che però non sostituisce la creatività nella traduzione). Anche nella traduzione interlinguistica, che sia traduzione di poesie, testi per il teatro, film, manuali, eccetera, bisogna essere certi che nulla si distrugga, ma qualcosa si crei, e in tutto questo resta comunque un residuo.

Il passaggio tra linguaggi naturali o tra diversi sistemi di segni implica per forza un residuo, una perdita – loss, in inglese -, ormai considerato parte integrante del processo traduttivo: «In qualsiasi forma di comunicazione, che comporti traduzione o no, si verifica una perdita» (Lefevere in Osimo 2004:104). Uno dei primi a individuare la presenza di un residuo in qualsiasi forma di comunicazione è stato John Dryden nel 1700 quando, alle prese con la traduzione di Chaucer, si è resto conto di non riuscire ad affrontare l’originale senza aiuti: «I grant that that something must be lost in all transfusion, that is, in all translations» (Dryden in Osimo 2004:33).

3.3.2 All’insegna della traduzionalità

Nel tracciare il percorso che ha portato alla formazione e consolidamento della scienza della traduzione sarebbe imperdonabile non citare il contributo apportato dallo slovacco Anton Popovič, soprattutto poiché la mia strategia traduttiva si è rivelata all’insegna di uno dei concetti coniati proprio da questo studioso, la «traduzionalità». Con «traduzionalità» Popovič intende tutte quelle caratteristiche che fanno capire che un testo è stato tradotto, che a monte della traduzione si trova un originale scritto in un diverso linguaggio naturale:

La traduzionalità è l’espressione della contraddizione proprio versus altrui nel testo, e può essere suddivisa in una serie di opposizioni come per esempio naturalizzazione (addomesticamento) versus erotizzazione, folklorizzazione versus urbanizzazione, storicizzazione (arcaizzazione) versus modernizzazione. […] parliamo di traduzionalità come norma di ricezione in una certa situazione comunicativa (Popovič 2006:48).

Nel tradurre l’articolo di Sütiste e Torop avevo bene in mente questo concetto e non temevo certo di creare un metatesto ad alta traduzionalità, anzi. Ma, come ho già spiegato nel paragrafo 3.2, il prototesto non presenta punti in cui ho dovuto ricorrere alla creazione di un apparato metatestuale, elemento che avrebbe sicuramente fatto aumentare l’indice di traduzionalità della mia traduzione.  Questo concetto non è certo qualcosa di astratto senza alcuna utilità pratica, ma si rivela molto utile nella valutazione delle traduzioni e, insieme al resto della terminologia precisa coniata da questo studioso, contribuisce a rendere sempre più scientifico l’approccio alla traduzione.

Superando e rendendo obsolete tutte le altre definizioni – testo di partenza, di arrivo, eccetera – Popovič conia i termini «prototesto» e «metatesto» per fare riferimento al testo originale e a quello tradotto. Ma la terminologia popoviciana non si ferma qui: la forte impostazione semiotica mutuata perlopiù dalla scienza sovietica della traduzione lo spinge ad aggiungere a tale terminologia termini nuovi nel caso in cui il concetto che vuole esprimere non sia ancora stato individuato. Conia, per esempio il termine «quasimetatesto» per descrivere quel tipo di metatesto che sfrutta le aspettative che ha il lettore modello per la formazione di un testo proprio, e anche il termine «metatesto conflittuale», ovvero una traduzione critica, polemica e negativa nei confronti dell’originale. Popovič approfondisce l’analisi dei concetti di «variante» e «invariante» postulati da Lûdskanov e condivide l’approccio scientifico alla traduzione:

Il tratto principale comune al testo della comunicazione primaria […] e di quella secondaria è il passaggio del nucleo semantico da un testo all’altro. Ciò che unisce i due testi viene definito «invariante intertestuale». Accanto a tale nucleo invariante nel metatesto ci sono “perdite”, o residui, e “guadagni”, che costituiscono la componente variante del testo (Popovič 2006:128).

Popovič considera controproducente la concezione di un approccio “letterario” alla traduzione, proprio perché proviene dall’Europa dell’Est come lo studioso bulgaro. In Slovacchia come in Bulgaria, tutti i tipi di traduzione prevedono un approccio scientifico, semiotico, siano essi testi chiusi o testi aperti (dal manuale d’istruzioni alla poesia). A questa concezione si ricollega la necessità di una precisione terminologica estrema da parte di Popovič , che considerava controproducente l’uso di aggettivi come «fedele» o «libero» per descrivere le traduzioni: «la contrapposizione empiricamente riconoscibile tra le cosiddette traduzioni “fedele” e “libera” non spiega le operazioni traduttive dal punto di vista funzionale, pertanto è inaccettabile» (Popovič in Osimo 2006:XVI). Dopo aver stabilito la necessità di fondamenta terminologiche solide nel campo della traduzione, Popovič va ricordato anche per le riflessioni sulle categorie dello stile, influenzate dalla stretta collaborazione con František Miko. Quest’ultimo si è distinto per la categorizzazione stilistica del testo e la sua impostazione è stata molto utile per l’analisi e la critica della traduzione di Popovič, permettendo di analizzare molti tipi di testo sulla base di categorie fisse e di raffrontarli con facilità. In questo modo, si possono raffrontare anche tutti i tipi di prototesto e metatesto, ovvero di traduzioni:

[…] tale sistema è utilizzabile nell’analisi del testo letterario, del testo scientifico e del testo di altri tipi, ossia ovunque si abbia a che fare con problemi di stile. In un certo senso la lingua del sistema dei mezzi espressivi è universale, perché possono essere utili nell’analisi di qualunque testo. […] Grazie al suo carattere universale, si può usare il sistema delle categorie stilistiche anche nel raffronto prototesto-metatesto (Popovič in Osimo 2006:XXII).

Popovič ha dato un forte contributo all’approccio semiotico della traduzione anche perché egli considera la traduzione un processo di «metacomunicazione» e sostiene che il suo aspetto semiotico riguardi tutti quei cambiamenti che ci sono in un metatesto dovuti al processo traduttivo. Questi cambiamenti sono inevitabili perché derivanti da un processo trasformativo, dalla creazione di un testo diverso sia nello spazio sia nel tempo:

(la traduzione è una) attività derivata, di secondo grado. In relazione al ricevente è metacomunicazione. L’aspetto semiotico della traduzione riguarda le differenze che occorrono nel processo traduttivo in conseguenza della diversa realizzazione spaziotemporale del metatesto (Popovič in Osimo 2006:XXIII).

 

3.4 Conclusione

Per concludere la breve panoramica dei concetti che contribuiscono a creare una scienza della traduzione e che mi hanno sicuramente influenzato durante il processo traduttivo, non mi resta che citare il co-autore dell’articolo che ho tradotto, Peeter Torop. Con la sua pubblicazione del 1995 tradotta in italiano con il titolo La traduzione totale, Torop s’inserisce in una tradizione accademica ormai consolidata, quella della semiotica nell’Europa dell’est, che dà per scontati molti concetti poco diffusi in Europa occidentale. Primo fra tutti, il concetto di linguaggio interno di Vygotskij, che non è un linguaggio verbale e di cui ho già parlato nel paragrafo 3.1. Bisogna considerare anche che in Paesi come l’Estonia (e la Finlandia) la semiotica è una disciplina molto importante, se non addirittura fondamentale, perciò un approccio semiotico alla traduzione è dato per scontato, come possiamo evincere dal saggio scritto a quattro mani con Sütiste. In Italia, invece, questa materia viene spesso considerata difficile, incomprensibile ai più e marginale. Questo rende ancora più importanti le riflessioni di Torop che, avendo come base un approccio scientifico e semiotico alla traduzione, può regalare molti stimoli allo sviluppo della scienza della traduzione anche nel nostro Paese o in altri meno “fortunati” da questo punto di vista.

Anche le riflessioni di Lotman sono considerate fondamentali da Torop, che non potrebbe prescindere dal concetto di semiosfera e dalla semiotica della cultura elaborate dal suo predecessore nonché maestro. Lotman considera la cultura come un processo di pretraduzione, ovvero un filtro imprescindibile che ogni traduttore non può fare a meno di usare quando traduce. Questo concetto è molto diffuso in Estonia e nella scuola semiotica di Tartu:

Ogni libro può essere letto, ogni film può essere visto e ogni sinfonia può essere suonata liberamente, e questa libertà di percezione (che giunge all’interpretazione arbitraria) è un fatto di qualsiasi cultura. Ma esiste anche la cultura come istruzione, memoria e percezione da parte del lettore di ciascun nuovo testo a seconda dell’esperienza culturale di chi percepisce, al punto che in un certo senso qualsiasi testo che finisca nelle mani di un lettore è già stato letto; in altre parole, viene subito convenzionalizzato (Torop 2010:70).

Un altro punto fondamentale trattato nel libro di Torop è la necessità di uniformare il metalinguaggio usato nella scienza della traduzione che, in quanto interdisciplina, non dispone di una terminologia uniforme nei vari Paesi e permette agli studiosi di rimanere nel limbo dell’indeterminatezza terminologica, creando solo caos e imprecisioni. Un approccio scientifico alla traduzione è, in questo caso, molto più difficile:

Da una parte l’abbondanza di metalinguaggi ostacola la comprensione reciproca nell’àmbito di una stessa disciplina scientifica. Dall’altra parte, lo sfruttamento eccessivo di uno-due metalinguaggi nei quali vengono tradotti i risultati di tutte le analisi, e questa stessa traduzione nel metalinguaggio semiotico, creano l’illusione di acquisire conoscenze, conferendo una parvenza di scientificità anche a risultati banali (Torop 2010:6).

Per Torop, come per gli altri studiosi già citati, l’approccio scientifico è, invece, fondamentale: bisogna abolire il «liberismo terminologico» a favore di una maggiore chiarezza, anche in questa disciplina, per eliminare ogni forma di sinonimia.

Due concetti importantissimi nella concezione di traduzione di Torop sono quello di «traducibilità», legato alla presenza imprescindibile di un residuo in ogni processo traduttivo. Torop si allontana ovviamente dalle teorie che sostengono una traducibilità assoluta dei testi. Egli analizza le singole traduzioni in termini di intraducibilità (o traducibilità) relativa e di residuo:

La traduzione senza residuo non esiste. Perciò, alla base dell’attività traduttiva, sta la «scelta dell’elemento che consideri più importante nel testo tradotto» (Brûsov 1975: 106), ossia un’analisi oggettiva del testo che faccia emergere la dominante come vertice della struttura gerarchica intorno a cui si integra il testo (Torop 2010:99).

Anche se in Estonia Peirce non è molto studiato, forse oscurato dal gigante Lotman e dalla presenza del muro di Berlino, alla base delle riflessioni di Torop si riconosce la triade peirceiana – già presente nei filtri traduttivi bilingui di Lotman – per la presenza di una componente mentale, l’interpretante, che determina l’unicità di ogni metatesto creato. Avremo quindi tante traduzioni quanti sono i traduttori: ogni traduttore sceglie una propria strategia traduttiva dettata dai propri criteri di traducibilità e questa strategia ha lo scopo di far prevalere una dominante su tutte le altre. Ritorniamo quindi al concetto di «dominante», espresso per la prima volta da Jakobson nel 1935:

Nel processo traduttivo la dominante […] può stare nel prototesto, nel traduttore o nella cultura ricevente. Nel primo caso, è il prototesto stesso a dettare la propria traducibilità ottimale (Torop 2010:79).

 

Il pensiero di Torop mi è utile per specificare ulteriormente la dominante della mia strategia traduttiva: ho deciso di individuarla nel prototesto, mettendo in atto questo primo caso enunciato da Torop. Questa riflessione, inoltre, è di fondamentale importanza per la valutazione delle traduzioni, un altro argomento affrontato da Torop nella suo libro. Ogni traduzione deve essere valutata in base alla strategia traduttiva adottata, dopo un’appropriata analisi traduttologica, tenendo ben presente che non esiste una traduzione assoluta e perfetta, ma che da ogni prototesto può nascere una serie di metatesti diversi per ogni traduttore. Tutto ciò, purtroppo, non è affatto scontato nella valutazione quotidiana delle traduzioni italiane.

Il saggio che ho tradotto parte senza dubbio dalle considerazioni che ho appena illustrato, essendo frutto di una scrittura a quattro mani di Torop ed Elin Sütiste, una sua allieva. L’articolo va sì inserito nel contesto di un’ampia riflessione sul rapporto tra scienza della traduzione e semiotica, senza però prescindere dal background degli autori.

 

3.5 Riferimenti bibliografici

DRYDEN, J. 1700, Fables ancient and modern: translated into verse, from Homer, Ovid, Boccace and Chaucher, London, Gray’s Inn Gate.

ECO, U. 2003, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani.

JAKOBSON, R. 1959, «On linguistic aspects of translation», in Selected Writings – Word and Language (vol. II), The Hague-Paris, Mouton.

KRESS, G. R. 2003, Literacy in the New Media Age, New York, RoutledgeFalmer.

LOTMAN, Y. 1990, Universe of the mind. A semiotic theory of culture, New York, Tauris.

LÛDSKANOV, A. 1967, Un approccio semiotico alla traduzione, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli, 2008.

LYOTARD, J. F. 1979, La condizione postmoderna, traduzione di Carlo Formenti, Milano, Feltrinelli, 1985.

OSIMO, B. 2002, Storia della traduzione, Milano, Hoepli.

OSIMO, B. 2004, Manuale del traduttore, Milano, Hoepli.

OSIMO, B. 2006, «Jakobson: meaning as imputed similarity», in Sign System Studies 34.2, Tartu University Press.

OSIMO, B. 2007, La traduzione saggistica dall’inglese, Milano, Hoepli.

OSIMO, B. 2010, Propedeutica della traduzione, Milano, Hoepli.

POPOVIČ, A. 1975, La scienza della traduzione, traduzione di Daniela Laudani e Bruno Osimo, Milano, Hoepli.

SÜTISTE, E. e TOROP, P. 2007, «Processual boundaries of translation: Semiotics and translation studies», in Semiotica 123 (1/4), Tartu, Walter de Gruyter.

TOROP, P. 2010, La traduzione totale, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli.

TOURY, G. 1980, «Communication in Translated Texts. A Semiotic Approach», in In Search of A Theory of Translation, a cura di Gideon Toury, Tel Aviv, Porter Institute Tel Aviv University:11-18.

VYGOTSKIJ, L. S. 1990, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, Bari, Laterza.



[1] Tutte le citazioni, ove non diversamente indicato, sono da intendersi a cura dell’autrice del Mémoire.

[2] Si veda il paragrafo 3.3.1

[3] Si veda il paragrafo 3.3.2

[4] Si veda il paragrafo 3.2

Entrevista com Bruno Osimo. Anna Palma, Andréia Guerini «Cadernos de Tradução», 2008, ISSN 2175-7968, Florianópolis, Brasil. Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

INTERVISTA A BRUNO OSIMO

1. Com’è nato il suo interesse per la traduzione?

Nonostante il lavoro fatto su di me per capirlo, non posso dire di essere arrivato a una

soluzione precisa. Da un lato credo che abbia avuto un ruolo l’educazione materna, dopo la

quale ho avuto modo di attribuire estrema importanza alla precisione delle sfumature nel modo

di esprimersi, forse anche un po’ come una sorta di reazione; dall’altra il contesto

indirettamente cosmopolita della mia educazione, sia perché sono ebreo e figlio di due persone

entrambe perseguitate dalle leggi razziali italiane e scampate al nazismo grazie alla fuga e

anche alla fortuna, sia perché mio padre viaggiava molto per lavoro e, ogni volta che tornava,

mi accorgevo che in quello che raccontava c’era sempre un residuo, qualcosa che, per capirla,

occorreva conoscere direttamente. Qualcosa d’intraducibile senza residuo.

2. Come sono stati accolti i suoi libri in Italia e all’estero?

In Italia i miei libri sono stati accolti bene, ma in sordina. Sono adottati in molti atenei e scuole

di specializzazione, ma, forse anche grazie al fatto che il mio editore, Hoepli, sembra non amare

le promozioni e gli eventi pubblici, non sono mai stati presentati in nessun luogo. All’estero,

ovviamente, c’è il grande limite della lingua. La lingua italiana è minoritaria ovunque. Ciò

nonostante, le poche recensioni sono uscite tutte all’estero.

Bisogna anche dire che il decennio che quest’anno compiono i miei libri (la prima edizione del

Manuale del traduttore è del 1998, e sono contento di festeggiare l’evento con i lettori di XXX)

è stato un decennio di trasformazione dell’università italiana, con la drastica riduzione dei corsi

in «lingue e letterature straniere moderne» e la fioritura di quelli in «mediazione linguistica»

(livello B.A.) e «traduzione» (livello M.A.). Questo ha comportato, per molti ex docenti di

letteratura, un reinserimento, il trovare un ruolo nuovo all’interno del proprio o di altri

dipartimenti. Molti docenti di traduzione erano stati formati come esperti di letteratura, e hanno

a volte un atteggiamento di sufficienza e di superiorità sia verso la traduzione, che considerano

“solo” un mestiere, sia verso i manuali, in quanto tipo di testo diametralmente opposto ai

discorsi “accademici”. Si può immaginare come abbiano considerato un libro che racchiude

entrambi questi difetti! Devo confessare che, durante il dottorato di ricerca, dovevo tenere

nascosta alla maggior parte dei docenti del collegio la pubblicazione dei miei libri, perché li

consideravano un titolo di demerito in quanto “didattici” e non “scientifici”.

3. Qual è il ruolo che la traduzione occupa nello scenario italiano? E quale quello degli Studi

della Traduzione fatti in Italia rispetto agli altri paesi dell’UE?

In Italia la traduzione ha un ruolo fondamentale, poiché la cultura italiana, dopo la fase

dominante dell’impero romano, attraversa un periodo di declino culturale. È perciò del tutto

naturale che (come afferma Even-Zohar), in quanto cultura periferica del polisistema culturale,

al suo interno la traduzione occupi una posizione centrale: è di qui che passano i testi che

importiamo dalle culture via via dominanti: quella statunitense in primis, soprattutto per quanto

riguarda la saggistica. In campo narrativo, è ora in fase di fortissima dominanza – rispetto

all’esiguità numerica – la cultura israeliana. Comunque in Italia si traduce molto: e si pubblicano

più traduzioni che originali, diversamente da quanto succede, per esempio, nei paesi anglofoni.

Per quanto riguarda gli studi sulla traduzione in Italia, siamo abbastanza arretrati rispetto ad

altri paesi europei. Anche se, a mio parere, è tutta l’Europa occidentale che sconta

un’arretratezza rispetto, da un lato, alla scuola semiotica estone e slava, e, dall’altro, rispetto

all’insegnamento fondamentale dello statunitense Charles Sanders Peirce. È vero che nei Paesi

Bassi, in Belgio, nel Regno unito e in Francia si pubblica molto di più sulla traduzione, ma è

anche vero che tali studi non sempre sono aperti alle autentiche novità rivoluzionarie degli studi

pubblicati nei paesi slavi negli anni Sessanta. Per esempio, il fondamentale libro di Popovič, La

scienza della traduzione, che ho curato in edizione italiana per Hoepli, prima era uscito solo in

slovacco, russo e tedesco, ed è tuttora fortemente sottovalutato dai più; il seminale libro di

Lûdskanov, Una concezione semiotica della traduzione, che sta uscendo da Hoepli nella

primavera del 2008, oltre all’edizione bulgara conosce solo una versione in francese

sgrammaticato, con una tiratura esigua e una diffusione pressoché nulla. E Lotman e Peirce,

che non hanno mai scritto esplicitamente sulla traduzione, hanno però dato un contributo

essenziale, se lo si sa e lo si vuole cogliere.

4. In Italia i traduttori sono riconosciuti? Hanno i loro diritti autorali riconosciuti e sono

remunerati come vorrebbero e dovrebbero?

In Italia, dove i traduttori sono importanti almeno quanto i camionisti (ossia moltissimo) per

l’economia del paese, perché si è scelta la politica di tradurre i modelli culturali altrui, anziché

proporre modelli propri (così come si è scelto di costruire autostrade anziché ferrovie), se

fossero compatti potrebbero paralizzare il paese, in mancanza di tariffe e condizioni adeguate.

Invece c’è l’epidemia di una malattia, apparentemente infettiva, la “traduttósi”, che causa nel

paziente un’insana voglia di tradurre a qualsiasi condizione e a qualsiasi prezzo… Scherzi a

parte, la domanda di traduzione è inferiore all’offerta, che è davvero enorme. Ci sono centinaia

di persone disposte a tradurre anche gratis, solo per l’onore (da chi tale è considerato) di avere

il proprio nome stampato, in piccolo, in una pagina che nessuno mai guarda, quella del

copyright. Vicino al copyright, e non in relazione a esso, perché nel 99% dei casi la legge sul

diritto d’autore viene disattesa e le traduzioni vengono pagate a forfait, senza nessuna

percentuale sulle vendite. A questo si aggiunge che il livello medio (e sottolineo «medio») di

cultura editoriale dei redattori e degli editor è scarso, che non hanno nessuna idea di cosa

significhi la qualità di una traduzione, o meglio, che hanno un’idea ben precisa di una qualità

della traduzione che penalizza il testo a vantaggio della sua (presunta: e sottolineo «presunta»)

vendibilità. In base a questa logica, qualsiasi sopruso è lecito ai danni del testo (sia il

prototesto, l’originale, sia il metatesto, il frutto della fatica del traduttore), purché ciò lo renda

più “leggibile”. Ma il concetto di «leggibilità» dipende dal concetto di lettore implicito che ci si

forma, e, a mio modo di vedere, gli editori tendono ad avere una visione del lettore implicito

come molto più ignorante e stupido di com’è in realtà il lettore medio.

Con ciò credo di avere implicitamente risposto anche alla seconda metà della domanda: no, i

traduttori italiani sono mal pagati e hanno uno status da paria, inferiore perfino a quello già

bassissimo (in Italia) degli insegnanti (il cui stipendio è inferiore a quello di un bancario). Ma un

po’ è anche colpa nostra: anziché piangerci addosso, dovremmo avere maggiore autostima,

dimostrare più coraggio ed essere meno disposti a subire. Insomma: il masochismo è curabile.

Propongo una psicoterapia intensiva per tutti, magari con convenzioni e sconti per la categoria.

5. Teoria e pratica della traduzione possono essere dissociate tra loro? In che misura teoria e

critica della traduzione possono aiutare a migliorare la qualità della traduzione?

Non penso che possa esistere una teoria della traduzione dissociata dalla pratica, né una pratica

dissociata dalla teoria. Quando la teoria era dissociata dalla pratica, per esempio con Catford e

Fëdorov negli anni Cinquanta e Sessanta, nessun traduttore ci credeva, perché a tutti saltava

all’occhio che si trattava di una teoria solo linguistica, che non contemplava tutti gli aspetti

extralessicali, primo tra tutti la cultura. La pratica dissociata dalla teoria è invece un’utopia, perché

le scelte che un traduttore fa, le fa comunque, che lui si renda conto o no segue una teoria,

esplicita o implicita. Altrimenti le sue scelte le farebbe a caso, e non credo che ci sia nessuno

disposto a sostenerlo. Popovič parla di teoria implicita della traduzione in riferimento a questo

fenomeno. Si potrebbe anche cercare di fare una storia della teoria della traduzione basata sulle

traduzioni pratiche. Più la teoria è implicita, più si corre il rischio di commettere incongruenze, di

avere una strategia traduttiva incoerente con sé stessa.

La cultura della critica della traduzione, diffondendosi, non può che migliorare le condizioni di

lavoro dei traduttori, e la qualità del prodotto così come viene poi considerato “finito”, ossia nella

fase finale di consumo da parte dei clienti. In mancanza di chiarezza su cosa s’intende per «qualità

della traduzione», si rischia di perseguire due fini diversi e inconciliabili: la facilitazione della

lettura, ottenuta mediante l’eliminazione degli scogli; e la preparazione di un testo presentato

come «altrui», ossia che conserva molte delle caratteristiche che lo connotano come traduzione di

un altro testo che proviene da una cultura diversa. Spesso in Italia si persegue il primo dei due fini,

ma non lo si dichiara quasi mai, anche perché risulterebbe offensivo per i clienti-lettori: si

attribuisce loro scarsa curiosità e poco interesse per ciò che il resto del mondo ha da offrirci; si

attribuisce loro fretta, disinteresse, desiderio di consumo veloce. Se vogliamo che i bagnanti

possano accedere a una costa piena di scogli, abbiamo due possibilità: fare una colata di cemento

e creare comodi scivoli, oppure attrezzare i bagnanti perché riescano a valicare la scogliera. Nel

primo caso, i bagnanti arrivano, ma non c’è più nulla da vedere.

6. Ci parli del suo interesse per la scuola di Tartu, di com’è nato e dell’importanza che ha avuto

e che ha nei suoi studi di Traduttologia.

Quando ero studente, la professoressa Elda Garetto, mia relatrice di laurea, mi diede un libro in

russo che, dal punto di vista grafico, aveva un aspetto molto modesto: era La traduzione totale, di

Peeter Torop. Leggendo quel libro, mi accorsi che, per quanto fosse molto difficile per me da

capire, trattava i problemi a un livello completamente diverso da quello a cui ero abituato: molto

più scientifico, metodico, ambizioso. Rimasi colpito dal contrasto tra il basso profilo dell’edizione

(sembrava una dispensa qualsiasi) e l’altissimo rigore del contenuto. Scrissi all’autore, e da lì prese

vita dapprima la traduzione, poi l’edizione italiana, poi l’amicizia con Peeter, poi la collaborazione.

In sostanza (lo dico con un po’ di vergogna per la mia ignoranza), scoprii la scuola di Tartu a

7. Attualmente lei fa parte di un progetto all’interno dell’Università di Tartu, ci può spiegare

Lo Stato estone, pur essendo molto più povero dello Stato italiano, ha una politica lungimirante e

sa che è molto importante, per il bene della nazione, investire nella ricerca. Di conseguenza ci

sono, anche nel campo della semiotica della traduzione, progetti di ricerca in cui sono a volte

coinvolti studiosi internazionali come guest researcher. Un progetto riguarda la storia della

traduzione e dovrebbe sfociare nella pubblicazione di un libro in inglese sull’argomento, distribuito

dalla Tartu University Press. Naturalmente in chiave semiotica. Un altro progetto riguarda la

riscoperta di Roman Jakobson e dell’enorme patrimonio nella sua opera per quanto riguarda la

8. Lei ha pubblicato diverse traduzioni di racconti e romanzi dal russo e dall’inglese. Nella

selezione dei libri da tradurre in italiano, su quali criteri si basa principalmente? E in che

misura le case editrici vi partecipano? La scelta del testo di un determinato autore da

tradurre è una fase che fa già parte, secondo lei, del processo traduttorio?

Tranne in rari casi (come L’isola di Sahalin di Čehov o L’ebreo in Russia e L’Angelo sigillato di

Leskov) nella mia vita la scelta è stata totalmente dell’editore. Fosse per me, per esempio,

tradurrei le opere complete di Čehov e lo considererei un grande onore e piacere. Invece

Mondadori, dopo avere cominciato la pubblicazione di tutti i racconti, a ritroso, cominciando dai più

recenti, a un certo punto si è fermato, senza preavviso. Peccato.

La scelta del testo fa parte senz’altro della critica della traduzione e del processo traduttivo. Si

tratta, come dice Popovič, di critica preventiva. Tra l’altro, difficilissima da fare, perché bisogna

essere esperti di marketing, di sociologia e di psicologia sociale. Non sono certo che coloro che la

fanno abbiano tutte queste competenze. E pensare che il primo lavoro che si offre a un aspirante

traduttore è proprio quello di leggere un libro e preparare la scheda di lettura che serve a prendere

tale decisione… Credo che si dovrebbe investire di più in questo campo, per ottenere risultati più

9. Nella sua traduzione del libro di Torop, La traduzione Totale, nelle Avvertenze per il lettore,

lei spiega la translitterazione dei caratteri cirillici ai quali si è attenuto, aggiungendo anche

alcune “norme spicciole di pronuncia”. Questo suo procedimento affinché il lettore possa

avvicinarsi, nella pronuncia anche solo interiorizzata dei nomi propri, a quella più vicina alla

lingua originale, sottolinea la sua preoccupazione anche per i suoni della cultura emittente.

Quando traduce testi letterari, quale criterio usa con i nomi propri di personaggi o di luoghi,

li traduce o no? e perché? E come si comportano o si sono comportati gli altri traduttori dal

russo in italiano o in altre lingue, sempre a questo proposito?

Io credo che nella traduzione di testi non strettamente utilitaristici lo scopo sia quello di far

conoscere al lettore mondi diversi, culture diverse, usi e costumi diversi. La traduzione la vedo

come strumento per combattere il provincialismo che affligge tutti noi e che, forse, sta anche alla

base di molti conflitti. Di conseguenza, quando non ho limiti imposti dall’editore, conservo nomi

propri sia di persona sia di luogo sia di istituzione nella forma più simile possibile a quella della

cultura originaria, fatto salvo l’alfabeto latino. Un disastro avviene quando, per esempio, si

traducono i nomi delle università, ciò che spesso le rende irriconoscibili, come quel giornalista che

ha tradotto “Washington University” con “Università di Washington”, proponendo al lettore italiano

qualcosa di interamente falso: si tratta dell’università intitolata a George Washington, e ha sede a

Saint Louis, nel Missouri. Solo le istituzioni che hanno nomi in più lingue (come l’UE) possono

essere nominate in quelle lingue. Che la cultura emittente sia quella russa o qualsiasi altra non fa

nessuna differenza. Le culture hanno una loro peculiarità che va rispettata e che è utile conoscere,

anche quando non si è disposti a condividerla. Dato che però le norme di traslitterazione non

tengono conto delle difficoltà dei non addetti ai lavori, e per la trascrizione delle lingue con alfabeto

cirillico è uscito un aggiornamento nel 1995 che semplifica il lavoro agli addetti ma lo complica per

i profani (per esempio, la lettera â serve ora a traslitterare un carattere cirillico che si pronuncia

«ia»), io sono favorevole a un’applicazione degli standard ISO, ma anche a una spiegazione iniziale

per i lettori con esempi semplici di pronunce di parole più locali possibili.

Molti traduttori dal russo sono rimasti fermi allo standard precedente, del 1968, anche perché nella

slavistica italiana c’è poco aggiornamento e una tendenza alla conservazione e al dogma. Quello

standard aveva il grave difetto di non comportare una corrispondenza biunivoca tra segno cirillico e

segno latino, con la conseguenza che nelle biblioteche, per esempio, i catalogatori che non sanno il

russo non sempre erano in grado di ricostruire la grafia originaria.

10. Nella sua opinione, lo studioso di Traduttologia ed il traduttore hanno un ruolo politico-

sociale nella società attuale? Se sì, qual è? Allo stesso modo, qual è l’impatto della

Traduttologia nelle case editrici, e in che modo può cambiare la relazione tra queste e

l’edizione del testo tradotto, tra queste ed i traduttori?

Il traduttore e il traduttologo hanno un ruolo molto importante. Non sono soltanto lo specchio del

modo in cui una cultura “legge” le altre, ma sono anche una forza attiva di riflessione su tale

relazione interculturale e di indirizzamento di tale lettura.

Le case editrici sono aziende, ma questo, oltre a essere un male, può anche essere un bene.

Spesso i redattori nel rapporto coi traduttori chiamano in causa il bilancio aziendale per giustificare

proposte di compensi esigui. È importante capire che il bilancio può crescere se, invece di pensare

alla produzione libraria in senso quantitativo, la si pensa in senso qualitativo. In questo senso

traduttologo e traduttore possono essere di enorme aiuto. Se si desse ascolto al traduttore e al

traduttologo anche come consulenti di commercializzazione, si potrebbe rivoluzionare il modo di

fare i libri, e i lettori si sentirebbero più coinvolti, come avviene in Israele, che ha il tasso di lettura

11. Alcuni dei suoi libri sono disponibili in modo integrale in Rete. Che opinione ha del ruolo di

Internet nella diffusione della cultura e della conoscenza in generale? Ed in particolare che

importanza ha la Rete nella produzione intellettuale, nell’interscambio tra i ricercatori, nel

migliorare la qualità delle traduzioni, ecc.?

Internet ha solo pochi anni ma è già uno strumento la cui assenza sembra inconcepibile. Il mio

modo di lavorare, negli ultimi quindici anni, è cambiato in modo radicale grazie a internet. I miei

allievi non riescono nemmeno a pensare di poter fare una traduzione senza stare costantemente

online. Le potenzialità di internet per gli scambi tra ricercatori sono enormi. Anche questa intervista

ne è una testimonianza e una dimostrazione.

Quanto al diritto d’autore e ai libri online, credo fermamente nel diritto dell’autore di avere una

retribuzione dai suoi lettori, e considero la fotocopia abusiva un vero e proprio furto, come anche

la copia abusiva di CD e DVD. Se un autore mette a disposizione online alcune risorse che sono di

sua proprietà, bene, allora questo è un fenomeno diverso. Ma l’onestà di fondo degli utenti viene

data per scontata. E ci si aspetta un gesto di reciprocità.