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Nikolaj Sergeevič Trubeckoj visto dagli occhi di Roman Jakobson ANNALISA FRANZI

Nikolaj Sergeevič Trubeckoj visto dagli occhi di Roman Jakobson

ANNALISA FRANZI

Scuole Civiche di Milano
Fondazione di partecipazione
Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore professor Bruno OSIMO
Correlatrice professoressa Elena BROSEGHINI

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica
ottobre 2007

© Annalisa Franzi 2007, per la tesi

© eredi di Roman Jakobson 1939 per l’articolo in tedesco

ABSTRACT
La tesi si basa sulla traduzione di un articolo scientifico del semiotico russo Roman Jakobson. Il testo originale è in lingua tedesca e tratta della biografia di un altro illustre esponente dell’intelligenciâ russa vissuto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo: Nikolaj Sergeevič Trubeckoj. Il lavoro traduttivo effettuato non si limita al semplice passaggio dalla lingua del prototesto a quella del metatesto: vi è sottesa, infatti, una ricerca concettuale e terminologica fondamentale per la comprensione del lessico utilizzato da Jakobson, caratterizzato da un’alta specificità settoriale e da uno stile peculiarissimo: in una trama tessuta con estrema precisione, infatti, in Jakobson ogni singola parola si intreccia a quella successiva creando un discorso finemente coeso e coerente. Durante la stesura della traduzione, questa struttura precisa e raffinata del testo originale ha rivelato la propria complessità, portando alla luce una serie di problemi traduttivi la cui analisi e risoluzione sono risultate cruciali per la compattezza e comprensione finali del metatesto.

ENGLISH ABSTRACT
This thesis is based on the translation of a scientific article written by the Russian semiotist Roman Jakobson. The original text is in German and concerns the biography of another prominent representative of the Russian intelligenciȃ who lived between the end of the nineteenth and the beginning of the twentieth century, Nikolaj Sergeević Trubeckoj. The translation work is not restricted to the elementary switch from the language of the prototext to the language of the metatext, but implies terminological and conceptual research essential for the understanding of the vocabulary used by Jakobson, which is characterized by a highly specific technical language and an absolutely distinctive style. In fact, every single word chosen by Jakobson is weaved one with the other into a finely cohesive and coherent discourse, like in a spider’s web. While drafting the translation, the precise and sophisticated structure of the original text revealed its own complexity, bringing to light a series of translation problems, the analysis and solution of which turned out to be basic and extremely important for the final cohesion and comprehension of the metatext.

ABSTRACT AUF DEUTSCH
Inhalt meiner Diplomarbeit ist ein wissenschaftlicher Artikel, dessen Autor der russische Semiotiker Roman Jakobson ist. Der ursprüngliche Text ist deutsch geschrieben, es handelt sich hierbei um die Biografie eines anderen vorzüglichen Vertreters der russischen Intelligenz, Nikolaj Sergeevič Trubeckoj, der am Ende des 19. und zu Beginn des 20. Jahrhunderts lebte. Die Übersetzungsarbeit beschränkt sich nicht nur auf das Übertragen von einer Sprache in die andere, das heisst von der Sprache des Urtextes zu der Sprache des Metatextes, sondern sie impliziert eine terminologische und konzeptuelle Untersuchung, die grundsätzlich ist, um den besonders spezifischen Fachwortschatz und den selten eigenartigen Stil von Jakobson zu verstehen. Wie in einem sorgfältig geflochtenen Spinnennetz ist jedes einzelne Wort mit dem folgenden verknüpft, so dass ihr Zusammenhang eine Rede mit feiner Kohäsion und Konsequenz erschafft. Während des Verfassens der Übersetzung hat diese genaue und feine Struktur des ursprünglichen Textes ihre eigene Komplexität gezeigt, wobei eine Reihe von Übersetzungsproblemen aufgetaucht ist, deren Analyse und Lösung für die definitive Geschlossenheit und Verständnis des Metatextes entscheidend gewesen sind.

Sommario

0 Sommario 4
Ringraziamenti 6
1 1. Prefazione 7
1.1 Terminologia 7
1.1.1 Schnaderhüpfel 8
1.1.2 Bylina 9
1.1.3 Systemzwang 9
1.1.4 Steingeburtssagen 10
1.1.5 ur-/Ur- 11
1.1.6 Und-Verbindung 12
1.2 Riferimenti bibliografici 13
2 2. Traduzione con testo a fronte 14

Ringraziamenti

I miei ringraziamenti vanno in particolare alla Professoressa Elena Broseghini, i cui consigli e il cui sostegno sono stati provvidenziali per la riuscita di questa “opera prima”. Un grazie speciale dunque a lei, che, con grande disponibilità, mi ha dedicato il Suo tempo e la Sua pazienza.
Ringrazio anche il Professor Bruno Osimo.
Non poteva però mancare un ringraziamento personale, non dovuto, ma voluto e sentito: GRAZIE a Voi, Mamma e Papà, perché, malgrado tutto, mi siete sempre stati accanto.

1. Prefazione

Questa tesi consiste nella traduzione e nell’analisi di un saggio biografico sul linguista russo Nikolaj Sergeevič Trubeckoj, sulle preziose esperienze e drammatiche vicissitudini legate alla sua vita, al suo pensiero e al suo vastissimo lavoro di studioso e ricercatore.
Questa biografia, scritta nel giugno 1939 a Charlottenlund, Danimarca, e pubblicata successivamente in quello stesso anno in Acta Linguistica, rivista specializzata nel settore linguistico, si deve a un autore d’eccezione, non solo in quanto illustrissima figura all’interno dell’universo semiotico, ma anche in quanto collega e amico molto stretto di Trubeckoj. I due erano entrambi di madrelingua russa, entrambi uniti da analoghe vicende di fuga ed esilio ed entrambi accomunati dalla stessa passione per i fatti linguistici, oggetto di innumerevoli e approfonditi studi da essi condotti. Entrambi, inoltre, sono da considerarsi tra i maggiori esponenti del Circolo linguistico di Praga che fu fondato nel 1926, sviluppando l’analisi testuale strutturalista e ispirandosi alla teoria della lingua quale sistema unitario e rigoroso di segni legati da relazioni di stretta interdipendenza.
1.1 Terminologia

L’articolo di Jakobson è stato pubblicato su una rivista scientifica ed è un testo altamente specialistico, caratterizzato da una terminologia puntuale e dai tecnicismi settoriali della linguistica. Il lettore modello tanto dell’originale tedesco quanto del metatesto italiano è uno specialista o uno studente di livello molto avanzato di glottologia, linguistica o filologia.
Nella traduzione mi sono attenuta quanto più possibile a un rigore terminologico, evitando il ricorso a “sinonimi” o simili forme perifrastiche, preferendo invece restituire le ripetizioni volute del prototesto dovute al suo carattere scientifico specializzato.
Pur avendo dotato il testo di note del traduttore per permettere al lettore di continuare la lettura anche in presenza di termini russi e tedeschi ostici, in questo apparato metatestuale riporto alcuni dei termini principali a mio parere più difficili – o impossibili – da tradurre, insieme con una spiegazione del loro significato tecnico e/o storico.
1.1.1 Schnaderhüpfel

Il termine in questione si riferisce ai componimenti regionali popolari appartenenti alla tradizione locale del Tirolo, della Baviera e della Stiria. Sono epigrammi costituiti da una strofa che vengono improvvisati e cantati seguendo una precisa melodia: due persone o dei gruppi di persone si alternano improvvisando delle strofe cantate. Generalmente si tratta di argomenti scherzosi e, a volte, canzonatòri.
Nella lingua italiana è impossibile trovare un traducente per «Schnaderhüpfel». All’interno del panorama poetico italiano, questo tipo di componimento potrebbe venire paragonato agli stornèlli o alle tenzoni, ma, seppur simili, anche questi generi popolari presentano delle caratteristiche tali da differenziarli dal soggetto in questione, proprio per la culturospecificità della parola, che si configura come appartenente alla categoria che in traduttologia è definita – con una parola latina che però curiosamente ci giunge attraverso il russo – «realia».
Come già accennato in precedenza, gli Schnaderhüpfel, inoltre, si riferiscono a un genere diffuso esclusivamente entro confini ben delimitati e l’utilizzo del termine è decisamente ristretto.
Proprio per questa peculiarità, se avessi cercato di adattare la parola utilizzata da Jakobson alla cultura ricevente, l’impossibilità di trovare un traducente nella lingua italiana mi avrebbe posto davanti alla problematica e inevitabile questione del forte residuo traduttivo. Di conseguenza, mi è sembrato consono mantenere il termine tedesco anche nella traduzione italiana, accompagnandolo però da alcune note, al fine di renderlo più familiare al mio lettore e di offrirne una comprensione più immediata.

1.1.2 Bylina

Ho esteso lo stesso discorso al termine russo bylina, e, nonostante quest’ultimo abbia un uso più diffuso e, probabilmente, una maggiore possibilità di comprensione, anche in questo caso mi è sembrato utile fornire un breve chiarimento terminologico e storico all’interno della traduzione stessa, evitando di renderlo con una parola che ne desse solo approssimativamente il senso omologico, privandola del suo essenziale contesto russo.
1.1.3 Systemzwang

La traduzione esatta italiana del sostantivo Systemzwang potrebbe essere «obbligo di sistema», o una traduzione esplicativa potrebbe essere «sistema vincolato», considerando la definizione che ne viene data all’interno del monolingue tedesco, «gebundenes System». Malgrado l’assenza di un preciso traducente nella cultura italiana di tale termine, una traduzione letterale in questo caso non risulterebbe efficace né di grande incisività.
A questo punto, il mio cómpito è stato quello di ricercare, all’interno della lingua italiana, un concetto che potesse corrispondere in modo quantomeno approssimativo a quello espresso dal composto tedesco utilizzato da Jakobson.
Ho individuato la soluzione al mio problema nell’espressione «sistema modulare», concetto che appartiene al campo dell’architettura e che fa riferimento, in modo particolare, all’architettura romanica. Il sistema modulare, difatti, consiste nel legame che si crea fra le dimensioni di un insieme, nel momento in cui queste vengono subordinate a un’unica misura comune, ovvero, il modulo, che, stabilendo delle relazioni precise tra i vari blocchi dell’edificio, apporterà un’armonia ritmica alla composizione stessa.
Ho ritrovato il termine Systemzwang, nella sua forma tedesca, anche all’interno di vari testi di linguistica.
Dopo queste osservazioni, «sistema modulare» è stato il traducente per il quale ho optato, poiché l’ho ritenuto il più adatto in quanto riconducibile sia a un àmbito architettonico, quindi al retaggio del nonno di Trubeckoj, sia a un àmbito linguistico, quindi alla peculiarità del pensiero strutturalista di Trubeckoj stesso.
1.1.4 Steingeburtssagen

La traduzione del termine Steingeburtssagen è stata uno dei nodi traduttivi più difficili da sciogliere e, solo dopo una lunga ricerca e un pizzico di fortuna, mi si sono presentate diverse interpretazioni, tutte plausibili e molto suggestive, che mi appresto a illustrare qui di séguito. Devo puntualizzare, però, che proprio per la varietà del materiale e per la mancanza di dati più precisi e dettagliati, la scelta meno fallibile mi è sembrata quella di mantenere una certa genericità semantica e utilizzare la forma «nascite ex petra», traduzione esatta del termine tedesco, anche per evitare la possibilità di incappare in un errore interpretativo dovuto al desiderio di estrema specificità e connotatività.
– La prima interpretazione della parola Steingeburtssagen mi è stata offerta da Jacob Grimm nella sua opera Mitologia tedesca. Secondo quanto egli scrive, le Steingeburtssagen sarebbero delle saghe antichissime in cui si narra che gli antenati del popolo tedesco avrebbero avuto origine da elementi naturali, piante e rocce, quindi, che gli esseri viventi nascerebbero da un regno semi-vivente e che, attraverso il legame tra questo regno e gli uomini, verrebbe rafforzata l’inviolabilità delle foreste e delle montagne primigenie.
Lo stesso Grimm continua nell’analisi del termine Steingeburt e riporta un’altra saga nella quale la pietra appare nuovamente come generatrice di vita, la saga di Deucalione. In séguito a un diluvio scatenato da Giove per distruggere la stirpe umana, degenerata nella corruzione, il giovane Deucalione, figlio di Prometeo, e sua moglie Pirra, grazie alla propria purezza d’animo, sono gli unici sopravvissuti alla punizione divina. Ai due viene data la possibilità di esprimere un ultimo desiderio: alla richiesta di ripopolare la terra, ai due venne ordinato di gettare dietro di sé «le ossa delle proprie madri» (in realtà, le pietre, ossa della Madre Terra). Fu così che dalla pietra lanciata da Deucalione nacquero gli uomini e dalla pietra di Pirra nacquero le donne.
– Un’altra interpretazione di Steingeburt è offerta dal Vangelo in Matteo 3, 9. [«E non pensate di dir dentro di voi: Abbiamo per padre Abramo; perché io vi dico che Iddio può da queste pietre far sorgere de’ figliuoli ad Abramo».]
– Ma l’ultima ipotesi è forse quella più suggestiva, tenuto conto dell’interesse di Trubeckoj per la letteratura avestica: il rapporto intercorrente fra la nascita ex petra e il mito del dio Mitra. Mitra, secondo una leggenda, sarebbe uscito da una pietra, armato di una daga in una mano e impugnando una fiaccola nell’altra. La sua incarnazione sarebbe volta alla sconfitta del male cosmico e morale e, grazie al suo eroico operato, avrebbero avuto origine il mondo vegetale e quello animale, uomini compresi.
Di origine persiana, presente nella cultura dei Veda e degli Avesti, il mistero del mito di
Mitra potrebbe essersi diffuso con facilità anche nei paesi caucasici, a causa dei molteplici
contatti tra le due culture.

1.1.5 ur-/Ur-
Il prefisso ur-/Ur-, a seconda che sia anteposto ad aggettivi o a sostantivi, presenta, all’interno della lingua italiana, vari traducenti semanticamente collegati. Nel primo caso, la particella ur- può svolgere una funzione rafforzativa e assumere il significato di «molto, completamente». Qualora il prefisso Ur- si trovasse davanti a un sostantivo, il traducente italiano verrebbe ad assumere una connotazione temporale che denota lo stato iniziale e primigenio del sostantivo a cui fa riferimento.
In italiano, la parola tedesca in questione può essere tradotta con molteplici aggettivi: originario, primigenio, atavico, etc. Il traducente generalmente più utilizzato, forse sia per corrispondenza semantica che sintattica, è comunque il prefisso italiano «proto-», che denota anteriorità temporale, una fase iniziale e l’appartenenza a uno stadio remoto e unitario.
Con una frequenza crescente, l’utilizzo della particella ur- si sta diffondendo anche all’interno del vocabolario italiano e, di conseguenza, ho pensato che, anche nella traduzione del termine da me affrontata, avrei potuto lasciare il prefisso tedesco scelto da Jakobson; seguendo queste osservazioni e consapevole di chi sia il mio lettore modello, nella mia versione si ritrovano così, alternativamente, sia la traduzione italiana del termine, che il termine tedesco originario.
1.1.6 Und-Verbindung
Anche a una persona con conoscenze elementari della lingua tedesca, appare immediatamente comprensibile, nella sua semplicità, il significato della parola Und-Verbindung. Se, da una parte, la chiarezza sembra facilitarne la traduzione, dall’altra, apre le porte a molteplici possibilità. Infatti, a causa dell’impossibilità di trovare questa espressione all’interno di dizionari monolingui, tanto meno di quelli bilingui, ho dovuto spostare il campo di ricerca a un àmbito più ristretto, sperando di individuare la parola tedesca in analisi all’interno di testi ad argomento linguistico. I risultati hanno dimostrato che Und-Verbindung non è un termine appartenente alla linguistica, ma che, probabilmente, è stato coniato da Trubeckoj e riutilizzato da Jakobson per indicare un concetto legato alla fonologia, la quale, come scrive l’autore, sarebbe «[…] un’unità, una Gestalt ordinata e improntata a delle regole […]» e non un insieme di elementi meccanicamente legati tra loro. Così, non avendo trovato un traducente italiano e prendendo spunto dalla descrizione offerta da Jakobson, ho preferito lasciare l’espressione tedesca anche nel testo italiano, includendo, come nota del traduttore, una traduzione che ne dia il senso omologico e che, eventualmente, possa dissipare qualsiasi dubbio al lettore.

1.2 Riferimenti bibliografici

ARCHITETTURA, 1996, Enciclopedia Italiana dell’Architettura, Milano, Garzanti, ISBN 88-11-50465.
BIBBIA, 1974, La sacra Bibbia, Roma, Unione Editori Cattolici Italiani, Conferenza Episcopale Italiana.
BROCKHAUS, 1934, Der große Brockhaus, Leipzig, F. A. Brockhaus.
FILOSOFIA, 1981, Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, Garzanti.
GRIMM JACOB, 1854, Deutsche Mythologie, Berlin.
OSIMO Bruno, 2001, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, ISBN 88-203-2935-2.
OSIMO Bruno, 2002, «Traduzione della cultura», in Piretto, Gian Piero, Parole, immagini, suoni di Russia. Saggi di metodologia della cultura, Milano, Unicopli, 2002, ISBN 88-400-0810-1.
PEIRCE Charles Sanders, 1931-1935, 1958, The Collected Papers of Charles Sanders Peirce, vol. 1-6, a cura di Charles Hartshorne and Paul Weiss, vol. 7-8 a cura di Arthur W. Burks, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press.
POPOVIČ Anton, 1975, La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli, 2006, ISBN 88-203-3511-5.
RELIGIONI, 1993, Dizionario delle religioni, Torino, Einaudi, ISBN 88-06-13266-0.
SCIENZE, 1950, Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Giovanni Treccani.
TOURY Gideon, 1995, Descriptive Translation Studies and Beyond, Amsterdam, Benjamins, ISBN 90-272-1606-1.

2. Traduzione con testo a fronte

NIKOLAJ SERGEEVIC TRUBETZKOY
(16. April 1890 – 25. Juni 1938)

Beim ersten internationalen Linguistenkongress sagte Meillet auf Trubetzkoy hinweisend: “Er ist der stärkste Kopf der modernen Linguistik”. – “Ein starker Kopf”, bestätigte jemand. – “Der stärkste”, widerholte nachdrücklich der scharfsichtige Sprachforscher.
In der Geschichte des hohen russischen Adels haben recht wenige Geschlechter so merkliche und dauernde Spuren im öffentlichen und geistigen Leben des Landes hinterlassen. Der Vater des Verstorbenen, Fürst Sergej Trubetzkoy (1862-1905), Professor und Rektor der Moskauer Universität, war ein hervorragender, tiefdenkender Philosoph. Der Gedanke des Logos in seinem historischen Werden und Wandeln ist sein Grundthema. Einem aufmerksamen Beobachter wird der intime Zusammenhang zwischen dieser Lehre und der Frage des Sohnes nach dem inneren Sinne der Sprachumgliederung kaum entgehen. Der Bruder des Philosophen und ebenfalls Philosoph, Evgenij Trubetzkoy, schildert kunstvoll in seinen Erinnerungen (Iz prošlogo, Wien, s. a.) das Gemeinsame und das Unterscheidende an drei Generationen seines Geschlechtes: “von einem Gedanken und einem Gefühl restlos erfasst, legt man in diesen Gedanken eine Temperaments- und Willenskraft hinein, die keine Hindernisse kennt und deshalb unbedingt das Ziel erreicht”.
Aber der Inhalt des dominierenden Gedankens wechselt mit jeder Generation. Der Urgross¬vater von Nikolaj Trubetzkoy war von selbstgenügsamen architektonischen Linien beherrscht, sein Alltag wurde ihrem strengen Stil unterworfen, “und deswegen gab es im Leben keinen grösseren Systematiker”. Im Sein des Grossvaters “verinnerlichte sich die Baukunst und verwandelte sich in eine anderartige, magische Architektur, die der Klänge” – es kam die Tonkunst. In der nächsten Generation “trat als Tochter der Musik die Philosophie auf”. Und schliesslich, fügen wir hinzu,

NIKOLAJ SERGEEVIČ TRUBECKOJ
(16 Aprile 1890 – 25 Giugno 1938)

In occasione del primo Congresso internazionale dei linguisti, Meillet si espresse nei confronti di Trubeckoj con le seguenti parole: «È la testa più brillante e tenace della linguistica moderna». «Una testa brillante e tenace», assentì qualcun altro. «La più brillante e tenace», ripeté con enfasi l’acuto linguista.
In tutta la storia dell’aristocrazia russa solo pochissime casate hanno realmente influenzato in modo così significativo e duraturo la vita pubblica e intellettuale del paese. Il padre dello scomparso, il principe Sergej Trubeckoj (1862-1905), professore e rettore all’Università di Mosca, fu un filosofo straordinario dalla grande profondità di pensiero. Il tema principale da lui affrontato è l’idea di logos, nel suo divenire e nelle sue trasformazioni storiche. Un osservatore attento non mancherà di notare l’intimo rapporto che lega la teoria del padre all’interrogativo formulato dal figlio sul significato profondo del ristrutturarsi del linguaggio. Nelle sue memorie, il fratello del filosofo, Evgenij Trubeckoj, a sua volta filosofo, tratteggia con grande maestria (Iz prošlogo, Vienna, sine anno) ciò che accomunava e divideva tre generazioni della sua stirpe: «afferràti da un unico, esclusivo pensiero e sentire, viene profusa in questi pensieri una passionalità e una volontà tali da abbattere ogni ostacolo e raggiungere, di conseguenza, senza fallo la meta».
Ma il contenuto del pensiero dominante cambia di generazione in generazione. Il bisnonno di Nikolaj Trubeckoj era profondamente attratto dalle linee architettoniche autosufficienti; tutta la sua quotidianità iniziò a ruotare intorno al loro stile severo «e, proprio per questo motivo, non esistette un sistematico più grande». Nell’esistenza del nonno, invece, «l’architettura si interiorizzò e si trasformò in un’architettura di altro tipo, un’architettura magica, l’architettura degli accordi» e divenne così arte musicale. Nella generazione successiva, «emerse come figlia della musica, la filosofia». In fine, soggiungiamo noi, nel mondo creativo di Trubeckoj, l’idea ultraterrena di logos

wird in der schöpferischen Welt Nikolaj Trubetzkoy’s die überirdische Idee des Logos durch die verkörperte, empirische Wortsprache ersetzt. Und wenn auch der Sprachgelehrte sich von jedem allzuabstrakten Philosophieren entschieden lossagte, findet man kaum in der gegenwärtige Linguistik eine andere Lehre, die dermassen von wahrem philosophischen Geist durchdrungen ist und so ergiebig die Philosophie fördert. Mit dem aufrührerischen Neuerungsgeist vereinigt Trubetzkoy eine urwüchsige Kraft der Tradition; ja es lebt in seinem Lebenswerke nicht nur die Logosproblematik seines Vaters, sondern auch der ererbte Musikgeist, der ihn zur Kunstsprache, zum Vers und zwar ausschliesslich zum Singvers lockt und seine feinen Beobachtungen über die Wechselbeziehungen zwischen dem sprachlichen und musikalischen Rhythmus lenkt. Die russischen Bylinen und Schnaderhüpfel, das mordwinische und polabische Volkslied, Puškins Nachklänge der serbischen Epen und die altkirchenslavische Hymne enthüllen ihm ihre Schallgesetze. Aber auch die architektonische Einstellung des Urahns lebt in N. S. Trubetzkoy fort. Sie kommt in Form und Inhalt zum Vorschein: einer¬seits in seinem klassisch klaren Still und besonders in der durchsichtigen, harmonischen Komposition, andererseits in seiner seltenen Klassifizier¬ungskunst, die einen genialen und leidenschaftlichen Systematiker offenbart. Man könnte nicht diesen “Systemzwang” als Grundsatz seines Schaffens genauer beschreiben, als es Trubetzkoy selbst gemacht hat. In seinem Buch K probleme russkogo samopoznanija (1927) mahnt er jeden Volksgenossen zur persönlichen und nationalen Selbsterkenntnis und insbesondere zum Anerkennen und Begreifen des turanischen Einschlags, den der Verfasser als einen massgebenden Bestandteil der russischen Geschichte und Psychologie hervorhebt (vgl. bes. seine unter den Initialen I. R. herausgegebene Broschüre Nasledie Čingisxana, Berl. 1925), und er schildert diesen “turanischen Geist” mit einer geradezu introspektiven Überzeugungskraft, die Meillet so bewundert hat:
Der turanische Mensch unterwirft jeden Stoff einfachen und schematischen Gesetzen, die ihn zu einer Ganzheit zusammenschmelzen und dieser Ganz¬heit eine gewisse schematische Klarheit und Durchsichtigkeit verleihen. Er grübelt nicht gerne an überfeinen und verwickelten Einzelheiten und

venne sostituita dalla linguistica empirica incarnata. E se anche il linguista abbandonò recisamente i filosofismi troppo astratti, nella linguistica contemporanea si faticherebbe a individuare un’altra dottrina compenetrata in ugual misura da uno spirito filosofico autentico e capace, in modo tanto fecondo, di promuovere la filosofia. Allo spirito innovativo e sovvertitore, Trubeckoj unisce la forza naturale primigenia della tradizione; nella sua opera, opera di tutta una vita non si ritrova unicamente la problematica del logos affrontata dal padre, ma anche il retaggio dello spirito musicale che lo porta ad avvicinarsi al linguaggio letterario e ai versi – per essere più precisi esclusivamente al verso melodico – e che lo guida verso osservazioni acute sulle correlazioni tra il ritmo della lingua e quello musicale. Le byliny [componimenti dell’epos popolare russo; N.d.T.] e gli Schnaderhüpfel [epigrammi canori di carattere scherzoso; N.d.T.], i canti popolari in lingua mordvina e polaba, gli echi puškiniani delle epopee serbe e gli inni ecclesiastici paleoslavi gli rivelano le proprie leggi foniche. Ma in N. S. Trubeckoj sopravvive l’approccio architettonico dell’antenato, sia nella forma che nel contenuto: per un verso nel suo stile classico e nitido e, in particolar modo, nella composizione limpida e armonica, per l’altro nella sua arte classificatoria fuori del comune, che rivela in lui la natura di un geniale e passionale sistematico. Nessuna definizione di sistema modulare quale principio fondante della sua creatività risulterebbe più appropriata di quella fornita da Trubeckoj stesso. Nel suo libro K probleme russkogo samopoznaniâ [Il problema dell’autoconoscenza russa; N.d.T.] (1927) Trubeckoj esorta tutti i connazionali alla conoscenza di sé e della nazione e, in modo particolare, al riconoscimento e alla comprensione dell’influenza turanica, indicata dall’autore come elemento determinante per la storia e la psicologia russe (cfr. soprattutto la sua brochure Nasledie Čingishana [L’eredità di Gengis Khan.], pubblicata a Berlino nel 1925 con lo pseudonimo «I. R.») e, in quest’opera, descrive tale «spirito turanico» con una persuasività tanto amata da Meillet persino introspettiva:
L’uomo turanico riesce a padroneggiare ogni dato di conoscenza per mezzo di leggi semplici e schematiche, che, a mo’ di crogiolo, lo riportano a un’integrità/totalità e conferiscono a detta totalità una certa chiarezza e befasst sich lieber mit deutlich wahrnehmbaren Gebilden, die er in klare und schlichte Schemata gruppiert. […] Diese Schemata sind kein Ergebnis einer philosophischen Abstraktion. […] Sein Denken und seine ganze Wirklichkeitsauffassung finden spontan in den symmetrischen Schemata eines sozusagen unterbewussten philosophischen Systems Platz. […] Es wäre aber ein Fehler zu denken, der Schematismus dieser Mentalität lähme den breiten Schwung und Ungestüm der Phantasie. […] Seine Phantasie ist weder dürftig, noch feig, sie hat im Gegenteil einen kühnen Schwung, aber die Einbildungskraft ist nicht auf den minuziösen Ausbau und nicht auf das Auftürmen von Einzelheiten gerichtet, sondern sozusagen auf die Entwick¬lung in Breite und Länge; das derartig aufgerollte Bild wimmelt nicht von mannigfaltigen Farben und Ubergangstönen, sondern ist in Grundtönen, in breiten, bisweilen riesenhaft breiten Pinselstrichen gemalt. […] Er liebt die Symmetrie, die Klarheit und das stabile Gleichgewicht.
Trubetzkoy sah ein, dass dieser Geist der allumfassenden strengen Systematik für die ursprünglichsten Errungenschaften der russischen Wissenschaft und für sein eigenes Schaffen im besonderen höchst ken¬zeichnend ist. Er besass eine seltsame und leitende Fähigkeit, in allem Wahrgenommenen das Systemartige aufzudecken (so hat er, schon tod¬krank, wenige Wochen vor dem Ende, auf den ersten Blick die Phonemen¬reihen des Dunganischen und des Hottentottischen treffend erraten, welche für die angesehenen Fachkenner dieser Sprachen unnachgiebig blieben). Auch sein merkwürdiges Gedächtnis war stets auf das Systemar¬tige gerichtet, die Tatsachen lagerten sich als Schemata ab, die sich ihrerseits zu wohlgestalteten Klassen ordneten. Nichts war ihm dabei fremder und unannehmbarer als eine mechanische Katalogisierung. Das Gefühl eines inneren, organischen Zusammenhangs der einzuteilenden Elemente verliess ihn nie, und das System blieb nie, von der übrigen Gege¬benheit gewaltsam entrissen, in der Luft hängen. Im Gegenteil erschien ihm die gesamte Wirklichkeit als ein System der Systeme, eine grossartige hierarchische Einheit von vielfachen Übereinstimmungen, deren Bau seine Gedanken bis zu den letzten Lebenstagen fesselte. Er war für eine ganzheitliche Weltauffassung innerlich vorausbestimmt, und einzig im Rahmen der strukturalen Wissenschaft hat er sich selbst tatsächlich vollständig gefunden. Gleich empfindlich für sprachliche Fakta und für neue sprachwissenschaftliche Gedanken, fühlte er mit Scharfblick die für seinen folgerichtigen und eigenartigen Systemaufbau geeignet waren.

limpidezza schematiche. Non ama rimuginare su sottigliezze e dettagli intricati e, quando pensa, di preferenza si occupa di configurazioni mentali palesemente percettibili, che raggruppa secondo schemi chiari ed elementari. […] Questi schemi non sono il risultato di un processo di astrazione filosofica. […] Il suo pensiero e la sua concezione intera della realtà si collocano spontaneamente all’interno degli schemi simmetrici di un sistema filosofico, per così dire, subconscio. […] Ma sarebbe un errore pensare che lo schematismo di questa mentalità paralizzi gli slanci e l’irruenza della fantasia. […] La sua fantasia non è stenta né pavida, al contrario è animata da un empito ardito, sebbene tale forza immaginativa non sia rivolta a un’elaborazione minuziosa e all’accumulo verticale di particolari, ma, si potrebbe dire, allo sviluppo in ampiezza ed estensione; così il quadro dispiegato non brulica di miriadi di colori o di sfumature, ma presenta le tonalità fondamentali, con ampie pennellate che, a volte, diventano gigantesche. […] Ama la simmetria, la chiarezza, l’equilibrio e la stabilità.

Trubeckoj si rese conto che questo spirito di una severa sistematica di ampio respiro caratterizza in modo estremamente peculiare le conquiste iniziali della scienza russa e, in particolar modo, la sua stessa creatività. Egli possedeva una capacità unica e dominante che gli permetteva di scoprire l’elemento sistematico nella congerie di tutti i fenomeni percepiti (in questo modo, alcune settimane prima della sua morte, quando era già in fin di vita, al primo sguardo scoprì, cogliendo nel segno, la serie fonematica dell’idioma di Dungan e ottentotto, che rimane una pietra miliare per i più autorevoli specialisti di queste lingue). Anche la sua straordinaria memoria era sempre rivolta all’elemento sistematico e i fatti reali si disponevano come schemi che a loro volta si inserivano in classi ben ordinate. Non esisteva nulla a lui più estraneo e inaccettabile di una catalogazione meccanica. Non lo abbandonò mai il sentimento di un legame interno e organico tra gli elementi classificabili, e, per lui, il sistema non rimaneva mai campato in aria e strappato con violenza dal sostrato fattuale. Al contrario, la realtà nella sua totalità gli appariva come un sistema dei sistemi, una grandiosa unità gerarchica formata da molteplici corrispondenze la cui struttura avvinse i suoi pensieri fino all’ultimo giorno di vita. Aveva un’intima predisposizione per una concezione olistica del mondo e solamente all’interno della corrente strutturalista si sentì completamente a suo agio. Con la stessa sensibilità per i fenomeni della lingua e per le concezioni linguistiche nuove, con

In einer unveröffentlichten und unbeendeten autobiographischen Skizze erzählt Trubetzkoy: „Meine wissenschaftlichen Interessen erwachten sehr früh, noch im Alter von 13 Jahren, wobei ich ursprünglich hauptsächlich Volks- bzw. Völkerkunde studierte. Ausser der russischen Volksdichtung interessierte ich mich besonders für die finnougrischen Völker Russlands. Seit dem Jahre 1904 besuchte ich regelmässig alle Sitzungen der Moskauer Ethnographischen Gesellschaft, mit derem Präsidenten Prof. V. F. Miller (dem bekannten Forscher auf dem Gebiete des russischen Volksepos und der ossetischen Sprache) ich in persönliche Beziehungen trat.“ Es war eine Blütezeit der russischen Volkskunde und Folkloristik, von der ruhmvollen historischen Schule Millers geleitet. Die ungemein lebens¬kräftige, archaische und vielsprachige Volksüberlieferung Russlands, ihre altertümlichen ethnischen Kreuzungen, ihre bunten und eigenartigen Formen, ihr ständiger Einfluss auf das Schrifttum und ihr reicher histo¬rischer und mythologischer Gehalt boten den Forschern eine uner¬schöpfleche Quelle. Dieser Problematik widmete sich begeistert der heran¬wachsende Trubetzkoy; der Mittelschulbesuch blieb ihm erspart, er studierte zu Hause, gewann dadurch viel freie Zeit für seine wissenschaft¬lichen Erstlingsversuche und war mit fünfzehn Jahren ein reifer Forscher. Er veröffentlichte im Organ der erwähnten Gesellschaft “Ètnografičeskoe Obozrenie” ab Jahr 1905 eine Reihe bemerkenswerter Studien über die Spuren eines gemein-ugrofininschen Totenkultritus im westfinnischen Volksliede, über eine nordwestsibirische heidnische Göttin in den alten Reiseberichten und im Volksglauben der heutigen Vogulen, Ostjaken und Votjaken, über die nordkaukasischen Steingeburtssagen usw. Auch das Sprachstudium ist für Trubetzkoy nur ein Hilfsmittel der historischen Ethnologie und besonders der Religionsgeschichte. Diese Fragen haben ihn übrigens auch später stets angelockt, wie es beispiels¬weise seine Bemerkungen über die Spuren des Heidentums im polabischen Wortschatz (ZfsIPh I, 153 ff.) oder über die Iranismen der nordkauka¬sischen Sprachen (MSL XXII, 247 ff.) verraten, und noch im letzten Lebensjahr plante er, anlässlich des neusten, seiner Überzeugung nach ganz widersinnigen Versuches, die Echtheit des Igorliedes zu bestreiten, eine Studie über die heidnischen Namen
perspicacia avvertì quelle che erano adatte alla logicità e all’originalità della sua struttura sistematica.
In un abbozzo autobiografico incompiuto e inedito, Trubeckoj afferma:
I miei interessi scientifici si sono manifestati molto presto, già all’età di tredici anni, quando io, in origine, mi dedicavo principalmente allo studio del folclore e dell’etnologia. Al di là della poesia popolare russa, nutrivo un interesse particolare per i popoli ugrofinnici della Russia. Dal 1904 presi regolarmente parte a tutti gli incontri della Società etnografica di Mosca, entrando in rapporto stretto con il Presidente, il professor V. F. Miller (famoso ricercatore nel campo dell’epica russa e della lingua osseta).
Era un’epoca fiorente per l’etnologia e il folclore russi, campi di studio in cui la gloriosa e storica scuola di Miller aveva avuto una funzione di guida. Le tradizioni popolari incredibilmente vitali, arcaiche e multilinguistiche della Russia, le sue antiche ibridazioni etniche, la sua policromia e le sue forme peculiari, la sua influenza costante sulla letteratura e la sua ricchezza storica e mitologica rappresentarono una fonte inesauribile per i ricercatori. Il Trubeckoj adolescente si dedicò a questa tematica con crescente entusiasmo; fu dispensato dal frequentare la scuola secondaria, studiò a casa, riuscendo così a conquistare molto tempo libero da profondere nei suoi primi esperimenti scientifici. All’età di quindici anni era un ricercatore formato. A partire dal 1905, sulla rivista della scuola sopra citata, che recava il titolo Ètnografičeskoe obozrenie [Rassegna etnografica; N.d.T], Trubeckoj iniziò a pubblicare una serie di studi cospicui sulle tracce di un rito funerario delle comunità ugrofinniche testimoniato nei canti popolari dei finni occidentali, su una dea pagana della Siberia nord-occidentale descritta negli antichi resoconti di viaggio e nelle credenze popolari degli odierni Voguli, degli Ostâki e dei Vostâki, sulle saghe delle nascite ex petra di origine nord-caucasica e così via. All’inizio, anche lo studio della lingua fu solo un espediente per lo studio dell’etnologia storica e, soprattutto, per la storia della religione. Queste problematiche, tra l’altro, continuarono ad attrarlo anche in seguito come rivelano, per esempio, le sue osservazioni sulle tracce del paganesimo nel lessico polabo (Zeitschrift für slavische Phylologie I, 153 sgg.) o sugli iranismi delle lingue nord-caucasiche (Mémoires de la Société de linguistique, XXII, 247 sgg.); ancora, negli ultimi anni della
dieses wertvollen Denkmals (den Gottesnamen Dažьbogъ legte er als ein archaisches Compositum mit der Bedeutung “gib Reichtum” aus und gleichfalls die parallele Bildung St[ь]ribogъ).
Zum Studium der kaukasischen Sprachen wurde der junge Trubetzkoy von Miller angeregt und unter dem Einfluss des Ethnographen und Archäologen S. K. Kuznecov begann er sich mit den finnisch-ugrischen und paläosibirischen Sprachen zu befassen und gewann dabei allmählich ein unmittelbares Interesse für die vergleichende und allgemeine Sprach¬wissenschaft. Er stellte auf Grund der alten Reiseberichte ein Wortver¬zeichnis nebst einem kurzen grammatischen Abriss der gegenwärtig aussterbenden kamtschadalischen Sprache auf und entdeckte kurz vor seiner Matura “eine Reihe von auffallenden Entsprechungen zwischen dem Kamtschadalischen, Tschuktschisch-Korjakischen einerseits und dem Samojedischen andererseits, nämlich auf dem Gebiete des Wortschatzes”. Seine Arbeit brachte ihn in einen lebhaften wissenschaftlichen Brief¬wechsel mit den drei Pionieren der ostsibirischen Volks- und Sprach¬kunde, Joxel’son, Šternberg und besonders Bogoraz; als der letzte aber aus Petersburg nach Moskau kam und seinen gelehrten Korrespondenten persönlich kennen lernte, war er direkt beleidigt zu erfahren, es handle sich um einen Schulknaben!
Trubetzkoy trat 1908 an die historisch-philologische Fakultät der Moskauer Universität ein. Ursprünglich hatte er die Völkerkunde im Auge, da sie aber im Lehrprogramm dieser Fakultät fehlte, wählte er, um “haup¬sächlich Völkerpsychologie, Geschichtsphilosophie und die methodolo¬gischen Probleme zu studieren”, die philosophisch-psychologische Ab¬teilung; als er aber sah, dass er sich hier nicht einlebe, und dass ihn der linguistische Interessenkreis immer fester halte, ging er im dritten Semes¬ter, zur aufrichtigen Betrübnis seiner bisherigen Lehrer und Kollegen, die in ihm die grosse Hoffnung der russischen Philosophie begrüssten, in die sprachwissenschaftliche Abteilung über. Doch blieb ihm für das ganze Leben eine gediegene philosophische Schulung und ein hegelianischer Einschlag, den besonders die suggestive Wirkung seines geistvollen Kollegen

sua vita, egli organizzò, in occasione del più recente e, a detta sua, totalmente assurdo tentativo di contestare l’autenticità del Canto della schiera di Igor [è in questo contesto che, per la prima volta, si incontra il termine byliny, nonostante questo sia stato poi introdotto nel 1840 nella terminologia scientifica per designare il canto epico orale sorto nell’antica Russia in ambienti popolari nel secolo IX; N.d.T.], una ricerca sui nomi pagani di questo prezioso monumento letterario (Trubeckoj interpretò il nome del dio Dažъbogъ come un nome arcaico composto, avente il significato di «donatore di ricchezza» e, allo stesso tempo, la formazione parallela St[ъ]ribogъ).
Fu Miller a incoraggiare il giovane Trubeckoj allo studio delle lingue caucasiche e, sotto l’influsso dell’etnografo e archeologo S. K. Kuznecov, Trubeckoj iniziò ad occuparsi degli idiomi ugrofinnici e paleosiberiani e, in questo modo, a nutrire a poco a poco un interesse diretto per la linguistica generale e comparata. Sulla base di vecchi resoconti di viaggio, stilò un glossario insieme a un breve compendio grammaticale della lingua oggigiorno in estinzione della Kamčatka e, poco prima di finire il liceo, scoprì «una serie di corrispondenze vistose tra il gruppo delle lingue čukotko-kamčatke da una parte e quello delle lingue samoiede dall’altra, per l’appunto nel campo del lessico». Il suo lavoro lo portò a instaurare una vivace corrispondenza scientifica con tre pionieri del folclore e della linguistica della Siberia orientale, Iohel´son, Šternberg e, soprattutto, Bogoraz; ma non appena quest’ultimo si recò da Pietroburgo a Mosca e conobbe il suo erudito corrispondente di persona, rimase particolarmente offeso di scoprire che si trattava di un ragazzetto che non aveva ancora terminato gli studi!
Nel 1908 Trubeckoj iniziò a frequentare la facoltà di storia e filologia dell’Università di Mosca. All’inizio pensava di studiare folclore, ma, dato che non compariva tra gli insegnamenti previsti, scelse il dipartimento di filosofia-psicologia per poter «studiare principalmente la demopsicologia, la filosofia della storia e i problemi metodologici». Ma non appena vide che lì non riusciva ad adattarsi e che la sfera linguistica continuava ad avvincerlo sempre più, durante il terzo semestre si trasferì al dipartimento di linguistica con sincero dispiacere da parte di coloro che, fino
und Freundes, des frühverstorbenen Samarin, befestigt hat. Auch die Grundfragen der Völkerpsychologie, Soziologie und Historio¬sophie haben nie aufgehört, den Forscher zu beschäftigen. Die seit den Schuljahren geplante Trilogie über die Kulturproblematik, -wertung, -entwicklung und über ihre nationale Fundierung, mit besonderer Rücksicht auf die russischen Verhältnisse, wurde teilweise in der spannen¬den, auch ins Deutsche und Japanische übersetzten Monographie Europa und die Menschheit (Evropa i čelovečestvo, 1920) verwirklicht, teils in den Studien der erwähnten russischen Sammelschrift Zum Problem der russischen Selbsterkenntnis. Diesen Arbeiten folgte eine Reihe Aufsätze über Nationalitätenfrage, über Kirche und über Ideokratie, von denen nur ein Teil veröffentlich wurde, und das Meiste zugrundegegangen ist. Die Erwägungen Trubetzkoys, gegen jede naturalistische (sei es biolo¬gische oder geradlinig evolutionistische) Auffassung der Geisteswelt und gegen jeden überlegenen Egozentrismus scharf gerichtet, wurzeln zwar in der russischen ideologischen Tradition, brachten aber viel Persön¬liches und Bahnbrechendes und wurden besonders durch die reiche sprachwissenschaftliche Erfahrung des Verfassers und durch seine enge, beinahe zwanzigjährige Mitarbeit mit dem hervorragenden Geographen und Kulturhistoriker P. N. Savickij vertieft und zugespitzt. Die Lehre der beiden Denker über die Eigenart der russischen (eurasischen) geographi¬schen und historischen Welt gegenüber Europa und Asien wurde zur Grundlage der sogen. eurasischen ideologischen Strömung.
Trubetzkoy absolvierte Anfang 1913 das Programm der sprachwissen¬schaftlichen Abteilung. Die Fakultät billigte seine Arbeit über die Bezeich¬nungen des Futurums in den wichtigsten indogermanischen Sprachen, deren Nachklang (“Gedanken über den lateinischen a-Konjunktiv”) in der Festschrift Kretschmer zu finden ist, und nahm seine Angliederung an das Universitätslehrkorps zwecks Vorbereitung zur akademischen Lehr¬tätigkeit einstimmig an.

ad allora, erano stati i suoi insegnanti e colleghi, coloro che vedevano in lui una grande speranza per la filosofia russa. Nonostante ciò, gli rimase per tutta la vita una solida preparazione filosofica e un’impronta hegeliana, rafforzata soprattutto dall’influenza e dalle suggestioni esercitate dal suo arguto collega e amico Samarino, morto in giovane età. Ma anche le questioni fondamentali relative alla demopsicologia, sociologia e storiosofia non hanno mai smesso di interessare il ricercatore. La trilogia progettata sin dagli anni scolastici sulla problematica, sul valore e sullo sviluppo delle culture e sui loro fondamenti nazionali, con un particolare riguardo per le vicende russe, venne realizzata in parte nell’affascinante monografia L’Europa e l’umanità. La prima critica all’eurocentrismo (Evropa i čelovečestvo, 1920), saggio tradotto anche in tedesco e in giapponese, e in parte negli studi della raccolta russa già menzionata Zum Problem der russischen Selbsterkenntnis [Il problema dell’autocoscienza russa; N.d.T.]. Delle opere che fecero seguito a questi lavori, riguardanti il problema della nazionalità, la chiesa e l’ideocrazia, solo alcune vennero pubblicate e la maggior parte è andata distrutta. Le riflessioni di Trubeckoj, aspramente dirette contro ogni concezione naturalistica del mondo dello spirito (sia essa biologica o piattamente evoluzionistica) e contro ogni egocentrismo arrogante, affondavano sì le proprie radici nella tradizione ideologica russa, ma erano permeate di elementi fortemente personali e pionieristici e si approfondirono e affinarono sempre più soprattutto grazie alla ricca esperienza linguistica dell’autore e grazie alla stretta collaborazione, durata quasi vent’anni, con il brillante geografo e studioso della storia della civiltà, P. N. Savickij. Le dottrine di entrambi i pensatori sulla peculiarità del mondo storico e geografico russo (eurasiatico) rispetto all’Europa e all’Asia divennero le fondamenta della cosiddetta corrente ideologica «eurasiatica».
All’inizio del 1913, Trubeckoj si laureò alla facoltà di linguistica, che approvò il suo lavoro sui caratteri distintivi del tempo futuro all’interno delle più importanti lingue indoeuropee, la cui risonanza («pensieri sulla forma congiuntiva in -a latina») si può trovare nella Festschrift
“Der Umfang”, schreibt Trubetzkoy, “und die Richtung des Unterrichtes in der sprachwissenschaftlichen Abteilung befriedigte mich nicht: mein Hauptinteresse lag ausserhalb der indoger¬manischen Sprachen. Wenn ich mich aber doch für diese Abteilung entschloss, so tat ich es aus folgenden Gründen: Erstens war ich schon damals zur Überzeugung gekommen, dass die Sprachwissenschaft der ein¬zige Zweig der “Menschenkunde” sei, welcher eine wirkliche wissenschaft¬liche Methode besitzt, und dass alle anderen Zweige der Menschenkunde (Volkskunde, Religionsgeschichte, Kulturgeschichte usw.) nur dann aus der “alchemischen” Entwicklungsstufe in eine höhere übergehen können, wenn sie sich in Bezug auf die Methode nach dem Vorbilde der Sprach¬wissenschaft richten werden. Zweitens wusste ich, dass die Indogermanis¬tik der einzige wirklich gut durchgearbeitete Teil der Sprachwissenschaft ist und dass man eben an ihr die richtige sprachwissenschaftliche Methode lernen kann. Ich ergab mich also mit grossem Fleisse den durch das Programm der sprachwissenschaftlichen Abteilung vorgeschriebenen Studien, setzte aber dabei auch meine eigenen Studien auf dem Gebiete der kaukasischen Sprachwissenschaft und der Folkloristik fort. Im Jahre 1911 forderte mich Prof. V. Miller auf, einen Teil der Sommerferien auf seinem Gute an der kaukasischen Küste des Schwarzen Meeres zu ver¬bringen und in den benachbarten tcherkessischen Dörfern die tscherkes¬sische Sprache und Volksdichtung zu erforschen. Ich leistete dieser Aufforderung Folge und setzte auch im Sommer 1912 meine tscher¬kessischen Studien fort. Es gelang mir, ein ziemlich reichhaltiges Material zu sammeln, dessen Bearbeitung und Veröffentlichung ich bis nach der Absolvierung der Universität verschieben musste. Grossen Nutzen bekam ich bei meiner Arbeit vom persönlichen Verkehr mit Prof. Miller, dessen Ansichten über Sprachwissenschaft freilich etwas altmodisch waren, der aber als Folklorist und als tüchtiger Kenner der ossetischen Volkskunde mir viele wertvolle Ratschläge und Anweisungen gab.”
Die Fortunatovsche Schule, die damals beinahe alle linguistischen Lehrstühle der Moskauer Universität beherrschte, wurde von Meillet sehr richtig als die höchste Verfeinerung und philosophische Vertiefung des junggrammatischen Verfahrens bezeichnet.

Kretschmer e poi, all’unanimità, egli fu ammesso nel corpo dei docenti universitari per prepararsi all’attività didattica a livello accademico.
Trubeckoj scrisse:
L’ambito e l’orientamento delle lezioni al dipartimento linguistico non soddisfacevano le mie esigenze: il mio interesse principale non si limitava certo alle lingue indoeuropee. Ma quando decisi di iscrivermi a questo indirizzo, lo feci per i seguenti motivi: innanzitutto, già allora ero arrivato alla convinzione che la linguistica fosse l’unico settore dell’“antropologia” basato su un vero metodo scientifico, e che tutti gli altri rami di questa scienza (folclore, storia della religione, storia della civiltà ecc.) potessero fare un salto da uno stadio evolutivo “alchemico” a uno più elevato, solo nel momento in cui si fossero conformati alla metodologia sulla scorta della linguistica. Inoltre sapevo che l’indoeuropeistica era l’unico settore della linguistica realmente studiato a fondo e che proprio sulle orme di questa disciplina si poteva imparare il giusto metodo linguistico. Mi dedicai quindi con grande impegno alle materie di studio previste dal programma del dipartimento di linguistica, ma, contemporaneamente, proseguii i miei studi nel campo della linguistica caucasica e del folclore. Nel 1911, il professor V. Miller mi invitò a trascorrere una parte delle vacanze estive nella sua tenuta sulla costa caucasica del Mar Nero e a portare avanti delle ricerche sulla lingua e la poesia popolare circasse. Io accolsi il suo invito e proseguii i miei studi sul circasso anche nell’estate del 1912. Riuscii a raccogliere una quantità di materiale abbastanza ricco, di cui dovetti rimandare la revisione e la pubblicazione a dopo la laurea. Trassi grandi vantaggi dal mio rapporto personale con il professor Miller che, nonostante avesse delle opinioni abbastanza antiquate sulla linguistica, mi diede consigli e istruzioni preziose in veste di folclorista e di abile conoscitore della demologia osseta.

La scuola di Fortunatov, che allora aveva il controllo di quasi tutte le cattedre linguistiche dell’Università di Mosca, venne giustamente indicata da Meillet come il massimo raffinamento e approfondimento filosofico del metodo neogrammatico.

Die Gesetzmässigkeit jedes sprachlichen Geschehens, die Form als das massgebende Sprach¬spezifikum und die Notwendigkeit, jede einzelne Sprachebene als ein autonomes Teilganzes zu betrachten wurden hier folgerichtig bis zu Ende gedacht, wenn auch dabei die Begriffe der mechanischen Kausalität und der genetischen Psychologie ihre Geltung stets bewahrten, und die Auffassung der sprachlichen Empirie wie ehedem rein naturalistisch blieb. Die Universitätslehrer Trubetzkoys – der strenge Komparatist W. Porzeziński, der feinfühlende, künstlerisch veranlagte Slavist V. N. Ščepkin und der klassische Philologe M. M. Pokrovskij waren durchwegs unmittelbare Schüler Fortunatov’s die die Lehre und die hohe linguisti¬sche Technik des grossen Denkers und Forschers treu übermittelten, aber was für sie ein unabänderliches Dogma war, wurde für den freisinnigen Schüler zum Ausgangspunkt einer gründlichen, mitunter vernichtenden Kritik. Nichtsdestoweniger bleibt Trubetzkoy ein wahrhafter Forsetzer der Moskauer Schule, er behält im wesentlichen ihre Auswahl der For¬schungsprobleme und ihre Kunstgriffe, er sucht während der ersten Periode seiner sprachwissenschaftlichen Tätigkeit ihren Gesichtskreis zu erweitern und ihre Prinzipien genauer zu fassen und fortzubilden, – er steigert die Aktiva der Schule und sucht dann im letzten Lebensdezen¬nium sich von ihren obenangedeuteten Passiva Schritt für Schritt zu befreien.
Schon als Student versuchte Trubetzkoy die vergleichende Methode in der Fortunatovschen Prägung aus der Indogermanistik auf die nord¬kaukasischen Sprachen zu übertragen. Im Früjahr 1913 hielt er am Tifliser Kongress der russischen Ethnologen zwei Vorträge über mytholo¬gische Relikte im Nordkaukasus und einen über den Bau des ostkauka¬sischen Verbums, und er arbeitete eifrig an der vergleichenden Grammatik der nordkaukasischen Sprachen, die die Urverwantdschaft der beiden nordkaukasischen Zweigen – des ost- und westkaukasischen, ausführlich begründen sollte, während die Frage der vermeintlichen Verwandtschaft dieser Sprachfamilie mit den kartvelischen Sprachen ihm als vorläufig unlösbar erschien.

In questo contesto, la regolarità di tutti gli avvenimenti linguistici, la forma quale specifico linguistico fondamentale e la necessità di considerare ogni singolo piano della lingua come un tutto parziale autonomo, vennero portate alle loro ultime conseguenze, nonostante rimanesse in piedi il valore dei concetti di causalità meccanica e di psicologia genetica, e, come in passato, la concezione di empirismo linguistico conservasse la sua matrice puramente naturalistica. I docenti universitari di Trubeckoj – il severo comparatista W. Porzeziński, lo slavista V. N. Ŝepkin, dotato di un temperamento sensibile e artistico, e il filologo classico M. M. Pokrovskij – furono senza eccezione quegli allievi diretti di Fortunatov che, fedelmente, trasmisero gli insegnamenti e le più sofisticate tecniche linguistiche dell’autorevole pensatore e ricercatore, ma ciò che per loro fu un dogma inamovibile, per lo studente libero pensatore divenne un punto di partenza per una critica radicale e, a volte, demolitoria. Nonostante ciò, Trubeckoj rimase un autentico continuatore della scuola di Mosca, ne mantenne sostanzialmente le varie tematiche di studio e gli accorgimenti utilizzati, durante il primo periodo della sua attività linguistica cercò di allargarne l’orizzonte e di definire e approfondire i suoi princìpi in modo ancora più preciso; accrebbe i lati positivi della scuola e in séguito, nel suo ultimo decennio di vita, cercò a poco a poco di liberarsi dei limiti sopra accennati.
Già da studente, Trubeckoj tentò di applicare alle lingue nord-caucasiche il metodo comparativo utilizzato per l’indoeuropeistica che caratterizzava la scuola di Fortunatov. Nella primavera del 1913, durante il congresso di Tbilisi degli etnologi russi, tenne due conferenze sulle vestigia mitologiche nel Caucaso del nord e una sulla formazione del verbo nel Caucaso dell’est. Lavorò inoltre con assiduità alla grammatica comparativa delle lingue nord-caucasiche, la quale avrebbe dovuto gettare le basi delle affinità originarie tra i due rami nord-caucasici, quello nord-orientale e quello nord-occidentale, mentre, per il momento, gli sembrava ancora insolubile la questione della parentela putativa tra questa famiglia linguistica e le lingue cartveliche.

Diese Arbeit und seine reichhaltigen sprachlichen und folkloristischen Aufzeichnungen aus dem Nordkaukasus, bes. aus dem Tscherkessenland, gingen leider in Moskau während des Bürgerkrieges, zusammen mit zahlreichen Studien aus der altindischen, ostfinnischen und russischen Verslehre, verloren, und nur einen kleinen Teil seiner kaukasologischen Erfahrung gelang es dem Sprachgelehrten wieder¬herzustellen. Trotzdem arbeitete er auch im Ausland auf diesem ver¬wickelten Gebiet unermüdlich weiter, veröffentlichte in den Fachzeit¬schriften eine Reihe bahnbrechender Studien, und seinem ursprünglichen Misstrauen zuwider musste er dabei unvermeidlich, unter dem Druck des eigenartigen Forschungsstoffes, auf die Frage der “typologischen Ver¬wandtschaft” und derjenigen der Nachbarsprachen im besonderen stossen. So kam er zum Problem der “Sprachbunde” (s. Evraijsk. Vremennik III, 1923, 107 ff. und die Akten des I., II. und III. Linguistenkongresses), dessen Tragweite ihm immer deutlicher wurde (vgl. Sbornik Matice slovenskej XV, 1937, 39 ff. und Proceedings des III. Kongresses für phonet. Wissenschaften, 499).
Von der fremden Sprachwissenschaft war es die deutsche, die in den Gesichtskreis der Moskauer Schule stets gehörte, und Trubetzkoy wurde gemäss der Tradition nach Leipzig geschickt, wo er im Wintersemester 1913-1914 die Vorlesungen von Brugmann, Leskien, Windisch und Lind¬ner besuchte, das Altindische und Avestische intensiv studierte und mit den rhythmisch-melodischen Studien Sievers’ sich kritisch auseinander¬setzte. Von Leskien behielt er den Eindruck einer gewaltigen Persönlich¬keit, der das Geleise der junggrammatischen Doktrin allzueng wurde; überhaupt kehrte der junge Gelehrte mit der Vorstellung einer gewissen hemmenden Müdigkeit der deutschen Linguistik zurück, stellte ihr entschlossen die Antriebskraft der neuen französischen Sprachwissen¬schaft gegenüber, bewunderte auch die Frische der Gedanken in den Princi¬pes de linguistique psychologique von J. van Ginneken, und diese neuen, abweichenden Strömungen befestigten seinen Kritizismus und spornten sein Suchen an.

Purtroppo, questo lavoro e la consistente quantità di appunti sulla lingua e il folclore della regione nord-caucasica, in particolar modo, della Circassia, andarono persi durante la guerra civile a Mosca, insieme a innumerevoli studi sulla metrica nell’indo dei Veda, nel finnico dell’est e nel russo, e il grande linguista riuscì a ricomporre solo una piccola parte della sua esperienza caucasologica. Tuttavia, anche all’estero, continuò a dedicarsi instancabilmente allo studio di questo complesso settore, pubblicò diverse ricerche pionieristiche su riviste specialistiche e, contrariamente alla sua iniziale diffidenza, spinto dalla natura stessa del materiale di studio, si trovò inevitabilmente a dover affrontare il problema della “parentela tipologica” e, soprattutto, quello delle lingue affini. Così arrivò a trattare il nodo dello “Sprachbund” [“lega linguistica”; N.d.T.], (si veda Evraz-sk. Vremennik III, 1923, 107 sgg. e gli atti di I, II e III Congresso di linguistica), la cui portata gli divenne sempre più chiara (cfr. Sbornik Matice slovenskej XV, 1937, 39 sgg. e Proceedings del III Congresso delle scienze fonetiche, 499).
Tra le linguistiche straniere, quella tedesca aveva sempre fatto parte dell’orizzonte della Scuola di Mosca e, secondo la tradizione, Trubeckoj venne mandato a Lipsia, dove, nel primo semestre dell’anno accademico 1913-1914, seguì le lezioni di Brugmann, Leskien, Windisch e Lindner, studiò in modo intensivo l’indo dei Veda e l’avestico, e si confrontò in modo critico con gli studi ritmico-melodici di Siever. Di Leskien egli riportò l’impressione di una personalità potente, che sentiva troppo limitative le linee-guida della dottrina neogrammatica. Il giovane studioso ritornò con l’idea di una linguistica tedesca caratterizzata da una certa qual faticosità paralizzante, cui, con fermezza, contrappose la forza propulsiva della nuova linguistica francese; ebbe inoltre la possibilità di apprezzare la freschezza dei pensieri espressi in Principes de linguistique psychologique di J. van Ginneken, e queste correnti nuove e divergenti consolidarono il suo criticismo e stimolarono la sua attività di ricerca.

Diese beiden Elemente waren für ihn naturgemäss verbunden, und er betonte ständig, der Kritizismus müsse konstruktiv sein, sonst entarte er unvermeidlich in eine selbstgenügende anarchische Zerstörungsarbeit, die der Forscher direkt hasste. Die beiden öffentlichen Probevorlesungen, mit denen die Habilitationsprüfungen Trubetzkoy’s 1915 abgeschlossen wurden – Die verschiedenen Richtungen der Veda¬forschung und Das Problem der Realität der Ursprache und die modernen Rekonstruktionsmethoden – wurden zu programmatischen Erklärungen eines schöpferischen Revisionismus, und die ersten konkreten Schritte auf diesem Wege liessen nicht auf sich warten.
Im akademischen Jahre 1915-1916 hielt Trubetzkoy als neu approbier¬ter Privatdozent für vergleichende Sprachwissenschaft an der Moskauer Universität Vorlesungen über Sanskrit und beabsichtigte im nächsten Jahr Avestisch und Altpersisch vorzutragen. Er befasste sich damals, wie er selbst erzählt, hauptsächlich mit iranischen Sprachen, weil diese von allen indogermanischen am meisten auf die kaukasischen Sprachen eingewirkt hatten, welche doch sein Hauptinteresse heranzogen; plötzlich aber traten für ihn die slavischen Sprachen in den Vordergrund. Den Anlass gab das neue Buch des führenden russischen Slavisten A. A. Šaxmatov Abriss der ältesten Periode in der Geschichte der russischen Sprache (1915). Der persönlichste Schüler Fortunatov’s mit einer breiten Tatsachenkenntnis und einer seltenen Intuition ausgerüstet, versuchte hier zum ersten Mal die Summe seiner eigenen Forschung und derjenigen der ganzen Schule zu ziehen und die Lautentwicklung des Urslavischen in seinem Umbau ins Russische als ein Ganzes systematisch aufzudecken. Aber gerade bei dieser synthetischen Fassung trat die ungenügend strenge, allzumechanische Rekonstruktionsweise Šaxmatov’s zu Tage.
A suo parere, questi due elementi erano collegati naturalmente, e, come non mancava mai di sottolineare, il criticismo doveva essere costruttivo, altrimenti sarebbe inevitabilmente degenerato in un’opera di distruzione anarchica e paga di sé stessa, che il ricercatore odiava profondamente. Entrambe le due prolusioni sperimentali e ufficiali, con cui, nel 1915, Trubeckoj terminò gli esami di abilitazione, Die verschiedenen Richtungen der Vedaforschung [I diversi orientamenti della ricerca sui Veda; N.d.T] e Das Problem der Realität der Ursprache und die modernen Rekonstruktionsmethoden [Il problema della realtà della protolingua e i moderni metodi di ricostruzione; N.d.T.], si trasformarono in dichiarazioni programmatiche di un revisionismo creativo e i primi passi concreti in questa direzione non si fecero attendere.
Durante l’anno accademico 1915-1916, presso l’università moscovita, Trubeckoj tenne delle lezioni sulla lingua sanscrita come libero docente appena abilitato nel campo della linguistica comparata e, per l’anno successivo, progettò di tenere delle conferenze sulla lingua avestica e persa antica. Come lui stesso racconta, all’epoca si occupava principalmente delle lingue iraniche, poiché, tra tutte quelle indoeuropee, avevano esercitato la maggiore influenza sulle lingue caucasiche, proprio quelle che attiravano il suo interesse precipuo; ma, sorprendentemente, furono le lingue slave ad accamparsi in primo piano. Lo spunto gli fu offerto dalla pubblicazione del libro Abriss der ältesten Periode in der Geschichte der russischen Sprache [Compendio del periodo più antico nella storia del russo; N.d.T.] (1915), il cui autore era l’eminente slavista russo A. A. Šahmatov. In quest’opera, lo studente più vicino a Fortunatov dotato di una profonda conoscenza dei fatti linguistici e di una rara intuizione, cercò per la prima volta di trarre le fila della sua stessa ricerca e di quella dell’intera scuola e di mettere in luce, come un tutto sistematico, lo sviluppo fonetico del protoslavo nel suo ristrutturarsi entro la lingua russa. Ma proprio durante questa stesura sintetizzante, il metodo di ricostruzione di Šahmatov si rivelò insufficientemente rigoroso e troppo meccanico.

Es brach eine Zeit der Gärung und der Umwertung im Nachwuchs der Moskauer Schule an, eine Zeit der Verfeinerung und Steigerung der methodologischen Forderungen, und man wetteiferte im Aufsuchen und in der Aufklärung der Fehlgriffe des Abrisses, ja ein ganzes Kolleg des jüngsten Schülers Fortunatov’s, N. N. Durnovo, wurde der Besprechung des neuen Buches gewidmet. Doch das wesentlich Neue am lebhaft bestrittenen und von der jüngeren Generation völlig anerkannten Vortrage über die Šaxmatovsche sprachgeschichtliche Konzeption, welchen Trubetzkoy im damaligen Zentrum des Moskauer linguistischen Lebens, in der Dialektologischen Kommission gehalten hat, lag in der durchdringenden Tragweite dieser kritischen Analyse: sie zeigte, dass manche grundsätzliche Fehler Šaxmatov’s schon im Verfahren Fortuna¬tov’s wurzeln, nämlich in seinen Entgleisungen von den eigenen Grund¬prinzipien. Trubetzkoy suchte diese Widersprüche zu beseitigen und die Grundsätze der Schule methodologisch genau und folgerichtig, ja genauer als ihr Urheber selbst, anzuwenden. “Ich fasste”, sagt Trubetzkoy, “den Plan, ein Buch unter dem Titel Vorgeschichte der siavischen Sprachen zu schreiben, worin ich mit Hilfe einer perfektionierten Rekonstruktions¬methode den Vorgang der Entwicklung der slavischen Einzelsprachen aus dem Urslavischen und des Urslavischen aus dem Indogermanischen zu schildern beabsichtigte.”
Als Trubetzkoy nach den stürmischen Erlebnissen der Revolutionszeit nach abenteuerlichem und lebensgefährlichem Wandern durch den Kaukasus des Bürgerkrieges zerlumpt und verhungert beim Rektor der Rostover Universität, trotz dem harten Widerstand der Diener gegenüber dem verdächtigen Vagabunden, erscheint und dort (1918) Professor der slavischen Sprachen wird, ergibt er sich vollständig seinem Buche, beendet im wesentlichen die Lautgeschichte und skizziert die Formenlehre, doch Ende 1919 muss er wieder jählings die Flucht ergreifen, und seine ganze Arbeit geht wiederum im Manuskript verloren.

Per le giovani leve della Scuola di Mosca ebbe inizio un periodo di fermento e sovvertimento dei valori, un periodo di crescita e raffinamento delle esigenze metodologiche e si assistette a una competizione nella ricerca e delucidazione dei passi falsi contenuti nell’Abriss: un intero seminario del più giovane studente di Fortunatov, N. N. Durnovo, fu dedicato infatti alla discussione del nuovo libro. Ma la novità sostanziale della relazione, soggetta a continue discussioni e, senza dubbio, apprezzata dalla generazione più giovane, relazione che verteva sulla concezione storico-linguistica di Šahmatov e che fu tenuta da Trubeckoj nel centro della vita linguistica moscovita di quel tempo, la Commissione dialettologica, risiedeva nella portata di questa analisi critica penetrante: mostrava che alcuni errori basilari di Šahmatov affondavano le proprie radici già nel metodo di Fortunatov, vale a dire nelle sue brusche deviazioni dai propri princìpi di fondo. Trubeckoj cercò di eliminare queste contraddizioni e di applicare le leggi fondamentali della scuola in modo metodologico preciso e consequenziale, con maggiore precisione di quanto non avesse fatto il suo stesso fondatore. Lo stesso Trubeckoj afferma:
Avevo in progetto la stesura di un libro dal titolo Vorgeschichte der slavischen Sprachen [Preistoria delle lingue slave; N.d.T.], in cui, grazie a un metodo di ricostruzione affinato, mi proponevo di illustrare le fasi di sviluppo delle singole lingue slave derivanti dal protoslavo e le fasi di sviluppo del protoslavo dall’indoeuropeo.
Dopo le esperienze turbolente del periodo rivoluzionario e dopo aver errato attraverso il Caucaso in cui era in atto una guerra civile, tra avventure e pericoli insidianti la sua stessa vita, un Trubeckoj affamato e vestito di stracci si presentò al rettore dell’Università di Rostóv, nonostante la forte resistenza del domestico nei confronti del vagabondo sospetto, e lì divenne professore in lingue slave (1918). In questo periodo si dedicò completamente al suo libro, portò a termine – nelle sue linee essenziali – la storia fonologica e approntò uno schizzo sulla morfologia, ma, alla fine del 1919, dovette improvvisamente riprendere la fuga e tutto il suo lavoro in forma di manoscritto andò perso ancora una volta.

Er steht in Konstantinopel vor der tragisch-grotesken Wahl, Schuhputzer zu werden oder weiter heldisch und von seiner heldischen Frau unterstützt, trotz allen Ränken des Schicksals wieder um die Wissenschaft zu kämpfen. Es gelingt ihm, sich in Sofia als Dozent für vergleichende Sprachwissenschaft niederzusetzen, und zwei Jahre später (1922) wird er, besonders dank dem klar¬sehenden Gutachten Jagić’s, Professor der slavischen Philologie an der Universität Wien.
Mit der Beharrlichkeit eines Glaubeneiferers sucht Trubetzkoy seine eingebüsste Vorgeschichte wiederherzustellen, ja er baut sie um und erwei¬tert sie. Folgende Grundgedanken lenken die Arbeit: es ist ebenso verfehlt die urslavischen Vorgänge auf eine Zeitebene zusammenzuwerfen, wie die Eroberungen Cäsars und Napoleons als synchronisch auffassen zu wollen; das Urslavische hat eine lange und verwickelte Geschichte, und mittels einer relativchronologischen Analyse ist die vergleichende Sprach¬wissenschaft imstande, sie aufzudecken und aufzuzeichnen; die gleich¬zeitigen sowie die nacheinanderfolgenden Ereignisse müssen in ihrem inneren Zusammenhange untersucht werden, und hinter den Einzelbäumen darf man nicht den Wald als Ganzes, die Leitlinien der Entwick¬lung übersehen. Fortunatov lehnt zwar im Grundsatz die naturalistische Stammbaumtheorie entschieden ab, doch bleiben trotzdem ihre Überreste in seiner sprachhistorischen Forschungsarbeit und eigentlich in der üb¬lichen komparatistischen Praxis überhaupt vorhanden, wogegen Trubetz¬koy die Schleichersche sprachgenealogische Auffassung zugunsten der Wellentheorie restlos und konsequent aufgibt; demzufolge betrachtet er die einzelnen slavischen Sprachen in ihrer Anfangsperiode als blosse Mundarten innerhalb des Urslavischen; die Anfänge seiner Differenzie¬rung erklärt er geistreich durch die “Unterschiede im Tempo und in der Richtung der Verbreitung gemeinurslavischer Lautveränderungen” und durch die daraus folgende verschiedenartige Reihenfolge dieser Verände¬rungen in den einzelnen Dialekten. Das Urslavische als “Subjekt der Evolution” lebt, wie Trubetzkoy überzeugend zeigte, bis zur Schwelle unseres Jahrtausends, als der letzte gemeinslavische Lautwandel, der Verlust der schwachen Halbvokale, sich zu verbreiten anfing.

A Costantinopoli si trovò davanti alla scelta tragico-grottesca di diventare un lustrascarpe o ancora, eroico e sostenuto da una moglie altrettanto eroica, di continuare a lottare per la scienza, nonostante tutti gli scherzi del destino. Gli riuscì di ottenere una cattedra a Sofia come docente di linguistica comparata e, due anni più tardi (nel 1922), divenne professore di filologia slava all’Università di Vienna, soprattutto grazie alla chiaroveggente expertise di Jagić.
Con la tenacia propria di uno zelante fanatico, Trubeckoj cercò di ricostruire la propria Vorgeschichte, andata persa, e anzi la ristrutturò e ampliò. A guidare il suo lavoro furono i seguenti concetti fondamentali: è altrettanto erroneo pensare a un accostamento sincronico ai diversi stadi di sviluppo del protoslavo, di quanto lo sarebbe l’interpretazione sincronica delle conquiste di Cesare e Napoleone; l’Ur-slavo ha una storia lunga e intricata e, all’interno di un’analisi cronologica relativizzante, la linguistica comparata è in grado di individuare e tracciare tale storia; gli avvenimenti contemporanei, così come quelli sequenziali, devono venire studiati nel loro contesto intrinseco e non si possono ignorare le linee-guida dello sviluppo, analogamente a come, dietro ai singoli alberi, non si può ignorare il bosco nella sua totalità. Tra i suoi princìpi, Fortunatov rifiuta sì con risolutezza la teoria naturalistica dell’albero filogenetico, ma, nel suo lavoro di ricerca storico-linguistica, ne rimangono comunque dei residui, in realtà molto presenti nel consueto metodo comparativo, al contrario di Trubeckoj che abbandona definitivamente e con fermezza l’interpretazione storico-genealogica di Schleicher a favore di un modello a onde; di conseguenza guarda ai singoli idiomi slavi nelle loro fasi iniziali come a semplici dialetti all’interno del protoslavo. Trubeckoj illustra con grande arguzia i princìpi della differenziazione dello slavo attraverso le «diversità, quanto a velocità e direttrici di propagazione, della diffusione dei mutamenti fonici del protoslavo comune« e attraverso la diversificata sequenza che tali mutamenti originano nei singoli dialetti. Come Trubeckoj dimostrò in modo convincente, l’Ur-slavo visse quale “soggetto dell’evoluzione”, fino alla soglia del nostro millennio, quando poi iniziò a diffondersi l’ultimo cambiamento fonico della matrice slava, la perdita delle semivocali deboli.
Es erschienen in den slavistischen Zeitschriften der zwanziger Jahre bloss einzelne, wenn auch ausgezeichnet zusammenfassende Bruchstücke des lautgeschichtlichen Teils der Vorgeschichte, und doch darf man sagen, es gebe kaum in der Weltliteratur eine junggrammatische Schilderung der Sprachdynamik, die dermassen ganzheitlich vorgehe. Selbst die offenbaren fremden Einflüsse, wie z. B. die Lehre Meillets von den ursprachlichen Dialekten oder die Gedanken Bremers und Hermanns über die relative Chronologie, sind hier so tief und organisch bis zu den feinsten logischen Folgerungen verarbeitet, dass das Werk eine selten persönliche Prägung behält. Weshalb wurde dieses Buch nie vollendet? Kaum war da ein Zufall, wenn auch mehrere zufällige Hindernisse im Wege standen.
Am Anfang der Arbeit war für Trubetzkoy (ähnlich wie für Fortunatov und Leskien) die indogermanische Erbschaft im Urslavischen das bemer¬kenswerteste, und Spuren der versunkenen morphologischen Kategorien hier zu suchen blieb stets seine grosse Vorliebe und Kunst (vgl. Slavia I, 12 ff. und ZfslPh IV, 62 ff.). Doch musste er in Wien die einzelnen slavi¬schen Sprachen und Literaturen vortragen, und seine Lehrpflichten nahm er, der geborene und vollkommene Lehrer, bis zu einer asketischen Opfer¬willigkeit ernst (vgl. den Nachruf seines besten linguistischen Schülers A. V. Isačenko in der Slav. Rundsch. X). Er stellte sich zur Aufgabe, jede dieser Sprachen in ihrer Entwicklungsgeschichte selbständig durch¬zuprüfen. So bekam in seinen Vorlesungen die Vorgeschichte der slavischen Sprachen ihre gesetzmässige Fortsetzung, die auch auf die prähistorischen Stufen mehrmals ein neues Licht warf und auch für diesen Fragenkreis Ergänzungen und Korrekturen forderte. Auch auf die Entwicklung der einzelnen slavischen Sprachen wendet Trubetzkoy das streng vergleichende Verfahren an; dem Fortunatovschen Gedanken treuer als Fortunatov selbst, betont er bei seiner bahnbrechenden Dar¬stellung der russischen Lautgeschichte (Zfs1Ph I, 287 ff.), die komparatis¬tische Methode spiele hier naturgemäss “eine grössere Rolle als die rein¬philologische”,

Nelle riviste slave degli anni Venti apparvero solo alcuni, per quanto eccellenti, frammenti riassuntivi della sezione storico-fonica della Vorgeschichte, e tuttavia si può dire che si stenterebbe a trovare nella letteratura mondiale una descrizione neogrammatica delle dinamiche linguistiche che proceda con una tale coesione unitaria. In questi scritti, gli influssi manifesti di altri linguisti – come, per esempio, la dottrina di Meillet sui protodialetti linguistici o le tesi di Bremer e Hermann sulla cronologia relativizzante – vengono elaborati in modo così profondo e organico fino alle loro ultime implicazioni logiche, che l’opera conserva un’impronta personalissima. Ma perché questo libro non è mai stato portato a compimento? Non è stato un caso, anche se molteplici impedimenti ne intralciarono la completa stesura.
All’inizio, per Trubeckoj (come anche per Fortunatov e Leskien) nell’Ur-slavo la cosa più rimarchevole era il retaggio indoeuropeo e la sua più grande passione e maestria continuò a essere la ricerca, all’interno di tale eredità, delle tracce di categorie morfologiche estinte (cfr. Slavia I, 12 sgg. e Zeitschrift für slavische Phylologie IV, 62 sgg.). Ma a Vienna le sue lezioni dovevano vertere sulle singole lingue e letterature slave e Trubeckoj assunse così seriamente il suo dovere di docente – un docente nato, un docente per eccellenza – da giungere all’abnegazione ascetica (cfr. il necrologio del suo migliore allievo, il linguista A. V. Isačenko, nella Slavische Rundschau X). Trubeckoj si pose come c¬ómpito quello di passare al setaccio ognuna di queste lingue, prese singolarmente nel contesto della loro storia evolutiva. Così, nelle sue lezioni, la protostoria delle lingue slave trovò una propria continuazione logica che, da un lato, gettava continuamente nuova luce sugli stadi più antichi e, dall’altro, esigeva completamenti e correzioni a questa problematica. Trubeckoj estese il severo metodo comparativo anche allo sviluppo delle singole lingue slave; più fedele al pensiero di Fortunatov dello stesso Fortunatov, con una esposizione fortemente innovativa della storia fonica russa (Zeitschrift für slavische Phylologie I, 287 sgg.), Trubeckoj sottolineò come, in modo naturale, il metodo comparativo giochi, all’interno di questo discorso, «un ruolo di maggiore rilievo rispetto a quello della filologia pura, e, di conseguenza, arrivò a comprendere
und folgerichtig erfasst er die den rechtgläubigen Kom¬paratisten sonderbarerweise entgangene Notwendigkeit, das Altkirchen¬slavische durch den Vergleich seiner čechischen und bulgarischen Rezen¬sion wiederherzustellen. Nur Weniges von diesen durchdachten Studien ist im Drucke erschienen, und erst wenn seine Aufzeichnungen zu den sprachhistorischen Vorlesungen herausgegeben werden, und wenn es uns hoffentlich gelingt, seine zahl- und inhaltreichen linguistischen Briefe (Trubetzkoy’s Lieblingsgattung!) zu veröffentlichen, wird die Tiefe, Breite und Originalität seiner Forschungsbeute noch anschaulicher her¬vortreten.
Einerseits erweiterte sich das Programm der Vorgeschichte, andererseits wurde seine Verwirklichung durch literarhistorische Vorlesungen und kulturwissenschaftliche Studien verzögert. Doch waren die einen wie die anderen auch für die Linguistik ergebnisreich. Die Probleme der dichte¬rischen Sprache, in der heimatlichen wissenschaftlichen Tradition mannigfaltig vertreten, von F. E. Korš (einem der ruhmvollen “Moskauer” neben seinen Mitgenossen Fortunatov und Miller) geistvoll gepflegt und von den russischen Wortkünstlern unseres Jahrhunderts praktisch und theoretisch zugespitzt, mündeten um die Revolutionsjahre in der Fassung der jungen Sprach- und Literaturforscher Russlands in ein harmonisches System der streng linguistisch (bzw. semiotisch) fundierten Poetik (bzw. Ästhetik). Trubetzkoy, den die Fragen der linguistischgeprüften Metrik von Jugend an lockten, näherte sich allmählich den Prinzipien dieser (in den slavischen Ländern heutzutage einflussreichen) “formalistischen Schule”, verstand ihre mechanistischen Entgleisungen zu überwinden, zeigte das Schaffen Dostoevskijs in einem ungewohnten doch für die Dichtung als solche massgebenden, rein linguistischen Aspekt und legte vor allem die Grundsteine zur Untersuchung der alt¬russischen Wortkunst, – eine Tat, die nicht nur eine unbekannte Welt eigenartiger und erhabener Kunstwerte wissenschaftlich entdeckt, sondern zugleich die methodologisch wichtige Frage der Werthierarchien im allgemeinen aufrollt.

la necessità, stranamente sfuggita ai comparativisti ortodossi, di ricostruire il paleoslavo ecclesiastico attraverso il confronto con le sue forme ceche e bulgare fino ad allora recensite. Di questi studi elaboratissimi, solo pochi furono pubblicati e solamente quando verranno divulgati i suoi appunti sulle lezioni storico-linguistiche e quando, auspicabilmente, ci riuscirà di far conoscere le sue numerose lettere di carattere linguistico tanto dense di contenuto (il genere preferito di Trubeckoj!), la profondità, l’ampiezza e l’originalità del suo prezioso materiale di studio appariranno ancora più perspicui.
Se da un lato il programma della Vorgeschichte acquistò maggiore corposità, dall’altro la sua realizzazione venne rallentata a causa delle lezioni storico-letterarie e degli studi scientifico-culturali. Ma anche per la linguistica, tutte queste occupazioni furono in eguale misura feconde. Intorno agli anni della rivoluzione, i problemi relativi al linguaggio poetico, rappresentati in svariati modi nella tradizione scientifica del proprio paese, coltivati in modo arguto da F. E. Korš (uno dei gloriosi “moscoviti” accanto ai suoi sodali Fortunatov e Miller) e portati all’estrema conseguenza, sia sotto l’aspetto pratico che teorico, dagli artisti russi della parola contemporanei, sfociarono – nelle formulazioni dei giovani ricercatori russi in campo linguistico e letterario – in un sistema armonioso di una poetica (ovvero di una estetica) dalle rigorose fondamenta linguistiche (ovvero semiotiche). Trubeckoj, che fin da giovane era attratto dagli interrogativi sulla metrica analizzata sulle basi di leggi linguistiche, si avvicinò in modo graduale ai princìpi di questa “scuola formalistica” (oggigiorno molto influente nei paesi slavi), ne seppe superare le deviazioni meccanicistiche, analizzò le opere di Dostoevskij da un punto di vista sicuramente inusuale, ossia prettamente linguistico e tuttavia determinante per la poetica stessa, e, soprattutto, gettò le fondamenta per un esame dell’antica arte russa della parola, un’impresa che non solo portò alla luce in modo scientifico un mondo sconosciuto dal valore artistico peculiare e sublime, ma che, al tempo stesso, delucidò la questione, basilare per la sfera metodologica, riguardante la scala dei valori in generale.

Die kulturwissenschaftlichen Skizzen Trubetzkoy’s brachten ihm die Problematik der Schriftsprache nah und bereicherten die Sprachwissenschaft durch seine schöne Studie über die Rolle des Kirchenslavischen für das Russische, eine der glänzendsten Leistungen des Gelehrten, die für das Problem des hybriden Sprachbaus von grund¬sätzlicher Bedeutung ist und in der Frage der Radiationszone des cyrilli¬schen Alphabets sich geradezu als prophetisch erwies (s. K probleme russkogo samopoznanija). Für die schöpferische Entwicklung Trubetzkoys waren die Gebiete der Wortkunst und der Sprachkultur besonders dadurch wichtig, dass sie ihn unmittelbar vor die Fragen des synchronischen Systems und der Zielstrebigkeit stellten.
Je mehr sich der Forscher mit der Lautgeschichte befasste, desto klarer sah er ein, dass “die Lautentwicklung wie jede andere historische Entwicklung ihre innere Logik besitzt, die zu erfassen die Aufgabe des Lauthistorikers ist”, doch letzten Endes trat das teleologische Prinzip in einen unversöhnlichen Konflikt mit der herkömmlich naturalistischen Behandlung der lautlichen Geschehnisse. Die Vorgeschichte wuchs in die Vereinung ihrer eigenen Grundlage um. Trubetzkoy war durch und durch historisch eingestellt, und solange das Problem des Phonems und der Phonemsysteme sich auf die Synchronie beschränkte, liess es ihn, wie ehemals auch Fortunatov und seine Schüler, kühl und passiv. Die Lehren Saussure’s, Baudouin de Courtenay’s und Ščerba’s lagen ausser¬halb seiner Problematik, da sie “sich einfach von der Sprachgeschichte abwandten”. Er billigte zwar (Slavia II, 1923, 452ff.; BSL XXVI, 3, 1925, 277ff.) meinen Versuch einer phonologischen Prosodie, gleich wie die Untersuchung N. F. Jakovlev’s über den kabardinischen Phonembestand, aber einzig die Frage der panchronischen prosodischen Gesetze lässt eine Spur in seiner eigenen Arbeit.
Gli schizzi storico-culturali intrapresi da Trubeckoj lo avvicinarono alla problematica della lingua scritta e arricchirono la linguistica grazie a un suo bellissimo studio sul ruolo dello slavo ecclesiastico all’interno della lingua russa, una delle opere più brillanti dello studioso, tale da rivestire un significato fondamentale per la trattazione del problema riguardante la struttura, basata sull’ibridazione, della lingua e da rivelarsi addirittura profetica quanto all’investigazione dell’ambito della zona di irradiamento dell’alfabeto cirillico (si veda la già citata K probleme russkogo samopoznaniâ). Particolarmente significativi per lo sviluppo della creatività di Trubeckoj furono i campi dell’arte della parola e della cultura linguistica, poiché lo posero immediatamente davanti ai problemi relativi al sistema sincronico e ai processi governati da finalismo.
Quanto più il ricercatore si occupava della storia fonematica, tanto più capiva che «lo sviluppo fonetico, analogamente a tutti gli altri sviluppi storici, possiede una propria logica intrinseca, la cui individuazione è cómpito dello studioso di fonologia», ma, in ultima analisi, il principio teleologico entrò in un conflitto irrisolvibile con la trattazione naturalistica tradizionale dei fenomeni fonematici. La Vorgeschichte crebbe intorno al fondersi dei suoi stessi princìpi fondamentali. Trubeckoj aveva un’impostazione radicalmente storica e, fintantoché il problema dei fonemi e del sistema fonemico si limitava alla sincronia, egli rimaneva freddo e indifferente, come già prima Fortunatov e i suoi allievi. Gli insegnamenti di Saussure, Baudouin de Courtenay e Ŝerba erano alieni alla sua problematica, poiché «semplicemente si allontanavano dalla storia della lingua». Egli si trovò però d’accordo (Slavia II, 1923, 452 sgg.; BSL XXVI, 3, 1925, 277 sgg.) con il mio tentativo di una prosodia fonologica, proprio come con la ricerca intrapresa da N. F. Âkovlev sul patrimonio fonetico cabardinico, ma solo il problema delle leggi prosodiche pancroniche lasciò un segno nel suo lavoro.

Erst als das phonologische Problem auf das Gebiet der Sprachgeschichte übergeht und ihn Ende 1926 ein aufgeregter langer Brief erreicht, der die Frage aufwarf, ob es nicht geeignet wäre, die naturwidrige Kluft zwischen der synchronischen Analyse des phonologischen System einerseits und der “historischen Phonetik” andererseits dadurch zu überbrücken, dass jeder Lautwandel als ein zweckbedingtes Ereignis unter dem Gesichtspunkt des gesamten Systems untersucht werden soll, bringt diese Frage den Empfänger, nach seinem eigenen Ausdruck, aus dem Konzept. Er gesteht bald zu, es gebe hier keinen Mittelweg. Und als Trubetzkoy meine Thesen für den Haager Linguistenkongress (Korrelationsbegriff, allgemeine Solidaritäts¬gesetze, historische Phonologie) zugesandt bekam, schrieb er, er füge gern auch seine Unterschrift hinzu, bezweifle aber, dass die Fragestellung verstanden wird. Indessen erwies es sich im Haag, dass in der jungen Linguistik verschiedener Länder ein unabhängiges und doch konvergentes Streben nach einer strukturalen Auffassung der sprachlichen Sychronie und Diachronie losbricht; das wirkte freudig ermunternd, und wenige Monate später schrieb Trubetzkoy, er habe in den Sommerferien unter anderm über Vokalsysteme nachgedacht, zirka vierzig aus dem Gedächt¬nis untersucht und manches Unerwartete habe sich dabei herausgestellt. Es war in nuce die Untersuchung “Zur allgemeinen Theorie der phonolo¬gischen Vokalsysteme” (TCLP I, 1929, 39 ff.). Man vermutete zwar schon, das phonologische System wäre keine mechanische “Und-Verbindung”, sondern eine geordnete gesetzmässige Gestalteinheit, aber erst er baute einen wesentlichen Abschnitt dieser Systemlehre konkret auf. Er zeigte, dass die Vielheit der Vokalsysteme auf eine beschränkte Anzahl sym¬metrischer, durch einfache Gesetze bestimmter Modelle hinausläuft, und stellte ihre Typologie fest. Karl Bühler sagt mit Recht, Trubetzkoy habe “für die Vokalphoneme einen Systemgedanken vorgelegt, der an Trag¬weite und einleuchtender Einfachheit dem Systemgedanken seines Landsmannes, des Chemikers Mendeleev, gewachsen sein dürfte”.
Im Geiste eines wirklichen kollektiven Schaffens, in dem Trubetzkoy eine russische Erbschaft sah, wurde dann an der neuen Disziplin gearbei¬tet. Er pflegte unsere Zusammenarbeit mit

Secondo quanto lui stesso affermò, Trubeckoj cadde in confusione solo quando il problema fonologico trapassò al campo della storia della lingua e quando, alla fine del 1926, ricevette una lunga lettera concitata, che sollevava il quesito se non fosse opportuno superare la spaccatura innaturale tra l’analisi sincronica del sistema fonologico da una parte, e la “fonetica storica” dall’altra, così che ogni mutamento fonetico venisse studiato come un evento finalistico dal punto di vista dell’intero sistema. Immediatamente, egli ammise che, in questo caso, non poteva esistere una via di mezzo. E quando Trubeckoj ricevette per posta le mie tesi formulate per il Congresso dei linguisti dell’Aia (concetti di correlazione, leggi generali di solidarietà, fonologia storica), mi rispose che avrebbe apposto con grande piacere anche la sua firma, ma che dubitava che la formulazione del quesito potesse essere capita. Per contro, all’Aia si dimostrò che, nella linguistica più recente dei diversi paesi, si stava facendo strada una tendenza indipendente, e tuttavia convergente, verso un’interpretazione strutturale della sincronia e diacronia linguistica; questo fatto ci rallegrò e incoraggiò e, dopo pochi mesi, Trubeckoj scrisse che, durante le vacanze estive, aveva riflettuto, tra le altre cose, sui sistemi vocalici, studiandone circa quaranta attingendo alla propria memoria e che, nel fare questo, qualcosa di inatteso era venuto alla luce. Era in nuce lo studio «Sulla teoria generale del sistema fonologico vocalico» (TCLP I, 1929, 39 sgg.). Si presupponeva già che il sistema fonologico non fosse una “Und-Verbindung” [un collegamento basato sulla mera giustapposizione; N.d.T.] meccanica, ma un’unità, una Gestalt ordinata e improntata a delle regole, però lui fu il primo a erigere in modo concreto un capitolo fondamentale di questa dottrina sistematica. Egli dimostrò che la molteplicità dei sistemi vocalici finiva col corrispondere a un numero limitato di modelli simmetrici determinati da leggi elementari e ne fissò la tipologia. Karl Bühler affermò a ragione che «Trubeckoj ha messo appunto un sistema concettuale per i fonemi vocalici, che, per portata e illuminante semplicità, può definirsi all’altezza del sistema concettuale del suo connazionale, il chimico Mendeleev».
Quindi, nello spirito di un processo creativo reale e collettivo, in cui Trubeckoj ravvisava un
einem Staffellauf zu vergleichen. Bald erhielt dieser Aufbau eine noch breitere Grundlage – die gemein¬samen Anstrengungen des Prager linguistischen Cercle. “Die verschiede¬nen Entwicklungsstufen des Cercle, – schreibt Trubetzkoy, – die ich mit ihm gemeinsam erlebte, tauchen in meinem Gedächtnis auf – erst die bescheidenen Versammlungen beim Vorsitzenden (V. Mathesius), dann die heroische Zeit der Vorbereitungen zum ersten Slavistenkongress, die unvergesslichen Tage der Prager phonologischen Konferenz und viele andere schöne Tage, die ich in der Gesellschaft meiner Prager Freunde erlebt habe. Alle diese Erinnerungen sind in meinem Bewusstsein mit einem seltsamen erregenden Gefühl verbunden, denn bei jeder Berührung mit dem Prager Cercle erlebte ich einen neuen Aufschwung der schöp¬ferischen Freude, die bei meiner einsamen Arbeit fern von Prag immer wieder sinkt. Diese Belebung und Anregung zum geistigen Schaffen ist eine Äusserung des Geistes, welcher unserer Vereinigung eigen ist und aus der kollektiven Arbeit der befreundeten Forscher entsteht, die in einer gemeinsamen methodologischen Richtung gehen und von gleichen theoretischen Gedanken bewegt sind.” Hier möchten wir aber vor allem den massgebenden persönlichen Beitrag Trubetzkoys in knappen Worten zum Gedächtnis bringen.
Glücklich verband er den Korrelationsbegriff mit der Lehre Saussure’s über die phonologische Gegenüberstellung eines Vorhandenseins und Nichtvorhandenseins und entwickelte mit Martinet den damit eng zusammenhängenden Begriff der Oppositionsaufhebung (TCLP VI); Jakovlevs treffenden Anregungen folgend, vollbrachte er eine scharfe Analyse aller konsonantischen Korrelationen (TCLP IV) und baute eine tragfähige Systematik der Grenzsignale auf (Proceedings II); er machte den ersten, tastenden Versuch einer Einteilung der phonologischen Oppositionen (Journ. de Psych. XXXIII); er besprach eingehend die Technik der phonologischen Sprachbeschreibungen (Anleitung zu phonologischen Beschreibungen, 1935) und gab einige mustergültige Bei¬spiele: das Konsonantenverzeichnis der ostkaukasischen Sprachen (Cau¬casica VIII), die Morphonologie des Russischen (TCLP V, 2) und die

retaggio russo, si cominciò a lavorare alla nuova disciplina. Era solito paragonare la nostra collaborazione a un gioco di staffetta. Presto questa costruzione poté contare su una base ancora più ampia: gli sforzi di tutto il Cercle linguistico di Praga. Scrive Trubeckoj:
I diversi stadi di sviluppo del Circolo, attraverso cui sono passato di persona insieme agli altri membri, riaffiorano alla mia memoria: prima le modeste riunioni in casa del presidente (V. Mathesius), poi il periodo eroico del lavoro di preparazione per il primo congresso degli slavisti, i giorni indimenticabili della conferenza sulla fonologia a Praga e ancora molti altri momenti che ho vissuto nella cerchia delle mie amicizie praghesi. Tutti questi ricordi sono legati, nella mia consapevolezza, da un sentimento particolare ed entusiasmante, poiché a ogni contatto con il Circolo di Praga sono stato travolto da un nuovo slancio di gioia feconda che svaniva immancabilmente quando invece mi dedicavo al mio lavoro solitario lontano da Praga. Questo stimolo vivificante all’operare creativo di natura intellettuale è un’espressione dello spirito che caratterizza il nostro sodalizio e che nasce da un lavoro comune di ricercatori legati da amicizia, ricercatori che condividono lo stesso approccio metodologico e che sono mossi dalle stesse concezioni teoriche.
Ma più di tutto, vorremmo qui brevemente ricordare il determinante contributo personale di Trubeckoj.
Con successo creò un legame tra il concetto di correlazione e la dottrina di Saussure sul raffronto fonologico tra entità esistenti e non esistenti, e sviluppò con Martinet l’idea a ciò strettamente connessa di un superamento delle opposizioni (TCLP VI); sulla scorta dei felici impulsi di Âkovlev, completò un’acuta analisi di tutte le correlazioni consonantiche (TCLP IV) e costruì una solida sistematica dei segnali limite (Proceedings II); fece il primo tentativo volto a sondare il terreno in vista di una classificazione delle opposizioni fonologiche (Journal de Psychologie XXXIII); in modo dettagliato discusse la tecnica delle descrizioni fonologiche della lingua (Anleitung zu phonologischen Beschreibungen [Introduzione alle descrizioni fonologiche; N.d.T.], 1935) e ne diede alcuni esempi magistrali: la registrazione delle consonanti nelle lingue del Caucaso orientale (Caucasica VIII), la morfofonologia del russo (TCLP V, 2) e le esaustive

erschöpfenden Monographien über das Polabische (Sitzb. Ak Wiss. Wien, phil-hist. Kl., CCXI, Abh. 4) und das Altkirchenslavische. Zur letzteren sind bisher nur die Vorstudien veröffentlicht, aber hoffentlich erscheint bald auch das beinahe fertiggeschriebene Handbuch . Es ist interessant, dass die beiden Monographien tote Sprachen behandeln, deren Phonembestand erst durch eine sorgfältige Analyse des Schrift¬systems in seinem Verhältnis zum phonologischen System festgestellt wird, und auch in diesem Sinne sind die beiden Arbeiten wirkliche Meis¬terstücke, die die Fortunatovsche Tradition fortsetzen und würdig krönen: das Problem der Wechselseitigkeit zweier autonomen Systeme – der Schriftnorm und der Lautnorm lockte stets die Aufmerksamkeit der Moskauer Schule; die polabische Spielart dieses Problems fesselte schon Porzeziński sowie Ščepkin, und Trubetzkoy beabsichtigte, seine Pola¬bischen Studien dem Andenken des ersten zu widmen; der altkirchen¬ slavischen Schrift und Orthographie gelten die feinsten Beobachtungen Fortunatov’s und in der neueren Zeit die ursprünglichsten Erwägungen Durnovos, an die Trubetzkoy anknüpft; “Alphabet und Lautsystem” wird ihm zum Ausgangspunkt seiner phonologischen Forschung, und er glaubt, eine autonome Graphemenlehre nach dem Vorbild der Phonemenlehre entstehen zu sehen (Slovo a Slovesnost I, 133).
Die Phonologie der beiden toten Sprachen ist zwar bei Trubetzkoy streng synchronisch gefasst, doch die Projektion des statischen Quer¬schnittes in die Vergangenheit ist für ihn offenkundig eine Vorstufe der diachronischen Forschung. Als Anthithese der historischen Phonetik, welche die erste Etappe seines Schaffens beherrschte, trat in der weiteren Etappe die synchronische Phonologie ein, die Diachronie wurde von jetzt an nur in zwei episodischen Beiträgen angetastet (Festschrift Miletič 1933, 267 ff. und Księga referatów des II. Slavistenkongresses 1934, 133 ff.), und doch bleibt die Lautgeschichte die verborgene Triebkraft seines Suchens, und Trubetzkoy strebt zur historischen Phonologie als dialektischer Synthese.

monografie sull’idioma polabo (Sitzungberichte der Akademie der Wissenschaften, Wien, philos.-histor. Kl., CCXI, Abh. 4) e paleoslavo ecclesiastico. Di questa ultima monografia, sono stati pubblicati fino ad ora solo gli studi preparatori, ma ci si augura che sia presto disponibile anche il manuale , la cui stesura era quasi completa. È interessante notare come entrambe le monografie tràttino di lingue morte, il cui patrimonio fonematico viene stabilito ancora attraverso un’analisi scrupolosa del sistema grafico nella sua relazione con quello fonologico, e anche in questo senso entrambe le opere rappresentano due autentici capolavori che proseguirono e coronarono degnamente la tradizione di Fortunatov: il problema della reciprocità di due sistemi autonomi, la norma grafica e fonica, che aveva sempre suscitato l’interesse della Scuola di Mosca; la peculiarità che questo problema assume all’interno della lingua polaba aveva già catturato Porzeziński come anche Ŝepkin, e Trubeckoj si ripropose di dedicare i suoi Polabischen Studien [Studi sul polabo; N.d.T.] alla memoria di Porzeziński; le osservazioni più fini di Fortunatov e, negli ultimi tempi, le primissime riflessioni di Durnovo, furono rivolte alla scrittura e ortografia del paleoslavo ecclesiastico e proprio a queste si riallaccia Trubeckoj; «alfabeto e sistema fonico» divennero il punto di partenza della sua ricerca fonologica ed egli credette di vedere la nascita di un’autonoma dottrina dei grafemi sulla base della dottrina fonematica (Slovo a Slovesnost I, 133).
La fonologia di entrambe le lingue morte venne sì affrontata da Trubeckoj in modo scrupolosamente sincronico, ma la proiezione del profilo statico nel passato fu per lui, in modo manifesto, uno stadio preliminare della ricerca diacronica. In antitesi alla fonetica storica che aveva dominato la prima fase del suo lavoro, subentrò, nella seconda fase, la fonologia sincronica, e da qui in poi la diacronia venne trattata di sfuggita in due saggi episodici (Festschrift Miletič 1933, 267 sgg. e Księga referatów del II Congresso di slavisti del 1934, 133 sgg.). E tuttavia, la storia della fonetica rimase la molla segreta della ricerca di Trubeckoj, che tese alla fonologia storica come a una sintesi dialettica.

Er weiss, wie grosse und grundsätzlich neue Aufgaben hier den Forscher erwarten, wie eingehend das Rekonstruk¬tionsverfahren sich ändern muss, wie viele Überraschungen der weitere Fortschritt der phonologischen Geographie, bes. ein entsprechender Weltaltlas, beibringen kann, und wie selbst das Problem einer Ursprache, beispielsweise des Urindogermanischen, in einem wesentlich neuen Lichte hervortritt (vgl. Acta Ling. I, 81 ff.). In seinem Handbuch des Altkirchen¬slavischen versucht Trubetzkoy, die methodologische Erfahrung der Phonologie auch auf das Gebiet der Formenlehre zu erweitern (ausser dem Kasuskapitel hielt er diesen Teil des Werkes im grossen und ganzen für fertig). Der systematische Aufbau der strukturalen Morphologie, besonders einer Typologie der morphologischen Systeme kommt für ihn an die Reihe, sowie die gleichlaufende (in Mélanges Bally, 75 ff. angedeutete) syntaktische Problematik. Und endlich schwebte ihm eine strukturale Betrachtung des Wortschatzes als eines gesetzmässigen Systems immer deutlicher vor (vgl. TCLP I, 26 f.).
Doch das alles zu verwirklichen war ihm leider nicht mehr vergönnt, und er ahnte es. Unermüdlich schrieb er, mit dem Tode im Herze, an den Grundzügen der Phonologie (TCLP VII), seinem herrlichen Synthese¬buch, das er als den Etappeabschluss betrachtete und als eine fördernde Grundlage zu den sich immer mehrenden phonologischen Sprachbe¬schreibungen sowie zu einer weiteren sachlichen, fruchtbaren theoretischen Diskussion.
“Die Lebensfrist ist schon kurz, – schrieb einst Sergej Trubetzkoy, – und man muss sich beeilen, alles, was noch möglich, aus der geistigen Ernte einzuheimsen, – nur dass es nicht zu spät sei.” – “Dieses Vorgefühl täuschte leider nicht, – fügt sein Bruder hinzu, – das Herz hielt nicht aus […] und er verschied in der vollen Blüte seiner Kräfte […] Vor Entrüstung und Schmerz um der Anderen willen verschmachtete er und starb.”

Era consapevole dei grandi e fondamentalmente nuovi cómpiti che sarebbero spettati ai ricercatori in questo settore; di quanto in profondità si sarebbe dovuto spingere il processo di ricostruzione; di quante sorprese avrebbe potuto offrire un ulteriore progresso nel campo della geografia fonologica, in particolare un corrispondente atlante universale; e di come il problema stesso di una Ur-sprache, per esempio il protoindoeuropeo, si sarebbe presentato sotto una luce del tutto diversa (cfr. Acta Linguistica I, 81 sgg.). Nel manuale sulla lingua paleoslava ecclesiastica, Trubeckoj cerca di estendere l’esperienza metodologica della fonologia al campo della morfologia (nel complesso, eccetto il capitolo sui casi, egli considerò conclusa questa parte dell’opera). In un secondo momento si sarebbe presentata la costruzione sistematica della morfologia strutturale, in modo particolare di una tipologia di sistemi morfologici, come anche il parallelo problema sintattico (in Mélanges Bally, 75 sgg.). Infine, in modo sempre più chiaro, si delineò nella sua mente una riflessione di tipo strutturale riguardante il lessico quale sistema governato da proprie regole interne (cfr. TCLP I, 26 sg.).
Purtroppo, come lui stesso aveva presagito, non gli fu però più possibile realizzare tutto questo. Con uno spirito instancabile e la morte nel cuore, si mise a lavorare a Fondamenti di fonologia (TCLP VII), un magnifico lavoro di sintesi da lui considerato la tappa conclusiva e il punto di partenza che sarebbe servito da stimolo sia per le descrizioni di analisi linguistiche fonologiche vieppiù numerose, sia per un’ulteriore discussione teoretica, obiettiva e feconda.
«La vita è breve» scrisse una volta Sergej Trubeckoj, «e noi dobbiamo affrettarci, per quanto possibile, a fare incetta del raccolto spirituale prima che non sia troppo tardi». «Questo presentimento non era fallace», aggiunse suo fratello, «il suo cuore non resse […] e lui morì nel pieno delle sue forze […] mosso dall’amore per gli altri, si strusse e morì per lo sdegno e il dolore».

Das tragische Schicksal des Vaters wiederholte sich buchstäblich. Der Mensch, der das Zeitalter rühmte, in dem die gesamte Wissenschaft die atomisie¬rende Weltauffasung durch den Strukturalismus zu ersetzen suchte, und der zu seinen grössten und wackersten Vorkämpfern gehörte, scheute in seinem bewegten Leben einzig die seelenlose Vertilgung der Geistes¬werte.

Geschrieben in Charlottenlund (Dänemark), Juni 1939, und veröffentlicht in Acta Linguistica, I (1939).

Il tragico destino toccato al padre si ripeté letteralmente per il figlio. L’uomo che aveva celebrato l’epoca in cui una scienza complessiva tentava di sostituire la concezione atomizzante del mondo attraverso la teoria strutturalista, di cui lui era il più grande e valoroso precursore, nella sua vita movimentata nutrì un unico timore, l’arido annientamento dei valori dello spirito.

Scritto nel giugno 1939 a Charlottenlund (Danimarca) e pubblicato in Acta Linguistica, I (1939).

Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, Language and Culture SIMONA CLERICI

Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, Language and Culture

 

   

SIMONA CLERICI

 

 

Université de Strasbourg

Institut de Traducteurs, d’Interprètes et de Relations Internationales

Fondazione Milano

Master in Traduzione

 

 

Primo supervisore: Professor Bruno OSIMO

Secondo supervisore: Professoressa Valentina BESI

 

 

Master: Arts, Lettres, Langues

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction et Interprétation

Parcours: Traduction littéraire

estate 2011

 

ã 1987 by The Jakobson Trust; Mouton Publishers 1985

ã Clerici Simona per l’edizione italiana 2011

Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, Language and Culture

 

Abstract

 

Two essays, On Linguistic Aspects of Translation (1959) and Language and Culture (1967), written within eight years of each other by the Russian-born scholar Roman Jakobson, gave new impetus to the theoretical analysis of translation on the basis of the author’s semiotic approach to language. Putting aside the fallacious attempt to find translation equivalents, which used to be the central issue in translation, the notion of “equivalence in difference” implies that translation can always be carried out, regardless of the cultural or grammatical differences between the two languages involved, since any language is able to convey everything. Providing a number of examples comparing mainly the English and Russian grammatical patterns, the author demonstrates that any assumption of untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms because the definition of our experience requires recoding interpretation; that is, translation. This thesis presents a translation into Italian and an analysis of Jakobson’s essays.

 


 

Sommario

1. Traduzione con testo a fronte_________ 1

2. Analisi traduttologica_________ 45

2.1. Roman Jakobson:_________ 46

un americano con l’indole dell’emigrato russo_________ 46

2.2. Tra innovazione e tradizione_________ 48

2.3. Peculiarità del saggio_________ 50

2.3.1. Un crogiolo di culture 50

2.3.2. Il lettore modello 53

2.3.3. Perdite e compensazioni 54

2.3.3.1. Apparati metatestuali 54

2.4. Analisi linguistica ed extralinguistica_________ 57

2.4.1. Differenze tra campi semantici: le scelte lessicali 58

2.4.1.1. Celibate 58

2.4.1.2. Cottage cheese 60

2.4.1.3. Intricacies 62

2.4.1.4. Nurture and nature 64

2.4.1.5. Creative writers 65

2.5. Metatesti a confronto:_________ 68

perché proporre una traduzione diversa del saggio_________ 68

on linguistic aspects of translation_________ 68

2.6. Riferimenti bibliografici_________ 73

3. Errata Corrige_________ 75

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Traduzione con testo a fronte


 

On linguistic Aspects of Translation

According to Bertrand Russell, “no one can understand the word ‘cheese’ unless he has a nonlinguistic acquaintance with cheese” (Russell 1950). If, however, we follow Russell’s fundamental precept and place our “emphasis upon the linguistic aspects of traditional philosophical problems,” then we are obliged to state that no one can understand the word cheese unless he has an acquaintance with the meaning assigned to this word in the lexical code of English. Any representative of a cheese-less culinary culture will understand the English word cheese if he is aware that in this language it means “food made of pressed curds” and if he has at least a linguistic acquaintance with curds. We never consumed ambrosia or nectar and have only a linguistic acquaintance with the words ambrosia, nectar, and gods – the name of their mythical users; nonetheless, we understand these words and know in what contexts each of them may be used.

The meaning of the words cheese, apple, nectar, acquaintance, but, mere, and of any word or phrase whatsoever is definitely a linguistic–or to be more precise and less narrow–a semiotic fact. Against those who assign meaning (signatum) not to the sign, but to the thing itself, the simplest and truest argument would be that nobody has ever smelled or tasted the meaning of cheese or of apple. There is no signatum without signum. The meaning of the word “cheese” cannot be inferred from a nonlinguistic acquaintance with cheddar or with camembert without the assistance of the verbal code. An array of linguistic signs is needed to introduce an unfamiliar word. Mere pointing will not teach us whether cheese is the name of the given specimen, or of any box of camembert, or of camembert in general or of any cheese, any milk product, any food, any refreshment, or perhaps any box irrespective of contents. Finally, does a word simply name the thing in question, or does it imply a meaning such as offering, sale, prohibition, or malediction? (Pointing actually may mean malediction; in some cultures, particularly in Africa, it is an ominous gesture.)

For us, both as linguists and as ordinary word-users, the meaning of any linguistic

Sugli aspetti linguistici della traduzione

Secondo Bertrand Russell «nessuno può capire la parola “cheese” se non ha un’esperienza non-linguistica del formaggio» (Russell 1950). Se però accettiamo il precetto fondamentale di Russell e mettiamo l’«enfasi sugli aspetti linguistici dei problemi filosofici tradizionali» siamo costretti ad affermare che nessuno può capire la parola «cheese» se non ha un’esperienza del significato assegnato a questa parola nel codice lessicale dell’inglese. Qualsiasi rappresentante di una cultura culinaria in cui non esista il formaggio capirà la parola inglese «cheese» se è consapevole che in questa lingua significa «alimento fatto di latte cagliato pressato» e se ha almeno un’esperienza linguistica di «latte cagliato». Noi non abbiamo mai assaggiato l’ambrosia o il nettare e abbiamo un’esperienza solo linguistica delle parole «ambrosia» [ambrosia], «nectar» [nettare], e «gods» [dèi] – il nome dei loro mitici consumatori; eppure, capiamo queste parole e sappiamo in quali contesti si può utilizzare ciascuna di esse.

Il significato delle parole «cheese», «apple», «nectar», «acquaintance», «but», «mere» [rispettivamente formaggio, mela, nettare, esperienza, ma, solo] e di qualsiasi parola o frase di qualsiasi tipo è chiaramente un fatto linguistico – o per essere più precisi e meno ristretti – semiotico. Contro chi assegna il significato (signatum) non al segno, ma alla cosa stessa, l’argomentazione più semplice e più vera sarebbe che nessuno ha mai sentito l’odore né il sapore del significato di «cheese» o di «apple». Non esiste signatum senza signum. Il significato della parola «cheese» non si può inferire da una conoscenza non-linguistica del cheddar o del camembert senza l’aiuto del codice verbale. Per introdurre una parola sconosciuta è necessaria una serie di segni linguistici. Il semplice fatto di indicarla non ci dirà se «cheese» è il nome di quel singolo campione, o di qualsiasi confezione di camembert, o del camembert in generale, o di qualsiasi formaggio, qualsiasi latticino, qualsiasi alimento, qualsiasi spuntino, o forse qualsiasi confezione indipendentemente dal contenuto. Insomma, una parola dà semplicemente un nome alla cosa in questione, oppure implica un significato, per esempio, di offerta, vendita, proibizione o maledizione? (Indicare, di fatto, può significare maledizione; in alcune culture, in particolare in Africa, è un gesto di cattivo auspicio.)

Per noi, sia come linguisti sia come normali utenti di parole, il significato di

 

sign is its translation into some further, alternative sign, especially a sign “in which it is more fully developed” as Peirce, the deepest inquirer into the essence of signs, insistently stated (Dewey 1946). The term “bachelor” may be converted into a more explicit designation, “unmarried man,” whenever higher explicitness is required. We distinguish three ways of interpreting a verbal sign: it may be translated into other signs of the same language, into another language, or into another, nonverbal system of symbols. These three kinds of translation are to be differently labeled:

  1. Intralingual translation or rewording is an interpretation of verbal signs by means of other signs of the same language.
  2. Interlingual translation or translation proper is an interpretation of verbal signs by means of some other language.
  3. Intersemiotic translation or transmutation is an interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal sign systems.

The intralingual translation of a word uses either another, more or less synonymous, word or resorts to a circumlocution. Yet synonymy, as a rule, is not complete equivalence: for example, “every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate.” A word or an idiomatic phrase-word, briefly a code-unit of the highest level, may be fully interpreted only by means of an equivalent combination of code units, that is, a message referring to this code unit: “every bachelor is an unmarried man, and every unmarried man is a bachelor,” or “every celibate is bound not to marry, and everyone who is bound not to marry is a celibate.”

Likewise on the level of interlingual translation, there is ordinarily no full equivalence between code units, while messages may serve as adequate interpretations of alien code units or messages. The English word cheese cannot be completely identified with its standard Russian heteronym syr, because cottage cheese is a cheese but not a syr. Russians say: prinesi syru I tvorogu (bring cheese and [sic] cottage cheese). In standard Russian, the food made of pressed curds is called syr only if ferment is used.

Most frequently, however, translation from one language into another substitutes

qualsiasi segno linguistico è la sua traduzione in un segno ulteriore, alternativo, in particolare un segno «in cui è più pienamente sviluppato», come affermava insistentemente Peirce, il più profondo indagatore nell’essenza dei segni (Dewey 1946). Il termine «bachelor» [scapolo] si può convertire in una designazione più esplicita, «unmarried man» [uomo non sposato], ogni volta che sia richiesta una maggiore esplicitezza. Si distinguono tre modi di interpretare un segno verbale: si può tradurre in altri segni della stessa lingua, in un’altra lingua, o in un altro sistema, non verbale, di simboli. Questi tre tipi di traduzione devono essere classificati in modo diverso:

  1. La traduzione intralinguistica o riverbalizzazione è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di altri segni della stessa lingua.
  2. La traduzione interlinguistica o traduzione vera e propria è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di un’altra lingua.
  3. La traduzione intersemiotica o trasmutazione è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di sistemi segnici non verbali.

La traduzione interlinguistica di una parola o usa un’altra parola, più o meno sinonima, o ricorre a una circonlocuzione. Però la sinonimia, di norma, non è equivalenza completa: per esempio «every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate». Una parola o una frase idiomatica, insomma un’unità di codice del livello più alto, può essere interpretata pienamente solo per mezzo di una combinazione equivalente di unità di codice, e cioè un messaggio che si riferisce a questa unità di codice: «every bachelor is an unmarried man, and every unmarried man is a bachelor» o «every celibate is bound not to marry and everyone who is bound not to marry is a celibate».

Similmente, a livello di traduzione interlinguistica di norma non c’è piena equivalenza tra diverse unità di codice, mentre i messaggi potrebbero fungere da interpretazioni adeguate di unità di codice o messaggi straneiri. La parola inglese «cheese» non si può identificare completamente con il suo eteronimo russo standard «syr» perché il «cottage cheese» [fiocchi di latte] è un «cheese» ma non un «syr». I russi dicono: «prinesi syru i tvorogu» (porta il formaggio e [sic] i fiocchi di latte). Nel russo standard l’alimento fatto di latte cagliato pressato si chiama «syr» solo se è un formaggio fermentato.

Spessissimo, comunque, la traduzione da una lingua a un’altra sostituisce


 

messages in one language not for separate code units but for entire messages in same other language. Such a translation is a reported speech; the translator recodes and transmits a message received from another source. Thus translation involves two equivalent messages in two different codes.

Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics. Like any receiver of verbal messages, the linguist acts as their interpreter. No linguistic specimen may be interpreted by the science of language without a translation of its signs into other signs of the same system or into signs of another system. Any comparison of two languages implies an examination of their mutual translatability; widespread practice of interlingual communication, particularly translating activities, must be kept under constant scrutiny by linguistic science. It is difficult to overestimate the urgent need for and the theoretical and practical significance of differential bilingual dictionaries with careful comparative definition of all the corresponding units in their intention and extension. Likewise differential bilingual grammars should define what unifies and what differentiates the two languages in their selection and delimitation of grammatical concepts.

Both the practice and the theory of translation abound with intricacies, and from time to time attempts are made to sever the Gordian knot by proclaiming the dogma of untranslatability. “Mr. Everyman, the natural logician,” vividly imagined by B. L. Whorf, is supposed to have arrived at the following bit of reasoning: “Facts are unlike to speakers whose language background provides for unlike formulation of them” (Whorf 1956). In the first years of the Russian revolution there were fanatic visionaries who argued in Soviet periodicals for a radical revision of traditional language and particularly for the weeding out of such misleading expressions as “sunrise” or “sunset.” Yet we still use this Ptolemaic imagery without implying a rejection of Copernican doctrine, and we can easily transform our customary talk about the rising and setting sun into a picture of the earth’s rotation simply because any sign is translatable into a sign in which it appears to us more fully developed and precise.

An ability to speak a given language implies an ability to talk about this language.

messaggi in una lingua non per singole unità di codice ma per messaggi completi in un’altra lingua. Una traduzione di questo tipo è un discorso riferito; il traduttore ricodifica e trasmette un messaggio ricevuto da un’altra fonte. Così, la traduzione riguarda due messaggi equivalenti in due codici diversi.

L’equivalenza nella differenza è il problema cardinale della lingua e la preoccupazione primaria della linguistica. Come ogni ricevente di messaggi verbali, il linguista funge da loro interprete. La scienza del linguaggio non potrebbe interpretare nessun campione linguistico senza tradurne i segni in altri segni dello stesso sistema o in segni di un altro sistema. Qualsiasi confronto tra due lingue implica un esame della loro reciproca traducibilità; la pratica diffusa della comunicazione interlinguistica, e in particolare le attività di traduzione, devono essere tenute costantemente sotto osservazione dalla scienza linguistica. È difficile sopravvalutare l’urgente bisogno e il significato teorico e pratico di dizionari bilingui differenziali con un’accurata definizione comparativa di tutte le unità corrispondenti nella loro intensione ed estensione. Similmente, grammatiche bilingui differenziali dovrebbero definire che cosa unifica e che cosa differenzia le due lingue nella loro selezione e delimitazione dei concetti grammaticali.

Tanto la pratica quanto la teoria della traduzione sono assai intricate, e di tanto in tanto si fa qualche tentativo di spezzare il nodo gordiano proclamando il dogma dell’intraducibilità. «Il signor Chiunque, il logico naturale» uscito dalla vivida immaginazione di B. L. Whorf, dovrebbe essere arrivato al seguente ragionamento: «I fatti sono diversi per i parlanti il cui background linguistico ne fa dare una formulazione diversa» (Whorf 1956). Durante i primi anni della Rivoluzione russa alcuni fanatici visionari dibattevano sui periodici sovietici per ottenere una revisione radicale della lingua tradizionale e in particolare per sradicare espressioni fuorvianti come il sorgere e il tramontare del sole. Eppure noi usiamo ancora questo immaginario tolemaico senza che ciò implichi il rifiuto della dottrina copernicana, e possiamo facilmente trasformare il nostro parlare abituale del sole che sorge e tramonta in un’immagine della rotazione terrestre semplicemente perché qualsiasi segno è traducibile in un segno nel quale ci sembra più pienamente sviluppato e preciso.

La facoltà di parlare una data lingua implica la facoltà di parlare a proposito di


 

Such a metalinguistic operation permits revision and redefinition of the vocabulary used. The complementarity of both levels – object language and metalanguage – was brought out by Niels Bohr: all well-defined experimental evidence must be expressed in ordinary language, “in which the practical use of every word stands in complementary relation to attempts of its strict definition” (Bohr 1948).

All cognitive experience and its classification is conveyable in any existing language. Whenever there is a deficiency, terminology may be qualified and amplified by loanwords or loan translations, by neologisms or semantic shifts, and, finally, by circumlocutions. Thus in the newborn literary language of the Northeast Siberian Chukchees, “screw” is rendered as “rotating nail,” “steel” as “hard iron,” “tin” as “thin iron,” “chalk” as “writing soap,” “watch” as “hammering heart.” Even seemingly contradictory circumlocutions, like “electrical horsecar” (èlektričeskaja konka), the first Russian name of the horseless streetcar, or “flying steamship” (jeha paraqot), the Koryak term for the airplane, simply designate the electrical analogue of the horsecar and the flying analogue of the steamer and do not impede communication, just as there is no semantic “noise” and disturbance in the double oxymoron—“cold beef-and-pork hot dog.”

No lack of grammatical device in the language translated into makes impossible a literal translation of the entire conceptual information contained in the original. The traditional conjunctions “and,” “or” are now supplemented by a new connective“and/or”—which was discussed a few years ago in the witty book Federal Prose—How to Write in and/or for Washington (Masterson, Wendell Brooks 1948). Of these three conjunctions, only the latter occurs in one of the Samoyed languages (Bergsland 1949). Despite these differences in the inventory of conjunctions, all three varieties of messages observed in “federal prose” may be distinctly translated both into traditional English and into this Samoyed language. Federal prose: (1) John and Peter, (2) John or Peter, (3) John and/ or Peter will come. Traditional English: (3) John and Peter or one of them will come. Samoyed: (1) John and/ or Peter, both will come, (2) John and/ or Peter, one of them will come.

If some grammatical category is absent in a given language, its meaning may be translated into this language by lexical means. Dual forms like Old Russian brata are


 

questa lingua. Tale operazione “metalinguistica” permette la revisione e la ridefinizione del vocabolario usato. La complementarità di entrambi i livelli – linguaggio-oggetto e metalinguaggio – è stata messa in luce da Niels Bohr: ogni evidenza sperimentale ben definita deve essere espressa nella lingua ordinaria, «nella quale l’uso pratico di ogni parola sta in una relazione complementare con i tentativi della sua rigida definizione» (Bohr 1948).

Tutta l’esperienza cognitiva e la sua classificazione è trasponibile in qualsiasi lingua esistente. Quando vi sia una deficienza, è possibile qualificare e amplificare la terminologia mediante prestiti o traduzioni di prestiti, mediante neologismi o cambiamenti semantici e, infine, mediante circonlocuzioni. Così, nella neonata lingua letteraria dei ciukci della Siberia nordorientale, «vite» diventa «chiodo rotante», «acciaio» «ferro duro», «latta» «ferro sottile», «gesso» «sapone che scrive», «orologio» «cuore martellante». Persino le circonlocuzioni apparentemente contraddittorie, come «tram a cavalli elettrico» («èlektričeskaja konka»), il primo nome russo del tram senza cavalli, o «nave a vapore volante» («jena paragot»), il termine coriaco per l’aeroplano, designano semplicemente l’analogo elettrico del tram a cavalli e l’analogo volante della nave a vapore e non impediscono la comunicazione, allo stesso modo in cui non c’è “rumore” semantico o disturbo nel doppio ossimoro «cold beef-and-pork hot dog».

Nessuna categoria grammaticale mancante nella lingua verso la quale si traduce rende impossibile una traduzione letterale dell’intera informazione concettuale contenuta nell’originale. Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o], ora sono state integrate da un nuovo connettivo – «and/or» [e/o] – di cui si è discusso qualche anno fa con arguzia nel libro Federal Prose – How to write in and/or for Washington (Masterson, Wendell Brooks 1948). Di queste tre congiunzioni, in una lingua samoieda esiste solo l’ultima (Bergsland 1949). Nonostante le differenze nell’inventario delle congiunzioni, tutte e tre le varietà di messaggi osservate nella “prosa federale” possono essere tradotte distintamente sia verso l’inglese tradizionale sia verso la lingua samoieda in questione. Prosa federale: 1) John and Peter, 2) John or Peter, 3) John and/or Peter will come. Inglese tradizionale: 3) John and Peter or one of them will come. Samoiedo: 1) John e/o Peter verranno entrambi, 2) John e/o Peter, uno dei due verrà.

Se una data lingua manca di una categoria grammaticale, il suo significato si può tradurre in questa lingua con mezzi lessicali. Le forme duali come «brata» in russo

translated with the help of the numeral: “two brothers.” It is more difficult to remain faithful to the original when we translate into a language provided with a certain grammatical category from a language devoid of such a category. When translating the English sentence She has brothers into a language which discriminates dual and plural, we are compelled either to make our own choice between two statements “She has two brothers”—“She has more than two” or to leave the decision to the listener and say: “She has either two or more than two brothers.” Again, in translating from a language without grammatical number into English, one is obliged to select one of the two possibilities—brother or brothers or to confront the receiver of this message with a two-choice situation: She has either one or more than one brother.

As Franz Boas neatly observed, the grammatical pattern of a language (as opposed to its lexical stock) determines those aspects of each experience that must be expressed in the given language: “We have to choose between these aspects, and one or the other must be chosen” (Boas 1938). In order to translate accurately the English sentence I hired a worker, a Russian needs supplementary information, whether this action was completed or not and whether the worker was a man or a woman, because he must make his choice between a verb of completive or noncompletive aspect—nanjal or nanimal—and between a masculine and feminine noun—rabotnika or rabotnicu. If I ask the utterer of the English sentence whether the worker was male or female, my question may be judged irrelevant or indiscreet, whereas in the Russian version of this sentence an answer to this question is obligatory. On the other hand, whatever the choice of Russian grammatical forms to translate the quoted English message, the translation will give no answer to the question of whether I hired or have hired the worker, or whether he/she was an indefinite or definite worker (a or the). Because the information required by the English and Russian grammatical pattern is unlike, we face quite different sets of two-choice situations; therefore a chain of translations of one and the same isolated sentence from English into Russian and vice-versa could entirely deprive such a message of its initial content. The Geneva linguist S. Karcevskij used to compare such a gradual loss with a circular series of unfavorable currency transactions. But evidently the richer the context of a message, the smaller the loss of information.

antico si traducono con l’aiuto dei numerali: «due fratelli». È più difficile restare fedeli all’originale quando si traduce verso una lingua che dispone di una certa categoria grammaticale da una lingua che manca di tale categoria. Traducendo la frase inglese «She has brothers» verso una lingua che distingue duale e plurale siamo costretti a scegliere tra due affermazioni: «Lei ha due fratelli» – «Lei ha più di due fratelli» oppure a lasciare la decisione a chi ascolta e dire «Lei ha due o più fratelli». Ancora, traducendo da una lingua priva della categoria grammaticale del numero verso l’inglese si è costretti a selezionare una delle due possibilità, «brother» [fratello] o «brothers» [fratelli], o a mettere il ricevente di questo messaggio di fronte a una situazione di ambiguità: «She has either one or more than one brother» [Lei ha uno o più fratelli].

Come ha acutamente osservato Boas, il modello grammaticale di una lingua (diversamente dal suo bagaglio lessicale) determina quali aspetti di ogni esperienza devono essere espressi in quella data lingua: «Dobbiamo scegliere tra questi aspetti, e uno o l’altro va scelto» (Boas 1938). Per tradurre correttamente la frase inglese «I hired a worker» [Ho assunto un/ un’ operaio/ a] a un russo occorrono altre informazioni: se questa azione è stata completata o no e se l’operaio era uomo o donna, perché deve effettuare la scelta tra un verbo di aspetto perfettivo o imperfettivo – «nanjal» o «nanimal» – e tra un nome maschile o femminile –  «rabotnika» o «rabotnicu». Se chiedessi a chi ha pronunciato la frase inglese se l’operaio in questione era un uomo o una donna, la mia domanda potrebbe essere reputata irrilevante o indiscreta, mentre nella versione russa di questa frase una risposta a questa domanda è d’obbligo. D’altro canto, qualunque sia la scelta delle forme grammaticali russe per tradurre il messaggio inglese in questione, la traduzione non darà risposta alla domanda se «I hired» o «I have hired» il lavoratore, o se lui/ lei era una persona indefinita o definita («a» [un/ un’] o «the» [il/ l’]). Dato che le informazioni richieste dal modello grammaticale inglese e russo sono diverse, ci troviamo di fronte a sequenze completamente discordanti di situazioni ambigue; perciò più traduzioni a catena di una stessa frase dall’inglese verso il russo e viceversa potrebbero svuotare completamente del contenuto iniziale un messaggio del genere. Il linguista ginevrino S. Karcevski paragonò questa perdita graduale a una serie circolare di transazioni finanziarie sfavorevoli. Ma evidentemente, più è ricco il contesto di un messaggio, minore è la perdita di informazioni.


 

Languages differ essentially in what they must convey and not in what they can convey. Each verb of a given language imperatively raises a set of specific yes-or-no questions, as for instance: is the narrated event conceived with or without reference to its completion? is the narrated event presented as prior to the speech event or not? Naturally the attention of native speakers and listeners will be constantly focused on such items as are compulsory in their verbal code.

In its cognitive function, language is minimally dependent on the grammatical pattern because the definition of our experience stands in complementary relation to metalinguistic operations—the cognitive level of language not only admits but directly requires recoding interpretation, that is, translation. Any assumption of ineffable or untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms. But in jest, in dreams, in magic, briefly, in what one would call everyday verbal mythology, and in poetry above all, the grammatical categories carry a high semantic import. In these conditions, the question of translation becomes much mare entangled and controversial.

Even such a category as grammatical gender, often cited as merely formal, plays a great role in the mythological attitudes of a speech community. In Russian the feminine cannot designate a male person, nor the masculine specify a female. Ways of personifying or metaphorically interpreting inanimate nouns are prompted by their gender. A test in the Moscow Psychological Institute (1915) showed that Russians, prone to personify the weekdays, consistently represented Monday, Tuesday, and Thursday as males and Wednesday, Friday, and Saturday as females, without realizing that this distribution was due to the masculine gender of the first three names (ponedel’nik, vtornik, četverg) as against the feminine gender of the others (sreda, pjatnica, subbota). The fact that the word for Friday is masculine in some Slavic languages and feminine in others is reflected in the folk traditions of the corresponding peoples, which differ in their Friday ritual. The widespread Russian superstition that a fallen knife presages a male guest and a fallen fork a female one is determined by the masculine gender of nož (knife) and the feminine of

Le lingue differiscono essenzialmente in ciò che devono esprimere e non in ciò che possono esprimere. Ogni verbo di una data lingua pone imperativamente una serie di domande che prevedono le risposte sì o no, come per esempio: l’evento narrato è concepito facendo riferimento al suo compimento oppure no? L’evento narrato è presentato come antecedente all’atto discorsuale oppure no? Naturalmente l’attenzione sia attiva che passiva dei madrelingua è costantemente focalizzata sulle parti obbligatorie nel loro codice verbale.

Nella sua funzione cognitiva la lingua dipende solo in minima parte dal modello grammaticale perché la definizione della nostra esperienza è in relazione complementare alle operazioni metalinguistiche – il livello cognitivo della lingua non solo ammette, ma richiede immediatamente un’interpretazione ricodificante, e cioè, una traduzione. Qualsiasi presunzione di ineffabilità o intraducibilità dei dati cognitivi sarebbe una contraddizione in termini. Ma negli scherzi, nei sogni, nella magia, insomma, in ciò che si potrebbe chiamare mitologia verbale quotidiana e soprattutto nella poesia, le categorie grammaticali hanno una forte rilevanza semantica. In queste condizioni, la questione della traduzione diventa molto più intricata e controversa.

Anche una categoria come il genere grammaticale, spesso ritenuta meramente formale, riveste un ruolo importante negli atteggiamenti mitologici di una comunità discorsuale. In russo il femminile non può designare una persona di sesso maschile, né il maschile può specificare una persona di sesso femminile. I modi di personificare o interpretare metaforicamente nomi inanimati sono suggeriti dal genere. Uno studio condotto presso l’Istituto psicologico di Mosca (1915) ha mostrato che i russi, inclini a personificare i giorni della settimana, rappresentavano costantemente il lunedì, il martedì e il giovedì come maschi e il mercoledì, il venerdì e il sabato come femmine, senza rendersi conto che questa distinzione fosse dovuta al genere maschile dei primi tre nomi («ponedel’nik», «vtornik», «četverg») e, al contrario, al genere femminile degli altri («sreda», «pjatnica», «subbota»). Il fatto che la parola che sta per «venerdì» sia maschile in alcune lingue slave e femminile in altre si riflette nelle tradizioni folcloriche dei popoli corrispondenti, che differiscono nel rituale del venerdì. La diffusa superstizione russa secondo cui un coltello che cade è presagio di un ospite maschile e una forchetta che cade di uno femminile è determinata dal genere maschile di «nož» (coltello) e da quello

vilka (fork) in Russian. In Slavic and other languages where “day” is masculine and “night” feminine, day is represented by poets as the lover of night. The Russian painter Repin was baffled as to why Sin had been depicted as a woman by German artists: he did not realize that “sin” is feminine in German (die Sünde), but masculine in Russian (grex). Likewise a Russian child, while reading a translation of German tales, was astounded to find that Death, obviously a woman (Russian smert’, fem.), was pictured as an old man (German der Tod, masc.). My Sister Life, the title of a book of poems by Boris Pasternak, is quite natural in Russian, where “life” is feminine (žizn’), but was enough to reduce to despair the Czech poet Josef Hora in his attempt to translate these poems, since in Czech this noun is masculine (život).

What was the initial question which arose in Slavic literature at its very beginning? Curiously enough, the translator’s difficulty in preserving the symbolism of genders, and the cognitive irrelevance of this difficulty, appears to be the main topic of the earliest Slavic original work, the preface to the first translation of the Evangeliarium, made in the early 860s by the founder of Slavic letters and liturgy, Constantine the Philosopher, and recently restored and interpreted by A. Vaillant (Vaillant 1948). “Greek, when translated into another language, cannot always be reproduced identically, and that happens to each language being translated,” the Slavic apostle states. “Masculine nouns like potamos ‘river’ and astēr ‘star’ in Greek, are feminine in another language like rěka and zvězda in Slavic.” According to Vaillant’s commentary, this divergence effaces the symbolic identification of the rivers with demons and of the stars with angels in the Slavic translation of two of Matthew’s verses (7:25 and 2:9). But to this poetic obstacle, Constantine resolutely opposes the precept of Dionysius the Areopagite, who called for chief attention to the cognitive values (silě razumu) and not to the words themselves.

In poetry, verbal equations become a constructive principle of the text. Syntactic and morphological categories, roots, and affixes, phonemes and their components (distinctive features)—in short, any constituents of the verbal code—are confronted, juxtaposed, brought into contiguous relation according to the principle of similarity and contrast and carry their own autonomous signification.


 

femminile di «vilka»  (forchetta) in russo. Nelle lingue slave e nelle altre in cui «giorno» è maschile e «notte» è femminile, il giorno è rappresentato dai poeti come l’amante della notte. Il pittore russo Repin era perplesso di fronte al fatto che Peccato fosse stato raffigurato dagli artisti tedeschi come una donna: non si era reso conto che «peccato» è femminile in tedesco («die Sünde»), ma maschile in russo («grex»). Similmente, un bambino russo, leggendo alcune fiabe tedesche tradotte, si stupì nel vedere che Morte, ovviamente una donna (in russo «smert’», femm.) fosse ritratta come un vecchio (in tedesco «der Tod», masch.). Mia sorella la vita, il titolo di un libro di poesie di Boris Pasternak, è del tutto naturale in russo, dove «vita» è femminile («žizn’»), ma bastò per portare alla disperazione il poeta ceco Josef Hora nel tentativo di tradurre queste poesie, dal momento che in ceco questo nome è maschile («život»).

Quale fu il primo problema che emerse nella letteratura slava ai suoi albori? Piuttosto curiosamente, la difficoltà del traduttore nel preservare il simbolismo dei generi, e l’irrilevanza cognitiva di questa difficoltà, sembrano essere l’argomento principale della prima opera originale slava, la prefazione alla prima traduzione dell’Evangeliario, fatta poco dopo l’860 dal fondatore delle lettere e della liturgia slava, Costantino il Filosofo, e recentemente riportata alla luce e interpretata da André Vaillant (Vaillant 1948). «Il greco, quando è tradotto verso un’altra lingua, non si può sempre riprodurre in modo identico, e questo accade a ogni lingua che viene tradotta» afferma l’apostolo del mondo slavo. «I nomi maschili in greco come “potamos” (fiume) e “aster” (stella) sono femminili in un’altra lingua come “rěka” e “zvězda” in slavo». Secondo il commentario di Vaillant, questa divergenza cancella l’identificazione simbolica dei fiumi con i demoni e delle stelle con gli angeli nella traduzione slava di due versi di Matteo (7:25 e 2:9). Ma a questo ostacolo poetico, Costantino oppone con risolutezza il precetto di Dionigi l’Areopagita, che richiamava l’attenzione principale sui valori cognitivi («silě razumu») e non sulle parole stesse.

In poesia, le equazioni verbali diventano un principio costitutivo del testo. Le categorie sintattiche e morfologiche, le radici, e gli affissi, i fonemi e i loro componenti (tratti distintivi) – in breve, qualsiasi cosa costituisca il codice verbale – vengono confrontati, giustapposti, messi in relazioni contigue secondo il principio della somiglianza e del contrasto e sono dotati di una loro significazione autonoma. La

Phonemic similarity is sensed as semantic relationship. The pun, or to use a more erudite, and perhaps more precise term—paronomasia, reigns over poetic art, and whether its rule is absolute or limited, poetry by definition is untranslatable. Only creative transposition is possible: either intralingual transposition—from one poetic shape into another, or interlingual transposition—from one language into another, or finally intersemiotic transposition—from one system of signs into another, (from verbal art into music, dance, cinema, or painting).

If we were to translate into English the traditional formula Traduttore, traditore as “the translator is a betrayer,” we would deprive the Italian rhyming epigram of all its paronomastic value. Hence a cognitive attitude would compel us to change this aphorism into a more explicit statement and to answer the questions: translator of what messages? betrayer of what values?

 

 

 

Written in 1958 in Cambridge, Mass., and published in the book On Translation (Harvard University Press, 1959).


 

somiglianza fonemica è percepita come relazione semantica. Il gioco di parole, o per usare un termine più erudito, e forse più preciso, la paronomasia, regna sull’arte poetica, e, che il suo dominio sia assoluto o limitato, la poesia è per definizione intraducibile. Solo una trasposizione creativa è possibile: la trasposizione intralinguistica – da una forma poetica in un’altra, o la trasposizione interlinguistica – da una lingua in un’altra – o infine la trasposizione intersemiotica – da un sistema segnico in un altro (dall’arte verbale alla musica, alla danza, al cinema o alla pittura).

Se dovessimo tradurre verso l’inglese la formula tradizionale italiana «Traduttore traditore» come «The translator is a betrayer» priveremmo l’epigramma in rima di tutto il suo valore paronomastico. Quindi, un atteggiamento cognitivo ci costringerebbe a trasformare questo aforisma in un’affermazione più esplicita e a rispondere alle domande: traduttore di quali messaggi? Traditore di quali valori?

 

 

 

Scritto a Cambridge, Mass., nel 1958, e pubblicato nel volume On translation (Harvard University Press, 1959).


 

Language and Culture

The two speeches which have just been delivered are the first lectures in Japanese which I have heard in my life, and I shall tell you exactly what my feeling was. Around 1910, in my Moscow high-school years, I saw and heard a remarkable Japanese actress from Tokyo, Hanako. She ravished the Russian audience, was extolled by avant-garde writers and sketched by modern painters. I was deeply impressed by her performance and recounted to my parents her talks and monologues. Surprised by their question — “But what was her language?” — I answered, “Of course, it was Japanese, but we did understand it.” This is exactly what I can add to the clear-cut assertion of Professor Tsurumi.

What is needed in order to grasp the language of another? — One must have a keen feeling of intelligibility, an intuition of solidarity between the speaker and listener, and their joint belief in the capability of the message to go through, a capability which, in Russian, has found a felicitous label, doxodčivost’. If one longs for communication with his fellow man, the first step toward mutual comprehension is ensured. Because what is language? Language is overcoming of isolation in space and time. Language is a struggle against isolationism. And this fight occurs not only within the limits of an ethnic language, where people try to adjust to each other, and to understand each other within the bounds of family, town, or country; a similar striving also takes place on a bilingual or multilingual, international scale. One feels a powerful desire to understand each other. A palpable specimen is the example of neighboring Norwegian and Russian fishermen, who, during decades, or perhaps even centuries, met together for joint work and thus elaborated a common language which was called — Russians thought the label is Norwegian, and Norwegians, that this term is Russian — briefly, the common verbal code was named moyapåtvoya, which, in a Scandinavian shaping of Russian, means “mine in your way”. This may serve as a foreword to the topic of my paper.

Four decades ago, when the First International Congress of Linguists met in The Hague, all of us were struggling for the autonomy of linguistics, namely for the elaboration of its own specific methods and devices, and the very important task was to

Lingua e cultura

I due discorsi appena tenuti sono le prime conferenze in giapponese che io abbia mai ascoltato in vita mia, e vi dirò esattamente che sensazione ho provato. Attorno al 1910, all’epoca in cui frequentavo le scuole superiori a Mosca, ho visto e sentito parlare una notevole attrice giapponese di Tokio, Hanako. Rapì il pubblico russo, fu lodata da alcuni scrittori d’avanguardia e alcuni pittori moderni ne fecero degli schizzi. Io fui profondamente colpito dal suo spettacolo e ne raccontai discorsi e monologhi ai miei genitori. Sorpreso dalla loro domanda – «Ma in che lingua parlava?» – risposi: «In giapponese, naturalmente, ma lo capivamo». Questo è esattamente ciò che posso aggiungere all’affermazione esplicita del Professor Tsurumi.

Che cosa serve per cogliere la lingua altrui? – Bisogna sentire con chiarezza che c’è intelligibilità, intuire la solidarietà tra chi parla e chi ascolta e credere insieme che il messaggio possa passare, potenzialità che, in russo, ha trovato una definizione felice, «doxodčivost». Se si desidera comunicare con un altro essere umano, il primo passo verso la comprensione reciproca è assicurato. Perché, che cos’è il linguaggio? Il linguaggio è la vittoria sull’isolamento nello spazio e nel tempo. Il linguaggio è una lotta contro l’isolazionismo. E questa battaglia non avviene solo all’interno dei limiti di una lingua etnica, dove le persone provano ad adattarsi le une alle altre, e a capirsi a vicenda all’interno dei confini della famiglia, della città o della nazione; una tensione simile ha luogo anche su scala internazionale, bilingue o multilingue. Si avverte un forte desiderio di capirsi reciprocamente. Un caso concreto è l’esempio dei pescatori confinanti della Russia e della Norvegia, che, per decenni, o forse anche secoli, si incontravano per lavorare insieme ed elaborarono così un linguaggio comune che fu chiamato – i russi pensavano che il nome fosse norvegese, e i norvegesi che il termine fosse russo – insomma, questo codice verbale comune fu chiamato «moyapåtvoya», che, in una distorsione scandinava del russo, significa «mio a modo tuo». Ciò potrebbe fungere da prefazione al tema del mio intervento.

Quarant’anni fa, in occasione del Primo congresso internazionale dei linguisti a L’Aia, tutti noi ci battemmo per l’autonomia della linguistica, e cioè per l’elaborazione di tecniche e metodi specifici, e il compito più importante era quello di trovare e mostrare


 

find out  and to show where are the boundaries of linguistic science and what are the questions to which linguists must, and only linguists actually can, give an answer. Now, when we are near to the Tenth Congress of Linguists, which will begin in Bucharest at the end of this August, we stand before a completely different problem. At present, it is no longer the slogan of autonomy, but a program of integration, a plan of interdisciplinary relations, the problem of creative cooperation between diverse sciences. It is the problem of harmonious coordination for constructing a joint scientific domain, a science of mankind, and — in a far wider scope — a general science of life. Of course, integration implies autonomy, but, as it was once more neatly emphasized here by my dear friend, Professor Shirô Hattori, integration implies autonomy and excludes isolationism, because any isolationism harms our cultural life and our life in general. Obviously, there is no real integration without an autonomy which takes into account the necessity of intrinsic laws for every partial field and every discipline. There is another foe of these two creative ideas, autonomy and integration. The other dread enemy beside isolationism is heteronomy, or — if you permit me to translate this somewhat technical term into the vocabulary currently used by the newspapers — it is “colonialism” that we have to combat. Autonomy and integration: always welcome; isolationism and colonialism: henceforth inadmissible.

Now, what is the problem of language and culture? These two concepts are to be viewed in their interconnection. Then, first and foremost, what should we have in mind: language and culture or language in culture? Can we consider language as a part, as a constituent of culture, or is language something different, separate from culture? I know, many in the audience would like to ask: well, but how would one define culture? There are so many definitions, and an entire voluminous book was devoted by two outstanding American anthropologists, Kluckhohn and Kroeber, to the multifarious definitions of culture, their detailed list and discussion (Kluckhohn, Kroeber 1952). We may choose a very simple, operational definition, proposed in the instructive book Human Evolution by the biologist Campbell: “Culture is the totality of behavior patterns that are passed between generations by learning, socially determined behavior learned by imitation and instruction” (Campbell 1967). I think, one can agree with this emphasis on imitation and


dove fossero i confini della linguistica e quali fossero le domande alle quali i linguisti devono, e a cui di fatto solo i linguisti possono, dare una risposta. Ora che siamo vicini al «Decimo congresso dei linguisti», che comincerà a Bucarest alla fine di agosto, ci troviamo di fronte a un problema completamente diverso. Oggi non c’è più lo slogan dell’autonomia, ma un programma di integrazione, un progetto di relazioni interdisciplinari, il problema della cooperazione creativa tra scienze diverse. È il problema di un coordinamento armonioso per costruire un campo scientifico comune, una scienza dell’umanità, e – in un’ottica molto più vasta – una scienza generale della vita. Naturalmente l’integrazione implica l’autonomia, ma, come è già stato enfatizzato una volta con più decisione da un mio caro amico, il Professor Shirô Hattori, l’integrazione implica l’autonomia ed esclude l’isolazionismo, perché qualunque tipo di isolazionismo nuoce alla nostra vita culturale e alla nostra vita in generale. Ovviamente non c’è vera integrazione senza un’autonomia che tenga in considerazione la necessità di leggi intrinseche a ogni ramo parziale e a ogni disciplina. C’è un altro rivale di queste due idee creative, autonomia e integrazione. L’altro acerrimo nemico insieme all’isolazionismo è l’eteronimia, o – se mi consentite di tradurre questo termine, piuttosto tecnico, nel vocabolario usato normalmente dai giornali – è il “colonialismo” che va combattuto. Autonomia e integrazione: sempre gradite; isolazionismo e colonialismo: d’ora in poi inammissibili.

Ma qual è il problema della lingua e della cultura? Questi due concetti devono essere visti nelle loro reciproche relazioni. Inoltre, prima di tutto, che cosa dobbiamo avere in mente? Lingua e cultura o lingua nella cultura? Possiamo considerare la lingua come una parte, un costituente della cultura, o la lingua è qualcosa di diverso, di separato dalla cultura? Lo so, molti tra il pubblico vorrebbero chiedere: sì, ma come si potrebbe definire la cultura? Ne esistono tantissime definizioni, e due antropologi americani, Kluckhohn e Kroeber, hanno dedicato un intero volume alle molteplici definizioni di cultura, al loro elenco dettagliato e alla loro discussione (Kluckhohn, Kroeber 1952). Potremmo scegliere una definizione molto semplice e operativa, proposta nell’istruttivo libro Storia Evolutiva dell’uomo del biologo Campbell: «La cultura è la totalità dei modelli comportamentali trasmessi per apprendimento di generazione in generazione, un comportamento socialmente determinato appreso per imitazione e istruzione» (Campbell 1967). Penso


 

instruction as the basic cultural devices. But there is one gap in the passage cited and Professor Tsurumi’s lecture showed what the gap is: the diffusion of culture takes place not only in time but also in space. Learned solidarity of contemporaries cannot be disregarded. Yet if we accept the standpoint that cultural values are transmitted by learning, then what is to be said about language? Is it a cultural fact? Evidently language is transmitted by learning, and of course the acquisition of the child’s first language implies a learning contact between the infant and his parents or adults in general. If, moreover, one has to learn a second or further language, it requires a relation between people who learn one from the other. Among the definitions of culture current in anthropological literature, we also find an assertion that the principal way of diffusion for cultural goods is through the word, through the medium of language. Does this statement apply also to language itself? Of course, language is learned through the medium of language, and the child learns new words by comparing them with other words, by identifying and differentiating the new and previously acquired verbal constituents. According to the precise formula of the great American thinker Charles Sanders Peirce, verbal symbol originates from verbal symbol. Such is the way of language development.

If we define language as a cultural phenomenon, a very serious question immediately arises. In culture, we deal with the relevant notion of progress. I hardly need to add that any idea of straightforward progress is a bewildering oversimplification. We find most various and whimsical curves, and if we confront, for instance, the poetry of Dante and the pictorial masterpieces of the Italian 14th and 15th centuries with Italy’s poetry or art of the recent epochs, we could hardly view the 19th century as thoroughly advanced in comparison with works of the trecento. Many other striking examples could be adduced. When contemplating the fascinating Franco-Cantabrian cave paintings of beasts and hunters produced in the paleolithic period, sometimes we cannot but state how much more impressive and monumental they are than the so-called realistic canvases of modern Europe, and, in particular, the official art of its authoritarian powers. These observations, however, do not imply any denial of progress. In the history of art, we deal


 

che si possa essere d’accordo con l’enfasi posta sull’imitazione e sull’istruzione come meccanismi culturali di base. Ma c’è una lacuna nel passaggio citato e la conferenza del professor Tsurumi ha mostrato di quale lacuna si tratta: la diffusione della cultura ha luogo non solo nel tempo ma anche nello spazio. Non si può trascurare la solidarietà appresa dei contemporanei. Eppure, se accettiamo l’idea che i valori culturali si trasmettono per apprendimento, cosa dire allora della lingua? È un fatto culturale? È evidente che la lingua si trasmette per apprendimento e ovviamente l’acquisizione della prima lingua da parte del bambino implica un contatto di apprendimento tra il neonato e i genitori o gli adulti in generale. Se, inoltre, si deve imparare una seconda o ulteriore lingua, è necessaria una relazione tra persone che imparano le une dalle altre. Fra le definizioni di cultura diffuse nella letteratura antropologica, si dice anche che è attraverso la parola che si diffondono maggiormente le merci culturali, per mezzo della lingua. Questa affermazione vale anche per la lingua stessa? Certo, la lingua si impara per mezzo della lingua, e il bambino impara le parole nuove confrontandole con altre parole, identificando e differenziando i nuovi costituenti verbali e quelli precedentemente acquisiti. Secondo la precisa formulazione del grande pensatore americano Charles Sanders Peirce, il simbolo verbale si origina dal simbolo verbale. È questo il modo in cui avviene lo sviluppo della lingua.

Se definiamo la lingua come fenomeno culturale, sorge immediatamente una questione molto seria. Nella cultura si ha a che fare con l’importante concetto di progresso. Non c’è bisogno di aggiungere che qualsiasi idea di progresso diretto è una semplificazione eccessiva che può disorientare. Vi si trovano le curve più diverse e inaspettate, e se confrontiamo, per esempio, la poetica di Dante e i capolavori pittorici del Trecento e del Quattrocento italiano con la poesia e l’arte italiana delle epoche recenti, faremmo fatica a considerare l’Ottocento veramente avanzato rispetto alle opere del Trecento. E di esempi così lampanti se ne potrebbero citare molti altri. Quando si contemplano le affascinanti pitture rupestri franco-cantabriche di animali e cacciatori risalenti al paleolitico, qualche volta non possiamo far altro che constatare quanto siano più impressionanti e monumentali delle cosiddette tele realistiche dell’Europa moderna, e, in particolare, dell’arte officiale dei suoi poteri autoritari. Queste osservazioni, comunque, non implicano alcuna negazione del progresso. Nella storia dell’arte abbiamo a che fare


 

with a progressively developing differentiation, technical innovations, etc. Similar conclusions on gradual sophistication may be made in the history of sciences, where, likewise, no straightforward line of development can be admitted. For instance, I recollect what was said to me by the greatest specialist of our time in questions of hearing, Professor G. von Békésy, who experienced a lively pleasure when reading Latin acoustical treatises of the 16th and 17th centuries where, despite the immense technical progress of modern acoustics, he used to detect some ideas of a higher refinement; with an affable smile he added: “It is not at all surprising; Stradivarius was made, not today, but just then.” Similar things could be stated on diverse scientific, for example, linguistic problems; certain branches, especially semantics, were in some respects more deeply conceived and elaborated during the Middle Ages than at present. Nonetheless, we must not forget those general lines of development which lead us still farther and farther and open ever new vistas.

Now let us approach language itself. Vocabulary may become richer and more adapted to the newer and more complex culture. The same with phraseology and with the diversity and variability of verbal styles. But in the grammatical system, morphological and syntactic, and in the whole sound pattern, no progress whatever has been detected. We can compare languages of the most cultivated nations with those of the socalled primitive peoples and we observe analogies and parallels between the former and the latter both in their grammatical processes and concepts: morphological categories and subclasses; structure of phrases, clauses, and sentences. All attempts of diverse linguists to find here traces of progress, and divergences between peoples of different cultural levels in the grammatical and phonological structure of their languages remained vain.

Occasionally, the question was raised whether that Samoyed language which has only one conjunction, in correspondence with our two conjunctions “and” and “or”, does not reflect a more primitive ethnic mind. However, a written variety of American English has recently developed a synthetic conjunction “and/or”, which is often considered a quite useful cultural tool. Now let us discuss whether a language which has merely one conjunction “and/or” instead of our two conjunctions “and” and “or” is impoverished in


 

con una differenziazione che si sta progressivamente sviluppando, con innovazioni tecniche, eccetera. Si possono trarre conclusioni simili a proposito di una graduale sofisticazione nella storia delle scienze, dove, anche in questo caso, non si può ammettere un andamento diretto dello sviluppo. Per esempio, ricordo ciò che mi è stato detto dal maggior specialista del nostro tempo per le questioni di udito, il Professor G. von Békésy, che provava grande soddisfazione nel leggere i trattati latini di acustica del sedicesimo e diciassettesimo secolo in cui, a dispetto dell’immenso progresso tecnico dell’acustica moderna, individuava alcune idee di maggior raffinatezza; con un sorriso affabile aggiunse: «La cosa non sorprende affatto; lo Stradivari si faceva all’epoca, non oggi». Considerazioni simili si potrebbero fare a proposito di diversi problemi scientifici, per esempio linguistici. Alcune branche, soprattutto la semantica, erano sotto certi punti di vista concepite ed elaborate molto più a fondo durante il Medioevo di quanto non lo siano oggi. Eppure, non vanno dimenticate quelle linee di sviluppo generali che ci conducono ancora più lontano aprendoci prospettive sempre nuove.

Ora avviciniamoci alla lingua in senso stretto. Il vocabolario può diventare più ricco e adattarsi maggiormente a una cultura più nuova e più complessa. Vale lo stesso per la fraseologia e la diversità e variabilità degli stili verbali. Ma nel sistema grammaticale, morfologico e sintattico, e nell’intero schema sonoro, non è stato individuato nessun progresso. Possiamo mettere a confronto le lingue delle nazioni culturalmente più avanzate con quelle dei cosiddetti popoli primitivi e osservarne analogie e paralleli sia nei processi sia nei concetti grammaticali: le categorie e le sottoclassi morfologiche; la struttura di proposizioni e frasi. Tutti i tentativi di diversi linguisti di trovarvi tracce di progresso e divergenze tra popoli di diversi livelli culturali nella struttura grammaticale e fonologica delle loro lingue sono rimasti vani.

Ogni tanto qualcuno si è chiesto se quella lingua samoieda che dispone di una sola congiunzione corrispondente alle nostre due congiunzioni «and» [e] e «or» [o] non riflettesse una mente etnica più primitiva. Comunque, una varietà scritta di inglese americano ha di recente sviluppato una congiunzione sintetica «and/or» che è spesso considerata uno strumento culturale molto utile. Esaminiamo ora se una lingua che abbia una sola congiunzione «and/or» al posto delle nostre due congiunzioni «and» e «or» sia

its communicative means. Not at all! Everything can be expressed. If in this type of Samoyed language one says that “father and/or mother, one of them, will come”, we know that or is meant. If, however, the native says that “father and/or mother, both of them, will come”, then obviously and is the key: again, there is no annoying ambiguity in the message. The grammatical structure never does prevent the speaker from conveying the most complex and most exact information. If we venture to translate Albert Einstein’s or Bertrand Russell’s books into Bushmen or Gilyak languages, this task is perfectly achievable, whatever the grammatical structure of the given vernacular. Only its vocabulary must be enriched and adapted to the needs of a new scientific terminology. However, any new scientific or technical branch requires similar terminological reforms, adjustments, and innovations in languages of our civilization as well. Thus, for instance, such new fields as molecular genetics or quantum theory have generated their own, completely new dictionary, whereas the phonology, morphology, and syntax are pliable to any cultural need, with no request for modifications.

Still, there is the problem of explaining why no progress is seen in the phonological and grammatical structure of languages. The penetrating linguist Nikolaj Trubetzkoy told me once: “We should not forget that, in the age between two and five years, when we acquire the fundamentals of phonology and grammar, we do not belong to any adult culture, and the cultural level of the children’s environment plays no substantial role.” The primary orientation of infants tending to acquire the environmental language is directed towards linguistic universals. Here, we face the problem of universality in regard to languages. Yes, we search for a common language with our fellow men, and there is only one necessary prerequisite for finding a common language. Namely, we must apprehend that other human beings also speak a human language, and that, consequently, our languages are mutually translatable. Under these conditions, we may and must look for an actual accomplishment of the translation intended. Such a possibility vanishes only in the case when one of the virtual interlocutors does not realize that the other fellow is equally a human being. According to an old legendary story, after a shipwreck, the only white man who managed to reach a remote island was regarded by the natives as some kind of ape or demonic being. In either case, he was not suspected of mastering any


 

impoverita nei suoi mezzi comunicativi. Niente affatto! Si può esprimere tutto. Se in questo tipo di lingua samoieda si dice che «verrà il padre e/ o la madre, uno di loro» sappiamo che si intende «o». Se, invece, il madrelingua dice «verranno il padre e/ o la madre, entrambi» allora è evidente che la chiave è «e»: anche in questo caso non c’è alcuna fastidiosa ambiguità nel messaggio. La struttura grammaticale non impedisce mai al parlante di trasmettere l’informazione nel modo più complesso e più esatto. Se ci avventuriamo nella traduzione dei libri di Albert Einstein o Bertrand Russell nelle lingue boscimane o in gilyac, l’obiettivo è perfettamente raggiungibile qualunque sia la struttura grammaticale del vernacolo. Soltanto, il suo vocabolario deve essere arricchito e adattato alle necessità di una nuova terminologia scientifica. Del resto, qualsiasi nuova branca scientifica o tecnica richiede simili riforme, adattamenti, e innovazioni terminologiche anche nelle lingue della nostra civiltà. Così, per esempio, campi nuovi come la genetica molecolare o la teoria quantistica hanno generato i loro dizionari, completamente nuovi, mentre la fonologia, la morfologia e la sintassi si piegano a qualsiasi necessità culturale, senza richiedere alcuna modifica.

Eppure, occorre spiegare perché non si ravvisa alcun progresso nella struttura fonologica e grammaticale delle lingue. Il penetrante linguista Nikolaj Trubetzkoy una volta mi disse: «Non dovremmo dimenticare che, nell’età compresa tra i due e cinque anni, quando acquisiamo i fondamentali della fonologia e della grammatica, non apparteniamo a nessuna cultura adulta, e il livello culturale dell’ambiente che circonda i bambini non riveste un ruolo sostanziale». L’orientamento primario dei bambini che tendono ad acquisire la lingua ambientale è diretto verso gli universali linguistici. Qui ci troviamo di fronte al problema dell’universalità in relazione alle lingue. Sì, siamo alla ricerca di una lingua in comune con l’altro, e c’è un solo prerequisito necessario per trovare una lingua comune. E cioè, dobbiamo riconoscere che anche gli altri esseri umani parlano una lingua umana e che, di conseguenza, le nostre lingue sono mutuamente traducibili. In queste condizioni possiamo e dobbiamo cercare una realizzazione effettiva della traduzione desiderata. Tale possibilità svanisce solo nel caso in cui uno degli ipotetici interlocutori non comprenda che anche l’altro è un essere umano. Secondo una vecchia leggenda, dopo un naufragio, l’unico uomo bianco che riuscì a raggiungere un’isola remota fu visto dagli indigeni come una sorta di scimmione o di essere


 

intelligible language, and perished, unable to convince the aborigines that he, too, was a human being, and that, therefore, mutual comprehension was achievable.

We are faced with the fundamental fact and problem of the universally human and only human, command of language. Except in obviously pathological cases, all human beings, from their childhood, speak and understand speech. Nothing similar to human intercommunication exists outside mankind. This unique endowment must have some biological premises, namely, certain particular properties in the structure of the human brain. A further pertinent phenomenon has come to light. We observe a set of universal features in the structure of languages. Thus, all languages exhibit the same architectonic pattern, the same hierarchy of constituents from the smallest units to the widest, viz. from distinctive features and phonemes to morphemes, and from words to sentences. Any language whatever displays the same rules of implication and superposition, the same order alien to other sign systems. This structure of language turns it into an indispensable tool of thought and endows it with an imaginative and creative power. Language enables us to build ever new sentences and utterances, and to speak about things and events which are absent and remote in space and in time; to evoke nonexistent fictitious entities as well. The humane essence of language lies in the liberation of sayers and sayees from a confinement to the hic et nunc.

Now, when taking into account the universally human, and only human, nature of language, we must approach the question of boundaries between culture and nature; between cultural adaptation and learning on the one hand, and heredity, innateness on the other — briefly, to delimit nurture from nature. Once again, we are faced with one of the most intricate questions of present scholarship. It is necessary to realize and to remember that the absolute boundary which our forebears saw between culture and nature does not exist. Both nature and culture intervene significantly in the behavior of animals, and also in that of human beings. A leading expert in problems of animal behavior, the English zoologist W. H. Thorpe, showed us, on the basis of his own observations and experiments which were supported by the research of other specialists, that birds, for instance, finches, if totally isolated from all other birds even before emerging from the egg, and moreover,


 

demoniaco. In un caso o nell’altro, non si sospettò che padroneggiasse una lingua intellegibile, e morì, incapace di convincere gli aborigeni che anche lui era un essere umano e che, quindi, si poteva arrivare a una comprensione reciproca.

Ci troviamo di fronte al fatto e al problema fondamentale della padronanza universalmente umana, e solo umana, della lingua. Ad eccezione di casi ovviamente patologici, tutti gli esseri umani, fin dall’infanzia, parlano e comprendono il parlato. Non esiste nulla di simile alla comunicazione fra esseri umani al di fuori del genere umano. Questa dotazione unica deve avere alcune premesse biologiche, e cioè, alcune proprietà particolari che risiedono nella struttura del cervello umano. È emerso un ulteriore e pertinente fenomeno. Nella struttura del linguaggio è presente una serie di caratteristiche universali. Così, tutte le lingue presentano lo stesso schema architettonico: la stessa gerarchia di costituenti dalle unità più piccole a quelle più ampie, cioè dai caratteri distintivi e fonemi ai morfemi, e dalle parole alle frasi. Qualsiasi lingua presenta le stesse regole di implicazione e sovrapposizione, ordine che è estraneo a sistemi segnici di altro tipo. Questa struttura della lingua la trasforma in uno strumento indispensabile di pensiero e la dota di potere immaginifico e creativo. La lingua ci consente di costruire frasi ed enunciati sempre nuovi, e di parlare di cose ed eventi che sono assenti e lontani nello spazio e nel tempo; e anche di evocare entità fittizie inesistenti. L’essenza umana della lingua risiede nella liberazione di coloro che dicono e coloro ai quali è detto dalla reclusione nell’hic et nunc.

Ora, quando si prende in considerazione la natura universalmente umana, e solo umana, della lingua, bisogna affrontare la questione delle barriere tra cultura e natura; tra adattamento culturale e apprendimento da un lato, ed eredità e innatezza dall’altro – insomma, si devono delimitare «nurture» e «nature». Ancora una volta, siamo di fronte a una delle questioni più intricate della scienza contemporanea. È necessario comprendere e ricordare che la barriera netta che i nostri predecessori vedevano tra cultura e natura non esiste. Sia la natura sia la cultura intervengono in modo significativo nel comportamento degli animali, così come in quello degli esseri umani. Uno dei massimi esperti nei problemi di comportamento degli animali, lo zoologo inglese W. H. Thorpe, ci ha mostrato, sulla base delle sue stesse osservazioni e di esperimenti supportati dalle ricerche di altri specialisti, che gli uccelli, per esempio i fringuelli, se completamente  isolati da


 

if they are deafened after being hatched, still perform the inborn blueprint of the song proper to the habit of their species, or even to the “dialect” of the subspecies (Thorpe 1961; 1963). This is a really inborn inheritance. If these artificially isolated fledgelings, (on the condition that their hearing has not been injured), are introduced into the society of other finches, they find and imitate their tutors. No equality exists even in the song of finches: there are better and worse performances, and the fledgelings try to follow the best singers. They learn, and their song improves.

In my adolescence, I had the opportunity to observe nightingales of the Tula region. If there was a master nightingale in the surroundings, all other neighboring nightingales sought to imitate him and to sing the habitual song with its customary variations in the best and most expanded way. But, whatever happens, a nightingale performs nothing else than the nightingale’s native song, and if you put a nightingale nestling among birds of another species, he will still cling to his inborn pattern without any adaptation to the environment. It is quite different with human children. If deprived of the adults’ model, they will remain speechless, without any traces of ancestral verbal habits. What they received as a biological endowment from their ancestors is the ability to learn a language as soon as there is a model at their disposal. Any of the extant human languages may serve them as an efficient cultural model. I knew a Nordic girl who spent her early childhood in South Africa, surrounded by aborigines, whom her father, a Norwegian anthropologist, was investigating. She spoke Bantu so well that students of Bantu could use her as a perfect native informant. After the family’s return to Norway, if she at any time felt insulted by her parents, she retorted in the purest Bantu language.

We conclude that both components — nature and culture, inheritance and acculturation — are present, but that the hierarchy of both factors is different. It is primarily nature in animals; primarily culture, ergo learning, in human beings. Accordingly, how will we define the place of language? We must say that language is situated between nature and culture, and that it serves as a foundation of culture. We may go even further and state that language is THE necessary and substantial foundation of human culture.


 

tutti gli altri uccelli ancor prima di uscire dall’uovo, e assordati appena dopo la schiusa, riproducono lo schema innato del canto caratteristico del comportamento della loro specie, o perfino del “dialetto” della sottospecie (Thorpe 1961; 1963). Si tratta di un retaggio davvero innato. Se questi uccellini isolati artificialmente (a condizione che il loro udito non sia stato danneggiato) sono introdotti in un’altra società di fringuelli, trovano e imitano i loro istruttori. Non c’è uguaglianza neppure nel canto dei fringuelli: ci sono prestazioni migliori e peggiori, e gli uccellini tentano di seguire chi canta meglio. Man mano che imparano, il loro canto migliora.

Da adolescente ho avuto l’opportunità di osservare gli usignoli della regione di Tula. Se c’era un usignolo maestro nelle vicinanze tutti gli altri usignoli da quelle parti cercavano di imitarlo e di eseguire il solito canto con le consuete variazioni nel modo migliore e più esteso possibile. Ma, qualunque cosa accada, un usignolo non canta nient’altro se non il canto innato dell’usignolo, e se mettiamo una nidata di usignoli tra gli uccelli di un’altra specie, resterà comunque fedele al suo modello innato senza adattarsi in alcun modo all’ambiente. Nel caso dei bambini, la situazione è completamente diversa. Se privati del modello adulto, resteranno muti, senza alcuna traccia delle abitudini verbali ancestrali. Ciò che hanno ricevuto come dotazione biologica dai loro antenati è la capacità di imparare una lingua in presenza di un modello a loro disposizione. Qualsiasi lingua umana ancora esistente potrebbe fungere da efficace modello culturale. Ho conosciuto una ragazza nordica che ha passato i primi anni della sua infanzia in Sudafrica, circondata dagli aborigeni che suo padre, un antropologo norvegese, stava studiando. Parlava il bantu così bene che gli studiosi del bantu potevano servirsi di lei come perfetta informatrice nativa. Dopo il ritorno della famiglia in Norvegia, ogni volta che si sentiva mancare di rispetto dai genitori rispondeva nella più pura lingua bantu.

In conclusione, entrambe le componenti – natura e cultura, eredità e acculturazione – sono presenti, ma la gerarchia di ciascuno dei due fattori è diversa. È soprattutto la natura negli animali; soprattutto la cultura, quindi l’apprendimento, negli esseri umani. Di conseguenza, come definiremo la posizione della lingua? Va detto che la lingua risiede tra la natura e la cultura, e che funge da fondamento della cultura. Potremmo anche spingerci oltre e affermare che la lingua è IL fondamento necessario e sostanziale della cultura umana.


 

When we hear the exact translation of these statements into Japanese by such a connoisseur of the two languages involved as Professor Shigeo Kawamoto, once more we ascertain the wonderful possibility of transposing scientific propositions and, in general, any statement of a purely cognitive character from one language into another. We learn again that the whole problem consists in a subtle, rational adjustment of the lexical and phraseological inventory. And what about the grammatical pattern? Here we enter into a question which had been repeatedly raised and, at the beginning of the 19th century, was clearly formulated by the prominent philosopher of language, Wilhelm von Humboldt. The most challenging approach to this question has been developed by the inquisitive linguist Benjamin Lee Whorf (1897-1941), plunged in a search as to whether and to what degree differences in the grammatical structure of languages reflect various attitudes toward the universe and dissimilarities in the thought of given ethnic groups (Whorf 1956). Sometimes, such a quest for an interconnection between language and thought led to narrowly isolationist doctrines, claiming that divergences in linguistic structure predestine peoples to an inevitable failure to understand each other. It might be replied to these fallacies that in any intellectual ideational, cognitive activities, we are always positively able to overcome the, so to speak, idiomatic character of grammatical structure and to reach a complete mutual comprehensibility.

However, beside strictly cognitive activities, there exists, and plays a great role in our life, a set of phenomena which might be labeled “everyday mythology”, and which finds its expression in divagations, puns, jokes, chatter, jabber, slips of the tongue, dreams, reverie, superstitions, and, last but not least, in poetry. The grammatical patterning of language plays a significant and autonomous part in these various manifestations of such mythopoeia.

I shall limit myself to a few examples. Students whose native tongue has no grammatical division of nouns into those of feminine and those of masculine gender are inclined to believe that such a division is purely formal. They admit that in application to animates a concept of the two sexes seems to underlie and to justify the difference of the two classes in languages which distinguish the above-mentioned grammatical genders, and that in these cases, the grammatical distinction is understandable, although hardly necessary. But we are told that, in respect to inanimate nouns, the opposition of


 

Quando sentiamo la traduzione esatta di queste affermazioni in giapponese da un tale conoscitore delle due lingue coinvolte come il Professor Shigeo Kawamoto, ancora una volta constatiamo la meravigliosa possibilità di trasporre proposizioni scientifiche e, in generale, qualsiasi affermazione di carattere puramente cognitivo da una lingua in un’altra. Ancora una volta comprendiamo come l’intero problema consista in un adattamento sottile e razionale dell’inventario lessicale e fraseologico. E il modello grammaticale? Qui introduciamo una questione che è stata sollevata più volte, e, all’inizio dell’Ottocento, è stata formulata con chiarezza dall’importante filosofo del linguaggio Wilhelm von Humboldt. L’approccio più stimolante alla questione è stato sviluppato dall’intraprendente linguista Benjamin Lee Whorf (1897-1941), intento a indagare se e in quale misura le differenze nella struttura grammaticale della lingua riflettano i diversi atteggiamenti nei confronti dell’universo e le diversità nel pensiero di dati gruppi etnici (Whorf 1956). A volte, una tale ricerca delle interconnessioni tra lingua e pensiero conduce a dottrine strettamente isolazioniste, che pretendono che le divergenze nella struttura linguistica condannino le persone a un inevitabile insuccesso nel comprendersi a vicenda. A queste fallacie si potrebbe ribattere che in qualsiasi attività intellettuale, ideativa e cognitiva, siamo sempre positivamente capaci di superare il cosiddetto carattere idiomatico della struttura grammaticale e raggiungere una piena comprensibilità reciproca.

Però, oltre alle attività strettamente cognitive, esiste, e riveste un ruolo importante nella nostra vita, una serie di fenomeni che potremmo chiamare “mitologia quotidiana”, e che trova la sua espressione in divagazioni, giochi di parole, chiacchiere, pettegolezzi, lapsus, sogni, fantasticherie, superstizioni, e, da ultimo ma non per importanza, nella poesia. La schematizzazione grammaticale della lingua riveste un ruolo significativo e autonomo nelle diverse manifestazioni di questa mitopoiesi.

Mi limiterò a qualche esempio. Gli studiosi la cui lingua madre non ha la divisione grammaticale dei nomi in quelli di genere femminile e quelli di genere maschile sono inclini a pensare che tale divisione sia puramente formale. Ammettono che, se applicato a esseri animati, il concetto dei due sessi sembra sottolineare e giustificare la differenza delle due classi nelle lingue che distinguono i sopracitati generi grammaticali, e che, in questi casi, la distinzione grammaticale è comprensibile, seppure quasi superflua. Ma ci dicono che, quanto ai nomi inanimati, l’opposizione di femminile e maschile perde


 

feminines and masculines loses any semantic pertinence. Let us illustrate the latent semantic value of these opposites in such a language as Russian, where the division of all nouns into genders is a relevant grammatical process. About 1915, an experiment was made in the Moscow Psychological Institute with the purpose of investigating how the ability to personify inanimate objects and abstract notions works. Fifty people were asked whether they could attribute such a personal nature to the days of the week. Five people said that to them the question made no sense, and were asked to leave the hall. The other forty-five had to write down how they visualized any week-day. The results were that all saw Monday, Tuesday, and Thursday as males, and Wednesday, Friday, and Saturday as females. Most of them did not realize that the reason for this division lies in the fact that in Russian these first three words are masculine, while the other three are feminine.

There is a superstitious or jocular foretoken that is widespread in Russia: when a knife (designated by a masculine noun) falls off the dining table, a male visitor is to be expected, but when it happens to be a fork or a spoon, then — in view of their feminine names — a female is supposed to come. In verbal art, the category of grammatical genders creates most peculiar situations. When, in my childhood, I read Grimms’ folk tales in Russian translation, I asked my mother, “How is it possible that death is an old man while actually she is a woman?” In German, the word for death — der Tod — is masculine, whereas its Russian equivalent — smert’ — is feminine. The association between sex and gender even filters into figurative art. The Russian painter I. Repin reacted to a German picture of “Sin” represented as a naked woman by an angry remark: “What a stupidity; sin (Russian masculine grex) must be virile.” Yet for Germans, with their feminine die Sünde, a manlike image of sin looks perverted.

The question of genders causes trouble in the translation of poetry. A noted Czech poet and translator of Russian poetry, Josef Hora, once called me in Prague, and said, “I am going crazy. I have translated all the poems of Boris Pasternak’s book My Sister Life (Sestra moja žizn’), but I am unable to reproduce its title.” The word for life (žizn’) is feminine in Russian, but masculine in Czech (život). He felt that it was awkward to build an apposition between the feminine sister and the masculine name of life, or to substitute


 

qualsiasi pertinenza semantica. Illustriamo il valore semantico latente di questi opposti in una lingua come il russo, dove la divisione di tutti i nomi in generi è un processo grammaticale importante. Nel 1915 circa è stato condotto un esperimento presso l’Istituto psicologico di Mosca, nell’intento di indagare in che modo funzionasse la capacità di personificare oggetti inanimati e nozioni astratte. Fu chiesto a cinquanta persone se fossero in grado di attribuire una natura personale ai giorni della settimana. In cinque risposero che la domanda era per loro priva di senso, e a questi fu chiesto di lasciare il locale. Gli altri quarantacinque dovevano scrivere in che modo visualizzassero ciascun giorno della settimana. Il risultato fu che tutti vedevano il lunedì, il martedì e il giovedì come maschili, e il mercoledì, il venerdì e il sabato come femminili. La maggior parte di loro non si rese conto che la ragione di questa divisione risiede nel fatto che in russo le prime tre parole sono maschili, mentre le altre tre sono femminili.

In Russia è diffuso un presagio, per superstizione o per scherzo: quando un coltello (designato da un nome maschile) cade dalla tavola, ci si deve aspettare un ospite di sesso maschile, mentre quando a cadere sono una forchetta o un cucchiaio, a causa dei loro nomi femminili, dovrebbe arrivare una donna. Nell’arte verbale la categoria dei generi grammaticali crea situazioni molto peculiari. Quando, durante la mia infanzia, ho letto le fiabe dei fratelli Grimm nella traduzione russa, chiesi a mia madre: «Com’è possibile che la morte sia un vecchio quando in realtà è una donna?». In tedesco, la parola per morte – «der Tod» – è maschile, mentre il suo equivalente russo – «smert′» – è femminile. L’associazione tra sesso e genere traspare anche nelle arti figurative. Il pittore russo I. Repin, di fronte a una rappresentazione tedesca di «Peccato» raffigurato come una donna nuda, reagì con un’osservazione seccata: «Che sciocchezza; il peccato («grex» è il nome russo maschile) dev’essere virile». Eppure ai tedeschi, con il loro «die Sünde» femminile, un’immagine maschile del peccato sembra perversa.

La questione dei generi causa problemi nella traduzione poetica. Un noto poeta ceco e traduttore di poesie russe, Josef Hora, una volta mi chiamò a Praga e mi disse: «Sto impazzendo. Ho tradotto tutte le poesie del libro di Boris Pasternak Mia sorella la vita (Sestra moja žizn’), ma non riesco a riprodurne il titolo». La parola vita («žizn’») è femminile in russo, ma maschile in ceco («život»). Trovava che fosse goffo inserire un’apposizione tra il nome femminile sorella e il nome maschile di vita, o sostituire


 

Brother for Sister in Pasternak’s suggestive simile. I shall choose my last example from countless, equally embarassing, divergences. In the famous octet of one of the greatest German poets, Heinrich Heine, a fir tree, alone and surrounded by snow and darkness in the far north, dreams about a palm, also lonely in the parching heat of the south. In its German text, this succinct poem is full of lyrical, unquenchable longing and grief; the contrasting genders, the masculine Fichtenbaum and the feminine Palme, prompt an erotic symbolism. The latter vanishes upon translation into a language deprived of a similar grammatic division, and for instance, English renditions of these lines make an insipid, rhetorical impression. A different complication arises when the same poem is transposed into Russian, where the names of the two trees both belong to the feminine gender (sosna, pal’ma). Therefore, in the translation made even by such an artist of Russian verse as Lermontov, native readers feel a peculiar, let us say, sugary tinge. French readers and listeners are amused or bewildered by Heine’s octet when translated into their mother tongue, which calls both trees by masculine nouns: le pin, le palmier.

Such grammatical categories as genders obviously find a wide and multiplex employment in those varieties of language where poetic or emotive function prevails over strictly cognitive aims. But what is the role of grammatical categories in the ordinary, current language of our everyday life? How can we define the grammatical meanings which necessarily underlie those categories? The pathfinder of American linguistics and anthropology, Franz Boas (1858-1942), outlined the specific character of grammatical meanings, namely the fact that they are compulsory in our speech (Jakobson 1959). Speakers are obliged to make constant use of them. Russian distinguishes, for instance, the perfective aspect, which signalizes the completion of a given process, and the imperfective which does not. Any time a Russian verb is used, one must state whether the completion is meant, or only the process, with no regard to completion. And when such a binary selection is incessantly repeated, almost in every sentence or even clause, one has to deal with a similar choice. This constant repetitiveness furthers a latent readiness (Einstellung) to respond to the given alternative and develops a specific subliminal orientation of the speakers’ and listeners’ attention. A similar focusing of attention takes place in regard to genders.


 

«Sorella» con «Fratello» nella suggestiva similitudine di Pasternak. Sceglierò il mio ultimo esempio tra innumerevoli differenze, tutte ugualmente imbarazzanti. Nel famoso ottetto di uno dei più grandi poeti tedeschi, Heinrich Haine, un abete, solo e circondato da neve e tenebre all’estremo nord, sogna una palma, anch’essa sola nell’arida calura del sud. Nel testo tedesco questa succinta poesia è pervasa di desiderio, lirico e inappagabile, e di dolore; i generi contrastanti, il maschile «Fichtenbaum» e il femminile «Palme», suggeriscono un simbolismo erotico. Quest’ultimo svanisce in una traduzione verso una lingua priva di tale divisione grammaticale e, per esempio, le interpretazioni inglesi di questi versi danno un’impressione scialba e retorica. Una difficoltà ulteriore emerge quando si traspone la stessa poesia in russo, dove i nomi dei due alberi appartengono entrambi al genere femminile («sosna», «pal’ma»). Di conseguenza, anche nella traduzione di un artista della poesia russa come Lermontov, i lettori madrelingua sentono, per così dire, una punta di leziosità. I lettori e gli ascoltatori francesi restano divertiti o sorpresi dall’ottetto di Heine tradotto nella loro lingua madre, che chiama entrambi gli alberi con nomi maschili: «le pin», «le palmier».

Categorie grammaticali come i generi ovviamente trovano un ampio e molteplice impiego in quelle varietà della lingua in cui le funzioni poetica ed emotiva prevalgono sulle finalità strettamente cognitive. Ma qual è il ruolo delle categorie grammaticali nella lingua ordinaria e corrente della nostra vita quotidiana? Come possiamo definire i significati grammaticali che necessariamente stanno alla base di queste categorie? Il pioniere della linguistica e dell’antropologia in America, Franz Boas (1858-1942), ha delineato il carattere specifico dei significati grammaticali, cioè il fatto che sono obbligatori nel nostro discorso (Jakobson 1959). I parlanti sono costretti a farne un uso costante. Il russo distingue, per esempio, l’aspetto perfettivo, che segnala la compiutezza di un dato processo, e l’imperfettivo, che non lo segnala. Ogni volta che si usa un verbo russo, si deve esprimere se si intende l’azione compiuta, o solo il processo senza riferimenti al suo compimento. E quando tale selezione binaria è ripetuta incessantemente, quasi in ogni frase o addirittura in ogni proposizione, bisogna fare i conti con tale scelta. Questa ripetitività costante incoraggia una disposizione latente (Einstellung) a reagire alla data alternativa e sviluppa uno specifico orientamento subliminale dell’attenzione dei parlanti e degli ascoltatori. Una simile focalizzazione dell’attenzione entra in gioco anche rispetto ai generi.

Grammatically, languages do not differ in what they can and cannot convey. Any language is able to convey everything. However, they differ in what a language must convey. If I say in English (or correspondingly in Japanese) that “I spent last evening with a neighbor”, you may ask whether my companion was a male or a female, and I have the factual right to give you the impolite reply, “It is none of your business.” But if we speak French or German or Russian, I am obliged to avoid ambiguity and to say: voisin or voisine; Nachbar or Nachbarin; sosed or sosedka. I am compelled to inform you about the sex of my companion not by virtue of a higher frankness, openness, and informativeness of the given languages, but only because of a different distribution of the focal points imparting information in the verbal codes of diverse languages. If you translate the mentioned sentence from Japanese into German, and the context of this sentence remains unknown to you, then three binary selections, compulsory in German, but deprived of equivalents in the grammatical pattern of Japanese, viz. a selection between masculine and feminine, between singular and plural, and between the definite and indefinite article, constrain you to choose one of eight semantically distinct possibilities: mit dem Nachbar; mit einem Nachbar; mit den Nachbarn; mit Nachbarn; mit der Nachbarin; mit einer Nachbarin; mit den Nachbarinnen; mit Nachbarinnen. Of course, if the verbal context or the nonverbalized situation of the given sentence does not supply its translator with sufficient cues, the latter faces certain dilemmas. They disappear when the same sentence has to be translated from German into Japanese, which is devoid of such grammatical distinctions. On the other hand, similar complications arise also for a translator of a German or Russian text into Japanese, which, in turn, is rich in grammatical distinctions without equivalents in Western languages. The outlined difficulties almost come to naught when translating a scientific work written clearly, unambiguously, and with lucid contextual meanings of all its verbal constituents.

The case of poetic language is quite different. One might even say that a close, faithful translation of poetry is a contradiction in terms. What remains possible is a congenial transposition — a free, creative response of an English poet to a Russian or Japanese author, and vice versa — a performance essentially similar to an artful,


 

Grammaticalmente, le lingue non differiscono in ciò che possono o non possono esprimere. Qualsiasi lingua è in grado di esprimere tutto. Al contrario, differiscono in ciò che una lingua deve esprimere. Se dico, in inglese (o analogamente in giapponese): «I spent last evening with a neighbor», potreste chiedermi se la persona che era con me fosse maschio o femmina, e io ho il diritto di fatto di darvi la risposta sgarbata «Non è affar vostro». Ma se parliamo francese, tedesco o russo, sono obbligato a evitare l’ambiguità e dire: «voisin» o «voisine», «Nachbar» o «Nachbarin», «Sosed» o «Sosedka». Sono costretto a informarvi sul sesso della persona che era con me non in virtù di una maggiore franchezza, apertura e informatività di tali lingue, ma solo a causa di una distribuzione diversa dei punti focali che ripartiscono l’informazione nei codici verbali di lingue diverse. Se traducete la frase in questione dal giapponese al tedesco, e il contesto di questa frase resta a voi sconosciuto, tre selezioni binarie, obbligatorie in tedesco ma prive di equivalenti nel modello grammaticale giapponese, e cioè una selezione tra maschile e femminile, tra singolare e plurale, e tra articolo determinativo e indeterminativo, vi costringono a scegliere una delle otto possibilità semanticamente distinte: «mit dem Nachbar»; «mit einem Nachbar»; «mit den Nachbarn»; «mit Nachbarn»; «mit der nachbarin»; «mit einer nachbarin»; «mit den Nachbarinnen»; «mit Nachbarinnen». Naturalmente, se il contesto verbale o la situazione non-verbalizzata della data frase non forniscono al traduttore indizi sufficienti, quest’ultimo si trova di fronte a una serie di dilemmi. Questi spariscono quando la stessa frase deve essere tradotta dal tedesco al giapponese, che è privo di queste distinzioni grammaticali. D’altro canto, simili complicazioni emergono anche per un traduttore di un testo tedesco o russo verso il giapponese, che, a sua volta, è ricco di distinzioni grammaticali senza equivalenti nelle lingue occidentali. Le difficoltà evidenziate diventano quasi irrilevanti traducendo un’opera scientifica scritta in modo chiaro, senza ambiguità, e con lucidi significati contestuali di tutti i suoi costituenti verbali.

Nel caso del linguaggio poetico le cose sono completamente diverse. Qualcuno potrebbe persino dire che una traduzione accurata e fedele della poesia è una contraddizione in termini. Ciò che rimane possibile è una trasposizione congeniale – una risposta libera e creativa di un poeta inglese a un autore russo o giapponese, e viceversa – un’interpretazione essenzialmente simile a una trasposizione ingegnosa, artistica di una


 

ingenious transposition of a poem or novel into a painting, motion-picture, ballet, or a piece of music. On the futility of any literal translation of poetic works into another language, we find a charming Russian story recounted by the linguist A. Potebnja: when a Greek was weeping over a native song, and curious Russians asked him to translate it, he replied that it was about a tree with leaves on its branches and a singing bird among the leaves; he added, “It’s nothing when translated, but as long as I hear it in Greek, it makes me cry.”

Our discussion of language and culture would remain incomplete without a few concluding remarks on the culture of language. With the general development, growth, and differentiation of culture, a consistent and active attention to the culture of language in its various aspects becomes an ever more intricate, responsible, and pressing task, on which linguists must cooperate deliberately and systematically with creative writers and other efficient carriers of cultural activities. In particular, the manifold problems of language teaching and learning on its different levels demand a wise and influential intervention from linguistic science. Various questions of standardization also acquire a heightened significance, and we linguists are prompted by colleagues from diverse fields of science, for instance, physics, who realize the great instrumental role of language in scientific operations, and who envisage and welcome the decisive contribution to be brought by the science of language to an overall checking inquiry into the language of science. In this connection it is, indeed, appropriate once more to recollect Niels Bohr’s insistence on the complementarity between the formalized or semi formalized language of sciences, particularly physics, and the usual, natural language which is the final foundation, the root of such artificial superstructures. This interrelation necessitates a durable interdisciplinary work. People primarily involved in the science of language, in other words linguists, must undertake it in collaboration with those representatives of diverse sciences who pay careful attention to the make-up of the formalized languages used by the given disciplines.

As to the question of the first paper delivered today, the need and task of an international auxiliary language, we must state that this question or rather bundle of questions, which had been deliberately disregarded by most linguists and linguistic institutions of the late nineteenth century, are presently more and more discussed.


 

poesia o di un romanzo in un quadro, un film, una danza o un brano musicale. Sulla futilità di qualsiasi traduzione letterale di opere poetiche in un’altra lingua esiste una storia affascinante raccontata dal linguista A. Potebnja: un greco stava piangendo mentre ascoltava una canzone della sua terra e, quando alcuni russi incuriositi gli chiesero di tradurla, rispose che parlava di un albero con i rami ricoperti di foglie e di un uccello che cantava tra le foglie; aggiunse: «Tradotta non dice nulla, ma quando la sento in greco mi fa piangere».

La nostra discussione a proposito di lingua e cultura resterebbe incompleta senza qualche considerazione conclusiva sulla cultura della lingua. Con il generale sviluppo, la crescita e la differenziazione della cultura, un’attenzione costante e attiva verso la cultura della lingua nei suoi diversi aspetti diventa un compito sempre più intricato, carico di responsabilità e urgente, per il quale i linguisti devono collaborare deliberatamente e sistematicamente con scrittori e altri validi portatori di attività culturali. In particolare, i molteplici problemi dell’insegnamento e apprendimento della lingua nei suoi diversi livelli richiedono un vasto e influente intervento della scienza linguistica. Anche diverse questioni di standardizzazione diventano più significative, e noi linguisti siamo stimolati dai colleghi di campi scientifici diversi, per esempio la fisica, che comprendono il grande ruolo strumentale della lingua nelle operazioni scientifiche, e che prevedono e accolgono volentieri il contributo decisivo che la scienza del linguaggio porta a un’indagine globale di controllo sul linguaggio della scienza. A questo proposito, infatti, è appropriato ricordare ancora una volta l’insistenza di Niels Bohr sulla complementarità tra linguaggio delle scienze formalizzato o semi-formalizzato, in particolare la fisica, e la lingua abituale, naturale, che è il fondamento ultimo, la radice di tali sovrastrutture artificiali. Questa interrelazione necessita di un lavoro interdisciplinare duraturo. Chi è primariamente coinvolto nella scienza del linguaggio, in altre parole i linguisti, deve portarla avanti in collaborazione con quei rappresentanti di scienze diverse che prestano particolare attenzione alla composizione delle lingue formalizzate usate da tali discipline.

Tornando alla questione sollevata nel primo intervento di oggi, il bisogno e il compito di una lingua ausiliaria internazionale, bisogna dire che la questione, o piuttosto il groviglio di questioni che sono state deliberatamente trascurate dalla maggior parte dei linguisti e delle istituzioni linguistiche della fine del diciannovesimo secolo, sono oggi


 

Linguists see now, with an ever greater clarity, that the study of a language cannot stop at its limits, and that we are faced with the vital phenomenon of languages in contact. The further experience of linguistic science reveals that interlingual ties are not confined to a territorial contact, since, furthermore, there exists a cultural contact between languages, independent of geographical contiguity. Such contact becomes an ever stronger international and universalistic bent and force, both in cultural and in linguistic aspects.

 

 

 

First presented as a public lecture in Tokyo on July 27, 1967 and published in Sciences of Language (Tokyo), vol. 2, no. 3 (May 1972).


sempre più discusse. Ora i linguisti capiscono, con sempre maggior chiarezza, che lo studio di una lingua non può fermarsi davanti ai suoi limiti, e che ci troviamo di fronte al fenomeno vitale delle lingue a contatto. L’ulteriore esperienza della scienza linguistica rivela che i legami interlinguistici non si limitano al contatto territoriale, dato che, a maggior ragione, esiste un contatto culturale tra le lingue, indipendente dalla contiguità geografica. Tale contatto diventa una spinta e una forza internazionale e universalistica ancora più forte, tanto per gli aspetti linguistici quanto per quelli culturali.

 

 

 

Presentato per la prima volta in occasione di una conferenza tenuta a Tokyo il 27 luglio del 1967 e pubblicato in Sciences of Language (Tokyo), vol. 2, n° 3 (maggio 1972).


Riferimenti bibliografici

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JAKOBSON R. 1959 Boas’s View of Grammatical Meaning, in Jakobson R., Selected Writings, II, The Hague, Mouton.

KLUCKHOHN C., KROEBER, A. L. 1952 Culture: A Critical Review of Concepts and Definitions, in Kluckhohn C. e Kroeber A. Papers of the Peabody Museum of Harvard Archeology and Ethnology, Cambridge (Massachusetts), Museum Press.

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VAILLANT A. 1948 La Préface de l’Évangeliaire vieux-slave, in Vaillant A. Revue des Études Slaves, XXIV.

WHORF B. L. 1956 Language, Thought, and Reality, Cambridge (Massachusetss), The M.I.T. Press, 1956. Traduzione: Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Boringhieri, 1970.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Analisi traduttologica


 

2.1. Roman Jakobson:

un americano con l’indole dell’emigrato russo

Qualche anno fa un uomo piuttosto anziano e trasandato entrò in un negozio di scarpe, a Ostia. Lo accompagnava una signora con la quale conversava fittamente in francese. Quasi senza interrompere il filo del discorso, scelse un paio di scarpe, le infilò e, lasciate quelle vecchie al centro del negozio, se ne andò. L’uomo era Roman Jakobson, ma se qualcuno si fosse preso la briga di informare il proprietario del negozio o i clienti presenti circa l’identità di quell’eccentrico personaggio, avrebbe avuto in risposta, quasi sicuramente, uno sguardo interrogativo […] (Mauri 1986).

Poco importa se le cose siano andate davvero nel modo in cui sono raccontate in questo aneddoto apparso su Repubblica il 25 novembre del 1986. Certo è che Jakobson, notissimo agli uomini di cultura del mondo intero, non è mai stato, a rigor di termini, popolare. Per questo motivo, prima di procedere all’analisi traduttologica dei due saggi cui il presente elaborato intende dedicarsi, ritengo opportuno fornire una breve nota biografica per inquadrare meglio una figura tanto eccentrica quanto schiva.

Nato nel 1896 in una famiglia benestante di Mosca, a soli diciannove anni, ancora studente presso la facoltà di storia e filologia della sua città natale, fondò insieme ad altri sei colleghi il Circolo linguistico di Mosca, la cui missione, «the study of linguistics, poetics, metrics and folklore» (Jakobson 1965: 530), gettò le basi della riflessione contemporanea non solo sulla poesia, ma, più in generale, sulla parola, sulla lingua. Nel corso degli anni Venti il progetto subì una battuta d’arresto; il nuovo assetto politico sovietico fu all’origine della diaspora del gruppo. Jakobson si trasferì a Praga, e nel 1933 gli fu assegnata una cattedra all’Università di Brno, che mantenne fino al 1939. Nel 1926 rivestì un ruolo di primo piano nella fondazione del Circolo linguistico di Praga, istituzione che influenzò enormemente lo strutturalismo europeo e la linguistica angloamericana del secondo dopoguerra. Nel 1939 l’occupazione nazista della Cecoslovacchia costrinse Jakobson alla fuga: dapprima in Danimarca, poi in Norvegia, e infine, nel 1940, in Svezia. Nel 1941 arrivò a New York, e nel corso degli anni Quaranta insegnò presso la Columbia University e l’École Libre des Hautes Études, dove ebbe modo di conoscere il padre fondatore dello strutturalismo antropologico, Claude Lévi-Strauss. Nel 1949 gli fu assegnata una cattedra alla Harvard e nel 1957 approdò all’M.I.T. Gli anni trascorsi negli Stati Uniti, dal 1941 fino alla morte avvenuta a Boston nel 1982, furono senza dubbio i più fecondi per la sua produzione. Ma l’autore non abdicò mai alle sue origini russe, e chi lo ha frequentato in America racconta che «la sua casa, la sua tavola, persino il suo funerale, celebrato secondo il rito ortodosso, erano tutt’ altro che americani» (Mauri 1986). Jakobson conservò sempre l’indole dell’emigrato, e la formazione multietnica cui fu esposto per tutta la vita riecheggia nell’intera sua opera.

Negli anni, entrando in contatto con le personalità più influenti del mondo scientifico e letterario dell’epoca, i suoi interessi si moltiplicarono: studiò i disturbi del linguaggio, grazie alla frequentazione di neurologi e psichiatri, si dedicò al linguaggio infantile e contribuì alla fondazione di una serie di discipline destinate a svilupparsi nel corso dei decenni successivi. Mauri, nell’articolo menzionato, ne riassume l’intensissima attività con queste parole: «[…] l’ uomo che era partito dalla fondazione di una scienza della poesia, dedicandosi a profondi studi anche sulla metrica cinese, oltre che sul verso russo e cèco, era arrivato infine a cercare i tratti unitari, le concatenazioni, nella apparente diversità del mondo» (Mauri 1986); una lettura a mio parere condivisibile, della quale i due saggi in esame sono una prova eloquente.


2.2. Tra innovazione e tradizione

A otto anni di distanza l’uno dall’altro, Roman Jakobson scrive due saggi destinati a dare inizio a un nuovo corso per gli studi sulla traduzione e a sgomberare il campo dai luoghi comuni che per anni li hanno assediati. On Linguistics Aspects of Translation (1959) e Language and Culture (1967) contengono, prima ancora che considerazioni sulla traduzione come attività, spunti sulla traduzione come concetto, sull’importanza che riveste nelle riflessioni in campo semiotico.

Alcuni anni prima, Benjamin Lee Whorf aveva avanzato la tesi secondo cui la nostra lingua madre restringerebbe l’ambito di ciò che siamo capaci di pensare, e che quindi «nessun individuo è libero di descrivere la natura con imparzialità assoluta ma è limitato a certe modalità interpretative anche mentre si crede assai libero» (Osimo 2002: 122). Le considerazioni di Whorf sul modellamento reciproco tra lingua e realtà stanno alla base dell’atteggiamento di Jakobson, che però affronta la questione dall’altra estremità: anziché soffermarsi su ciò che le lingue impediscono di pensare, l’attenzione è tutta rivolta a ciò che invece impongono di dire. Accantonata l’idea della presunta intraducibilità di alcuni fatti in parole, nel saggio del ’59 Jakobson giunge a una conclusione tanto semplice quanto geniale: «le lingue differiscono essenzialmente in ciò che devono esprimere e non in ciò che possono esprimere» (p. 13). In altre parole, dal momento che non ci sono prove del fatto che esistano lingue che impediscono di pensare a qualcosa, era necessario guardare in un’altra direzione per scoprire in che modo la lingua madre modelli la nostra esperienza del mondo: se lingue diverse influenzano la mente in modi diversi, ciò non dipende da quello che la lingua ci permette di pensare, ma piuttosto da ciò che ci costringe a dire.

Da queste considerazioni prende le mosse il secondo saggio, Language and Culture, in cui la riflessione sulla relazione tra lingua e cultura si fa più profonda e articolata. Con sapiente retorica l’autore rivendica la stretta interconnessione tra lingua e cultura, fino ad affermare che la lingua è il fondamento della cultura umana.

Il riferimento implicito o esplicito a Peirce, «the great American thinker» (p. 22), è costante. In particolare, il richiamo al concetto di semiosi, da cui discende la volontà di inserire la traduzione nel campo d’indagine della «semiotica», permette di allargare lo studio della traduzione a fenomeni che fino a quel momento erano considerati del tutto estranei a questo ambito.

One of the most felicitous, brilliant ideas which general linguistics and semiotics gained from the American thinker is his definition of meaning as “the translation of a sign into another system of signs” (4.127). How many fruitless discussions about mentalism and anti-mentalism would be avoided if one approached the notion of meaning in terms of translation […] The problem of translation is indeed fundamental in Peirce’s views and can and must be utilized systematically (Jakobson 1977: 251).

Anche per Jakobson, in definitiva, «il nocciolo di qualunque processo di significazione […] è un insieme di processi traduttivi» (Osimo 2002: 181).


2.3. Peculiarità del saggio

2.3.1. Un crogiolo di culture

È raro che la traduzione dei saggi venga isolata come categoria a sé stante tra le diverse tipologie di testi tradotti. Eppure, meriterebbe un discorso a parte. Un saggio è «un testo non narrativo su un argomento di carattere prevalentemente filosofico, ma non necessariamente di filosofia pura: può occuparsi di letteratura, scienza, attualità, costume, politica» (Osimo 2004: 126). E, lungi dall’escludersi reciprocamente, queste (e altre) categorie spesso coesistono all’interno del medesimo saggio, complicando ulteriormente la situazione. La traduzione saggistica rientra nel campo della non-fiction, alla stregua dei testi scientifici, ma ha anche una forte componente estetica e intertestuale, propria dei testi letterari. Da un punto di vista formale, infatti, nel saggio prevale l’aspirazione estetica sul nozionismo puro, cosa che lo rende di più ampio respiro e più elegante rispetto a un articolo scientifico. Il suo elevato grado di connotatività e intertestualità, accanto alla precisione terminologica e al rigore delle argomentazioni, rende evidente come la distinzione tradizionale fra «traduzione letteraria» e «traduzione tecnica» non esaurisca la gamma delle traduzioni possibili. Nella traduzione saggistica, insomma, alle difficoltà terminologiche della traduzione settoriale si sommano le difficoltà stilistiche della traduzione letteraria. La presenza di riferimenti dati per scontati dall’autore, rimandi intertestuali impliciti ed espliciti e riflessioni di carattere filosofico hanno ricadute molto importanti sul piano della traduzione. Una sapiente abilità retorica consente a Jakobson di avvalorare le tesi scientifiche sostenute all’interno del saggio mettendole contemporaneamente in pratica: nel rivendicare l’integrazione tra scienze diverse e l’importanza delle relazioni interdisciplinari come base per costruire «a joint scientific domain, a science of mankind, and – in a far wider scope – a general science of life» (p.20), Jakobson abbraccia svariate discipline, anche molto distanti dall’ambito della linguistica, e dimostra di conoscerle a fondo.

Si spazia dall’antropologia di Kluckhohn, Kroeber e Boas alla biologia di Campbell, dalla neurofisiologia di Békésy alla fisica di Einstein, dalla zoologia di Thorpe alla filosofia di Russell. Anche la storia dell’arte e della letteratura sono chiamate in causa per stabilire che cosa si debba intendere per «progresso»: Dante e i capolavori della pittura italiana del Trecento e del Quattrocento sono paragonati ai risultati ben più deludenti dell’arte e della poesia dell’Ottocento. Jakobson risale fino al Paleolitico per citare le pitture rupestri franco-cantabriche, ancora una volta messe a confronto con la modernità delle «so-called realistic canvases of modern Europe, and, in particular, the official art of its authoritarian powers». Non mancano i riferimenti anche ad altre letterature europee: per la tradizione tedesca compaiono i fratelli Grimm e le poesie di Heinrich Heine, mentre per la Cecoslovacchia il poeta Josef Hora. Dal mondo della religione provengono invece i cenni all’Evangeliario, a Costantino il Filosofo e a Dionigi l’Areopagita. Ovviamente, non potevano non esserci richiami alla linguistica: il linguista americano Benjamin Lee Whorf, il ginevrino Karcevskij, il tedesco Von Humboldt, il danese Bohr, l’ucraino Potebnja e l’immancabile Peirce.

Ma è il mondo russo a fare da sostrato culturale e linguistico a entrambi i saggi in esame. Benché Jakobson li abbia scritti in inglese, l’autore spesso sente la necessità di ricorrere alla sua lingua madre tanto nel lessico quanto nella scelta della cultura da cui estrarre i numerosi esempi proposti: la regione di Tula, il pittore Repin, il libro di Boris Pasternak Mia sorella la vita, il poeta Lermontov. Anche le leggende, i racconti popolari, i vissuti dell’autore che costellano queste poche pagine attingono, per la maggior parte, alla tradizione russa. La dimensione esotica, già forte nel prototesto, risulta di impatto ancora maggiore per il lettore del metatesto, che oltre a dover fare i conti con i numerosi elementi culturospecifici di cui si è detto, deve confrontarsi con il riferimento costante al modello grammaticale inglese come termine di paragone nei confronti delle altre lingue chiamate in causa. Decidere quale trattamento riservare a questi esotismi (à 2.3.3.1) è stato un elemento fondante della strategia traduttiva. Non è sembrato opportuno operare una scelta di localizzazione perché il tipo di testo non lo avrebbe consentito: si tratta di saggi sulla traduzione, in cui l’autore riflette sul modo in cui categorie grammaticali diverse influiscono sul modo in cui le varie culture segmentano la realtà. Il confronto sistematico con il modello grammaticale inglese avrebbe perso di efficacia se gli esempi tratti da quella lingua fossero stati tradotti indiscriminatamente. Anzi, una simile strategia avrebbe fatto correre il rischio di commettere errori macroscopici. In Language and Culture, per esempio, un intero paragrafo è dedicato alla dimostrazione che «Languages differ essentially in what they must convey and not in what they can convey» (p.12) e a tal proposito l’inglese e il giapponese vengono confrontati con il francese, il tedesco e il russo:

If I say in English (or correspondingly in Japanese) that “I spent last evening with a neighbor”, you may ask whether my companion was a male or a female, and I have the factual right to give you the impolite reply, “It’s none of your business”. But if we speak French or German or Russian, I’m obliged to avoid ambiguity and to say: voisin or voisine; Nachbar or Nachbarin; sosed or sosedka.

Nel caso della frase «I spent last evening with a neighbor», la traduzione verso l’italiano di «neighbor» implica necessariamente la scelta tra «vicino» o «vicina» anche laddove il contesto non fornisca elementi sufficienti per valutarlo, e questa “disambiguazione coatta” non darebbe adito a nessun equivoco sul sesso del vicino di casa. In questo senso le lingue differiscono in quello che devono esprimere, perché una traduzione della stessa frase che andasse nella direzione opposta, e cioè dall’italiano all’inglese, imporrebbe un solo traducente e ripristinerebbe l’ambiguità di fondo che solo il contesto potrebbe (forse) chiarire. Si tratta, in realtà, di un’ambiguità solo apparente, perché

Il fatto che nelle diverse culture si abbiano obblighi diversi di esprimere concetti significa che tutto ciò che non è obbligatoriamente espresso è dato per scontato, è implicito nella cultura, oppure è considerato di secondaria importanza (Osimo 2004: 33).

Peter Torop tra i parametri di traducibilità di una cultura inserisce anche il «parametro della lingua» (Torop 1995: 71) in cui rientrano le categorie grammaticali. In un esempio come quello citato sarebbe impensabile tradurre la frase esemplificativa in italiano, perché verrebbe meno la veridicità delle informazioni veicolate dal messaggio, data la diversità tra il modello grammaticale italiano e quello inglese. Per evitare simili inconvenienti e mantenere una coerenza di fondo nelle scelte traduttive si è deciso di non tradurre questi esempi e affidarne una spiegazione esaustiva al presente apparato metatestuale, con la consapevolezza che tale scelta postula un lettore modello non solo disposto ad aprirsi all’altro, ma anche «capace e attrezzato per affrontare la realtà del mondo altro» (Osimo 2004: 56).

 

2.3.2. Il lettore modello

[…] un testo è un prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo generativo: generare un testo significa attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui […] (Eco 1979: 54).

Dalle parole di Eco si evince che l’autore (come il traduttore) deve prevedere un «modello del lettore possibile», condizione necessaria all’attualizzazione del testo e alla sua traduzione (Eco 1979: 7). È opportuno interrogarsi sulla sua identità, immaginarne gli interessi e le motivazioni che lo hanno spinto a prendere in mano due saggi di Jakobson. A un primo esame, risulta difficile ipotizzare un lettore che possa fruire di questi testi integralmente e in tutte le loro componenti. Le «condizioni di felicità», per dirla ancora con Eco, da soddisfare perché il testo sia pienamente attualizzato vorrebbero, a prima vista, un lettore-tuttologo. Basti pensare all’immenso patrimonio linguistico che si annida fra le pagine; per quantificare, sono citate sedici lingue, con relativi esempi: l’inglese, l’inglese americano, il russo, lo slavo antico, il norvegese, il giapponese, il bantu, il tedesco, il ceco, il francese, l’italiano, il latino, il greco, il koryak, le lingue samoiede e quelle slave. Considerato l’altissimo tasso di intertestualità dei testi in esame, una robusta competenza enciclopedica è indispensabile se non altro «per rendersi conto di sapere di non sapere […] e reagire indagando, e non assumendo di essere già in grado di affrontare lo scoglio» (Osimo 2007: 21). È opportuno supporre di eleggere a lettore modello una persona di cultura medio-alta, altrimenti rischierebbe di non cogliere i molti rimandi intertestuali di cui si è detto, presumibilmente di età adulta e con una conoscenza almeno rudimentale dell’inglese. Il notevole sforzo divulgativo compiuto dall’autore, che accanto all’enunciazione di concetti scientifici molto seri non disdegna l’aneddoto, la battuta e il tono colloquiale, va incontro al lettore interessato all’argomento ma con poche conoscenze di base. Le frequenti riformulazioni, le domande retoriche volte a tenere viva l’attenzione e a rendere più chiari i rapporti di causa-effetto delle argomentazioni, le fonti scrupolosamente indicate e la precisione terminologica concorrono all’innegabile fruibilità di un testo all’apparenza così ricco di insidie.

 

 

2.3.3. Perdite e compensazioni

Prendo in prestito il titolo di questo paragrafo da un capitolo del libro di Umberto Eco Dire quasi la stessa cosa (Eco: 2003) in cui l’autore demonizza le note a piè di pagina riducendole a ultima ratio a disposizione del traduttore, del quale sancirebbero la sconfitta. Di diverso parere è Torop, che anzi identifica una relazione di complementarità tra metatesto e paratesto:

[…] la parte fondamentale del protesto viene tradotta nel metatesto, ma alcune parti o aspetti possono essere “tradotti” nel commentario, nel glossario, nella prefazione, nelle illustrazioni (figure, mappe) e così via. In una simile complementarità non si può a mio parere ravvisare un’incompletezza nel metatesto: semplicemente, per il lettore del prototesto e per il lettore del metatesto il confine tra testuale ed extratestuale non coincide (Torop 1995: 64).

Non è un caso che la scuola semiotica di Tartu chiami «metatesto» tanto il testo tradotto quanto l’insieme delle informazioni paratestuali sul testo principale: entrambi i metatesti sono frutto di un processo traduttivo, interlinguistico in un caso, metatestuale («che genera metatesti»), dall’altro (Osimo 2004: 30). Il testo scritto, qualsiasi testo scritto, si sa, è solo la punta di un iceberg. Tutto il resto, la parte più cospicua, è non-detto. Esiste uno «spazio intertestuale» all’interno del quale ogni testo nasce, e da cui un autore è necessariamente influenzato, che ne sia consapevole o meno. Per questo motivo ogni testo è sempre un intertesto, e «ogni testo che viene generato porta in sé le tracce della memoria culturale collettiva, oltre a quella dell’autore» (Osimo 2004: 42). Tale rapporto tra detto e non-detto diviene in parte razionale nel caso di un testo tradotto, e una simile razionalizzazione comporta che la sua struttura venga denudata, esposta, messa in mostra (Torop 1995: 63). Da qui l’utilità di un ricco apparato metatestuale in cui convogliare tutte quelle informazioni che potrebbero interessare al lettore più desideroso di confrontarsi con l’altro, senza né venire meno alla cura filologica per l’originale, né imporre una lettura più lunga del necessario a chi non ne mostrasse interesse.

 

2.3.3.1. Apparati metatestuali

I due saggi in esame non esulano da queste considerazioni. L’elaborazione della strategia traduttiva deve prevedere anche a quale sede destinare la compensazione del residuo. Anzi, la decisione di come gestire il residuo è stata determinante per concepire la strategia traduttiva stessa: qualora non avessi avuto a disposizione lo spazio per redigere una postfazione accurata avrei certamente fatto ricorso alle note del traduttore per rendere conto degli impliciti culturali (che inglobano, secondo un approccio semiotico, anche le differenze linguistiche) e risolvere le questioni legate alla diversa categorizzazione grammaticale delle lingue e alle conseguenti differenze nella visione della realtà. Un caso di residuo incolmabile nel corpo del testo, ma di cui è semplice fornire una spiegazione in una sede diversa, è stata la traduzione di «cold beef-and-pork hot dog» (p. 8). È evidente che il gioco di parole tra «hot dog» e «cold beef-and-pork» può funzionare solo mantenendo l’esempio in inglese, e che, per giunta, una traduzione parola per parola sortirebbe un effetto di ridicolo nonsense («cane caldo freddo di manzo e maiale»). La presente postfazione, dunque, rientra a pieno titolo tra gli «artifici compensatori ed esplicitanti testuali» (Osimo 2004: 75) in quanto cerca di comunicare al lettore ciò che verosimilmente nella lettura andrebbe altrimenti perso, rendendo esplicito ciò che nel testo è implicito. In questo modo si ovvia alla spontanea «tendenza ipertrofica alla mediazione» (Osimo 2004: 75) propria di molti traduttori adottando una strategia consapevole con un apparato metatestuale ad hoc.

Ho invece preferito inserire direttamente all’interno del testo, isolate tra le consuete parentesi quadre, le traduzioni in italiano di singole parole che sono state mantenute in inglese anche nel metatesto per coerenza con altre scelte traduttive. Trattandosi di traduzioni funzionali esclusivamente alla comprensione lessicale, che non portano con sé un residuo di cui valga la pena rendere conto in una sede separata, ho ritenuto che fosse utile per il lettore trovarne la traduzione a portata di mano. Procedendo in questo modo la lettura non viene interrotta troppo di frequente, e anche il lettore che non avesse bisogno di consultarle non ne sarebbe disturbato vista la loro estrema sinteticità.

Le note inserite da Jakobson all’interno dei due saggi sono invece di carattere esclusivamente bibliografico. Per una loro catalogazione ho preferito adottare il sistema del richiamo per autore e anno di pubblicazione, collocati all’interno del testo in modo che non interrompano ma integrino adeguatamente la lettura, mentre l’elenco dei riferimenti bibliografici è stato inserito in coda ai saggi. In quest’ultimo, per una pronta identificazione, la data segue immediatamente il nome dell’autore, conformemente alle norme UNI 10168 e UNI ISO 7144.


2.4. Analisi linguistica ed extralinguistica

Dalle considerazioni fatte fin qui (à 2.3) emerge, in sostanza, che per realizzare una comunicazione totale, e cioè «essere in grado di individuare, sia durante il processo di decodifica, sia durante il processo traduttivo, l’informazione invariante» (Lûdskanov 1967: 54) chi traduce deve essere in possesso di quella che Lûdskanov chiama «informazione traduttiva necessaria». Se ci si chiede, con Lûdskanov, in che modo e da che fonte il traduttore possa accumularla, la risposta va cercata nell’analisi linguistica ed extralinguistica del testo in questione. Può accadere, infatti, che

[…] l’informazione ricavata attraverso l’analisi linguistica non [sia] sufficiente, in quanto la scelta del traduttore deve essere condizionata anche dalla conoscenza dell’epoca, dai tratti peculiari dell’opera, dalla visione stilistica e dal punto di vista estetico dell’autore, dalla sua visione del mondo. In tutti questi casi si dice che il traduttore fa riferimento alla realtà (Lûdskanov 1967: 53).

All’analisi, che permette di estrapolare le informazioni veicolate dal prototesto, segue la fase di decodifica, e cioè la scelta dei traducenti da attualizzare. È in questa fase che entra in gioco la necessità di avere a disposizione una quantità di informazioni maggiore di quella ricavabile dal co-testo, dalla porzione di testo in questione. E a chi sostiene che questa fase interessi esclusivamente i testi di natura letteraria, l’autore ribatte che tali dinamiche coinvolgono, invece, qualsiasi linguaggio anisomorfo, in quanto la necessità di fare riferimento alla realtà è intrinseca alla natura stessa dei linguaggi naturali. Laddove, infatti, si riconosce il carattere creativo del processo traduttivo, che si manifesta «nella necessità di compiere scelte non predeterminate tra i significati degli elementi linguistici del prototesto per attualizzarne uno» (Lûdskanov 1967: 55) non si può non condividere che la necessità di far riferimento alla realtà «sussiste nella traduzione di tutti i generi testuali attualizzati nella forma dei linguaggi naturali» (Lûdskanov 1967: 63).

Anche chi traduce il saggio, e forse a maggior ragione vista la natura ibrida di questo genere testuale, deve costantemente fare i conti con le dinamiche descritte. A livello di analisi lessicale, nei due saggi in esame sono stati individuati termini, parole ed espressioni sulla cui traduzione vale la pena di soffermarsi.

 

 

2.4.1. Differenze tra campi semantici: le scelte lessicali

In questo paragrafo vengono presi in esame i problemi di traducibilità derivanti dalle «scarse possibilità di coincidenza tra campi semantici di parole diverse, sia della stessa lingua (i cosiddetti “sinonimi”) sia di lingue diverse (i cosiddetti “equivalenti”)» (Osimo 2004: 70). La scelta lessicale è uno dei punti nevralgici attorno ai quali si costruisce la coerenza di un testo, e il traduttore dev’essere sempre all’erta di fronte all’eventualità che l’autore abbia fatto ricorso ad allusioni velate realizzate proprio grazie all’ampiezza del campo semantico delle parole impiegate. Certo, non è sempre possibile conservare i riferimenti «narcotizzati» (Osimo 2001: 57), e talvolta diventa inevitabile sopprimerli: si tratta di scelte che devono essere di volta in volta dettate dalla strategia traduttiva e dal buon senso del traduttore. L’essenziale è però avere fiuto e accorgersi della loro presenza affrontando tutte le valutazioni del caso consapevoli dei limiti connaturati alla traduzione, che del resto ne fanno la miseria e lo splendore, come ebbe a dire José Ortega y Gasset.

Ecco qualche esempio che illustra alcune di queste dinamiche; i primi tre sono stati estratti dal saggio On Linguistic Aspects of Translation, mentre gli ultimi due da Language and Culture.

 

2.4.1.1. Celibate

Yet synonymy, as a rule, is not complete equivalence: for example, “every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate” (p. 4).

Riporto questa citazione perché vorrei soffermarmi sulla traduzione di «celibate». A una prima stesura l’istinto mi ha portato a tradurre «celibate» con «celibe», ma cercando la definizione di «celibate» sul dizionario monolingue per confrontarla con quella di «bachelor» e chiarire il senso della frase in esame, ho constatato che «celibate» e «celibe» hanno un significato molto diverso.

 

celibate (Merriam-Webster 2000)

celibe (Devoto, Oli 2000)

A person who lives in celibacy. Non ammogliato, scapolo.

 

Occorre a questo punto verificare la definizione di «celibacy»:

 

celibacy (Merriam-Webster 2000)

  1. the state of not being married.
  2. a: abstention from sexual intercourse; b: abstention by vow from marriage.

 

Dalle definizioni riportate si evince che il campo semantico di «celibate» coincide solo in parte con quello di «celibe», ma questo fatto del tutto normale deriva, si sa, dall’anisomorfismo delle lingue naturali. Tuttavia nel caso in esame il rischio di una traduzione solo parziale, quale potrebbe essere «celibe», non sarebbe foriera solo di un residuo traduttivo, ma precluderebbe la comprensione dell’intero messaggio veicolato dal prototesto. L’accezione che interessa a Jakobson nel suo esempio è evidentemente la seconda, quella non contemplata dal traducente «celibe», relativa a chi rinuncia a contrarre matrimonio (per motivi religiosi o di altra natura) e si astiene da ogni attività sessuale. Solo in questa accezione infatti la parola «celibate» si emancipa dalla sinonimia con «bachelor» nel contesto e fa acquisire senso all’esempio contenuto nel saggio. Ma qui il problema della scelta del traducente è ancor più rilevante se si pensa che la frase vuole essere un esempio lampante proprio del fatto che la sinonimia assoluta non esiste, e che anche all’interno della stessa lingua i presunti sinonimi non stanno in una relazione transitiva, come dimostra il fatto che «every celibate is a bachelor» ma «not every bachelor is a celibate». Di fronte a un caso simile, in assenza di un apparato metatestuale in cui convogliare il residuo in questione, ritengo che la decisione più opportuna da prendere sarebbe quella di mantenere l’esempio in inglese all’interno del testo e procedere a una sintetica spiegazione in nota del significato della frase. In questo modo non si precluderebbe l’indubbia efficacia dell’esempio in inglese a chi dispone dei mezzi linguistici adatti a comprenderlo, senza tentare di fornire una traduzione “comoda” ma fuorviante a chi ne è invece privo.

 

2.4.1.2. Cottage cheese

The English word cheese cannot be completely identified with its standard Russian heteronym syr because cottage cheese is a cheese but not a syr (p. 4):

In questo caso la difficoltà concerne la traduzione di «cottage cheese». Eccone, innanzitutto, la definizione che è stata ricavata dal dizionario monolingue Merriam-Webster:

 

cottage cheese (Merriam-Webster 2000)

a bland soft white cheese made from the curds of skim milk —called also Dutch cheese, pot cheese, smearcase.

 

Il corrispettivo italiano di tale prodotto inizialmente pareva essere la ricotta, salvo poi scoprire che il dizionario inglese distingue il cottage cheese dalla nostra ricotta, che è definita nel modo seguente:

 

ricotta (Merriam-Webster 2000)

a white unripened whey cheese of Italy that resembles cottage cheese; also: a similar cheese made in the United States from whole or skim milk.

 

La ricotta differisce dal cottage cheese innanzitutto perché si ricava dal siero avanzato dalla preparazione di altri formaggi, motivo per cui, a rigor di termini, non si tratta di un vero e proprio formaggio ma di un semplice latticino. Ai fini della traduzione nel contesto dato quest’ultima informazione è molto importante perché, se si decidesse di tradurre «cottage cheese» come «ricotta», un esperto in materia potrebbe obiettare che l’esempio riportato in traduzione sarebbe un controsenso, in quanto la ricotta non è un «cheese». La definizione data dal vocabolario in un caso così specifico non è sufficiente, ed è necessario ricorrere a testi specialistici che spieghino in modo più accurato le caratteristiche di questi formaggi per poter effettuare una scelta traduttiva sensata. L’atlante dei formaggi fa rientrare il «cottage cheese» nella famiglia dei formaggi freschi a struttura granulare, di cui fanno parte anche i «fiocchi di latte». Ecco le due descrizioni a confronto:

 

cottage cheese (Ottogalli 2001: 213)

fiocchi di latte (Ottogalli 2001: 213)

Si trova con questo nome solo nei paesi anglosassoni dove viene addizionato di panna e spesso di aromi, verdure o frutta. [Questi formaggi] in Italia non si conoscono con la dizione “Cottage”, ma come “Fiocchi di latte”, con una precisazione: vengono stabilizzati con un trattamento termico alla fine della lavorazione.

 

Indubbiamente ora siamo molto più vicini al significato di «cottage cheese» di quanto non lo fossimo prima. Certo qualche differenza c’è ancora, differenze sulle quali ritengo si possa soprassedere, considerato il tipo di testo e la funzione puramente esemplificativa per la quale sono stati chiamati in causa questi formaggi. Tuttavia, se si affronta la medesima questione da un punto di vista diverso, altre considerazioni farebbero propendere per una traduzione più «adeguata», per dirla con Toury. Per rendersene conto basta tornare per un attimo alla citazione originale, che si chiude così: «cottage cheese is a cheese but not a syr». «Syr» è il traducente russo di «cheese» più immediato, eppure un «cheese», che per di più contiene all’interno del suo nome la parola «cheese», (il «cottage cheese») non è un «syr». Altrimenti detto, la preferenza accordata a «cottage cheese» rispetto a qualunque altro traducente italiano deriva dal fatto che la ripetizione della parola «cheese» inserisce a maggior ragione il cottage cheese nella categoria dei «cheese», e quindi all’orecchio di un anglofono la frase russa tradotta in inglese suona assurda, ridondante. Da qui l’efficacia dell’esempio: Il cottage cheese è uno dei tanti cheese, ma lo tvoróg non è uno dei tanti syr, in quanto la parola «syr» rimanda, come ricorda Jakobson, soltanto ai formaggi fermentati.

È utile schematizzare questa situazione che si presta molto bene a fare luce su un problema ricorrente della traduzione:

 

Benché generalmente «cheese» (A) si traduca in russo con «syr», esisteranno sempre delle eccezioni come «cottage cheese» (Aa) che impediranno il formarsi di una relazione biunivoca automatica tra i campi semantici delle due parole.

Tornando al caso in esame, la strategia traduttiva adottata ha voluto privilegiare il principio dell’adeguatezza non censurando dunque del tutto il «cottage cheese» nel metatesto italiano. Mi sono però riservata di affiancargli la traduzione «fiocchi di latte» perché non bisogna dimenticare che Jakobson, citando il nome di alcuni formaggi ben noti al pubblico di madrelingua inglese, voleva fare un esempio che fosse lampante e spiegasse in modo molto concreto le considerazioni teoriche fatte fino a quel momento. Mi è sembrato sensato offrire anche al lettore italiano l’opportunità di fruire di questa dimensione ulteriore del testo affiancandogli una traduzione plausibile di «cottage cheese».

 

2.4.1.3. Intricacies

Both the practice and the theory of translation abound with intricacies, and from time to time attempts are made to sever the Gordian knot by proclaming the dogma of untranslability (p. 6).

Questo esempio mira a sottolineare l’importanza di riconoscere e mantenere, nel limite del possibile, i rimandi intratestuali contenuti nel saggio. Prendiamo in esame la parola «intricacy» e vediamo che definizione ne dà il dizionario monolingue:

 

 

 

intricacy (Merriam-Webster 2000)

  1. the quality or state of being intricate.
  2. something intricate.

 

 

Cerchiamo a questo punto la definizione di «intricate»:

 

intricate (Merriam-Webster 2000)

  1. having many complexly interrelating parts or elements: complicated.
  2. difficult to resolve or analyze.

 

Il significato appare subito chiaro e comprensibile. Il traducente «difficoltà», adottato in un primo momento, sembra una soluzione sufficientemente rispettosa del senso dell’originale, benché generalizzante in quanto non evoca le «interrelating parts» che la parola inglese racchiude in sé. Muovendosi allora in questa seconda direzione, dalla stessa radice di «intricacies» si risale all’aggettivo «intricato», utile punto di partenza per ragionare su un nome che rimandi allo stesso campo semantico. Motivo ulteriore della necessità di trovare un traducente che vada in questa direzione è il seguito della frase con il riferimento al «Gordian knot», il famoso nodo gordiano, mentre qualche pagina dopo la questione della traduzione è definita «entangled». Siamo quindi in presenza di una metafora estesa in cui le parole «knot», «intricacies» e «entangled», provenienti dallo stesso campo semantico, si richiamano a vicenda. Da qui l’esigenza di una soluzione che mantenga il rimando anche per il lettore del metatesto. Partendo dall’aggettivo «intricato» si risale, per associazione di idee, al sostantivo «groviglio», che è stato adottato nella versione definitiva: «Tanto la pratica quanto la teoria della traduzione sono piene di grovigli». Ecco una spiegazione efficace del perché è opportuno che il traduttore faccia tutto il possibile per conservare il maggior numero di elementi del prototesto:

La connotazione, e quindi anche il colorito, fa parte del significato, e di conseguenza è tradotta alla pari con il significato semantico della parola. Se non si è riusciti a farlo, se il traduttore è riuscito a trasmettere solo la “nuda” semantica dell’unità lessicale, per il lettore della traduzione la perdita di colorito si esprime nella incompleta percezione dell’immagine, ossia, in sostanza, nel suo travisamento (Vlahov e Florin 1986: 121 [in Osimo 2004b]).

 

2.4.1.4. Nurture and nature

Now, when taking into account the universally human, and only human, nature of language, we must approach the question of boundaries between culture and nature; between cultural adaptation and learning on the one hand, and heredity, innateness on the other – briefly to delimit nurture from nature (p. 28).

Come si è detto nel capitolo 2.3, i saggi di Jakobson sono costellati di riferimenti a concetti scientifici la cui conoscenza da parte del lettore è data, il più delle volte, per scontata. L’immensa cultura dell’autore gli consente di muoversi con agilità tra discipline diverse e molto distanti dalla linguistica, a dimostrazione della tesi, ribadita in più occasioni, che coniugare i saperi di ambiti diversi sia il solo modo proficuo di garantirne la sopravvivenza e il reciproco arricchimento.

Molto spesso però si tratta di riferimenti impliciti con i quali Jakobson strizza l’occhio al lettore competente attraverso dei piccolissimi accenni che il lettore meno colto può trascurare senza che questo intacchi in modo sostanziale la sua fruizione del testo. Il traduttore invece deve stare all’erta per individuare il maggior numero possibile di questi riferimenti nascosti, e poi decidere se e quanto andare incontro al lettore nella sua opera di decodifica del testo.

Il caso di «nurture and nature» esemplifica bene la situazione appena descritta. Una breve ricerca enciclopedica consente di comprendere che i concetti di «nurture» e «nature» non solo sono interrelati fra loro, ma costituiscono i due estremi del dibattito sull’importanza dell’eredità e dell’ambiente nello sviluppo dell’uomo. La paternità dell’espressione è da attribuire all’antropologo inglese Francis Galton, che la consacra nel libro English men of Science: their Nature and Nurture, pubblicato nel 1874, in cui si legge:

The phrase “Nature and nurture” is a convenient jingle of words, for it separates under two distinct heads the innumerable elements of which personality is composed. Nature is all that a man brings with himself into the world; nurture is every influence that affects him after his birth (Galton 1874: 12).

Come spesso avviene in ambito scientifico, dove il gusto diffuso per le parole straniere è dovuto, in parte, al fatto che gli studiosi leggono articoli scritti perlopiù in inglese, alcune espressioni si cristallizzano nella lingua in cui sono state coniate e restano tali anche lontano dalla loro terra d’origine. Ed è questo il caso di «nurture» e «nature» le quali, complice l’assonanza che le rende accattivanti anche al lettore italiano che conosca poco o nulla l’inglese, compaiono tali e quali sulle nostre pubblicazioni scientifiche di maggior rilievo. Per queste ragioni si è scelto di mantenere l’espressione in inglese anche nella traduzione italiana.

 

2.4.1.5. Creative writers

With the general development, growth, and differentiation of culture, a consistent and active attention to the culture of language in its various aspects becomes an ever more intricate, responsible, and pressing task, on which linguists must cooperate deliberately and systematically with creative writers and other efficient carriers of cultural activities (p. 40).

Il problema, qui, è la traduzione di «creative writers». La parola «writer», apparentemente priva di insidie, nasconde invece un significato molto preciso che si sovrappone solo in parte al significato di «scrittore». Procediamo con la ricerca di «writer» sul dizionario monolingue inglese, e confrontiamo i risultati con le accezioni della parola «scrittore»:


writer (Merriam-Webster 2000)

scrittore (Devoto, Oli 2000)

  1. a person who writes.
  2. a person whose work or occupation is writing; now, specif., an author, journalist, or the like.

 

  1. Chi si dedica all’attività letteraria in quanto mosso da un intendimento d’arte.
  2. Scrivano, copista.

 

In italiano, uno scrittore è primariamente chi scrive di professione, e, molto meno comunemente, un sinonimo di scrivano o copista. In inglese invece un «writer» è, nella prima accezione della parola, una persona che scrive, uno scrivente qualsiasi. Nella seconda accezione dell’inglese, che è quella che in parte si sovrappone semanticamente a quella italiana, si evince però che sono «writer» anche i giornalisti e gli scrittori di testi tecnici. Da qui nasce, per Jakobson, la necessità di accostare al nome comune e generico «writer» l’aggettivo «creative» per distinguerlo da un «writer» di testi di carattere settoriale, tecnico. In altre parole, tradurre «creative writer» con «scrittore creativo» risulterebbe fuorviante per il lettore italiano, che sarebbe portato a pensare che Jakobson non stia parlando di tutta la categoria degli scrittori, ma solo di quelli particolarmente creativi, escludendo tutti gli altri. Mantenendo invece il solo traducente «scrittore», molto probabilmente si trasmette al lettore italiano la stessa rete di significati che Jakobson attribuisce a «creative writer».

Del resto, è lo stesso Jakobson ad aver teorizzato, nel saggio On Linguistic Aspects of Translation un principio fondamentale per la traduzione:

Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics. […] All cognitive experience and its classification is conveyable in any existing language. Whenever there is a deficiency, terminology can be qualified and amplified by loanwords or loan translations, by neologisms or semantic shifts, and, finally, by circumlocutions (p. 6).

Anche se, a causa della convenzionalità dei segni linguistici e delle differenze nello sviluppo storico dei rispettivi popoli, «i diversi linguaggi naturali suddividono in maniera distinta la realtà unica e comune per tutti» (Lûdskanov 1967: 29), motivo per cui la ricerca di presunti “equivalenti” traduttivi è destinata a essere vana e infruttuosa, Jakobson dichiara che la traduzione è sempre possibile, anzi, è addirittura necessaria: si tratta solo di cercare l’«equivalenza nella differenza» operando non su singole unità di codice, ma sull’intera informazione concettuale contenuta nell’originale. Questo perché

In its cognitive function, language is minimally dependent on the grammatical pattern, because the definition of our experience stands in complementary relation to metalinguistic operations – the cognitive level of language not only admits but directly requires recoding interpretation, that is, translation. Any assumption of ineffable or untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms (p. 12).

 


 

2.5. Metatesti a confronto:

perché proporre una traduzione diversa del saggio

on linguistic aspects of translation

 

Nel 1966 Feltrinelli pubblica la traduzione di Luigi Heilmann e Letizia Grassi degli Essais de linguistique générale, che comprendono, tra gli altri, anche il saggio On Linguistic Aspects of Translation. Quest’ultimo, scritto nel 1959, risalta per la sua importanza nell’ambito delle riflessioni sui problemi della traduzione, concentrando in poche pagine ciò che ancora oggi rappresenta una pietra miliare per chi si dedica a questa disciplina. Il limite della traduzione esistente risiede proprio nella scelta della strategia traduttiva che privilegia, per dirla con Toury, il criterio dell’accettabilità su quello dell’adeguatezza. Questo vale soprattutto per due aspetti, la standardizzazione dei realia e la localizzazione degli esotismi, che emergono principalmente nelle traduzioni sistematiche e fortemente addomesticanti delle citazioni. In un caso come nell’altro, il criterio adottato sembra essere poco efficace, tanto più a causa dello status del tutto particolare di questo tipo di testo, cui si è già accennato: una traduzione sulla traduzione. Il generale addomesticamento culturale porta il lettore a perdere la consapevolezza di essere in presenza di un testo tradotto che, di conseguenza, deve essere recepito come altrui. La traduzione di Heilmann, indubbiamente più scorrevole di quella qui proposta, risulta però priva di stimoli e in parte inefficace nella sua funzione didascalica. Per contro, la scelta di mantenere le citazioni in lingua originale è sembrata la sola praticabile per ovviare all’alternativa fuorviante di ritrovarsi a dover tradurre riflessioni sulla traduzione, riflessioni che prendono come esempi parole scelte appositamente da una certa lingua e non da un’altra. La sostituzione sistematica di tutti gli elementi esotici con elementi che appartengono alla metacultura crea, come si evince dagli esempi riportati di seguito, un forte senso di spaesamento nel lettore interessato e consapevole della cultura da cui proviene il testo.

Ecco una schematica analisi comparata del prototesto con i due metatesti in questione, limitatamente agli ambiti fin qui presi in esame, per osservarne i cambiamenti traduttivi.

PROTOTESTO

METATESTO (1)[1]

METATESTO (2)[2]

I

[…] no one can understand the word cheese unless he has an acquaintance with the meaning assigned to this word in the lexical code of English. […] nessuno può capire la parola formaggio se non conosce il significato attribuito a questa parola nel codice lessicale dell’italiano. […]  nessuno può capire la parola «cheese» se non ha un’esperienza del significato assegnato a questa parola nel codice lessicale dell’inglese.

II

Any representative of a cheese-less culinary culture will understand the English word cheese if he is aware that in this language it means “food made of pressed curds” […]. Qualsiasi membro di una collettività culinaria che ignora il formaggio capirà la parola italiana formaggio se sa che in questa lingua tale parola significa “alimento ottenuto con la fermentazione del latte cagliato” […]. Qualsiasi rappresentante di una cultura culinaria in cui non esista il formaggio capirà la parola inglese «cheese» se è consapevole che in questa lingua significa «alimento fatto di latte cagliato pressato» […].

III

There is no signatum without signum. The meaning of the word “cheese” cannot be inferred from a nonlinguistic acquaintance with cheddar or with camembert without the assistance of the verbal code. Non esiste significato senza segno, né si può dedurre il senso della parola formaggio da una conoscenza non linguistica della mozzarella o del provolone senza l’aiuto del codice linguistico. Non esiste signatum senza signum. Il significato della parola «cheese» non si può inferire da una conoscenza non-linguistica del cheddar o del camembert senza l’aiuto del codice verbale.

IV

[…] cottage cheese is a cheese but not a syr. Russians say: prinesi syru i tvorogu “bring cheese and [sic] cottage cheese.” […] il formaggio bianco è bensì un formaggio, ma non un syr. I russi dicono prinesi syru i tvorogu, “porta del formaggio e (sic) del formaggio bianco (giuncata).” […] il «cottage cheese» [«fiocchi di latte»] è un «cheese» ma non un «syr». I russi dicono: «prinesi syru i tvorogu» (porta il formaggio e [sic] i fiocchi di latte).
V When translating the English sentence She has brothers into a language which discriminates dual and plural, we are compelled either to make our own choice between two statements “She has two brothers” – “She has more than two” or to leave the decision to the listener and say: “She has either two or more than two brothers.” Quando si deve tradurre la frase italiana “essa ha dei fratelli,” in una lingua che distingue duale e plurale, siamo obbligati a scegliere fra due proposizioni: “essa ha due fratelli” / “essa ha più di due fratelli”, ovvero a lasciare la decisione all’ascoltatore dicendo: “essa ha due, o più di due, fratelli.” Traducendo la frase inglese «She has brothers» verso una lingua che distingue duale e plurale siamo costretti a scegliere tra due affermazioni: «Lei ha due fratelli» – «Lei ha più di due fratelli» oppure a lasciare la decisione a chi ascolta e dire «Lei ha due o più fratelli».

VI

Again, in translating from a language without grammatical number into English, one is obliged to select one of the two possibilities – brother or brothers or to confront the receiver of this message with a two-choice situation: She has either one or more than one brother. Allo stesso modo, se traduciamo in italiano da una lingua che ignora il numero grammaticale, siamo costretti a scegliere una delle due possibilità – “fratello” o “fratelli” – o a proporre al ricevente del messaggio una scelta binaria: “essa ha uno, o più di un, fratello.” Ancora, traducendo da una lingua priva della categoria grammaticale del numero verso l’inglese si è costretti a selezionare una delle due possibilità, «brother» o «brothers», o a mettere il ricevente di questo messaggio di fronte a una situazione di ambiguità: «Lei ha uno o più fratelli».

 

Osserviamo il primo esempio: si tratta di una citazione di Russell, che riflette sul significato della parola «cheese» nel «lexical code of English». Il metatesto (1) propone di tradurre «cheese» con «formaggio», scelta di per sé praticabile se non fosse che, per mantenere la coerenza della citazione, saremmo costretti a modificare anche il seguito della dichiarazione. E per farlo, dovremmo tradurre «English» con «italiano» mettendo in bocca a Russell parole che non ha mai pronunciato, né avrebbe mai potuto pronunciare. La piena esplicitezza della citazione nega, a maggior ragione, ogni diritto di manipolare le parole dell’autore. Lo stesso può dirsi per gli esempi II, V e VI, in cui, per coerenza, si è proceduto allo stesso modo, mentre il metatesto (1) è andato nella direzione opposta, ottenendo un risultato molto poco «traduzionale» (Popovič 1975: 48) in cui la dominante è senza dubbio la naturalizzazione, ottenuta attraverso la sistematica sostituzione degli elementi esotici con elementi propri della cultura ricevente. Un ragionamento analogo sorge spontaneo anche per la traduzione di «cheddar» o «camembert» (esempio III). È evidente che diventa piuttosto grottesco immaginare Jakobson parlare di mozzarella o di provolone. E non solo. Il lettore più attento e scrupoloso potrebbe persino pensare che Jakobson volesse in qualche modo strizzare l’occhio all’Italia e alle sue tradizioni culinarie. Niente di tutto ciò invece, e basta osservare l’originale per rendersene conto. È bene riportare fedelmente i nomi dei due formaggi citati, che sono peraltro ben noti al lettore italiano, in virtù del fatto che un testo tradotto è, e deve essere, espressione di una cultura estranea.

La strategia traduttiva adottata fino a questo punto ha subito una battuta d’arresto quando ho dovuto fare i conti con la traduzione delle frase riportata al punto IV. Per coerenza con le scelte precedenti avrei dovuto mantenere in inglese anche «cottage cheese», scelta che sarebbe stata praticabile nella prima parte della frase ma non nella seconda, dove avrei ottenuto qualcosa come: «Porta del “cheese” e del “cottage cheese”. Al fine di evitare di ridurre il testo a una serie di “mezze traduzioni” che finirebbero per richiedere al lettore uno sforzo di code switching sproporzionato rispetto alle intenzioni del prototesto, ho preferito affiancare a «cottage cheese» (à 2.4.1.2) una traduzione addomesticante, collocandola all’interno delle consuete parentesi quadre, in modo da poter utilizzare direttamente quest’ultima nell’esempio riportato alla riga successiva. In tal modo il testo guadagna in chiarezza, senza però venire meno alla precisione lessicale che un saggio di linguistica deve garantire.

Il metatesto (2) si propone, quindi, di ovviare alle difficoltà elencate proponendo una soluzione traduttiva diversa, che tenga conto dei limiti che sono stati messi in luce. Va ribadito che non esiste una soluzione corretta in assoluto, ma ogni tentativo di traduzione deve essere dettato da una strategia che necessariamente sacrifica alcuni elementi per privilegiarne altri, ritenuti, in quel determinato contesto, prioritari. La differenza di fondo tra i due risulati ottenuti è che il metatesto (1) passa (o tenta di passare) per un originale, ed è quindi molto poco traduzionale, mentre leggendo il metatesto (2) i campanelli d’allarme del fatto che si tratti di una traduzione sono molteplici. L’atteggiamento focalizzato sull’alta traduzionalità comporta molti rischi, primo su tutti quello di rendere molto ardua la fruizione da parte del lettore, e basta confrontare le due traduzioni proposte nella tabella per rendersene conto. D’altronde, se siamo concordi nell’affermare che «dal confronto matura la coscienza sia delle identità sia delle differenze» (Osimo 2010: 86), si deve riconoscere a questo canale un ruolo fondamentale nell’arricchimento della cultura.

Del resto, la traduzione è, in un certo senso, una contraddizione in termini, un ossimoro: «si presenta come copia ma in realtà è un’originale» (Osimo 2010: 109). Accantonata la pretesa di realizzare fantomatiche “traduzioni fedeli”, concetto che l’autore sfiora alla fine del saggio chiamando in causa il detto «Traduttore, traditore» per metterne a nudo l’infondatezza («traditore di quali valori? Traduttore di quali messaggi?»), Jakobson ribadisce l’importanza di definire innanzitutto i termini della questione affinché la materia trovi posto a pieno titolo tra le scienze. Per indagare su questo ossimoro, insomma, Jakobson reputa necessaria una scienza linguistica a un tempo autonoma e in grado di arricchirsi con i contributi di altre scienze, che ha dimostrato di saper integrare sapientemente come solo uno tra i più grandi ed eclettici studiosi di linguistica del secolo scorso poteva fare: con la semplicità dei geni.


2.6. Riferimenti bibliografici

 

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MAURI P. Jakobson e il suo pullover in Repubblica, Milano, 25 novembre 1986

MERRIAM-WEBSTER 2000 Merriam Webster’s online dictionary, Springfield (Massachusetts), Merriam-Webster, disponibile in internet all’indirizzo: www.merriam-webster.com, consultato nel maggio 2011.

MIGLIORINI B., TAGLIAVINI C., FIORELLI P. 2011 Dizionario italiano multimediale e multilingue d’ortografia e di pronunzia, disponibile in internet all’indirizzo: www. dizionario.rai.it, consultato nel maggio 2011.

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3. Errata corrige

 

 

Pagina

Posizione

nel testo

Metatesto 1

Metatesto 2

Note

3

cpv. 1,

riga 11

eppure,

eppure

punteggiatura

3

cpv. 2,

riga 2

[rispettivamente formaggio, mela […]

[rispettivamente: formaggio, mela […]

punteggiatura

3

cpv. 2,

riga 3

di qualsiasi tipo

di qualsiasi tipo

ridondante

3

cpv. 2,

riga 10

indicarla

indicarlo

concordanza con «cheese»

3

cpv. 2,

riga 11-12

[…] o di qualsiasi formaggio, qualsiasi latticino, qualsiasi alimento, qualsiasi spuntino o forse qualsiasi confezione […]

[…] o di qualsiasi formaggio, latticino, alimento, spuntino o forse qualsiasi confezione […]

evitare dove possibile la ripetizione di «qualsiasi»

5

cpv. 1,

riga 15

interlinguistica

intralinguistica

5

cpv. 1,

riga 18

frase idiomatica

espressione idiomatica

lessico

6

cpv. 1,

riga 1

same

some

trascrizione

7

cpv. 1,

riga 2

Una traduzione di questo tipo […]

Una simile traduzione […]

corpo sonoro (assonanza tra «tipo» e «riferito»)

8

cpv. 1,

riga 1

metalinguistic

“metalinguistic”

trascrizione

8

cpv. 2,

riga 8

jeha paraquot

jena paragot

trascrizione

9

cpv. 2,

riga 2

amplificare

ampliare

lessico

(amplificare: aumentare nella misura consentita dalla moltiplicazione dei valori o delle dimensioni iniziali: a. un suono; rappresentare in modo esagerato.

ampliare: aumentare quanto all’estensione o alle dimensioni. Fig: accrescere, aumentare) Devoto-Oli: 2000

9

cpv. 2,

riga 3

mediante neologismi

mediante neologismi

ripetizione superflua che appesantisce la frase

9

cpv. 2,

riga 7

 apparentemente

all’apparenza

corpo sonoro (assonanza con «semplicemente»)

9

cpv. 3,

riga 3

Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o], ora sono state integrate […]

Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o] ora sono state integrate […]

punteggiatura

9

cpv. 3,

riga 8

[…] possono essere tradotte […]

[…] si possono tradurre […]

forma

11

cpv. 1,

riga 1

[…] dei numerali

[…] del numerale

numero

11

cpv. 1,

riga 10

[…] lei ha uno o più fratelli.

[…] lei ha uno o più di un fratello.

11

cpv. 2,

riga 11

[…] nella versione russa di questa frase una risposta a questa domanda è d’obbligo.

[…] nella versione russa di questa frase una risposta a tale domanda è d’obbligo.

forma (evitare la ripetizione del dimostrativo)

11

cpv. 2,

riga 11

D’altro canto, qualunque sia la scelta delle forme grammaticali russe per tradurre

[…]

D’altro canto, qualunque forma grammaticale russa sia scelta per tradurre

[…]

forma

11

cpv. 2,

riga 13

il lavoratore

l’operaio

coerenza con scelte precedenti

11

cpv. 2,

riga 19

Karcevski

Karcevskij

trascrizione

11

cpv. 2,

riga 19

paragonò

paragonava

tempo verbale

12

cpv. 2,

riga 8

mare

more

trascrizione

13

cpv. 1,

riga 2-3

una serie di domande

una serie di domande specifiche

omissione di «specific»

13

cpv. 1,

riga 3

[…] le risposte sì o no […]

[…] le risposte «sì» o «no» […]

forma

13

cpv. 1,

riga 5

Naturalmente l’attenzione […]

Come è naturale, l’attenzione […]

forma (evitare l’assonanza tra «naturalmente» e «costantemente»)

13

cpv. 1,

riga 6

[…] è costantemente focalizzata […]

[…] sarà costantemente focalizzata […]

tempo verbale

13

cpv. 3,

riga 10

[…], al contrario, […]

[…], per contro, […]

lessico

15

cpv. 1,

riga 3

[…] di fronte al fatto che Peccato fosse stato raffigurato dagli artisti tedeschi come […]

[…] di fronte al fatto che alcuni artisti tedeschi avessero raffigurato Peccato come […]

forma

15

cpv. 2,

riga 5

[…] fatta poco dopo l’860 […]

[…] scritta poco dopo l’860 […]

forma

15

cpv. 2,

riga 13

Ma a questo ostacolo poetico, Costantino […]

Ma a questo ostacolo poetico Costantino […]

punteggiatura

15

cpv. 2,

riga 14

[…] richiamava l’attenzione principale sui […]

[…] richiamava l’attenzione principalmente sui […]

forma

15

cpv. 3,

riga 3

in breve

insomma

forma

15

cpv. 3,

riga 3

 qualsiasi cosa costituisca

qualsiasi costituente del

forma

17

cpv. 1,

riga 2

un termine più erudito, e forse più preciso

un termine più erudito e forse più preciso

punteggiatura

17

cpv. 1,

riga 5

− da una lingua in un’altra −

− da una lingua in un’altra,

punteggiatura

17

cpv. 2,

riga 1

«Traduttore traditore»

«Traduttore, traditore»

punteggiatura

19

cpv. 2,

riga 4

doxodčivost

doxodčivost’

trascrizione

19

cpv. 3,

riga 3

[…] e il compito più importante era quello di trovare […]

[…] e il compito più importante era trovare […]

forma

21

cpv. 1,

riga 3

«Decimo congresso dei linguisti»

Decimo congresso dei linguisti

coerenza con scelte precedenti

21

cpv. 1,

riga 6

É il problema […]

C’è il problema […]

coerenza con struttura frase precedente

21

cpv. 1,

riga 10

[…] come è già stato enfatizzato una volta con più decisione […]

[…] come è già stato enfatizzato una volta di più con decisione […]

senso

23

cpv. 1,

riga 11

[…] nella letteratura antropologica, si dice […]

[…] nella letteratura antropologica si dice […]

punteggiatura

23

cpv. 2,

riga 12

officiale

ufficiale

refuso

25

cpv. 1,

riga 4

[…] ricordo ciò che mi è stato detto dal […]

[…] ricordo ciò che mi disse il […]

forma e coerenza con tempi verbali successivi

25

cpv. 1,

riga 13

Eppure,

Eppure

punteggiatura

25

cpv. 2

riga 4

[…] non è stato individuato nessun progresso.

[…] non è stato individuato alcun progresso.

forma

25

cpv. 2,

riga 8

Tutti i tentativi di diversi linguisti di trovarvi tracce di progresso […]

Tutti i tentativi compiuti da vari linguisti per trovarvi segni di progresso […]

corpo sonoro

(evitare assonanze e la ripetizione di «diversi»)

27

cpv. 1,

riga 9

Soltanto,

Soltanto

punteggiatura

27

cpv. 1,

riga 11

[…] adattamenti, e innovazioni terminologiche […]

[…] adattamenti e innovazioni terminologiche […]

punteggiatura

27

cpv. 2,

riga 3

[…] non dovremmo dimenticare […]

[…] non dimentichiamo […]

28

cpv. 2,

riga 8

[…] pattern, […]

[…] pattern: […]

trascrizione

29

cpv. 2,

riga 7

Nella struttura del linguaggio è presente […]

Nella struttura della lingua osserviamo […]

lessico e forma

(evitare la ripetizione tra «è presente» e «presentano»)

29

cpv. 2,

riga 9

[…] dai caratteri distintivi e fonemi […]

[…] da caratteri distintivi e fonemi […]

prep. semplice

29

cpv. 2,

riga 12

[…] strumento indispensabile di pensiero […]

[…]  indispensabile strumento di pensiero […]

ordine delle parole

29

cpv. 2,

riga 14

[…] parlare di cose ed eventi che sono assenti e lontani […]

[…] parlare di cose e situazioni che sono assenti e lontane […]

corpo sonoro

29

cpv. 2,

riga 16

[…] coloro che dicono e coloro ai quali è detto […]

[…] sayers and sayees […]

riferimento implicito al saggio Thought and language (1890) di Samuel Butler, contenuto in Essays on life, art and science. In particolare: «It takes two people to say a thing – a sayer as well as a sayee».

31

cpv. 1

riga 1

[…] appena dopo la schiusa […]

[…] appena dopo la schiusa […]

aggiunta

31

cpv. 2,

riga 8

Se privati del modello adulto, resteranno muti […]

Se privati del modello adulto resteranno muti […]

punteggiatura

33

cpv. 1,

riga 13

A volte,

Talvolta

forma e punteggiatura

33

cpv. 1,

riga 14

conduce

ha condotto

tempo verbale

33

cpv. 1,

riga 17

[…] e cognitiva, […]

[…] e cognitiva […]

punteggiatura

33

cpv. 2,

riga 5

[…] riveste un ruolo significativo e autonomo […]

[…] occupa una parte significativa e autonoma […]

forma

(evitare ripetizione con frase precedente)

33

cpv. 3,

riga 2

[…] la cui lingua madre non ha la divisione grammaticale dei nomi in quelli di genere femminile e quelli di genere maschile[…]

[…] la cui lingua madre non prevede la divisione grammaticale dei nomi di genere femminile e di genere maschile[…]

35

cpv. 1,

riga 4

[…], nell’intento di […]

[…] con l’obiettivo di […]

punteggiatura e forma

35

cpv. 2,

riga 5

durante la mia infanzia

durante l’infanzia

forma (evitare il possessivo)

35

cpv. 2,

riga 5

[…] ho letto le fiabe […]

[…] lessi le fiabe […]

tempo verbale

37

cpv. 1,

riga 8

[…] le interpretazioni inglesi di questi versi danno un’impressione scialba e retorica […]

[…] la resa inglese degli stessi versi appare scialba e retorica […]

lessico, forma e corpo sonoro

37

cpv. 2,

riga 10

[…] che non lo segnala.

[…] che non la segnala.

concordanza con «compiutezza»

37

cpv. 2,

riga 10

Ogni volta che si usa un verbo russo, si deve esprimere se si intende l’azione compiuta, o solo il processo senza riferimenti al suo compimento.

Ogni volta che si usa un verbo russo si deve esprimere se si intende l’azione compiuta o solo il processo, senza riferimenti al suo compimento.

punteggiatura

39

cpv. 1,

riga 4

«[…]», potreste chiedermi […]

«[…]» potreste chiedermi […]

punteggiatura

39

cpv. 1,

riga 10

ripartiscono

trasmettono

lessico

41

cpv. 2,

riga 8

vasto e influente intervento

intervento ponderato e influente

lessico e forma

41

cpv. 2,

riga 14

[…] complementarità tra linguaggio delle scienze […]

[…] complementarità tra il linguaggio delle scienze […]

forma

41

cpv. 2,

riga 20

alla composizione

all’elaborazione

lessico

 



[1] Traduzione del 1963 di Luigi Heilmann e Letizia Grassi

[2] Traduzione proposta in questo elaborato