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Eh sì, anche l’autore è traduttore: Daniele Petruccioli, «Le pagine nere»

Tradurre significa non dover mai dire mi dispiace? Se siete in cerca di una raccolta di frasi fatte sulla traduzione, questo illuminante libro di Daniele Petruccioli non fa proprio per voi. Non fa per voi nemmeno se vi aspettate un testo scritto in “critichese”, il linguaggio dei critici letterari, acrobati dell’idioletto, funamboli dell’esibizionismo accademico.

Perché questo è un libro scritto da un traduttore non pretenzioso, che esprime con parole semplici concetti complessi ma alla portata di tutti. Un libro difficile da recensire perché verrebbe voglia di citarlo tutto – ma allora dove sarebbe la sintesi? Proverò dunque a proporre alle lettrici e ai lettori alcune citazioni sparse commentandole. Cominciamo da questa, tratta da pagina 35:

Lo scrittore «traduce da un mondo interiore… http://www.laltiero.it/eh-si-anche-lautore-traduttore/foto_petruccioli

Shoah non si traduce olocausto

Shoàh non si traduce olocausto

 

Le notizie che circolano sono anche questione di moda. Ora, la moda è parlare della postverità (a proposito, colleghi e amici e compagni: la lingua italiana prescrive che i prefissi – come post- – non siano scritti isolati dalla parola che segue: non sono parole a sé stanti!). Ma alla postverità ci siamo arrivati con passo lento e costante da montanaro, partendo più di settant’anni fa con l’uso improprio, oltraggioso, scandaloso della parola «olocausto».

Una premessa è doverosa. Il senso delle parole si evolve, perché la cultura non è una cosa, ma un organismo vivente. Ricordo che nel 1987, quando entrai per la prima volta negli uffici della Digital Equipment Corporation per ricevere un testo da tradurre, il funzionario mi spiegò che avrei incontrato la parola «rete», ma che non si trattava di quella dei pescatori. Oggi viene da sorridere, ma trent’anni fa era una precisazione necessaria.

Ciò non toglie che le parole, anche nel loro senso attuale, conservino in sé la memoria culturale della propria origine, una sorta di pedigree che attesta attraverso quali metafore sono giunte a significare quello che significano oggi. Le metafore, prima ancora che figure retoriche o tropi, sono il modo in cui si evolve il senso delle parole. La puntura del tafano, con due diverse metafore, ha generato le parole «assillo» (da asilus, tafano in latino) ed «estro» (da oìstros, tafano in greco).

Ci sono però delle derivazioni metaforiche di parole entrate nell’uso che contengono una stortura alla base, ed è questo il caso della parola «olocausto» applicata in modo erroneo alla shoàh.

Olocausto deriva dal greco e significa «1. sacrificio d’espiazione nel quale la vittima viene interamente bruciata. 2. La vittima stessa. 3. Offerta a Dio di tutto sé stesso». L’episodio più celebre di offerta a Dio di un umano è quello di Abramo, a cui Dio ordina di andare a fare sacrificio del figlio (In principio 22:2). La parola ebraica usata è “olah [le virgolette sono una lettera, la ayin, muta che produce un glottal stop], che significa «ascesa» e anche «offerta intera bruciata», perché l’idea era che il fumo, salendo, raggiungesse il Signore facendogli piacere. L’idea sottostante è di verificare se Abramo sia disposto a sacrificare (a Dio) la cosa più cara che ha al mondo (dopo Dio).

La parola ebraica che significa la tentata distruzione nazista del popolo ebraico è invece shoàh, che significa «disastro».

La prima menzione della parola holocaust in riferimento alla shoàh è sul numero del 7 maggio 1945 della rivista Life:

lifemay719451.jpg

 

Mi sembra un esempio perfetto di postverità: Hitler sposa la teoria della distruzione del popolo ebraico e la mette in atto, usando perlopiù camere a gas, e subito dopo un giornalista statunitense di Life per descrivere ciò usa una parola che significa un sacrificio volontario a Dio di corpi umani bruciati, per compiacere Dio!

Il sottotesto di questa operazione è che non c’è stato nessun “cattivo”, ma semplicemente Dio ha ordinato al suo popolo di sacrificargli 6 milioni di ebrei, 2 milioni e mezzo di soldati sovietici, 2 milioni di polacchi non ebrei, mezzo milione di rom, mezzo milione di serbi, duecentomila handicappati, duecentomila massoni, 25000 sloveni, 15000 omosessuali, 7000 repubblicani spagnoli, 5000 testimoni di Geova, per vedere se il suo popolo gli è fedele.

E chi sarebbe, in questa versione postveritaria, l’Abramo che esegue il sacrificio? niente po’ po’ di meno che Adolf Hitler, il nemico numero uno del popolo di Abramo! Solo che a lui Dio la mano non la ferma, se non dopo che ha compiuto questa strage.

Ora, un giornalista è umano, e il giornalista di Life può avere commesso un errore. Ma ora sono passati 72 anni e, se errare humanum est, però perseverare diabolicum. Il perseverare arriva al punto che, su Wikipedia italiana, se si cerca «shoàh» si viene kafkianamente rimandati a «olocausto».

Io provo profonda indignazione al pensiero che questo accada, e spero che la mia indignazione possa essere molto contagiosa. Non può essere solo stupidità, deve esserci anche una certa dose di malafede.

Chi meglio di noi – che nella nostra scuola Altiero Spinelli ci occupiamo professionalmente di comunicazione e di senso delle parole – dovrebbe farsi carico di combattere la battaglia per il ripristino della verità e quindi anche della parola «shoàh» al posto della parola «olocausto»? Non verrebbe da pensare che la conoscenza debba essere più contagiosa e irreversibile dell’ignoranza? Rispondere a questa domanda significa fare una previsione sul nostro immediato futuro postveritario.

 

P.S. Il 23-24 aprile 2017 si celebra in tutto il mondo lo Yom HaShoàh, il giorno della Shoàh.

Un viaggio nelle dinamiche di coppia: la trasposizione cinematografica da Doppio Sogno di Arthur Schnitzler a Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick NADIA QUARTINI

Un viaggio nelle dinamiche di coppia: la trasposizione cinematografica da Doppio Sogno di Arthur Schnitzler a Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick

NADIA QUARTINI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica 3 novembre 2005

ABSTRACT IN ITALIANO

Il presente lavoro intende mostrare ed approfondire alcuni problemi e riflessioni di carattere traduttologico inerenti all’analisi del processo della trasposizione cinematografica, divenuto da tempo nuovo oggetto di studio.

Poiché il processo della trasposizione cinematografica, in quanto esempio di traduzione intersemiotica, avviene coinvolgendo un altro sistema di segni, nel quale il prototesto è costituito da segni verbali laddove il metatesto è composto da segni non soltanto verbali – come immagini e suoni –, la strategia traduttiva dovrà partire dalla scomposizione ed analisi degli elementi del prototesto per approdare in seguito alla ricerca di elementi di nuova sintesi e di mezzi espressivi attraverso i quali tali elementi possono essere raffigurati all’interno del metatesto.

Sulla base di tali osservazioni e prendendo spunto dalle valutazioni fino ad ora condotte da alcuni studiosi appartenenti a differenti scuole di pensiero, si è cercato di ricavare un metodo generalmente valido che possa essere applicato nel modo più ampio possibile.

A tal scopo, è stato preso ad esempio, scomposto ed esaminato un caso concreto di trasposizione cinematografica – ovvero la trasposizione cinematografica di Doppio Sogno di Arthur Schnitzler in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick – con particolare attenzione all’analisi del tema dominante della vicenda narrata: il ruolo delle dinamiche di coppia e la loro rappresentazione all’interno di entrambe le opere.

Il primo capitolo si propone di analizzare il prototesto nei suoi tratti caratteristici e distintivi, ovvero fabula e intreccio, personaggi, temi principali, tempo e spazio; vengono inoltre delineate le dominanti che costituiranno l’asse portante del metatesto.

Il secondo capitolo affronta la vera e propria analisi traduttologica della

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trasposizione cinematografica dal romanzo al film e presenta un esame dettagliato sia della riproduzione e rappresentazione dei temi del prototesto all’interno del metatesto sia dei fondamentali tagli e cambi operati alla vicenda stessa.

Il terzo capitolo, infine, si propone di approfondire l’analisi di una sola sequenza, rappresentativa del tema dominante di entrambe le opere, attraverso un accurato raffronto fra le pagine contenute all’interno del racconto e la loro rappresentazione nel film: il confronto iniziale fra i due protagonisti, grazie al quale si apre la vicenda stessa, nel quale al meglio vengono delineate le contraddittorietà che caratterizzano il rapporto di coppia.

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ABSTRACT IN ENGLISH

The aim and purpose of this thesis is to discuss a special type of translation: the intersemiotic, extratextual translation.

When we think about translation we generally think about the translation of a verbal text into another language. But the phenomenon of verbal textual translation is more complex because translation covers a much wider and more varied range of texts.

Semiology has made the concept of text wider and more comprehensive. In fact, the notion of language has been extended to non-verbal languages as well. As a result the notion of text implies a coherent system of utterances in every language. In light of this new, expanded definition, films and advertisments can also be considered texts and the transferring of literature into film or theatre can be treated as an act of translation. In translating text into visual performance, the prototext – source text – is a verbal text and the metatext – target text – is a non-verbal text, made up of visual images. Conversion from the prototext into the metatext involves two different sign systems. This type of translation is called intersemiotic extratextual translation.

When a translator works on the dramatization of a novel, he first tries to take the prototext apart in its elements and then chooses an appropriate translation strategy, based on the search for charcateristics existing in common between the two texts. He keeps these aspects and develops a technique aimed at transferring the other aspects.

The analysis of Arthur Schnitzler’s novel and Stanley Kubrick’s masterpiece leads to the conclusion that novel and film are not two completely different, parallel texts. Although there are some essential differences between the two works – such as in time and space –, the dominant messages and themes of the novel have been maintained and very well represented in the film.

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The paper is divided into three main chapters.

The first chapter deals with the analysis of Schnitzler’s novel. Particular attention is given to the main components of the plot, including the novel’s themes and characters as well as its particular use of space and time.

The second chapter focuses on the comparison between the text of the novel and the filmic text. Particular attention is given to the dominant messages and themes of the two texts, as well as to cuts and changes to Schnitzler’s novel.

The third and last chapter concentrates on a special aspect of the filmic text: the representation of the relationship between the two main characters. Attention is focused on an important scene that is compared with the corresponding pages of the book.

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ABSTRACT AUF DEUTSCH

Ziel dieser Diplomarbeit ist es, die intersemiotische extratextuelle Übertragung von einem Buch in einen Film zu zeigen.

Wir unterscheiden drei Arten der Wiedergabe eines sprachlichen Zeichens: die innensprachliche Übersetzung ist eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen mittels anderer Zeichen derselben Sprache, die zwischensprachliche Übersetzung ist eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen durch eine andere Sprache, während die intersemiotsche Übersetzung eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen durch Zeichen nicht-sprachlicher Zeichensysteme ist.

Die extratextuelle Übersetzung fällt in die Sphäre der intersemiotischen Übersetzung und die Verfilmung eines Buches ist ein Beispiel von der intersemiotischen extratextuellen Übersetzung. In diesem Fall bestehen der Prototext – d.h. der Ausgangtext – aus verbalen Zeichen und der Metatext – d.h. der Zieltext – aus nicht-verbalen Zeichen.

Der Übersetzungsprozess betrifft zwei verschiedene Zeichensysteme. Der Übersetzer führt eine Textanalyse durch und untersucht den Prototext in bezug auf die darin enthaltenen dominierenden Merkmale; er muss demnach die richtige Strategie anwenden, um die dominierenden Elemente und die Ausdrucksmittel des Prototextes in einem anderen Zeichensystem wiederzugeben und miteinander zu kombinieren. Im Film liegt es auch sehr an der Kreativität des Filmmachers, aus den unterschiedlichen, ihm zur Verfügung stehenden Ausdrucksformen jene auszuwählen, die sich mit dem nicht- sprachlichen Zeichensystem am besten kombinieren.

In dieser Diplomarbeit geht es um die Analyse der intersemiotischen extratextuellen Übersetzung von dem Buch Traumnovelle von Arthur Schnitzler in dem Film Eyes Wide Shut von Stanley Kubrick. Obwohl beide Werke wichtige Unterschiede zeigen – z.B. im raumzeitlichen Chronotops –, werden

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die dominierenden Elemente und Themen der Novelle im Film bewahrt und sehr gut ausgedrückt.

Die Diplomarbeit ist in drei Kapitel unterteilt.

Das erste Kapitel handelt von der Analyse der Traumnovelle. Eine wichtige Rolle spielt die Analyse der bedeutsamsten Elemente der Geschichte, bzw. Zeit, Raum, Gestalten und Themen.

Im zweiten Kapitel geht es um die intersemiotische extratextuelle Übersetzung und den Vergleich zwischen dem Text des Buches und dem Text des Filmes. Eine wichtige Rolle spielen dabei sowohl die dominierenden Motive beider Texte als auch die im Film, im Vergleich zum Buch, enthaltenen Streichungen und Veränderungen.

Im dritten Kapitel wird eine einzige Szene analysiert, die eine entscheidende Rolle sowohl im Buch als auch im Film spielt, welche ein sehr wichtiges Thema in beiden Werken darstellt, bzw. die Dualität und die Widersprüche in der Partnerbeziehung.

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SOMMARIO

1.

1.1.

Abstract in Italiano 2 Abstract in English 4 Abstract auf Deutsch 6

INTRODUZIONE: RUOLO E SIGNIFICATO DELLA TRASPOSIZIONE CINEMATOGRAFICA 10

DOPPIO SOGNO DI ARTHUR SCHNITZLER E EYES WIDE SHUT DI STANLEY KUBRICK: PRESENTAZIONE DELLE DUE OPERE 17

Doppio Sogno di Arthur Schnitzler 17

  1. 1.1.1.  Breve sintesi 18
  2. 1.1.2.  Analisi dell’opera 20

1.2. Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick 26

  1. 1.2.1.  Temi del cinema di Kubrick 27
  2. 1.2.2.  Eyes Wide Shut: il testamento di Stanley Kubrick 28

2. DA DOPPIO SOGNO A EYES WIDE SHUT: ASPETTI DI UNA TRADUZIONE INTERSEMIOTICA 30

  1. 2.1.  Due trame a confronto 30
  2. 2.2.  Ambientazione di Eyes Wide Shut: echi di un’altra epoca 37

8

  1. 2.3.  Temi a confronto 40
  2. 2.4.  Strutture a confronto 48
    1. 2.4.1.  Rappresentazione dello spazio e movimenti di macchina 48
    2. 2.4.2.  Figura della geminazione simmetrica 55
    3. 2.4.3.  Rappresentazione del tempo: lo smarrimento interiore del

3. 3.1.

personaggio 62

ANALISI DI UNA SEQUENZA DI EYES WIDE SHUT 68 Analisi della traduzione intersemiotica 70

CONCLUSIONI

Riferimenti Bibliografici Bibliografia

84

91 93

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INTRODUZIONE: RUOLO E SIGNIFICATO DELLA TRASPOSIZIONE CINEMATOGRAFICA

Quando si riflette sul significato di «traduzione», normalmente si pensa ad un processo di ricodifica e riespressione di un testo scritto in una lingua, ovvero un codice naturale, differente da quella del testo originario: questo tipo di traduzione viene denominata «traduzione interlinguistica»1; il testo d’origine viene chiamato «prototesto» e il testo d’arrivo viene chiamato «metatesto». Per «testo» si intende comunemente un insieme di parole con una forma grafica, dotato di una struttura interna che lo rende coerente e coeso2.

Tuttavia, se scindiamo il concetto di «testo» dalla sua accezione più comune ed intendiamo con esso semplicemente un sistema di segni qualsiasi, dotato di una struttura interna coerente e coesa, e diamo credito all’estensione del concetto di «lingua» in semiotica a tutti i tipi di linguaggio extraverbale – come la musica, le arti figurative, il cinema o la pubblicità –, se ne evince che il concetto di «traduzione» può essere esteso ad un campo decisamente più ampio rispetto a quello della sola traduzione interlinguistica ed assume il significato di un processo che implica la presenza di un testo inteso come insieme coerente degli enunciati di qualsiasi linguaggio.

Così, il racconto di un sogno, la trasposizione cinematografica di un romanzo, la lettura di un testo o anche la scrittura sono esempi di traduzione, nei quali il processo di trasferimento dal prototesto al metatesto avviene coinvolgendo un sistema di segni diversi, di linguaggi diversi: essi sono tutti esempi di «traduzione intersemiotica»3. In particolare, la traduzione extratestuale riguarda i casi di traduzione intersemiotica nei quali il prototesto è generalmente un

1 R. Jakobson, On linguistic Aspects of Translation (1959), citato in B. Osimo, 2000 2 B. Osimo, 2001
3 R. Jakobson, On linguistic Aspects of Translation (1959), citato in B. Osimo, 2000

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testo scritto e quindi verbale, mentre il metatesto appartiene ad un codice non verbale, ad esempio un’immagine. Dunque, la trasposizione cinematografica di un romanzo costituisce un caso di traduzione intersemiotica extratestuale.

Per quanto la letteratura venga tradotta in film da moltissimo tempo, il processo della trasposizione cinematografica è stato paragonato al processo della traduzione interlinguistica relativamente da poco tempo, ed in questo senso è divenuto nuovo oggetto di studio. Di conseguenza, mentre nel campo della traduzione interlinguistica molti studiosi si sono espressi nel tentativo più o meno riuscito di apportare il loro contributo allo sviluppo di un metodo scientifico dei principali cambiamenti traduttivi secondo criteri condivisibili ed applicabili nel modo più ampio possibile, il campo della traduzione filmica resta tuttora costellato di numerosi quesiti senza risposta e di numerose insufficienze nell’analisi del suo linguaggio.

A ciò va aggiunta, a mio avviso, un’altra fondamentale considerazione: mentre la traduzione interlinguistica viene solitamente affrontata da traduttori professionali, che sono ben consci del loro ruolo di mediatore linguistico e culturale e dei problemi inerenti all’analisi traduttologica e all’individuazione di una strategia traduttiva da adottare per ogni singolo caso, la traduzione cinematografica viene affrontata da persone – sceneggiatori e registi – che sono da considerarsi innanzitutto artisti – come gli scrittori – e non certo traduttori: essi compiranno certamente la loro traduzione filmica in base a dei criteri razionali, ma, più sovente, saranno soggetti alle loro ispirazioni o saranno influenzati dal loro personale estro artistico.

Dunque, la vera e propria analisi traduttologica nel predetto campo viene svolta per lo più a posteriori, da studiosi della materia che tentano di ricavare una teoria dal caso concreto, ovvero un metodo scientifico valido nel modo più ampio possibile al fine di catalogare i fondamentali cambiamenti traduttivi che avvengono nella trasposizione dal romanzo scritto al film.

Così, ad esempio, lo studioso di semiotica all’università di Tartu Peeter Torop

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ha riconosciuto che nella trasposizione cinematografica di un testo il punto di partenza va ricercato nella scomposizione del testo stesso in parti4. In questo modo, il traduttore dovrà razionalmente intraprendere un processo di scomposizione e di analisi dei singoli elementi che compongono il prototesto, oltre che di ricerca di strategie traduttive e di nuova sintesi che condurranno alla creazione del metatesto, nel caso in oggetto rappresentato dal film.

Ma, poiché nella traduzione intersemiotica extratestuale il tipo di codice del prototesto è differente rispetto a quello del metatesto, il traduttore sarà costretto a scomporre il prototesto – ovvero il romanzo – nei suoi elementi costituivi e a convertire tali elementi nel tipo di codice del quale è composto il metatesto – ovvero il film. Infatti, mentre il romanzo viene fissato sotto forma di parola scritta, il film è costituito dall’immagine, sostenuta dal suono sotto forma di parole o di musica5. Inoltre, a causa delle proprietà intrinseche delle quali è formato il testo filmico, la quantità di sistemi segnici esistenti in un film è davvero notevole. Di conseguenza, l’analisi traduttologica sarà ancora più complessa ed irta di ostacoli.

Dunque, il romanzo è composto da elementi verbali, sintagmatici, paradigmatici, prospettici, ed è inoltre caratterizzato dalla creazione e descrizione di personaggi e temi che si esplicano attraverso fabula, intreccio e spazio, raffigurati però mediante le parole in forma scritta, mentre il film è costituito sì da elementi verbali e dalla ricreazione dei temi, del tempo, dello spazio e dei personaggi con la loro psicologia, i quali però non vengono descritti bensì rappresentati in modo visibile e dunque iconico, ma è anche costituito dall’immagine, che si esplica nelle inquadrature, nei movimenti di macchina – le carrellate –, negli effetti speciali – come la dissolvenza incrociata –, nella fotografia – luci e colori – e poi dal suono sotto forma di dialogo o musica o rumore, ed ancora dal montaggio, col quale viene operata una

4 P. Torop, 2000 5 P. Torop, 2000

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selezione e combinazione degli elementi filmici in relazione allo spazio e alla durata del tempo della vicenda narrata, ed ancora da elementi scenografici e recitativi6. Infine, così come il romanzo è scritto sulla base dello stile e del pensiero dell’autore, il film viene costruito in base allo stile ed al pensiero del regista che, in tal senso, non è un traduttore ma un vero e proprio artista, ovvero uno scrittore e creatore di testi.

Tutti questi elementi possono essere in altre parole e più brevemente espressi, unificati e spiegati, secondo Torop, nei tre tipi di cronotopo sui quali si fonda e si concretizza l’analisi traduttologica del film: il cronotopo topografico, ovvero le coordinate spazio-temporali all’interno delle quali si muovono sia la storia sia i personaggi, il cronotopo psicologico, che include sia la psicologia dei personaggi sia la psicologia di gruppo, e, infine, il cronotopo metafisico, che corrisponde alla poetica autoriale7.

Da tutto ciò si evince quanto sia difficile, ancor più che in qualsiasi altro tipo di traduzione, creare un metodo scientifico di analisi della traduzione intersemiotica coeso e coerente ed applicabile nel modo più ampio possibile.

Di volta in volta ed a seconda dei singoli casi, nella trasposizione cinematografica il traduttore analizza e scompone il prototesto nei suoi elementi costitutivi e in quelli potenziali, decidendo poi per ognuno se sopprimerlo o se e come mantenerlo, ridurlo, modificarlo, amplificarlo o se aggiungere degli elementi nuovi all’interno del nuovo testo8. Si tratta di una vera e propria opera creativa, nella quale è difficile stabilire a priori che cosa corrisponda a che cosa.

Ogni elemento del prototesto trova un suo corrispettivo traducente nel metatesto, ma secondo modalità diverse per ogni film e per ogni regista, il quale, come già detto, sceglierà le caratteristiche dominanti da conservare –

6 A. Costa, 1985 7 P. Torop, 2000

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magari anche modificandole – nel suo metatesto.

Nella seguente tabella mi sono proposta di riassumere, in modo schematico e stilizzato, le fondamentali tecniche cinematografiche ed i principali elementi che intervengono alla raffigurazione e realizzazione dei cronotopi, individuati da Torop, all’interno dell’opera filmica:

CRONOTOPO

SCELTA DOMINANTI

MEZZO ESPRESSIVO

1) Topografico

Soppressione Conservazione Aggiunta Storicizzazione Modernizzazione Riduzione Amplificazione Teatralizzazione

tempo

fabula

trama, ambientazione

intreccio

flashback, flashforward, dissolvenze, didascalie, salti, blocchi, montaggio

spazio

ambientazione

scenografia, paesaggio, inquadrature, movimenti di macchina, fotografia, suoni, montaggio, colori

2) Psicologico

psicologia personaggio

attore, mimica, gestualità, recitazione, abbigliamento, dialogo, voce, inquadrature soggettive-oggettive, voce over, linguaggio e campi espressivi, colori

psicologia gruppo

ambientazione, linguaggio, realia, intertesti, posizione e valori sociali, campi espressivi, colori

temi

gli altri cronotopi

3) Metafisico

poetica autoriale

interpretazione, stile e concezione cinematografica del regista

8 B. Osimo, 2001

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Certamente, tale tabella non ha alcuna pretesa di esaustività, semplicemente si propone come schema di orientamento all’interno del “viaggio” che mi accingo ad intraprendere con questo mio lavoro. D’altronde, come accennato precedentemente, la quantità di sistemi segnici in un film è davvero notevole e, di conseguenza, difficilmente può essere ridotta a tabella. Nel caso della traduzione filmica, è arduo prendere in considerazione anche la ritraduzione nella lingua dell’originale9.

Il presente lavoro si propone di analizzare la trasposizione cinematografica dalla famosa novella Doppio Sogno dello scrittore viennese di inizio Novecento Arthur Schnitzler nell’altrettanto celebre e controverso film Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick.

Sulla base delle precedenti osservazioni, nella mia analisi traduttologica ho preso in considerazione innanzitutto il prototesto, che ho analizzato cercando di cogliere le sue dominanti all’interno dei cronotopi rilevati da Torop, per poi focalizzare la mia attenzione sul metatesto ed il modo in cui le predette dominanti ed i cronotopi sono stati ricreati e rappresentati nel metatesto stesso. Inoltre, ho deciso di concentrare e far quindi ruotare la mia analisi principalmente sul tema dominante della novella, ovvero la rappresentazione dei temi dell’opera e delle dinamiche di coppia che caratterizzano i due protagonisti.

Nel primo capitolo, dunque, ho esaminato ed approfondito maggiormente Doppio Sogno di Arthur Schnitzler sia dal punto di vista della trama – fabula e intreccio – sia dal punto di vista delle sue tematiche, cercando di individuare il tema dominante, sul quale anche il regista Kubrick ha basato la sua trasposizione cinematografica. Ho poi brevemente presentato la concezione cinematografica e le tematiche predilette da Kubrick nell’arco della sua carriera

9 P. Torop, 2000

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di regista filmico, nonché Eyes Wide Shut unicamente considerando la sua valenza filmica.

Nel secondo capitolo mi sono concentrata sulla vera e propria analisi traduttologica dell’intera opera, prendendo in considerazione il modo in cui gli elementi caratteristici dei quali era composto il prototesto – ovvero la trama, i temi, l’ambientazione, i personaggi principali, il tempo e lo spazio – sono stati trasferiti e riprodotti nel metatesto. In particolare, ho prestato attenzione alla riproduzione del tema principale del racconto di Schnitzler, con le sue problematiche.

Nel terzo ed ultimo capitolo ho approfondito l’analisi traduttologica di una sola sequenza del film, ossia quella che, a mio avviso, raffigura e tratteggia con maggiore lucidità il tema dominante sia dell’opera stessa sia del mio lavoro: si tratta della scena del confronto iniziale fra i due protagonisti in seguito al veglione mascherato – una festa natalizia nel film; tale sequenza rappresenta nella novella la vera e propria apertura della vicenda, nella quale si delineano con chiarezza sia le dinamiche che scandiscono, muovono e caratterizzano la coppia dei due personaggi sia il tema che funge da asse portante dell’intero racconto, ovvero la dicotomia fedeltà-tradimento, che si esplicherà in un continuo ritorno di doppi ed alternanze, oltre che nel diagramma dei turbamenti paralleli vissuti dai protagonisti dell’opera. Ho cercato, in particolar modo, di sottolineare le differenze con le quali la sequenza è stata descritta nel racconto ed invece rappresentata nel film.

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1. DOPPIO SOGNO DI ARTHUR SCHNITZLER E EYES WIDE SHUT DI STANLEY KUBRICK: PRESENTAZIONE DELLE DUE OPERE

Doppio Sogno costituisce un soggetto ideale per il cinema: Schnitzler stesso nel 1930 ne abbozzò una sceneggiatura di trenta pagine, compiendo interventi di sviluppo e semplificazione del racconto.

Stanley Kubrick, senza successo, cercava di realizzare questo progetto sin dai primi Anni Settanta; vi riuscì soltanto nel 1999, a distanza di un quarto di secolo, dopo quasi due anni impiegati a scrivere la sceneggiatura, dopo 19 mesi di riprese, dopo più di un anno nel quale curò personalmente le fasi di montaggio e di postproduzione.

1.1. Doppio Sogno di Arthur Schnitzler

Arthur Schnitzler, studioso della psicoanalisi e soprattutto scrittore, vissuto a cavallo tra il Diciannovesimo ed il Ventesimo secolo, contemporaneo a Sigmund Freud, pubblicò opere caratterizzate da un’analisi profonda e spietata delle motivazioni all’origine della azioni umane, distintive di un’incomparabile capacità di lettura psicologica della natura umana. I temi principali riguardano i rapporti sentimentali, le complicazioni della vita erotica e la paura della morte.

Il suo confronto con la psicoanalisi si è articolato attraverso una ricerca squisitamente artistica che, mediante l’assorbimento e l’elaborazione degli studi di Freud e della neonata psicoanalisi, ha ipotizzato l’esistenza del medioconscio (Mittelbewusstsein), una specie di territorio intermedio fluttuante fra la superficie del conscio e la profondità dell’inconscio, territorio in direzione del quale si attua il processo di rimozione degli elementi nella loro ascesa verso il

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conscio o discesa verso l’inconscio10.

Traumnovelle, nella versione italiana Doppio Sogno, è un’opera in bilico fra sogno e realtà. Fu scritta fra il 1921 e il 1925 e si articola in sette parti che scandiscono le alterne e tormentate fasi della crisi di una giovane coppia viennese: in particolare, l’autore si concentra sul problema di incomunicabilità che, innescato da un qualsiasi motivo occasionale, viene improvvisamente a turbare e a minare l’equilibrio del rapporto tra l’uomo e la donna, descrivendo così lo sgomento dell’individuo di fronte alla enigmatica ed instabile realtà dell’esistenza. Mentre però nelle novelle precedenti Schnitzler tendeva ad evidenziare la conflittualità di uno solo dei due partner, in quest’opera la crisi appartiene ad entrambi e si sviluppa in modo parallelo, tanto che inizialmente il titolo pensato per la novella era Doppelnovelle (Doppia novella)11.

1.1.1. Breve sintesi

Il racconto di Schnitzler è incentrato in soli due giorni della vita di una giovane coppia viennese e si apre con il dialogo nella loro camera da letto, dove, a seguito di un ballo in maschera svoltosi la sera precedente nel corso del quale ad entrambi sono state rivolte profferte amorose, i due protagonisti si scambiano reciprocamente le proprie impressioni, le proprie incertezze, finendo però con lo svelare e confessarsi vicendevolmente i desideri e le angosce della loro vita più intima, in particolar modo un tradimento mai consumato da parte di entrambi durante una passata vacanza estiva in Danimarca, e col minare la stabilità del loro rapporto.

Inizia così il viaggio parallelo onirico-reale-surreale dei due: quello fisico di Fridolin tra assassini, prostitute e orge e quello mentale di Albertine tra sogni, incubi e preoccupazioni.

10 A. Schnitzler, 2001 11 G. Farese, 1977

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Al termine delle reciproche rivelazioni, Fridolin viene chiamato al capezzale di un paziente, che però trova già morto. Lì incontra la figlia Marianne, la quale, pur essendo in procinto di nozze, gli confessa di averlo sempre amato. In strada, turbato dall’inaspettata rivelazione, Fridolin decide di accettare l’invito di una giovane prostituta, tuttavia, entrato in casa di lei, parlano soltanto, a lungo. Ormai è notte fonda e Fridolin decide di non rientrare a casa ed entra in un locale dove incontra un suo vecchio compagno di università che lavora come pianista. Da lui apprende l’esistenza di una strana setta che si riunisce in luoghi sempre differenti, dove avvengono raffinatissime e sontuose orge in maschera. Incuriosito, eccitato ed allo stesso tempo sconvolto dagli accadimenti della giornata, Fridolin, dopo essersi procurato un travestimento da monaco nel negozio dell’ambiguo mascheraio Gibiser, si fa dare dall’amico l’indirizzo e la parola d’ordine, che è Danimarca, e si intrufola, senza invito, nella villa della festa mascherata. Si ritrova così fra uomini e donne di grande bellezza che sembrano riconoscersi l’un l’altro il diritto di essere presenti. Solo una magnifica donna dal corpo fiorente e profumato sembra intuire che Fridolin è un intruso e più volte gli intima di fuggire prima che sia troppo tardi. Tuttavia, Fridolin viene scoperto dalla setta e catturato: solo l’intervento ed il sacrificio della misteriosa donna che in precedenza lo aveva supplicato di andarsene gli regalano la libertà e, forse, gli salvano la vita. Confuso ed esausto, rientra a casa dalla moglie, che in quel momento si sta svegliando da un lungo ed inquietante sogno, che si rivela speculare rispetto alle avventure notturne di Fridolin: infatti, in sogno Albertine si concede prima al giovane danese e subito dopo a molti altri uomini mentre assiste, ridendo, alla crocifissione del marito che accetta il sacrificio pur di restarle fedele. L’infedeltà e l’indifferenza sognate da Albertine generano in Fridolin un moto di indignazione, che diviene il pretesto ed un’autogiustificazione a ritrovare la bella sconosciuta che si è offerta di essere punita o uccisa al suo posto.

Da questo momento, secondo un diagramma speculare e simmetrico rispetto a quanto accaduto prima del racconto del sogno da parte di Albertine, Fridolin

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rincontra le stesse persone e rivive le stesse situazioni, o meglio tenta di rincontrare le stesse persone e tenta di rivivere le stesse situazioni, del giorno precedente. Così, cerca di rimettersi in contatto con l’amico pianista senza tuttavia riuscirci, va a trovare la figlia del paziente morto la quale, però, si mostra poco disponibile e si reca dalla giovane prostituta senza però trovarla in casa.

Poi, dopo avere letto su un giornale della tragica morte per avvelenamento di una giovane donna dalla straordinaria bellezza, Fridolin, sconvolto ed insospettito, si reca all’obitorio dove esamina il corpo della donna, senza tuttavia raggiungere la certezza che si tratti della sconosciuta che si è sacrificata per lui.

Tornato a casa, Fridolin trova con orrore sul suo cuscino, accanto alla moglie addormentata, la maschera che ha indossato durante la festa la notte precedente. Racconta allora ad Albertine la sua esperienza-incubo, come se fosse l’unico modo per salvare il loro matrimonio.

1.1.2. Analisi dell’opera

L’immediatezza con la quale Schnitzler presenta, con pochi tratti essenziali, situazioni e personaggi è caratteristica dello scrittore viennese e tocca ancora una volta in Doppio Sogno il culmine della maestria narrativa. Quella della tranquilla famiglia borghese è solo una maschera, una facciata illusoria che cela un groviglio di dubbi, di angosce, di aggressività, di desideri repressi che, una volta svelati e liberati, coinvolgeranno i personaggi in una ridda di avventure reali e sognate, costringendoli a percorrere le stazioni della loro crisi alla ricerca di una verità che non esiste se non nel tentativo della reciproca comprensione. Nessuna delle avventure erotico-surreali di Fridolin giungerà a compimento e l’orgia di piacere e di libidine incontrollata di Albertine è solo un sogno, così come il tradimento dei due coniugi, motivo scatenante dei turbamenti paralleli dei protagonisti, è solo frutto di una fantasia erotica.

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La trama della novella si struttura e si dipana secondo il filo dell’alienazione e della vicendevole estraniazione dei due personaggi principali. Il simbolo di tale alienazione è la maschera ed il mistero che ad essa si accompagna: la storia si apre con il racconto delle vicende della festa mascherata della sera precedente, preludio di quello che accadrà in seguito. Ed infatti, è soprattutto la partecipazione notturna di Fridolin alla festa orgiastica mascherata, caratterizzata dall’assoluta assenza di volti e quindi di identità, e conclusasi con l’allucinante confronto con il corpo della donna morta nella sala anatomica, a segnare e a simboleggiare la perdita di identità che connota la crisi dei due personaggi.

Doppio Sogno, quindi, rappresenta la storia del progressivo allontanarsi affettivo e del progressivo ricongiungersi di Albertine e di Fridolin. La loro condizione psicologica lascia pensare a quella specie di territorio intermedio fluttuante fra conscio e inconscio che Schnitzler definiva «medioconscio», e che consente di inquadrare in una nuova prospettiva il turbamento interiore dei due personaggi, sospesi in bilico fra comprensione ed incomprensione12. Infatti, se è vero che il medioconscio costituisce «il campo più vasto della vita psichica e spirituale, [e da esso] gli elementi emergono incessantemente al conscio o precipitano nell’inconscio»13, allora anche la ritrovata intesa finale di Fridolin e Albertine dopo la turbinosa notte dei desideri inappagati rappresenta una sorta di ascesa al conscio, un ritorno alla normalità, dove però nulla sarà più come prima.

Il medioconscio dunque è la grande regione nella quale si muovono le ricognizioni analitiche di Schnitzler – basti pensare alle riflessioni ed ai monologhi interiori dei suoi personaggi –, una sorta di regno delle percezioni e dei ricordi che sfugge al dominio della razionalità e che tuttavia non è riconducibile all’inconscio. «Il medioconscio è la zona della psiche dove appare visibile la fragilità della condizione umana, l’autoillusione dell’individuo che si

12 S. Ciaruffoli, 2003
13 A. Schnitzler, 2001, p. 18

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sottrae alla propria responsabilità etica, il carattere di maschera dei ruoli sociali»14.

L’accenno di Albertine al destino nel colloquio finale con il marito è un richiamo a quello iniziale dei due coniugi, ovvero il primo momento di dubbio ed incertezza reciproci e preludio al successivo sbandamento affettivo. In questo primo colloquio Schnitzler fissa e sintetizza la tematica della novella, preannunciandone allo stesso tempo lo sviluppo narrativo:

Tuttavia dalla leggera conversazione sulle futili avventure della notte scorsa finirono col passare a un discorso più serio su quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura, e parlarono di quelle regioni segrete che ora li attraevano appena, ma verso cui avrebbe potuto una volta o l’altra spingerli, anche se solo in sogno, l’inafferrabile vento del destino.15

Schnitzler delinea subito la possibilità e l’intento di utilizzare il sogno come regione dell’anima nella quale è possibile la realizzazione dei desideri repressi; e sarà proprio Albertine ad intraprendere un viaggio liberatorio all’interno degli abissi della coscienza. Il suo sogno, però, non rappresenta unicamente la soddisfazione di un desiderio represso e non ha un contenuto latente, non ha bisogno di essere decodificato. È vero che il materiale onirico è costituito dai resti diurni e dal ricordo della conversazione con Fridolin in camera da letto – in sogno appaiono gli schiavi mori della fiaba raccontata alla figlioletta, il giovane ufficiale danese che aveva ammaliato Albertine durante la vacanza in Danimarca, la bella fanciulla che aveva avvinto Fridolin nella stessa occasione – ma l’azione onirica, così come descritta da Schnitzler attraverso le parole di Albertine, ha una funzione ben precisa ed ha carattere speculare rispetto alle fantastiche avventure reali di Fridolin: infatti, mentre Fridolin non riuscirà a

14 L. Reitani, 2001, p.119
15 A. Schnitzler, 1977, p. 13

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possedere la bella sconosciuta durante la festa in maschera e, una volta scoperto, riuscirà a sfuggire ad una dura punizione, e forse alla morte, soltanto grazie al sacrificio della donna misteriosa, Albertine si concederà al giovane danese e assisterà poi, ridendo, alla crocifissione del marito che accetta di morire pur di restarle fedele.

Nelle sue stesse trascrizioni ed osservazioni riguardanti i propri sogni16 Schnitzler non appare interessato ad una analisi del fenomeno onirico. Per quanto riveli una assimilazione di alcuni concetti fondamentali del pensiero freudiano – come il valore dei resti diurni o la nozione di «spostamento» – egli rimane ancorato al contenuto onirico manifesto, affascinato dalla simbologia dei sogni, dagli spazi e dalle dimensioni che in essi si aprono, dalla stessa ricorrenza di temi chiaramente ossessivi – come l’idea della morte legata al sogno, che richiama alla mente l’immagine dell’obitorio in Doppio Sogno. È dunque all’individuo ed alla sua crisi psicologica ed esistenziale che Schnitzler presta la sua attenzione, e non alla psiche in quanto tale17.

La risata sinistra e al contempo isterica con la quale Albertine si desta dall’inquietante sogno e l’orrore di Fridolin di fronte al volto estraneo della moglie che lo guarda terrorizzata segnano il culmine della loro estraniazione e del loro allontanamento affettivo. Mentre la fine del racconto del sogno da parte di Albertine costituisce il primo momento del loro successivo riavvicinamento18. Infatti, se da un lato il sogno ha assorbito tutti gli impulsi aggressivi di Albertine ed ha permesso il soddisfacimento di un inconscio desiderio di vendetta per l’incomprensione del marito, dall’altro ha costretto Fridolin, sgomento per l’infedeltà sognata dalla moglie e per la straordinaria coincidenza di fantasmi onirici e realtà da lui vissuta, a riflettere, seppure

16 È possibile prendere visione delle trascrizioni e valutazioni dei suoi stessi sogni in A. Schnitzler, 2001, p. 35-58
17 L. Reitani, 2001
18 G. Farese, 1977

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inconsciamente, sulla sua stessa infedeltà, che solo per un singolare gioco del destino non si è mai tramutata in realtà. È da questo momento che Fridolin intraprenderà il viaggio che lo riporterà dagli abissi della sua stessa anima verso la superficie, ossia la normalità.

L’attenzione di Schnitzler è rivolta principalmente alla figura del protagonista maschile, Fridolin, il cui viaggio interiore alla ricerca di una soluzione al proprio smarrimento esistenziale è più lungo, complesso e travagliato rispetto a quello della moglie, che, sotto questo aspetto, diviene un personaggio secondario sebbene di fondamentale importanza per lo sviluppo della trama e del parallelismo delle vicende oniriche e reali della novella.

Anche la dicotomia fedeltà-tradimento, che costituisce l’asse portante della storia, si esplica maggiormente nelle contraddittorietà del personaggio maschile, ben rappresentate a partire dalla reazione di Fridolin alla reciproca confessione, in camera da letto, dei pericoli cui entrambi i partner sono sfuggiti durante la vacanza estiva in Danimarca19. All’affermazione di Fridolin: «in ogni donna che credevo di amare ho sempre cercato te» Albertine replica: «E se anch’io avessi avuto voglia di cercarti prima in altri uomini?». Emblematica è la reazione immediata di Fridolin: «Fridolin abbandonò le sue mani quasi l’avesse sorpresa mentre diceva una menzogna o lo tradiva»20. Alla base della debolezza e dell’indecisione di Fridolin vi è dunque l’ipocrita ed assurdo pregiudizio borghese che concede agli uomini il diritto ad una morale e relega la donna in una degradante posizione subalterna21. Diviso fra la morale borghese e l’amore per Albertine, incapace di risolvere razionalmente le proprie contraddizioni, Fridolin intraprende il proprio viaggio all’insegna dell’evasione erotica e di un illusorio senso di liberazione dalle proprie responsabilità, oltre che del desiderio di vendicarsi della moglie, che si rivela però vano tanto quanto il tentativo di

19 G. Farese, 1977
20 A. Schnitzler, 1977, p. 18-19 21 G. Farese, 1977

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liberarsi dalla presenza stessa della moglie. Infatti, sebbene Fridolin sia fisicamente presente in tutti e sette i capitoli e il narratore lo segua passo passo nei suoi spostamenti, mentre Albertine sia realmente presente soltanto in quattro capitoli, di fatto la sua presenza viene percepita in ogni capitolo e la sua immagine, apparentemente rimossa, non ha mai abbandonato Fridolin. Egli se ne accorge proprio quando, nel tentativo disperato di svelare il mistero e dare un volto alla bella sconosciuta che si è sacrificata per lui, si reca all’obitorio:

[…] che cercava? Conosceva solo il suo corpo, il viso non l’aveva mai visto, ne aveva avuto solo un’immagine fugace la notte scorsa nell’attimo in cui aveva lasciato la sala da ballo o, per meglio dire, quando ne era stato cacciato. Eppure il non avere fino ad allora considerato quella circostanza derivava dal fatto che per tutto il tempo trascorso dal momento in cui aveva letto quella notizia sul giornale si era rappresentata la suicida, il cui volto gli era sconosciuto, con i lineamenti di Albertine e che, come si accorse solo ora rabbrividendo, aveva continuamente avuto davanti agli occhi l’immagine della moglie, identificandola con colei che cercava.22

Da un lato, dunque, l’immagine di Albertine non ha mai abbandonato Fridolin nella sua disperata ed assurda corsa verso l’evasione erotica, dall’altro quest’improvvisa rivelazione potrebbe essere interpretata come un nuovo segno di parallelismo e capovolgimento della situazione fra il sogno di Albertine e l’avventura di Fridolin: se si è sempre figurato il volto della suicida coi lineamenti della moglie, anche Fridolin si è in qualche modo vendicato dell’infedeltà e dell’incomprensione di Albertine facendo sì che, almeno nella sua immaginazione, Albertine stessa si sia sacrificata per lui e per la sua salvezza. La discesa agli inferi, nelle profondità dell’inconscio, è terminata e a chiunque appartenga quel corpo enigmatico di donna che lo ha magicamente attratto, esso non rappresenta oramai altro che «il cadavere pallido della notte

22 A. Schnitzler, 1977, p. 104

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passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione»23.

Il ritorno a casa e la vista della maschera che ha indossato durante la festa nella misteriosa villa e che, trovata da Alberatine, è stata significativamente posta sul cuscino del marito, come a rappresentare la perdita di identità, lo straniamento e lo smarrimento del personaggio, è sufficiente a causare il crollo di Fridolin: caduta la maschera dietro la quale aveva creduto di poter celare le proprie contraddizioni, riaffiora in lui la coscienza del proprio rapporto con Albertine, e si profila la possibilità di una ripresa sulla base della reciproca comprensione24. Se, da un lato, l’affermazione conclusiva di Albertine, che sentenzia: «Non si può ipotecare il futuro»25 è indicativa del determinismo e dello scetticismo che caratterizza il pensiero di Schnitzler e che ha orientato anche l’amara tematica di Doppio Sogno, dall’altro i riferimenti al vittorioso raggio di luce che annuncia il nuovo giorno e il riso della bambina che si avverte dalla stanza accanto lasciano presagire una rinnovata speranza in un mondo in declino.

1.2. Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick

Stanley Kubrick è stato definito un regista eccentrico, un genio, un maestro, un autore fortemente concettuale; certamente, non è un regista di immediata comprensione. Ma, in qualsiasi modo lo si voglia considerare, non si può non riconoscere l’importanza della sua arte, uno sguardo sul mondo e sull’uomo.

Nato a New York, ha vissuto per anni lontano dal mondo del cinema, isolato nella sua casa in Inghilterra, producendo capolavori ad intervalli di tempo sempre maggiori; ossessionato dal bisogno di esercitare un controllo assoluto su tutti gli aspetti del proprio lavoro, curava personalmente il montaggio e la

23 A. Schnitzler, 1977, p. 111 24 G. Farese, 1977
25 A. Schnitzler, 1977, p. 114

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postproduzione, nonché i sottotitoli ed il doppiaggio per ogni edizione originale e straniera dei propri film.

1.2.1. Temi del cinema di Kubrick

Le sue opere raccolgono storie riconducibili ad un unico nucleo tematico, costituito dalla «rappresentazione della crisi del modello della ragione occidentale»26, tema affrontato da Kubrick mediante mezzi esclusivamente cinematografici, basandosi sulla forza delle immagini e dei suoni. Egli rappresenta tale crisi attraverso la crisi del controllo sulle azioni e sulle identità dei singoli soggetti, mediante un uso distorto dello spazio e del tempo e, infine, rappresentando la crisi del sistema sociale.

I personaggi di Kubrick si muovono in un universo che sfugge alla loro comprensione, in un mondo fatto di menzogne, di inganni e di false rappresentazioni. Questa perdita di controllo e di comprensione da parte dei singoli personaggi si riflette da un lato nella crisi dell’uso del linguaggio, che regredisce fino a divenire quasi grottesco nella sua povertà ed inadeguatezza, dall’altro nella progressiva spersonalizzazione dei personaggi, che divengono soggetti privi di un’identità salda, sicura, completa. Spesso i personaggi kubrickiani sono portatori di identità differenti ed inconciliabili fra di loro. L’uso insistito dei primi o primissimi piani delinea non tanto la volontà di esplorare reazioni psicologiche o di fissare stati d’animo soggettivi, quanto quella di indagare l’animo umano nella sua perdita e scissione di identità, attraverso la presentazione di smorfie grottesche, maschere distorte dei volti27. A tale proposito, la maschera è anch’essa un tema ricorrente nel cinema di Kubrick, così come la sua ossessione per il tema del doppio. In un quadro più ampio, la crisi dell’individuo si presenta come lo specchio di una più vasta crisi sociale. Altri espedienti per la rappresentazione della crisi della ragione sono un

26 R. Eugeni, 1995, p. 135 27 R. Eugeni, 1995

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uso distorto dello spazio e del tempo, che perdono la loro neutralità per divenire espressioni della soggettività ed emotività dei personaggi. Ad esempio, l’uso del labirinto e dei corridoi indica uno svuotamento dello spazio e la mancanza di punti di riferimento, così come l’utilizzo dei carrelli in avanti o all’indietro che accompagnano il personaggio in una sorta di corridoio-tunnel assumono il significato di una realtà che risucchia i protagonisti, senza dar loro la possibilità di prevedere quale possa essere il punto d’arrivo. Alla crisi dello spazio di solito si accompagna la crisi del tempo, che perde la sua linearità per assumere fattezze soggettive, caratterizzate dalla presenza di ciclicità e ritorni, simmetrie inquietanti di eventi che si riproducono con ossessiva similitudine e che costringono i personaggi ad una coazione a ripetere, proiettando le loro azioni in un non-divenire.

1.2.2. Eyes Wide Shut: il testamento di Stanley Kubrick

Nel dicembre 1995 viene ufficialmente annunciato che il nuovo film di Stanley Kubrick sia chiamerà Eyes Wide Shut, e che avrà come protagonisti Tom Cruise e Nicole Kidman. Il film, sceneggiato dallo stesso Kubrick assieme a Frederic Raphael, affermato intellettuale, scrittore, saggista nonché sceneggiatore, è tratto dal racconto Doppio Sogno di Arthur Schnitzler. Le riprese iniziano nell’estate del 1996 e si svolgono nella massima segretezza: gli attori e i tecnici sono tenuti per contratto a non far trapelare il minimo particolare della vicenda e della lavorazione. Le riprese si protraggono ben oltre il previsto, anche a causa dell’ormai leggendaria meticolosità del regista che ripete la stessa scena anche fino a settanta volte, e si concludono ufficialmente il 31 gennaio 1998. Kubrick comincia a curare il montaggio e la fase di postproduzione del film. Il 5 marzo 1999 invia una copia di Eyes Wide Shut, finito di montare e sonorizzare il giorno prima, ai responsabili della Warner Bros. di New York, che ne effettuano una proiezione riservatissima. Alle prime ore del 7 marzo Kubrick muore nel sonno nella sua casa presso Londra, aprendo laceranti dubbi sulla completezza dell’ultima sua opera, nella quale molti hanno ravvisato

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imprecisioni ed imperfezioni, soprattutto, per l’appunto, a livello di montaggio.

Il montaggio che possediamo, tuttavia, è l’ultimo sul quale ha lavorato Kubrick: i suoi collaboratori hanno preferito non intervenire per rispetto nei confronti del maestro. E se a molti può apparire incompiuto da un punto di vista produttivo, l’ultimo film di Kubrick appare a me invece come un’opera pienamente kubrickiana, caratterizzata da una forte coesione interna ed esplicativa dei motivi narrativi, tematici e stilistici che hanno contraddistinto tutto il cinema di Kubrick.

A tal proposito, Eyes Wide Shut diviene il testamento involontario di Stanley Kubrick sotto due aspetti: da un lato riprende quasi in forma di ricapitolazione i nuclei tematici ed i procedimenti stilistici del suo cinema, dall’altro sembra condensare in sé la filosofia cinematografica di Kubrick, nella quale il cinema diviene alter-ego del sogno ed il suo linguaggio, come quello dell’inconscio, diviene uno sguardo sulla realtà.

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2. DA DOPPIO SOGNO A EYES WIDE SHUT: ASPETTI DI UNA TRADUZIONE INTERSEMIOTICA

Alla luce dei temi prediletti di Kubrick e ricorrenti, seppure in modi e misure differenti, in pressoché tutti i suoi capolavori, credo giunga immediata una constatazione della simmetria perfetta fra il pensiero cinematografico del noto regista e la filosofia che ha orientato l’opera di Schnitzler. A questo punto, non solo Doppio Sogno si presenta come un soggetto ideale per il cinema, come sopraccitato, ma diviene anche e soprattutto un soggetto ideale per il cinema di Kubrick nello specifico.

2.1. Due trame a confronto

Sebbene Stanley Kubrick rimanga sostanzialmente fedele alla lettura di Doppio Sogno, nel film vi sono alcune importanti differenze narrative.

Innanzitutto, la storia è incentrata in quattro giorni della vita della giovane coppia anziché due ed è proiettata nella New York odierna durante il periodo natalizio. I protagonisti sono il medico Bill Harford e la bella moglie Alice in luogo del medico Fridolin e della moglie Albertine.

Il film si apre con la scena in cui i due coniugi si recano, come ogni anno, ad una sontuosa festa natalizia a casa del loro amico Victor Ziegler.

A tal proposito, vorrei sottolineare che questa festa, che nel racconto di Schnitzler rappresenta non più di una fuggevole parentesi unicamente funzionale allo sviluppo della storia stessa, occupa invece nel film una buona parte della scena ed assume una notevole importanza nel delineare sia lo sviluppo della vicenda sia alcuni dei temi fondamentali della storia

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rappresentata da Kubrick. Inoltre, la sostanziale quanto implicita differenza strutturale tra un’opera letteraria, che viene fissata sotto forma di parola scritta, ed un film, che viene invece sostenuto dall’immagine, dalla parola sotto forma di dialogo o voce over, nonché dal suono, rende necessario mostrare attraverso l’immagine, appunto, ciò che nel libro ci viene invece solo riferito28. Oltre a ciò, è necessario aggiungere che, a differenza di molti altri suoi prodotti cinematografici, in Eyes Wide Shut Kubrick ha preferito lasciar scorrere le immagini e non affidarsi, ad esempio, alla voce fuori campo per descrivere determinate scene o situazioni, onde evitare di sovraccaricare troppo l’ambientazione onirico-reale-surreale della vicenda: anche questo spiega la necessità e la decisione di dar vita, nel film, alla festa soltanto accennata da Schnitzler mediante lunghe sequenze di musica e di immagini.

Anche il personaggio di Victor Ziegler rappresenta una novità rispetto al racconto di Schnitzler e costituisce una sorta di deus ex machina; in un confronto finale fra il protagonista Bill e Ziegler, Kubrick ha l’occasione di inserire una riflessione su due diversi tipi di morale: quella accomodante e superficiale di Ziegler e quella più problematica ma anche più consapevole di Bill. Inoltre, se da un lato l’introduzione di questo personaggio è stata una scelta in un certo senso obbligata, in quanto è colui che invita Bill e Alice alla festa di Natale, dall’altro il suo ritorno nel dialogo con Bill in merito all’altra festa, quella mascherata e segreta, è un espediente prima voluto dallo sceneggiatore Raphael e poi approvato ed utilizzato da Kubrick per conferire al film un maggiore senso di realtà, poiché «se non c’è realtà non c’è film»29.

Tornando alla trama del film, durante la festa a casa Ziegler, Alice viene corteggiata da un attempato ma seducente ungherese, Sandor Szavost, mentre Bill ritrova un vecchio compagno di università, che lavora ora come pianista e che lo invita, più tardi, a raggiungerlo in un locale nel quale si dovrà esibire.

28 P. Torop, 2000
29 F. Raphael, 1999, p. 40

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Kubrick anticipa l’incontro fra il protagonista maschile e il vecchio amico rispetto a Schnitzler, eliminando quindi da un lato la casualità del successivo e determinante incontro fra i due personaggi e dall’altro, secondo una mia impressione, quell’immagine di predeterminazione che assume il viaggio di Fridolin in Doppio Sogno, quasi preannunciato ed evocato dal narratore quando fa riferimento all’«inafferrabile vento del destino»30.

Tornando alla trama, mentre anche Bill flirta con due modelle, il padrone di casa richiede il suo intervento: Mandy, una giovane modella con la quale Ziegler si era appartato nel bagno di casa, ha avuto una crisi di overdose. Bill salva la ragazza. Una volta a casa, Bill e Alice fanno l’amore.

La giornata successiva si svolge all’insegna della normalità.

A questo punto Kubrick riprende nel film la scena di apertura di Doppio Sogno.

La sera Bill e Alice fumano assieme della marijuana: resa eccitata ed aggressiva dalla droga, Alice dà il via ad un gioco della verità che la porta a confessare a Bill di avere provato tempo prima una forte ed irresistibile attrazione per un giovane ufficiale di marina durante una vacanza trascorsa a Cape Cod. Una telefonata interrompe il dialogo: il medico è chiamato al capezzale di un cliente appena deceduto.

Interessante e non comprensibile in questa scena è la decisione, da parte dello sceneggiatore Raphael e dello stesso Kubrick, di eliminare la reciprocità della confessione del mancato tradimento: nel racconto di Schnitzler, infatti, i due coniugi si erano trovati entrambi coinvolti da una forte attrazione per un’altra persona durante la vacanza; in tal modo, nel film si verifica uno sbilanciamento rispetto alla struttura originaria dell’opera, che perde sia parte della sua doppiezza, sia efficacia nel mostrare il parallelismo dei turbamenti dei due protagonisti, creando così un notevole residuo traduttivo. Oserei dire che, se Schnitzler concentra la propria attenzione prevalentemente sull’analisi del

30 A. Schnitzler, 1977, p. 13

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personaggio maschile, nel quale si esplicano con maggiore forza le contraddittorietà dell’animo umano, Kubrick fa dell’emblematicità dello stesso l’asse portante della vicenda.

Da notare, inoltre, che la scelta di cambiare il luogo nel quale si è svolta la vacanza dei due protagonisti comporterà poi anche la modifica della parola d’ordine per accedere alla festa mascherata: infatti, non avrebbe avuto senso mantenere la parola Danimarca nel film, poiché nel racconto essa aveva una chiara funzione evocativa, che accentuava il carattere onirico-surreale del viaggio di Fridolin.

Uscito di casa, ha inizio l’odissea notturna di Bill, ossessionato dall’idea del tradimento non consumato della moglie con l’ufficiale.

A casa del defunto, la figlia di questi, Marion, nonostante sia in procinto di nozze, in un momento di intimità gli confessa il suo amore per lui. Sconvolto dall’inaspettata rivelazione, una volta in strada Bill decide di accettare l’invito di una giovane prostituta a seguirla nel suo appartamento, ma una telefonata di Alice gli impedisce di consumare il rapporto con la ragazza.

Nel racconto di Schnitzler, la presenza di Albertine viene percepita anche nei capitoli in cui non compare fisicamente, grazie al pensiero di Fridolin, spesso rivolto nei suoi confronti, sia quando pensa a lei teneramente sia quando rivive il mancato tradimento ed è mosso da moti di indignazione. Data la naturale differenza strutturale fra racconto scritto e film, che non può avvalersi della parola per indagare e descrivere il pensiero o la psicologia dei personaggi, e data la scelta da parte del regista di rinunciare all’utilizzo della voce fuori campo, Kubrick ha probabilmente deciso di rivelare la suddetta presenza della moglie attraverso altri espedienti, come la tecnologia, ovvero una telefonata che interrompe il flusso delle azioni e dei pensieri del medico. Anche il turbamento interiore di Bill viene mostrato, e non riferito come nel libro, oltre che mediante la gestualità e la mimica facciale, anche attraverso l’uso di immagini accompagnate da una inquietante musica di sottofondo che, simili a

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fotogrammi che si inseriscono improvvisamente nel naturale svolgimento della storia, raffigurano la moglie assieme all’ufficiale di marina, così come avviene nei pensieri di Bill.

Nuovamente in strada, Bill si reca nel locale in cui si esibisce il vecchio compagno di università incontrato a casa di Ziegler. Intrattenendosi con l’amico, il medico viene a sapere dell’esistenza di una setta misteriosa, popolata da bellissime donne, che si riunisce in luoghi sempre differenti e dove avvengono sontuose orge. Incuriosito, Bill si fa dare l’indirizzo e la parola d’ordine, che è non più Danimarca bensì Fidelio, per accedere alla festa, e si reca poi dall’ambiguo mascheraio Milich per procurarsi un adeguato travestimento. Mentre si trova ancora nel negozio, Bill ed il proprietario scoprono la figlia di quest’ultimo in compagnia di due giapponesi seminudi e travestiti.

Un lungo ed imprecisato viaggio in taxi conduce Bill a Somerton, la villa in cui si svolge la festa mascherata. Tra una folla di individui incappucciati e protetti da maschere grottesche, prende avvio una sontuosa orgia. Bill viene avvicinato da una donna, anch’ella mascherata, che gli intima più volte di fuggire, pena un terribile castigo. Bill rifiuta e viene scoperto, sottoposto ad un processo, minacciato e costretto a confessare la sua intrusione. Improvvisamente, tuttavia, interviene la misteriosa donna mascherata che aveva cercato di avvertirlo poco prima, la quale si offre di sacrificarsi al suo posto. Bill viene liberato.

Tornato a casa, sente Alice che ride sfrenatamente nel sonno. Svegliatasi, la moglie gli racconta angosciata un sogno nel quale si concede prima all’ufficiale di marina e poi ad una grande moltitudine di uomini all’interno di un’orgia.

Così come nella confessione iniziale fra i due coniugi, anche nel racconto del sogno da parte della protagonista femminile Kubrick elimina una parte importante della storia originale: infatti, nella novella di Schnitzler Albertine, dopo essersi concessa al giovane ufficiale, assiste, ridendo, alla crocifissione del

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marito, che accetta il sacrificio pur di rimanerle fedele. In effetti, la scelta da parte di Kubrick di eliminare, nella confessione del reciproco tradimento non consumato, la parte che vedeva coinvolto il protagonista maschile giustifica pienamente la decisione di eliminare anche questa parte del racconto. Nella novella di Schnitzler la reciproca confessione di un tradimento non consumato da parte dei due protagonisti è la causa dello smarrimento, dell’alienazione e anche del desiderio di vendetta di entrambi i partner: questo desiderio verrà soddisfatto da Albertine attraverso la crocifissione del marito mentre lei si concede ad altri uomini, e da Fridolin nell’abbandono all’evasione erotica. Poiché nel film manca la confessione del tradimento non consumato da parte di Bill, non avrebbe probabilmente avuto senso la rappresentazione del desiderio di vendetta da parte di Alice in sogno. In tal modo, il sogno di Alice perde del tutto la connotazione freudiana di soddisfacimento di un desiderio represso per svolgere unicamente una funzione simmetrica e speculare rispetto all’avventura notturna di Bill.

Come nel racconto di Schnitzler, anche nel film prodotto da Kubrick la confessione del sogno di Alice segna l’inizio di un nuovo viaggio, intrapreso da Bill, che si rivelerà speculare rispetto a quanto accaduto nella notte precedente.

Il mattino, prima di andare al lavoro, Bill tenta di mettersi in contatto con l’amico pianista, ma questi è scomparso in circostanze ambigue. Si reca quindi da Milich: i due giapponesi appaiono ora distintamente vestiti e salutano affabilmente il proprietario, col quale hanno raggiunto un “accordo”.

Bill si accorge di avere perduto la maschera che indossava alla festa notturna.

Mentre in Doppio Sogno non viene fatto cenno alcuno ad un eventuale smarrimento della maschera e non viene spiegato in maniera esplicita come, al termine del racconto, essa appaia sorprendentemente sul cuscino di Fridolin, lasciando così aperta l’interpretazione secondo cui la maschera non sia stata trovata e posta significativamente sul cuscino da Albertine, ma semplicemente sia riapparsa, quasi per magia – e, forse, viene vista e percepita soltanto da

35

Fridolin –, a significare, da un lato, la perdita di identità da parte del medico e, dall’altro, il superamento del confine fra sogno e realtà, in Eyes Wide Shut Kubrick si premura di fornire – o cercare di fornire – un senso ed una possibile spiegazione al ritrovamento della maschera al termine della storia, alla luce della sua volontà di impregnare la vicenda di un maggiore realismo.

Incapace di lavorare, Bill annulla tutti gli appuntamenti e si reca nuovamente alla villa, dove però gli viene consegnato un biglietto che gli intima di desistere da ogni ulteriore indagine. La sera esce e tenta di mettersi in contatto prima con Marion, poi con la prostituta della sera precedente, ma senza riuscirvi. Per strada Bill si accorge di essere pedinato; compra un giornale e si introduce in un caffè, dove legge della morte per overdose di una ex reginetta di bellezza, Amanda Curran, la stessa ragazza che aveva salvato nel bagno di casa Ziegler. Insospettito dalla coincidenza della morte di Amanda e della misteriosa donna mascherata durante da festa, Bill si reca all’obitorio dove fissa a lungo il corpo della ragazza. Una telefonata lo distoglie dai suoi pensieri e lo chiama a casa di Victor Ziegler, dove lo attendono alcune spiegazioni.

Anche il ricco cliente di Bill era all’orgia in maschera, destinata ad ospitare un gruppo selezionato di potentissimi personaggi. Il pianista è stato semplicemente allontanato. Amanda, anch’ella presente alla festa notturna, è morta poco dopo per la droga assunta volontariamente: non c’è stato nessun omicidio e il processo era solo una messa in scena per spaventare Bill.

All’uscita del film nelle sale cinematografiche, furono in molti quelli che trovarono nell’introduzione di questa scena, assolutamente innovativa rispetto al racconto di Schnitzler, nella quale Kubrick sembra insolitamente concedersi alla spiegazione, un motivo di critica: infatti, in nessuno dei suoi precedenti film il regista aveva mai ceduto ad un commento esplicativo, anzi, semmai aveva sempre cercato di oscurare anche il minimamente percettibile31. In verità,

31 S. Ciaruffoli, 2003

36

questa scena, voluta in origine principalmente dallo sceneggiatore Frederic Raphael, che sentiva la necessità di conferire alla storia una struttura narrativa concreta e il più possibile reale, e solo in extremis approvata e adottata da Kubrick, non solo non chiarisce nulla, ma, come avrò modo di spiegare più avanti, ad una più accurata analisi colpisce per il senso di teatralità che riesce a trasmettere e, di conseguenza, di falsità.

Tornato a casa, esausto e sconvolto per le rivelazioni della giornata e per gli accadimenti delle due giornate trascorse, il medico trova la maschera che aveva smarrito adagiata sul suo cuscino a fianco di Alice. La sola vista della maschera è sufficiente per provocare il crollo di Bill. Travolto da un incontenibile pianto liberatorio, egli decide di raccontare alla moglie quanto accaduto.

Il mattino dopo trova i coniugi Harford reduci da un lungo e sofferto racconto. Poi, i due si recano con la figlioletta Helena ad acquistare dei giocattoli. Nel negozio ha luogo un breve ma intenso dialogo conclusivo.

2.2. Ambientazione di Eyes Wide Shut: echi di un’altra epoca

Stanley Kubrick, come attestato anche dalla testimonianza dello sceneggiatore Frederic Raphael32, desiderava rimanere il più possibile fedele al canovaccio di Doppio Sogno. Ed infatti, sebbene vi siano alcune sostanziali differenze fra la trama del film e quella del racconto, che lascerebbero supporre un totale stravolgimento da parte di Kubrick del racconto di Schnitzler, ad una più accurata analisi è possibile notare come la storia del medico Fridolin e della moglie Albertine venga rivestita e travestita dalla storia di Bill e Alice, e come tale rivestimento sia sufficientemente sottile affinché la trama originale continui ad affiorare. Tutta l’ambientazione è volutamente ambigua sotto questo punto

32 F. Raphael, 1999

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di vista.

Alla Vienna di inizio Novecento viene sostituta la New York odierna durante il periodo natalizio: tuttavia, «la New York descritta da Kubrick è uno strano ibrido tra la Grande Mela della fine del XX secolo e la Vienna di inizio ‘900 in cui è ambientato il racconto di Schnitzler»33. Per quanto si svolga in una città tanto multietnica e moderna, Eyes Wide Shut è costellato di personaggi e nomi europei centro-orientali: il seduttore ungherese Sandor Szavost; il signor Milich, proprietario del negozio di costumi, di provenienza balcanica; lo stesso Ziegler, il quale ha un cognome di chiara origine tedesca. Oppure, appaiono ambienti come il caffè Sharky’s, nel quale Bill si rifugia nel tentativo di sfuggire al misterioso pedinatore, intonato ad un clima tardo romantico e nel quale risuona il brano Rex Tremendae dal Requiem K. 626 di Mozart. Altre scelte musicali alludono alla cultura mitteleuropea: il valzer di Šostakovič che accompagna i titoli di testa e l’inizio del film, o i brani di Liszt e di Ligeti34. O, ancora, alcuni particolari come la carrozzina antiquata che la piccola Helena indica ai genitori nella scena finale. Infine, l’abbondanza di valletti, servitori, maggiordomi sia alla festa in casa Ziegler sia alla festa mascherata, o anche la figura del portiere dell’albergo, tutti personaggi compresi nel loro ruolo di subalterni in una società dominata da rigidi rapporti gerarchici, rimandano più alla civiltà aristocratica dell’Europa precedente la Prima Guerra Mondiale che a una moderna metropoli americana.

Tuttavia, la storia originale di Schnitzler non è la sola che si sente riecheggiare nella vicenda di Bill e Alice. Il film è dominato da una forte atmosfera fiabesca.

All’inizio del film Helena è vestita come la protagonista dello Schiaccianoci e chiede ai genitori il permesso di vedere la fiaba in televisione: alla fine del film, la stessa Helena richiama l’attenzione dei genitori su una versione della Barbie ricalcata sul modello dello stessimo personaggio. Lo Schiaccianoci, un balletto del

33 G. Alonge, 2002, p. 20 34 F. Ulivieri, 2001

38

1892 di Čajkovskij della favola Lo schiaccianoci e il re dei topi di E. T. Hoffmann, è una favola natalizia nella quale si narra di viaggi fantastici, di giocattoli meccanici simili a soggetti umani e di desideri sessuali di una bambina trasfigurati in sogno35. E’ piuttosto evidente il parallelismo fra la storia della fiaba e la storia del film. Anche i riferimenti all’arcobaleno contenuti nel dialogo fra Bill e le due modelle e poi nel nome del negozio di Milich – nella sceneggiatura originaria anche la parola d’ordine della festa orgiastica doveva essere «Fidelio rainbow» – rimandano alla storia del Mago di Oz, la favola di una viaggio fantastico di una ragazzina verso un paese incantato36. Infine, la sequenza iniziale del film, nella quale Bill cerca il portafoglio smarrito prima di recarsi alla festa di Ziegler, può essere paragonata alla scena iniziale di Peter Pan, così come rappresentata dalla versione disneyana del 1952, nella quale i signori Darling si preparano per andare ad una festa ed il padrone di casa reclamerà affinché qualcuno gli cerchi i gemelli che ha smarrito e coi quali deve completare il suo abbigliamento. La figura di Peter Pan raffigura nella riflessione psicoanalitica l’istanza dell’irrazionale, del sognante che si fa tentare dall’immaginazione e che non teme il paradosso, non si sottrae agli impulsi37.

Ma oltre ai rimandi di precise storie di viaggi e di sogni, la gamma di riferimenti culturali disseminati in Eyes Wide Shut è estremamente ampia a complessa. In particolar modo, vorrei sottolineare che mentre la parola d’ordine per accedere alla festa segreta in Doppio Sogno è Danimarca, con una chiara allusione ed un rimando alla confessione del mancato tradimento da parte di Albertine con il giovane ufficiale intravisto durante la vacanza estiva, nel film la stessa è Fidelio, titolo dell’opera di Beethoven che si conclude con un inno all’amore coniugale dopo avere esaltato l’idea di libertà38.

35 R. Eugeni, 1995
36 R. Eugeni, 1995
37 G. P. Caprettini, 2002 38 G. Alonge, 2002

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2.3. Temi a confronto

Nelle sue opere precedenti Doppio Sogno, Schnitzler aveva già affrontato il tema della coppia e dei turbamenti che possono scuotere e minare un felice ed apparentemente tranquillo rapporto, tuttavia analizzando il punto di vista di un solo partner. Allo stesso modo, anche Kubrick, in alcuni suoi film precedenti Eyes Wide Shut, aveva già rappresentato questo tema: si trattava però di coppie anomale, come quella di Humbert e Lolita in Lolita, oppure il motivo apparteneva ad un più ampio affresco e riguardava coppie già in crisi, come in Barry Lindon o in Shining. Con Eyes Wide Shut, invece, il regista pone al centro del racconto l’esplorazione, da parte di una coppia adulta che vive in una sfera di normalità, quella di una tranquilla famiglia borghese, entro i gorghi della psiche, laddove il confine fra realtà materiale e realtà psichica, fra vero e falso, è costantemente rimesso in discussione, e la notte e il giorno si incontrano di continuo, «facendo del viaggio “reale” del marito un’esperienza più onirica e incompiuta del sogno della moglie»39.

L’aspetto saliente della coppia di Bill e Alice, dunque, è la dualità fra aspetto diurno e aspetto notturno, l’apparente normalità di una relazione felice e l’effettivo gorgo di desideri, di gelosie, di ossessioni che essa nasconde e che vengono richiamati alla superficie e liberati solo grazie ad un evento qualunque – la discussione dei due protagonisti in camera da letto, caratterizzata dalla reciproca incomprensione –, come meglio rappresentato nel racconto di Schnitzler. Ma, come sempre avviene nei film di Kubrick, i due aspetti sono separati solo all’inizio della rappresentazione e tendono poi a sovrapporsi. Sintomatico è il rientro di Bill a casa nel corso della terza giornata: un carrello in avanti accompagna il protagonista verso il tinello nel quale si svolge una pacata scena di vita famigliare: Helena sta facendo i compiti con la mamma. Ma quando Bill si reca in cucina e guarda Alice assistiamo al sovrapporsi di due

39 R. De Gaetano, 2002, p. 65

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soggettive del medico: quella visiva ci mostra, con uno zoom in avanti, la donna tranquilla che sorride al marito, quella sonora ci fa ascoltare la voce sconvolta di Alice che racconta la parte più scabrosa del sogno notturno.

Così, gli elementi inquietanti, perturbanti ed inattesi affiorano all’interno della vita domestica, rivelando il fondo oscuro, orrendo e crudele della quotidianità: «la persona che si credeva ben conosciuta diventa inquietante e ignota, il consueto si rivela misterioso»40. Kubrick mostra l’ambiente domestico come un luogo caldo, accogliente, piacevole, conferendogli la stessa atmosfera ovattata e rassicurante con la quale Schnitzler ha aperto il racconto in Doppio Sogno:

[…] La piccola aveva letto [la fiaba] fin lì ad alta voce; ora, quasi all’improvviso, le si chiusero gli occhi. I genitori si guardarono sorridendo, Fridolin si chinò su di lei, le baciò i capelli biondi e chiuse il libro che si trovava sulla tavola non ancora sparecchiata. La bambina lo guardò come sorpresa.

«Sono le nove», disse il padre «è ora di andare a letto». E poiché anche Albertine si era accostata alla bambina, le mani dei genitori si incontrarono sulla fronte amata mentre i loro sguardi si scambiavano un tenero sorriso, che non era più rivolto solo alla bambina.41

Nella maggior parte delle sequenze, ambientate di sera e di notte, l’interno domestico viene posto in netto contrasto visivo con l’esterno mediante una scelta cromatica precisa: le stanze sono illuminate da una luce rossastra e contengono molti elementi scenografici rossi, come tende, tappeti, tovaglie, copriletti o divani, mentre dalle finestre entra una luce bluastra che contrasta sensibilmente con l’altra. Le tonalità rosse denotano un luogo caldo ed accogliente, ma allo stesso tempo rappresentano la tentazione ed il desiderio e indicano una situazione esistenziale in cui è presente il perturbante, il demoniaco, il misterioso. Le tonalità bluastre, oltre a raffigurare il buio della

40 F. Prono, 2002, p. 58

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notte e a conferire al film un’atmosfera onirica, conferiscono una sensazione di pericolo proveniente dal mondo esterno, dall’ignoto. Secondo i diversi momenti della vicenda, queste due dominanti cromatiche si fronteggiano e coesistono l’una accanto all’altra in modo equilibrato, oppure una delle due prevale fino ad annullare l’altra. Ad esempio, nella sequenza in cui Bill, rientrato in casa dopo avere assistito all’orgia notturna, nasconde in un armadietto l’abito noleggiato, oppure in quella in cui il medico trova sul letto la maschera misteriosamente perduta, la semioscurità affogata nel blu segnala l’invasione del mondo esterno dentro il mondo domestico42.

Nel racconto di Schnitzler non vi sono indicazioni né descrizioni dettagliate che prendano in considerazione l’ambientazione, i colori o la fisionomia dei personaggi, o, ancora, che rendano concreto l’aspetto ambivalente della coppia di Fridolin e Albertine. L’intero racconto è permeato da un’atmosfera onirico- surreale che lascia ampio spazio all’immaginazione: ciò che più conta in Schnitzler, suppongo, sono le parole che vengono utilizzate per penetrare la mente, le sensazioni ed i sentimenti più intimi dei protagonisti. Nella mente del lettore che scorre le pagine si cela la costante ed insidiosa domanda sulla veridicità di quanto si sta leggendo: forse, l’intera storia è un sogno. Tale scarsità di particolari ha permesso, a maggior ragione ad un regista tanto eccentrico, indipendente ed innovativo quale è stato Kubrick, da un lato di aderire alla trama e alle tematiche di Doppio Sogno, facendo in modo che la storia originale emergesse costantemente, dall’altro di marchiare il film con la propria inconfondibile firma e con le proprie preferenze stilistiche, senza stravolgere il senso della vicenda.

Dunque, non è soltanto l’ambiente domestico nel quale vivono i due protagonisti e dal quale prendono avvio sia la storia in generale sia, nello specifico, la storia del doppio viaggio di Bill e Alice ad essere caratterizzato

41 A. Schnitzler, 1977, p. 11 42 F. Prono, 2002

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dalla dualità del giorno e della notte, dell’istinto e della ragione, dell’amore e delle pulsioni sessuali. Sul piano cromatico tutto il film è giocato sul contrasto fra questi due colori, il rosso e il blu, costantemente giustapposti: Alice in vestaglia blu mentre pettina la figlia vestita di rosso, la tenda rossa contro la luce azzurra della finestra nella scena del litigio tra i due coniugi, la luce blu e i drappi rossi nel negozio di Milich, i due giapponesi che indossano rispettivamente una camicia blu ed una rossa, e via dicendo. Il contrasto cromatico è inoltre evidente nell’alloggio della prostituta, nel Sonata Cafe, dove Bill incontra l’amico pianista che gli fornisce poi l’indirizzo e la parola d’ordine per accedere all’orgia, nella sala da biliardo di Ziegler, nel palazzo della festa mascherata: in questi luoghi il rosso perde ogni connotato caldo, mantenendo solamente quello che suggerisce un senso di inquietudine e di morte. Un presentimento negativo, infatti, emerge dal rosso intenso di vari oggetti: la pedana sulla quale l’amico suona il pianoforte nell’abitazione di Ziegler, la poltrona sulla quale è distesa Mandy mentre si sente male, le pareti del Sonata Cafe e del bar dove Bill legge il giornale, il portone d’ingresso della casa della prostituta, le tende ed i tappeti della villa nella quale ha luogo l’orgia, così come il mantello rosso che indossa l’officiante, il panno del biliardo di Ziegler, ed anche le pareti e gli scaffali nel negozio di giocattoli, o la maglia con cui è vestito Bill nel finale, vari oggetti e decorazioni che alludono al Natale. La festività natalizia, in effetti, non mostra alcun aspetto autenticamente gioioso e positivo, ma sembra in qualche modo il raddoppiamento dell’orgia – caratterizzata da movimenti altamente coreografici ed impostati, sincopati, per nulla naturali –, un rito sociale e famigliare che a quella corrisponde43.

A questo proposito, la coppia di Bill e Alice appare come frammento e specchio del più ampio sistema sociale in cui è inserita. Anche la società nel suo complesso vive sul filo che separa due dimensioni, l’una diurna e l’altra notturna, sempre pronte a richiamarsi fra di loro e a sovrapporsi. Rivelatore di

43 F. Prono, 2002

43

questo aspetto è il ruolo espressivo e narrativo che rivestono all’interno del film le due feste in cui è coinvolto il protagonista: la festa iniziale a casa di Ziegler, caratterizzata dalla presenza di una luminosità diffusa e insistente, e quella notturna nella villa isolata, festa di ombra ammantata dal mistero44. Le sequenze di entrambe le feste durano esattamente diciassette minuti ed appaiono l’una come l’inverso ma anche il completamento dell’altra. La festa di Ziegler presenta un affiorare del desiderio nelle situazioni di corteggiamento in cui vengono coinvolti sia Bill sia Alice, entrambi si sentono sfiorati da «un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo»45 che li spingerà poi verso quel territorio nascosto, fluttuante e misterioso della parte più intima della loro anima: il medioconscio. Questa festa prevede inoltre un “fuori scena” – il bagno in cui Ziegler stava consumando il suo rapporto sessuale con la giovane modella prima che quest’ultima si sentisse male –, apparentemente immotivato, e che invece prepara narrativamente all’altra festa. Sintomatico è il codice vestiario: all’inappuntabile smoking di Ziegler fa riscontro la sua seminudità nella sequenza del bagno. In merito a tale sequenza, vorrei aggiungere l’acuta osservazione di Prono:

Nel Dottor Stranamore come in Shining e in Full Metal Jacket vediamo che il corpo umano da un lato soffre del mascheramento, dell’annullamento prodotti su di lui dalla civiltà, dalla razionalità, dalla macchina; dall’altro rivela a tratti la propria debolezza organica e la grande vulnerabilità, mostra il bisogno di consumare cibo e di ottemperare a tutte le necessità fisiologiche.46

Questo spiega il fatto che svariate sequenze nei film di Kubrick siano ambientate in cucine e in stanze da bagno, dove spesso vengono rappresentati con efficacia la malattia, la follia o la morte, come nel caso preso in esame in

44 R. Eugeni, 2002
45 A. Schnitzler, 1977, p. 14 46 F. Prono, 2002, p. 48

44

Eyes Wide Shut.

La festa a casa Ziegler, così luminosa, caratterizzata da un ambiente nel quale le persone vestono abiti elegantissimi e stupendi e chiacchierano secondo le convenzioni della morale borghese, dove nulla viene lasciato al caso o dichiarato in modo esplicito – le due modelle che corteggiano Bill utilizzano numerosi doppi sensi e non sono mai chiare: ad esempio, il significato del loro invito, rivolto a Bill, a seguirle «là dove finisce l’arcobaleno»47 è lasciato in sospeso e l’allusione alla successiva festa può essere colta dallo spettatore solo molto più avanti –, dunque, è la riproduzione ed anticipazione della successiva festa, l’orgia notturna e segreta, stilizzata e regolata come un balletto, nel quale i corpi si muovono quasi come manichini secondo la reiterazione esasperata dell’atto sessuale. La ritualità funeraria dell’orgia è possibile, peraltro, soltanto sotto una stretta copertura di segretezza e dissimulazione che comporta l’utilizzo di maschere e di mantelli sul corpo48.

Ancora una volta, la scena sociale appare in Kubrick come un luogo di rappresentazione e di travestimento. Tutte le persone che si muovono nell’ambiente benestante in cui vive Bill si coprono con le maschere delle convenzioni sociali, sono esse stesse maschere che celano la loro vera identità. Illuminante a questo proposito è la battuta con cui Bill, dopo che ha cominciato a ballare con Alice in casa di Ziegler, rispondendo alla domanda della moglie: «Non c’è nessuno che conosci qui?» le dice: «No, neanche un’anima»49. Nel film, infatti, vengono continuamente mostrati corpi, nudi o semi-svestiti, ma non si discute mai dell’interiorità delle persone. E più esplicito nell’annunciare il tema del travestimento e dell’ipocrisia borghese è il racconto di Schnitzler, poiché già la prima festa si presenta in forma mascherale – la vicenda di Doppio Sogno, in effetti, si svolge nella Vienna di inizio Novecento

47 S. Kubrick, 1999 48 F. Prono, 2002 49 S. Kubrick, 1999

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proprio durante il periodo carnevalesco: «Quanto a Fridolin, appena entrato in sala era stato salutato come un amico atteso con impazienza da due maschere in domino rosso che non era riuscito a identificare […]»50. Inoltre, questo è l’unico momento della storia in cui Schnitzler nomina il colore rosso, che raffigura in questo caso la tentazione cui viene sottoposto Fridolin e l’affiorare del desiderio, e che è stato poi riproposto e raffigurato in modo più esteso da Kubrick nella sua personale rappresentazione della dualità fra notte e giorno in Eyes Wide Shut.

Centrale, quindi, sia nel racconto sia nel film, è il motivo della maschera: le maschere grottesche e deformate dei partecipanti dell’orgia notturna non sono altro che l’estrinsecazione di un più generale principio di mascheramento sociale. Per sua natura, la maschera si adopera in due sensi complementari e distinti:

Espropria l’individualità di chi la indossa ed al contempo gliene garantisce due ben distinte: una allegorica, che è raffigurata dalla maschera stessa, e l’altra puramente proiettiva, ideata da chi questa maschera la osserva e nell’impossibilità di scorgere il volto nascosto ne immagina uno a suo discernimento. Sta qui l’eyeswideshut kubrickiano, l’inintelligibilità di un volto, di uno sguardo, di un’espressione nascosti dietro l’infinita gamma di maschere tutte diverse per se stesse ma tutte drammaticamente uguali per chi le guarda.51

Esemplare sotto questo aspetto è il lavoro compiuto da Kubrick con il volto e gli stili mimici di Tom Cruise. Le espressioni tipiche dell’attore – il sorriso seducente, lo sguardo brillante ed allusivo, un certo sollevare le sopracciglia per sottolineare i buoni intendimenti e la sincerità – vengono fissate e serializzate in una piccola galleria di smorfie ricorrenti, buone per ogni occasione ed al

50 A. Schnitzler, 1977, p. 12 51 S. Ciaruffoli, 2003, p. 93

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tempo stesso suscettibili di improvvisi svuotamenti52. Un esempio è la sequenza nella quale Bill si reca nuovamente a casa della prostituta, dove però trova la coinquilina che gli parla della malattia dell’amica: il volto inespressivo ed impassibile, il sorriso seducente e al contempo imbarazzato, i movimenti legnosi del corpo mirano a mascherare in modo ridicolo la sua incapacità di rispondere in modo adeguato alle sorprese che la vita gli riserva, nascoste oltre la superficie dei riti sociali quotidiani.

I suoi rapporti col mondo circostante si rifugiano continuamente in un cerimoniale meccanico e perbenista, che riduce la comunicazione a puro esercizio fatico: all’inizio del film, quando i due coniugi si stanno preparando per recarsi alla festa di Ziegler e lui dice alla moglie che è bellissima, lei protesta che in realtà non l’ha nemmeno guardata. E della comunicazione fatica fanno parte anche le sue abitudini di ripetere sempre, in forma di domanda, l’ultima parte del precedente discorso dell’interlocutore53.

D’altro canto, il principio del mascheramento è pervasivo e coinvolge gli stessi ambienti: questi sono tutti decorati con le stesse luci natalizie, ora bianche – nella casa di Ziegler e successivamente in una parte del negozio di Milich – ora colorate – nell’abitazione di Bill e Alice, nel negozio di giocattoli, nella casa della prostituta –, come se una seconda pelle uniformante si stendesse sugli ambienti più diversi. Occorre attendere l’orgia mascherata della villa per scoprire, finalmente, uno spazio spoglio di questa patina colorata e luminescente e tale dunque da rivelare la verità delle proprie superfici, laddove la società si mostra per quella che è: una messinscena nella quale le identità sono andate perdute.

Di fondamentale importanza, sia nel racconto di Schnitzler sia nel film di Kubrick, è la scena nella quale il protagonista, rientrando a casa, trova la maschera sul suo cuscino accanto alla moglie addormentata. La maschera,

52 R. Eugeni, 1995 53 F. Prono, 2002

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situata nel luogo occupato durante il sonno – il sogno – del/dal medico, lo raffigura e lo sdoppia, risvegliandolo dal suo torpore e ponendolo di fronte al suo Es onirico. Al contempo, la stessa è la prova che gli avvenimenti vissuti hanno in qualche modo valicato il confine fra sogno e realtà, guadagnandosi una forma concreta. Diviene la prova tangibile del mondo immaginario del protagonista maschile: in questo frangente il fantastico risale «la gora dell’irreale su fino alla luce e assurge il simbolo dello smascheramento della messinscena»54.

Come spiega anche Eugeni55, poi, il gioco della rappresentazione sociale appare nel suo complesso tenue, fragile, sempre pronto a rivelare le sue trame e la sua artificiosità; e finisce così per affiorare il principio che muove effettivamente le azioni e le scelte dei soggetti: il principio del desiderio e la ricerca della verità, il cui statuto rimane incerto e sfuggente. La storia di Bill, dunque, consiste in un continuo rinvio non solo nel possedere una donna, ma anche e soprattutto nel possedere in forma definitiva una verità. Significative sono allora le parole di Alice nelle battute finali: il fatto che la coppia sia uscita indenne dalle avventure della notte viene legato alla possibilità che la realtà di tali esperienze corrisponda ad una verità.

2.4. Strutture a confronto

2.4.1. Rappresentazione dello spazio e movimenti di macchina

Dal punto di vista dei procedimenti di scrittura cinematografica Eyes Wide Shut conferma l’attrazione di Kubrick per un utilizzo insistito dei movimenti di

54 S. Ciaruffoli, 2003, p. 107 55 R. Eugeni, 1995

48

macchina. Carrelli e steady cam sono presenti per tutto il film. Più in particolare, lo spazio viene rappresentato secondo due modalità. Alcuni spazi sono resi dinamici grazie all’uso di carrelli all’indietro – a casa di Ziegler o nel negozio di giocattoli –, o in avanti – nel negozio di costumi o nei ritorni di Bill a casa –, o laterali – nelle scene in strada –, oppure mediante movimenti più complessi ed elaborati, di andamento circolare – durante il ballo alla festa di Ziegler o all’ingresso nella villa dell’orgia. Altri spazi, invece, sono resi statici da inquadrature fisse, che insistono spesso sui primi o primissimi piani dei soggetti lasciando fuori fuoco il resto dello spazio: in questo caso viene utilizzato lo zoom, che sottolinea la volontà di indagare da vicino i volti: ad esempio, nella scena del bagno in casa Ziegler, nell’abitazione della prostituta, o, ancora, nella camera da letto dei coniugi durante il litigio, all’interno del taxi che conduce Bill alla villa dell’orgia, nel caffè dove Bill legge il giornale e nell’obitorio56.

In particolare, però, è la figura della carrellata, e nello specifico quella all’indietro, a dominare il dipanarsi della vicenda in Eyes Wide Shut.

Come Schnitzler nella sua novella Doppio Sogno, anche Kubrick preferisce entrare subito nel vivo della vicenda, presentando con pochi tratti essenziali situazioni e personaggi. Dunque, sia nel romanzo sia nel film si avverte sin dalle prime battute un sensibile sbilanciamento verso la parte centrale del racconto, ovvero verso il culmine del viaggio onirico-surreale dei due protagonisti, in particolare quello del medico, che rappresenta sia per lo scrittore viennese sia per il regista il vero protagonista della vicenda. La stessa forza che richiama Bill in avanti verso la profondità dell’immagine – e quindi verso la macchina da presa che simultaneamente carrella all’indietro – è sia una sorta di coazione narrativa che accompagna il suo percorso verso il centro della storia sia la cifra stilistica che permette allo spettatore di avvertire lo stesso

56 R. Eugeni, 1995

49

senso di smarrimento che permea il personaggio interpretato da Cruise57.

Ecco l’elenco dei movimenti di macchina al seguito di Bill Harford contenuti nel film.

Carrellate all’indietro:

  1. IconiugiHarfordesconodallacameradalettoesalutanolafigliaprima di recarsi al ricevimento della famiglia Ziegler.
  2. Giunti alla festa, percorrono il corridoio che li conduce alla scalinata illuminata di fronte alla quale li attendono i coniugi Ziegler.
  3. Bill, sempre al ricevimento, intrattiene un dialogo con l’amico pianista.
  4. Bill passeggia a braccetto con le due modelle.
  5. Victor Ziegler e Bill si accingono ad uscire dal bagno dopo che quest’ultimo ha prestato le sue cure a Mandy.
  6. Bill passeggia in strada dopo avere lasciato il paziente deceduto e prima di incontrare la prostituta.
  7. Bill scende le scale del Sonata Cafe.
  8. Assieme a Milich percorre il corridoio del negozio Rainbow Fashion.
  9. Nella villa passeggia a braccetto della donna misteriosa mentre questa lo avverte di abbandonare la festa.
  10. Bill sfila osservando le scene dell’orgia.
  11. Lo stesso viene accompagnato di fronte all’officiante.
  12. Bill entra nell’albergo per cercare l’amico pianista.
  13. Torna per la seconda volta al negozio di costumi.
  14. Torna in automobile alla villa dell’orgia.

57 S. Ciaruffoli, 2003

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15. Rientra a casa mentre la figlia sta facendo i compiti assieme ad Alice. 16. Si ripresenta a casa della prostituta.
17. Bill, accortosi di esser pedinato, entra nel caffè Sharky’s.
18. Percorre il corridoio che lo conduce all’obitorio.

19. Esce dall’obitorio.
20. Torna per la seconda volta a casa di Ziegler.
21. Nella sala del biliardo Bill sia allontana da esso per sedersi sul divano. 22. Rientra a casa, dove ritrova la maschera sul cuscino.
23. Bill passeggia assieme ad Alice nel negozio di giocattoli.

Carrellate in avanti:

  1. Bill, entrato nell’abitazione del paziente defunto, si dirige verso la camera da letto.
  2. Uscito dalla predetta abitazione viene importunato da un gruppo di facinorosi.
  3. Rientra a casa nel cuore della notte dopo essere stato alla villa della festa mascherata.

Carrellate laterali:

  1. Bill passeggia per strada prima di essere importunato dai facinorosi.
  2. Si dirige verso l’abitazione della prostituta.

3. SiavvicinaalSonataCafe.

È evidente la prevalenza numerica dei movimenti di macchina rivolti verso la profondità della scena piuttosto che quelli laterali.

Il regista, infatti, non ha bisogno di rappresentare la discesa verso l’inconscio da parte del protagonista attraverso l’utilizzo degli espedienti formali più classici del cinema: l’arretramento della macchina da presa assieme all’avanzare

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pletorico di Bill diviene anche e soprattutto architettura e territorio dell’inconscio58.

Questo movimento di macchina è quello che più si avvicina al tipo di osservazione e di indagine da parte del protagonista. Con la carrellata all’indietro ci situiamo al vertice del punto di fuga dello sguardo di Bill: siamo qualche istante prima di lui nel luogo del suo percepito, tuttavia percependolo qualche istante dopo. Con la carrellata in avanti, invece, scorgiamo simultaneamente il dipanarsi della visione del protagonista, tuttavia raggiungendo brevemente in ritardo la sua prospettiva59. In entrambi i casi noi spettatori siamo con Bill e siamo in grado di seguire il flusso della narrazione grazie all’estensione del suo sguardo. Questo tipo di narrazione viene denominato «a focalizzazione interna» ed è lo stesso espediente narrativo utilizzato da Schnitzler, che ci consente di leggere il racconto Doppio Sogno dal punto di vista di Fridolin, attraverso i suoi pensieri, senza tuttavia utilizzare il flusso di coscienza. In altri film, come in Full Metal Jacket e in Arancia Meccanica, era compito del voce over, appartenente in entrambi i casi al protagonista, guidare lo spettatore all’interno della vicenda; in Eyes Wide Shut, invece, la parola è soppressa a favore dell’immagine: essendo la storia densa di ingerenze oniriche, la fluidità del racconto unita alla struttura particolare dei sogni sarebbe risultata sovraccaricata se fosse stata molestata da un’oratoria extra- filmica.

Il film ospita soltanto due momenti che rifuggono l’espediente della focalizzazione interna a favore del punto di vista della macchina da presa e del regista, che finalmente annuncia la sua presenza e pone la sua firma: la scena dell’obitorio e quella nella sala da biliardo a casa di Ziegler.

Nella prima sequenza, Bill, entrato in obitorio, si appresta a distinguere – o a tentare di distinguere – in Amanda Curran la donna misteriosa che si è

58 S. Ciaruffoli, 2003 59 S. Ciaruffoli, 2003

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sacrificata per lui durante la festa mascherata. Ma, appena estratto il lettino dalla cella, avviene un cambio brutale di prospettiva: una plongée sul corpo della donna ci scosta da Bill confinandolo al margine dell’inquadratura. Ora ci troviamo nel punto di vista della macchina da presa, che ci regala un ampliamento del nostro orizzonte interpretativo: Mandy non è la donna misteriosa. Ella, infatti, ha gli occhi aperti – solo per lo spettatore – e ci è dato conoscere il suo aspetto grazie alla plongée adottata. Nell’inquadratura successiva, nuovamente secondo il punto di vista di Bill ed il suo mondo, la donna ha le palpebre abbassate: così, egli non riesce a raggiungere la certezza che Amanda possa essere la donna misteriosa o che, viceversa, non lo sia. Per un solo istante, dunque, il viaggio dello spettatore si è congiunto a quello del regista e si è separato da quello del personaggio e, proprio come recita il titolo, anche lo sguardo si è scisso in due: occhi aperti per lo spettatore, serrati per Bill60.

Nella seconda sequenza presa in esame, Bill, uscito dall’obitorio e ancora immerso nei suoi pensieri, viene interrotto da una telefonata e chiamato a casa di Ziegler, dove sembra lo attendano alcune spiegazioni: si tratta della famosa scena nella sala del biliardo, da molti criticata e contestata, che denota la massima riconoscibilità nell’impostazione simmetrica, frontale, e nell’impronta teatrale tipiche del cinema di Kubrick.

L’avvenimento narrato in questa sequenza, così come la sua struttura simmetrica, inoltre, sembrano rifarsi ad una scena di un celebre film di Alfred Hitchcock, La donna che visse due volte (titolo originale: Vertigo), nella quale Tom Helmor si confida con James Stewart sulle stranezze della moglie pregandolo, in qualità di ex compagno di scuola ed ex poliziotto, di pedinarla61. In verità, lo spettatore intuisce che la confessione di Helmor è pura invenzione, uno stratagemma per impossessarsi e godere indisturbato i soldi dell’eredità della

60 S. Ciaruffoli, 2003 61 S. Ciaruffoli, 2003

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moglie: Hitchcock non lo nasconde del tutto e l’evoluzione della scena non fa altro che svelarlo attraverso un uso teatrale dello spazio. Così, Helmor diviene attore della rappresentazione nella rappresentazione. Al momento della confessione menzognera, infatti, l’impresario Helmor va a porsi su un piano rialzato della stanza e al contempo Stewart si distacca da esso andando a sedersi in una poltrona. Magistralmente Hitchcock riproduce la situazione teatrale che vede lo spettatore seduto in platea e l’attore sul palco.

Col medesimo procedimento Kubrick ritrae il suo protagonista, Bill, in un ambiente teatrale che si rifà a quello falso di La donna che visse due volte, denunciando a maggior ragione la finzione nell’interazione fra i due personaggi. Così, non è solamente la sua impostazione teatrale – l’aumento spropositato della profondità di campo, Bill che si rivolge allo spettatore di un’ipotetica platea dando le spalle a Ziegler, la comunione dei punti di fuga della stanza con quello dello schermo – a ricordare la stanza del predetto film, ma soprattutto il suo arredamento. Rifacendosi in maniera indubitabile alla sequenza ed alla stanza del film di Hitchcock, Kubrick pone immediatamente in discussione e rende ambiguo il recitato di Bill e Ziegler. Inoltre, tale sequenza è ambientata attorno ad un biliardo ricoperto di un panno rosso, che ricorda e rinnova quello sul quale si svolge la cerimonia, il rito di iniziazione delle ancelle mascherate durante l’orgia nella villa segreta. Inoltre, il biliardo è la traslazione di un gioco che alla sua nascita si svolgeva all’aperto, o comunque su di un ampio spazio calpestato fisicamente dai suoi partecipanti – e di quello spazio rimane infatti il verde che richiama il colore del prato. Nelle due sequenze dell’orgia e del biliardo il colore protagonista non è il verde bensì il rosso ed il rito, con le sue regole, viene disciplinato rispettivamente dall’officiante vestito anch’egli di rosso e da Victor Ziegler, i quali divengono registi dell’artificio ludico62. Emblematico, poi, è il momento in cui Bill, esausto, mostra a Ziegler il ritaglio di giornale, domandandogli se la Amanda

62 S. Ciaruffoli, 2003

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dell’articolo corrisponda alla donna misteriosa che si è sacrificata per lui. Ziegler, che in questo momento è vicino a Bill, si allontana per recarsi di fianco al biliardo, lo tocca e solo dopo risponde, con spudorata falsità evidenziata da uno stacco che ci mostra un suo primo piano illuminato dalle lampade: «Era lei»63. Ma è una menzogna. Amanda è sì la ragazza morta per overdose dell’articolo di giornale, ma non è la donna misteriosa: basta guardare i titoli di coda. I due personaggi sono stati recitati da due attrici diverse. Inoltre, Ziegler confessa a Bill, ancora a ridosso del biliardo, che Amanda non sarebbe stata uccisa durante l’orgia, bensì sarebbe stata accompagnata a casa da due partecipanti alla festa notturna: questo dettaglio non coincide con quanto scritto nell’articolo di giornale, secondo il quale la ragazza sarebbe stata accompagnata sì da due signori, ma in un albergo64. Dunque, la spiegazione offerta nella scena della sala del biliardo è falsa e la storia rimane enigmatica e senza soluzione.

2.4.2. Figura della geminazione simmetrica

Eyes Wide Shut si configura dunque come una sorta di lungo, ininterrotto viaggio che passa attraverso strade, stanze, corridoi per arrestarsi solo provvisoriamente in alcuni luoghi, dove pure continua una sorta di avanzamento all’interno degli individui – mediante l’utilizzo dello zoom.

A prima vista, questo viaggio sembra possedere un andamento continuo ed una perfetta forma circolare: esso parte da casa Harford e lì è destinato a terminare dopo avere toccato nuovamente, nella seconda parte, tutte le tappe della prima.

Effettivamente, il racconto di Schnitzler regala con maggior forza questa impressione di complessiva coerenza ed è strutturato secondo un andamento

63 S. Kubrick, 1999
64 È possibile prendere visione dell’articolo di giornale scritto in inglese e della sua traduzione in italiano in F. Ulivieri, 2001

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circolare, diviso al suo interno in due parti disposte simmetricamente fra di loro. Le peregrinazioni di Fridolin sono strutturate secondo il seguente schema:

Sera 1

Casa Fridolin e Albertin e

Casa paziente defunto

Strada: facinoro si

Casa prostitui ta

Caffè del pianista

Negozio costumi

Villa dell’orgi a

Giorno 2

Casa Fridolin e Albertin e

Caffè del pianista e albergo

Negozio costumi

Villa dell’orgi a

Sera 2

Casa Fridolin e Albertin e

Casa paziente defunto

Casa prostitut a

Caffè del giornale e obitorio

Casa Fridolin e Albertin e

Come si può notare, l’abitazione di Fridolin e di Albertine rappresenta il punto di partenza e di arrivo di ciascun segmento narrativo. Viceversa, la villa dove si svolge l’orgia mascherata rappresenta il punto di massima lontananza prima del ritorno a casa da parte di Fridolin. Inoltre, la sequenza percorsa dal medico durante la notte del primo giorno viene ripercorsa dallo stesso il secondo giorno, ma in un ordine differente: di giorno Fridolin ripercorre le tappe finali del viaggio della notte precedente, mentre di sera ripercorre le tappe iniziali, secondo una struttura simmetrica A-B-B-A. Il racconto termina nuovamente nell’abitazione dei due protagonisti, laddove era iniziato.

Al contrario, un’analisi più attenta della struttura del film rivela che il viaggio

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del medico qui rappresentato è tutt’altro che circolare, coerente e continuo.

In primo luogo, la forma delle sue peregrinazioni non è affatto circolare, ma è caratterizzata da una struttura più complessa che si dipana secondo il seguente schema:

Sera 1

Casa Harford

Casa Ziegler

Sera 2

Casa Harford

Casa paziente defunto

Strada: facinorosi

Casa prostituta

Sonata Cafe

Rainbow Fashion

Somerton

Giorno 3

Casa Harford

Sonata Cafe e albergo

Rainbow Fashion

Somerton

Sera 3

Casa Harford

Ambulat orio: telefonata a Marion

Casa prostituta

Strada: pediname nto

Sharky’s e obitorio

Casa Ziegler

Giorno 4

Casa Harford

Negozio giocattoli

Come nel racconto di Schnitzler, l’abitazione dei due protagonisti rappresenta anche nel film il punto di partenza e di arrivo di ciascuno dei segmenti narrativi, mentre il punto di massima lontananza raggiunto prima del ritorno è qui rappresentato dalla casa di Ziegler e dalla villa a Somerton, in una disposizione a geminazione simmetrica A-B-B-A. Questo mostra una piccola

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variazione rispetto alla struttura del libro. Anche nel film, poi, la sequenza percorsa la notte del secondo giorno – la storia del film è incentrata in quattro giorni anziché due – viene ripercorsa il terzo giorno in un ordine particolare: di giorno Bill ripercorre le tappe finali del viaggio della notte precedente, mentre durante la sera torna sui luoghi della prima parte, con alcune modifiche. La struttura A-B-B-A appare quindi anche nell’alternanza dei posti toccati da Bill tra il secondo ed il terzo giorno.

A guidare gli spostamenti di Bill, dunque, non è una figura circolare, bensì la figura della geminazione simmetrica, rafforzata nel film dai cambiamenti alla trama apportati da Raphael e Kubrick, la quale possiede una logica speculare: essa presenta della seconda parte – B-A – il riflesso speculare della prima – A- B. Il percorso nel negozio di giocattoli è l’unico momento del film a uscire da tale logica, quasi ad evidenziare il fatto che i protagonisti sono usciti dal sistema spaziale che li aveva fin qui tenuti avvinti65.

Questa logica della specularità, d’altra parte, assieme all’iterazione di elementi identici o simili che mette in crisi il meccanismo della progressione lineare, attraversa per intero sia il racconto di Schnitzler sia, in maniera più evidente e con un impatto molto più forte anche grazie alle proprietà intrinseche delle immagini che mostrano ciò che le parole scritte possono solo riferire ed evocare, il film di Kubrick, costituendo effetti di eco e di corrispondenza fra le parti che li compongono.

Doppio Sogno è caratterizzato dalla figura del doppio, che si presenta sia in motivi figurativi come le «due maschere in domino rosso»66 conosciute da Fridolin durante la festa iniziale, i due uomini coi quali viene scoperta la figlia del mascheraio nel negozio di costumi, i due uomini che prelevano l’amico pianista dal suo albergo durante la notte o le due prostitute con le quali il medico si intrattiene prima e dopo gli avvenimenti del suo viaggio notturno, sia

65 R. Eugeni, 1995
66 A. Schnitzler, 1977, p. 12

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in una fitta serie di richiami fra momenti differenti dell’opera: la confessione di Albertine in merito alla sua attrazione per il giovane ufficiale di marina viene richiamata da quella di Marianne, che confessa il suo amore represso a Fridolin accanto al padre deceduto; la scena nell’orgia notturna viene riecheggiata nella narrazione del sogno da parte di Albertine al ritorno a casa del marito, così come l’intero sogno rappresenta la reiterazione del viaggio compiuto da Fridolin durante la notte, sebbene di segno opposto. Come già accennato, il racconto stesso è costituito da due parti speculari, dove la seconda parte rappresenta la ripetizione della prima, ma di carattere opposto.

I temi del doppio e della reiterazione di elementi e di avvenimenti identici o simili fra di loro, così come la logica della specularità che attraversa e permea l’intera storia, sono stati ripresi e riproposti da Kubrick in modo quasi ossessivo e sanciscono la struttura labirintica, inestricabile e misteriosamente sempre uguale a se stessa che è propria della vita umana, per cui sia i desideri di fuga sia la ricerca della novità e del cambiamento sono puramente illusori. I raddoppiamenti continui, inoltre, raffigurano i diversi aspetti e le diverse facce delle persone che popolano la trama del libro e del film67.

Dunque, i motivi figurativi del doppio tornano insistentemente: le due modelle che accompagnano Bill durante la festa a casa Ziegler, i due giapponesi nel negozio di costumi, le due prostitute, le quali vivono in un appartamento la cui porta d’ingresso combacia con una porta gemella – tant’è che quando Bill torna per la seconda volta a casa della prostituta, inizialmente non sa a quale porta bussare –, le due donne misteriose alla festa orgiastica, delle quali una cerca di avvertire Bill del pericolo cui si sta sottoponendo restando lì, mentre l’altra cerca di coinvolgere e trattenere Bill alla festa. Il doppio viene rappresentato nel film anche grazie all’utilizzo di specchi presenti in numerosi contesti: ad esempio, il film si apre proprio con l’immagine di Alice di fronte ad uno specchio; e quando, al ritorno a casa dopo la festa di Ziegler, i due

67 F. Prono, 2002

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protagonisti si accingono a fare l’amore di fronte allo specchio, la macchina da presa stringe su quest’ultimo, escludendo dal campo i corpi reali a favore del loro simulacro riflesso nel vetro. Vi sono poi elementi iconografici identici: l’immagine dell’arcobaleno chiamata in causa dalle due modelle alla festa di Ziegler viene successivamente incarnata dal nome del negozio di Milich. Ma in Eyes Wide Shut spesso le coppie non sono formate da elementi identici. Nella prima inquadratura, mentre ancora scorrono i titoli di testa, Alice viene ripresa di fronte allo specchio mentre si lascia cadere il vestito e rimane completamente nuda; poi, dopo un inserto che mostra una strada cittadina percorsa da uno scarso traffico notturno, appare Bill perfettamente vestito in smoking di fronte allo stesso specchio. Lo spazio è il medesimo, però ha subito alcune modifiche: nell’inquadratura con Bill è comparso un tappeto ed è scomparsa la lampada nell’angolo della stanza. Inoltre all’inappuntabile smoking del medico fa riscontro la nudità intergale di Alice nella scena precedente. Come in Doppio Sogno, poi, rimane nel film una fitta serie di richiami tra scene differenti: la confessione di Alice circa la sua attrazione per l’ufficiale di marina viene richiamata dalla scena nella quale la figlia del paziente deceduto confessa il suo amore represso a Bill; la telefonata che interrompe il dialogo fra Bill e Alice durante il litigio in camera da letto ritorna a interrompere Bill e la prostituta e nel sottofinale richiama Bill a casa di Ziegler. La scena dell’orgia a Somerton viene riecheggiata nella narrazione del sogno da parte di Alice a Bill al suo rientro. Vi sono, inoltre, inquadrature simili o identiche che appaiono nel corso del film: ad esempio, l’inserto che mostra la strada di fronte all’abitazione dei due protagonisti appare sia all’inizio del film, durante lo scorrimento dei titoli di testa, sia, identica, prima del rientro a casa di Bill subito dopo il dialogo nella sala del biliardo con Ziegler. Anche alcune espressioni verbali tornano in situazioni differenti della vicenda: per esempio, la frase «devo proprio essere sincero»68 (nell’originale «to be perfectly honest»)

68 S. Kubrick, 1999

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viene pronunciata per tre volte: prima da Bill, mentre parla con la cameriera del bar di fianco al Sonata Cafe, poi dal concierge dell’albergo quando Bill tenta di ritrovare l’amico pianista, infine dalla coinquilina della prostituta quando questa rivela al medico la malattia dell’amica. Tale frase viene riecheggiata anche nel «devo proprio essere sincero» (nell’originale «I have to be completely frank») pronunciato da Ziegler nella scena della sala del biliardo. Come già detto, sul piano cromatico l’intero film è caratterizzato dalla presenza dei colori rosso e blu costantemente giustapposti. Infine, vi sono alcuni ambienti che si richiamano: in particolare, negli esterni la strada che si innesta a T sull’altra strada e presenta in fondo una vetrina aggettante – di volta in volta un locale anonimo, il Rainbow Fashion o lo Sharky’s – sembra tornare identica in situazioni e punti differenti del film: nella scena dell’aggressione da parte dei facinorosi, in quella del pedinamento, e via dicendo. A tale proposito, sottolineerei un ulteriore fatto: le strade dispiegate di fronte agli occhi di Bill non appartengono alla vera New York, ma appartengono in realtà a set ricostruiti negli studi Pinewood a Londra. Giacché «Ricostruire un ambiente in studio determina così la possibilità di modificarne degli aspetti per rendere più espressivo e funzionale il contributo significante dell’ambiente stesso all’opera come intero»69. Ed infatti, la permanente impronta di artificiosità delle strade è costantemente messa in ostentazione da Kubrick, che conduce il suo protagonista in un viaggio della mente, in una New York labirintica che rappresenta la proiezione della stessa da parte della mente di Bill nel suo viaggio all’interno dei meandri dell’inconscio70, esattamente come Schnitzler in Doppio Sogno insiste nel descrivere la spettralità dell’ambiente circostante Fridolin, improvvisamente a lui ignoto, così come l’ingannevole ed artificiosa vicinanza della primavera che viene ad un tratto ad interrompere il freddo della bianca notte invernale:

69 G. Rondolino, D. Tomasi, Manuale del film, citato in S. Ciaruffoli, 2003, p. 66 70 S. Ciaruffoli, 2003

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In strada dovette aprire la pelliccia. Era cominciato improvvisamente il disgelo, la neve sul marciapiede si era quasi sciolta e spirava un venticello che annunziava la primavera.71

Ed ancora:

Ad un tratto, superata ormai la sua meta, si trovò in una stradina in cui si aggiravano solo alcune squallide prostitute a caccia notturna di uomini. Che atmosfera spettrale, pensò. Anche gli studenti dai berretti blu divennero improvvisamente spettrali nel ricordo, così pure Marianne, il fidanzato, lo zio e la zia, che ora immaginò tenersi per mano attorno al letto di morte del vecchio consigliere; anche Albertine, che gli apparve immersa in un sonno profondo, le mani incrociate dietro la nuca – persino la bambina, che a quell’ora dormiva raggomitolata nel lettino bianco, e la governante dalle guance rubiconde con la voglia sulla tempia sinistra – tutti si erano trasformati ai suoi occhi in figure assolutamente spettrali.72

Il progressivo distaccarsi dalla quotidianità del suo viver borghese e la proiezione, inconscia, del proprio stato d’animo sul mondo esterno fa apparire a Fridolin ogni cosa avvolta in un’atmosfera spettrale, assolvendolo da ogni responsabilità e conducendolo poi nel viaggio di illusoria liberazione all’interno della propria anima e del proprio medioconscio:

[…] dopo la conversazione serale con Albertine si stava allontanando sempre più dalla normale sfera della sua esistenza, addentrandosi in un altro mondo, lontano ed estraneo.73

2.4.3. Rappresentazione del tempo: lo smarrimento interiore del personaggio

71 A. Schnitzler, 1977, p. 21 72 A. Schnitzler, 1977, p. 33

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La logica che domina il viaggio di Bill – e prima di lui quello di Fridolin –, dunque, è una molteplice specularità caratterizzata da una serie di ripetizioni e da un’ambientazione surreale che indeboliscono la coerenza e la continuità del viaggio stesso del protagonista, producendo inoltre un’inquietante sensazione di déja-vu e dunque un senso di costante smarrimento. Lo spettatore è portato a dubitare dello statuto di realtà di quanto sta guardando e ascoltando, così come, nel caso del racconto di Schnitzler, il lettore è portato a fare lo stesso nei confronti di quanto sta leggendo. Il viaggio di Bill è reale o è un suo sogno ad occhi aperti?

Ritengo molto importante ricordare e rilevare, a questo proposito, l’utilizzo che Kubrick fa nel film delle inquadrature soggettive. Eyes Wide Shut è costantemente punteggiato da inquadrature che riferiscono le percezioni di Bill: oltre alle numerose soggettive visive, che si esplicano nell’utilizzo insistito delle carrellate all’indietro e che ho approfondito in precedenza, si presentano anche soggettive allucinatorie – i cinque flash che ritraggono Alice con l’ufficiale di marina – e sonore – della voce di Alice che racconta la parte più scabrosa del sogno notturno nella quiete casalinga; e della donna misteriosa che durante la festa mascherata lo avvisa del pericolo imminente, nell’obitorio mentre fissa il corpo di Amanda. In alcune occasioni il regista ricorre poi ad un procedimento caratteristico: un’inquadratura apparentemente oggettiva si rivela a posteriori una soggettiva di Bill. Ad esempio, nella festa iniziale a casa di Victor Ziegler vediamo per la prima volta l’amico pianista mentre sta suonando sul palco e l’inquadratura successiva mostra Bill intento ad osservare questa scena. L’intero percorso che compiamo assieme al medico e attraverso i suoi sguardi durante il film si rivela un percorso labirintico: al di là di un apparente ordine, esso conduce in una rete di ricorrenze nelle quali non è più possibile orientarsi ad un certo punto e l’intero film viene permeato da una sensazione di perplessità e

73 A. Schnitzler, 1977, p. 37

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di incertezza che si riflettono negli occhi dello spettatore74.

Questa sensazione è rafforzata da un altro procedimento: il particolare uso della dissolvenza incrociata. Nel linguaggio cinematografico classico la dissolvenza incrociata, nata come trucco di trasformazione – ovvero come procedimento ottico utilizzato per ottenere straordinarie metamorfosi di personaggi – è andata poi codificandosi come procedimento enunciativo usato per contrassegnare un mutamento spaziale e temporale: essa indica una transizione fra due sequenze e dunque un’ellissi temporale e spaziale; tale ellissi, tuttavia, non è quella istantanea e trascurabile dello stacco netto, né quella consistente della dissolvenza in nero. Si tratta piuttosto di un’ellissi temporale- spaziale dalla durata indefinita75. In Eyes Wide Shut Kubrick utilizza la dissolvenza incrociata in alcuni passaggi nei quali sarebbe sembrato più opportuno uno stacco netto oppure un’inquadratura di raccordo: ad esempio, il viaggio, relativamente breve, di Bill dal negozio di costumi fino alla villa nella quale si svolge l’orgia è marcato da ben quattro dissolvenze incrociate. Oppure, nella scena in cui Bill rientra a casa dopo il colloquio con Ziegler, una dissolvenza segna il suo passaggio dalla cucina dove beve una birra alla camera da letto dove Alice sta dormendo. Si tratta in entrambi i casi di una scelta anomala, perché l’ellissi che divide le azioni è minima. E la natura perturbante di quest’ultima dissolvenza nello specifico è tanto più forte quanto il salto temporale – dalla notte al giorno – immediatamente successivo, ovvero lo iato fra l’inizio e la fine della confessione da parte di Bill che racconta ad Alice tutte le sue avventure, segnato unicamente da uno stacco, sul primo piano di Nicole Kidman che, accovacciata sul divano, fuma con gli occhi gonfi di lacrime. Un uso reiterato ed incongruente della dissolvenza finisce col privare questa figura del montaggio cinematografico del suo significato canonico, contribuendo così al prevalere del tempo non-lineare della coscienza su quello vettoriale della

74 R. Eugeni, 1995 75 A. Costa, 1985

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cronologia oggettiva76. Ne deriva un’incertezza che coinvolge al tempo stesso l’effettiva durata dello svolgimento temporale di tali segmenti della vicenda e le connessioni spaziali coinvolte: all’interno del film, dunque, la dissolvenza incrociata viene utilizzata anche per destabilizzare la continuità temporale- spaziale e per rafforzare la continua sensazione del passaggio dalla sfera della realtà a quella del sogno.

In Eyes Wide Shut, dunque, troviamo un tempo che si disgrega, un tempo interno alla mente del protagonista. Questo vanificarsi della cognizione del tempo e il cupio dissolvi che ne segue scandiscono con spietata crudeltà anche lo smarrimento del personaggio di Doppio Sogno:

Ma che fare ora? Andare a casa? E dove se no! Oggi non poteva ormai fare più nulla. E domani? Cosa? E come? Si sentiva impacciato, incerto, ogni cosa gli si vanificava tra le mani; tutto diventava irreale, persino la casa, sua moglie, la sua bambina, la sua professione, sì, persino lui stesso, mentre continuava a camminare meccanicamente nella sera coi suoi pensieri senza meta.

L’orologio della torre del municipio scoccò le sette e mezzo. D’altronde non importava che ora fosse; il tempo gli era completamente indifferente. Non provava interesse per nulla e per nessuno. Sentì una leggera compassione per se stesso. Molto fuggevolmente, non proprio come un proposito, gli venne l’idea di recarsi a una qualsiasi stazione, partire, non importava per dove, sparire per tutti coloro che lo avevano conosciuto, ricomparire in qualche luogo all’estero e incominciare una nuova vita, sotto spoglie diverse.77

C’è un altro aspetto, infine, che rivela l’incoerenza e la discontinuità della rappresentazione in Eyes Wide Shut. Kubrick adotta nel film uno stile modellato sul regime cinematografico classico, che fa della continuità e della coerenza il

76 G. Alonge, 2002
77 A. Schnitzler, 1977, p. 95-96

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suo punto di forza. Tuttavia, in alcuni punti il regista fa inceppare questo meccanismo fluido e scorrevole. Questo avviene mediante tre espedienti78.

In primo luogo Kubrick viola deliberatamente alcune regole del montaggio classico. Durante il primo incontro fra Bill e l’amico pianista alla festa di Ziegler ed il primo colloquio fra il medico e Milich nel negozio di costumi viene attuato quello che tecnicamente si chiama uno scavalcamento dell’asse, per cui uno stacco di montaggio collega due punti di vista specularmente opposti: in entrambe le sequenze vediamo i personaggi inquadrati prima da una prospettiva, poi da quella diametralmente opposta, in modo che lo spazio si apra alla sua metà nascosta, proibita, con un effetto fortemente straniante per lo spettatore79. Infatti, questi raccordi “sbagliati” procurano a chi guarda una lieve ma insistente idea di salto nella linea di continuità della rappresentazione classica per il resto seguita.

Il secondo espediente consiste nell’introduzione di un numero molto alto di ripetizioni verbali. Queste possono avere luogo all’interno della battuta di un solo personaggio: nella sequenza del bagno a casa di Ziegler, Bill ripete a Mandy ben sei volte la parola «guardami» mentre cerca di rianimarla; l’amico pianista ripete «io suono» due volte, e via dicendo fino al «ti racconterò tutto»80 finale di Bill ad Alice, anch’esso ripetuto due volte. Le ripetizioni hanno luogo altrettanto spesso nei dialoghi fra due soggetti, uno dei quali ripete testualmente la battuta finale dell’altro come per un generale senso di perplessità e di incomprensione, riducendo la comunicazione a puro esercizio fatico: in particolare, questo si verifica nel protagonista, che ripete di volta in volta le battute della prostituta, dell’amico pianista o della moglie; ma avviene anche per altri personaggi, ad esempio nel negozio di costumi il mascheraio Milich ripete le battute di Bill. Ne risulta l’impressione che la macchina

78 R. Eugeni, 1995
79 G. Carluccio, 2002 80 S. Kubrick, 1999

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rappresentativa si incanti, come un disco rotto che non sappia più rispondere ai comandi.

Il terzo ed ultimo espediente è l’uso dell’interruzione: in alcuni casi le immagini del film vengono bruscamente interrotte e sottratte allo sguardo dello spettatore. Fin dall’inizio il corpo nudo di Nicole Kidman è presentato per essere immediatamente riconsegnato al fondo nero dei titoli di testa. La scena del processo alla festa notturna a Somerton viene interrotta bruscamente con uno stacco sul ritorno di Bill a casa. Ed anche la conclusione del film, con la battuta finale di Alice sulla necessità per la coppia di «scopare»81, fa appena in tempo ad essere pronunciata che i titoli di coda interrompono bruscamente la scena del negozio di giocattoli.

Dunque, attraverso salti, ripetizioni e blocchi improvvisi la continuità della rappresentazione classica non viene esplicitamente distrutta, bensì sottilmente minata, sottoposta a piccole crisi locali e perdite di controllo infinitesimali, ma pure sensibilmente presenti.

81 S. Kubrick, 1999

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3. ANALISI DI UNA SEQUENZA DI EYES WIDE SHUT

Trovare il centro di un film quale Eyes Wide Shut e, ancor prima di esso, di un racconto della portata di Doppio Sogno non è semplice. Molte analisi, fra le quali la presente, hanno rivelato numerose simmetrie, ritorni di scene analoghe, spazi e personaggi che si ripresentano puntuali nel tessuto narrativo: entrambe le opere si porgono come un gioco di specchi e di rimandi potenzialmente infinito, un labirinto del senso che può essere percorso e ripercorso ma difficilmente dominato e posseduto.

Sono parecchi, sia nel racconto sia, in special modo, del film gli elementi, i temi ed i passi che meriterebbero un’attenzione tale da renderli, in qualche modo, il fulcro attorno al quale ruota l’intera storia: così, sono importanti i temi della coppia, dell’incomunicabilità, del tradimento, della maschera, dell’ipocrisia borghese, dello smarrimento esistenziale, nonché del sogno e del viaggio onirico-reale-surreale vissuto dai due protagonisti. Altrettanto importanti sono diversi passi, sia nel film sia nel libro, che raffigurano e sottolineano di volta in volta un tema piuttosto che un altro: così, diventano particolarmente significative le scene delle due feste – l’una l’opposto eppure anche il completamento dell’altra –, la scena del primo confronto fra i due coniugi, la scena del racconto del sogno da parte di Albertine/Alice al marito, il dialogo finale fra i due protagonisti ed infine, solo nel film, la scena del dialogo fra Bill e Ziegler nella sala del biliardo.

La maggior parte dei critici ha ravvisato nella scena dell’orgia notturna il perno e la parte centrale della storia82: essa non solo rappresenta sia il momento culminante della vicenda, nella quale si delinea con assoluta chiarezza

82 F. Villa, 2002

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l’alienazione che connota la crisi e la perdita d’identità da parte del protagonista maschile, sia il momento nel quale quest’ultimo discende e, finalmente, giunge nella parte più nascosta ed intima di se stesso, il medioconscio, ma rappresenta anche, a livello narrativo, il vero e proprio centro della storia, che separa il “prima” e il “dopo”.

Tuttavia, a mio avviso, l’asse portante dell’intera vicenda, come detto in precedenza, è la dicotomia fedeltà-tradimento, che si esplica sia nella conflittualità dei due protagonisti, causata da una situazione di incomunicabilità innescata da un motivo occasionale, che li porterà a vivere una crisi strutturata secondo un diagramma di turbamenti paralleli, sia, più esplicitamente, nelle contraddittorietà del personaggio maschile, la cui fragilità psicologica e i cui pregiudizi derivanti dalla morale borghese nei quali è imprigionato lo condurranno verso uno smarrimento esistenziale molto più complesso e travagliato rispetto a quello vissuto dalla moglie.

Partendo da questo presupposto, dunque, ritengo che il centro non tanto del testo in quanto tale, quanto dell’opera complessiva di Doppio Sogno e di Eyes Wide Shut, sia la lunga sequenza del confronto iniziale fra i due protagonisti83, nella quale meglio vengono raffigurati e rappresentati i problemi che muovono e scandiscono le dinamiche di coppia, e grazie alla quale prende avvio la vicenda stessa. Inoltre, questo è uno di quei passi contenuti nel racconto di Schnitzler in cui lo sceneggiatore Raphael ed il regista Kubrick hanno operato un vero e proprio lavoro di trasposizione e rielaborazione cinematografica, compiendo tagli significativi ed apportando numerose modifiche, pur mantenendo, nel complesso, il senso globale di ciò che lo scrittore viennese ha voluto trasmettere all’interno dello stesso passo nel suo libro.

Mi accingo ora ad analizzare tale sequenza dal punto di vista della sua trasposizione cinematografica dal racconto di Schnitzler al film di Kubrick:

83 Nel racconto di Schnitzler a partire da p. 13, nel film di Kubrick a partire dal minuto 22

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approfondirò quindi l’analisi della traduzione intersemiotica di tale sequenza.

3.1. Analisi della traduzione intersemiotica

All’interno di Doppio Sogno la sequenza della lunga e reciproca confessione di Albertine e Fridolin in merito ai pericoli cui sono sfuggiti durante una passata vacanza estiva in Danimarca, nella quale entrambi hanno provato una forte ed irresistibile attrazione verso due sconosciuti – rispettivamente nei confronti di un giovane ufficiale di marina visto in albergo e di una giovanissima fanciulla su di una spiaggia –, prende avvio in seguito ad uno scambio, apparentemente innocente e quasi disinteressato all’inizio, di impressioni sul veglione mascherato al quale i due coniugi hanno partecipato la notte precedente:

[…] e quegli avvenimenti irrilevanti furono ad un tratto magicamente e penosamente avvolti dall’ingannevole parvenza di occasioni perdute. Si scambiarono domande ingenue eppure insidiose e risposte maliziose e ambigue; a nessuno dei due sfuggì che l’altro non era in fondo sincero e si sentirono, così, inclini a una moderata vendetta.84

Ben presto la gelosia prende il sopravvento e dalle conversazione sulle futili avventure della notte precedente i due protagonisti cominciano a discutere di quei desideri nascosti ed intimi, talvolta appena presentiti e per lo più sconosciuti, insiti nel profondo dell’animo umano, che, se riconosciuti, svelati e liberati, sono in grado di generare pericolosi vortici e scuotere e minare anche il rapporto più maturo e sincero:

Sebbene la loro unione si fondasse su una perfetta compenetrazione di sentimenti e di idee, sapevano tuttavia che ieri li aveva sfiorati, e non per la prima volta, un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo; trepidamente, tormentandosi, cercarono con sleale curiosità di carpirsi confessioni e, concentrandosi con angoscia sulla loro vita intima, ognuno

84 A. Schnitzler, 1977, p. 13

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ricercò in sé qualche fatto anche insignificante, qualche avvenimento anche inconsistente, che potesse esprimere l’ineffabile e la cui sincera confessione riuscisse a liberarli da una tensione e da una diffidenza che cominciavano a diventare a poco a poco insopportabili.85

Segue la confessione da parte di Albertine al marito, la prima fra i due che, per ingenuità, indulgenza o forse anche coraggio e necessità di chiarezza, mette in gioco se stessa.

In Eyes Wide Shut la stessa sequenza si apre con l’immagine di Alice, riflessa nello specchio del bagno, che si accinge a prelevare da un armadietto posto sopra il lavandino un contenitore con della marijuana al suo interno e, di seguito, un primo piano sulle sue mani mostra la protagonista mentre arrotola la sigaretta.

Rilevante, in quest’apertura di sequenza, è la presenza ed il ruolo nuovamente giocato dallo specchio: simbolo del doppio e di ciò che si cela oltre la facciata illusoria della realtà, lo specchio mostra il riflesso e quindi la parte nascosta e speculare di chi gli si pone di fronte e gli dà la possibilità di studiare e comprendere se stesso. Questo specchio nasconde al suo interno ed oltre la sua superficie riflettente la sostanza, e di conseguenza il mezzo kubrickiano, che «per la prima volta libera la parola dal suo statuto […] di inanità e di indeterminatezza»86 e la presenta come raggiungimento di un fine e di uno snodo narrativo.

La marijuana posta a questo punto del film dà inizio ad uno stato alterato di coscienza: attraverso di essa, infatti, si attua un processo di iperstimolazione sensoriale, sancendo così un allontanamento dalla consueta capacità di percezione, che rappresenta il preludio alla successiva fase onirica ed alterazione che permea l’intero film. La marijuana, triplamente protetta – dalla

85 A. Schnitzler, 1977, p. 13-14 86 S. Ciaruffoli, 2003, p. 59

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bustina di plastica, dalla scatola di cerotti e dall’armadietto – e dunque segno e simbolo di una difficoltà a raggiungere una meta – del resto, come già detto, l’intera vicenda, soprattutto di Bill, che prende avvio da questa sequenza consiste nel continuo rinvio nel possedere in forma definitiva e stabile una verità – viene usata da Alice per preparare uno spinello. A questo proposito, è curiosa e interessante l’inquadratura con la quale Kubrick segue la prima inalazione di Alice: mentre la donna aspira la sua boccata di fumo, lo spettatore è portato, metaforicamente parlando, a fare simultaneamente lo stesso. Con un’armoniosa zoomata all’indietro, infatti, Kubrick unisce specularmente lo spettatore con il suo personaggio e con il suo tiro di spinello. Questo espediente è molto interessante, perché per la prima volta il regista sottolinea con una sorta di rituale arcaico la comunione dello spettatore con il film e lo stato di alterazione che ne seguirà87.

Come i due protagonisti di Doppio Sogno, anche Bill e Alice si scambiano le proprie impressioni e si pongono domande insidiose sulla festa natalizia alla quale hanno partecipato la notte precedente. Tuttavia, mentre nel racconto di Schnitzler la gelosia ed il turbamento che accompagnano il dialogo fra i due coniugi sono vicendevoli sin dall’inizio, tant’è che condurranno alla reciproca confessione dei due tradimenti non consumati, in Eyes Wide Shut si avverte, fin dalle prime battute, come i moti di gelosia, di irritazione e di incomprensione che generano il litigio ed il successivo allontanamento emotivo dei due personaggi siano concentrati principalmente nella figura femminile, alla quale è riservato il ruolo di protagonista assoluta in questa scena, assieme alla confessione univoca del tradimento non consumato. Il protagonista maschile si fa qui spettatore dello “spettacolo” messo in atto dalla moglie, la quale, grazie all’aiuto della marijuana, nonché spinta dall’insensibilità e dalla mancanza di comprensione del marito, decide di togliersi la maschera delle buone convenzioni borghesi e di rivelare il suo contraddittorio, ambiguo e misterioso

87 S. Ciaruffoli, 2003

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mondo interiore.

Nella sua novella, Schnitzler non fornisce alcuna indicazione sulle movenze o sullo spazio occupato dai personaggi all’interno di questa sequenza, per cui Kubrick ha avuto modo di realizzare la sua personale rielaborazione di tale sequenza in piena libertà, costruendo un ambiente a lui congeniale al fine di sottolineare l’ambiguità e la dualità fra ragione e istinto, fra l’aspetto diurno, solare, di ciò che appare normale e l’aspetto notturno, che racchiude in sé quei «desideri nascosti»88 ai quali accenna Schnitzler nel suo racconto.

L’estensione di questa sequenza in Eyes Wide Shut è di quattordici minuti e si apre, come già detto, con un prologo risolto in due inquadrature che mostrano Alice mentre preleva e poi prepara la marijuana, seguito da una lunga scena, ambientata interamente nella camera da letto dei due coniugi, nella quale marito e moglie discutono prima della festa natalizia a casa Ziegler e finiscono poi per litigare, fino alla rivelazione del mancato tradimento da parte di Alice. Questa scena può essere suddivisa in cinque segmenti narrativi89.

Primo segmento: dal primo piano di Alice che compie la prima inalazione di marijuana la macchina da presa allarga fino ad inquadrare la coppia sdraiata sul letto, lui alle spalle di lei. Lo sguardo di Bill è rivolto al corpo della moglie, mentre lei guarda fuori campo in direzione della macchina da presa. Le inquadrature risultano qui sostanzialmente oggettive, anche se il punto di vista varia sensibilmente, riprendendo ora un solo elemento ora entrambi gli elementi della coppia, e restando ancorato ad uno spazio posto al di qua del letto matrimoniale. In questa situazione visiva i due coniugi si perdono, assecondando i poteri del fumo, nel ricordo della festa a casa Ziegler avvenuta la sera precedente e rimproverandosi i reciproci corteggiatori.

Da notare che in questo frangente appare per la prima volta il colore blu,

88 A. Schnitzler, 1977, p. 13 89 F. Villa, 2002

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trattenuto entro il vano della finestra del bagno di fronte al quale i due coniugi si stanno fronteggiando. Oltre a farsi sfondo di un personaggio nei momenti cruciali e più dissoluti, questo colore dona al film una tinta palesemente onirica e surreale, sottolineando così maggiormente l’architettura filmica imprigionata entro i confini della psiche. Inoltre, come riferito in precedenza, il dipanarsi della vicenda all’interno di un bagno o nelle sue immediate vicinanze assume nei film di Kubrick una forte valenza simbolica, in quanto rivela una manifestazione peggiorativa dell’attività umana: spesso il regista, nelle sue opere, ha rappresentato il bagno come luogo nel quale vengono inscenate la malattia, la morte, la follia e la crisi d’identità, l’alterità dell’animo umano90. Di conseguenza, lo stesso colore blu, ospite emblematico di questo ambiente, si connota d’ora in avanti nella medesima valenza negativa: raffigura il pericolo del mondo esterno che penetra nella sicurezza ovattata dell’ambiente domestico, la notte oscura che, con i suoi segreti ed i suoi misteri, si insidia nella luce del giorno e, con le parole di Schnitzler nel suo Doppio Sogno, viene a rappresentare «quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura»91.

Secondo segmento: Alice, profondamente irritata dalla leggerezza con la quale Bill dichiara di non meravigliarsi di fronte all’esistenza di un potenziale corteggiatore della moglie, si alza di scatto dal letto, indietreggia, ed arriva sulla soglia della porta del bagno contiguo alla stanza. Il corpo della donna risulta così incorniciato dagli stipiti. La macchina da presa abbandona il punto di vista per lo più oggettivo del segmento narrativo precedente, avanza lentamente fino a scavalcare il corpo di Bill e a posizionarsi di fronte a lui per contemplare appieno Alice. Dallo sguardo oggettivo si passa così ad una plausibile soggettiva del marito sulla moglie, enfatizzata dal doppio ritaglio del quadro della porta. Il dialogo, sempre più incalzante sulle eventuali differenze che

90 F. Prono, 2002
91 A. Schnitzler, 1977, p. 13

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esistono fra uomo e donna e il corteggiamento dell’uomo rispetto a quello della donna, si scioglie in un’alternanza di inquadrature che vedono da una parte Alice in figura intera ripresa frontalmente, dall’altra Bill seduto staticamente sul letto come dall’inizio della scena, ripreso lateralmente.

In questa sequenza la figura di Alice, inquadrata dagli stipiti della porta della camera da letto, viene ad essere posizionata, per un gioco di raffinata prospettiva, al centro della porta del bagno che sta alle sue spalle ma anche al centro della finestra del bagno sullo sfondo. Inoltre, la luce bluastra proveniente dall’esterno, infiltrandosi tra le veneziane della finestra, viene ad incorniciare anche cromaticamente il corpo di Alice. «Così facendo il regista sottolinea la proprietà di un attimo e la sua riproduzione-rappresentazione in quadri che simboleggiano momenti e luoghi dissimili»92. In tutti i passi successivi Alice si troverà sempre inquadrata da una finestra posizionata sullo sfondo, dalla quale entra una luce bluastra, e le tende rosse, raccolte agli stipiti delle finestre, funzioneranno da sipario tirato per la recita che si consuma al proscenio. Inoltre, come detto in precedenza, il contrasto cromatico del blu e del rosso rappresenta anche il conflitto fra il mondo domestico – caldo ed accogliente, apparentemente sicuro – ed il mondo esterno – pieno di pericoli e contrassegnato dall’ignoto. Il rosso rappresenta anche il desiderio, la tentazione. Invece, Bill rimarrà seduto sul letto per l’intera sequenza, variando solo minimamente la propria posizione ed assumendo così il ruolo di spettatore dello spettacolo messo in scena dalla moglie. La sua staticità, posta in paragone alla dinamicità di Alice che al contrario sembra cercare ad ogni costo l’azione, assieme all’inespressività assunta dal suo viso che non lascia trapelare quasi la minima emozione se non un lieve imbarazzo e una leggera irritazione, assieme alla caratteristica abitudine di ripetere in forma di domanda l’ultima parte del precedente discorso della moglie, denotano con grande chiarezza la sua totale incapacità di affrontare la situazione e la sorpresa di fronte alla nuova

92 S. Ciaruffoli, 2003, p. 63

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immagine della moglie, tanto sincera e diretta senza la propria maschera. Il letto diviene un palchetto d’onore dove Bill rimane pressoché immobile dinnanzi all’esibizione della moglie, che si muove, si agita, impadronendosi di tutto lo spazio possibile e soprattutto andando ad inquadrarsi da sola tra stipiti, specchi e finestre93.

Terzo segmento: Alice, sempre più infastidita dalle semplificazioni del marito, lascia nuovamente la postazione guadagnata e si dirige verso la toilette davanti al letto, posizionata a sinistra. Dopo avere speso qualche battuta sull’esposizione del marito, in quanto medico, alle eventuali lusinghe delle pazienti, crolla seduta sullo sgabello per poi alzarsi di nuovo. La macchina da presa resta sempre incollata a lei ed ai suoi movimenti, la segue di volta in volta inquadrata nella sua nuova posizione, in un costante campo/controcampo di Bill e del corpo di Alice.

Quarto segmento: il discorso sulla gelosia di coppia stringe attorno ai due protagonisti e Alice comincia a provocare il marito irridendone la sicurezza in merito alla fedeltà coniugale. La donna si sposta di nuovo, attraversa la stanza, passa ai piedi del letto, arrivando davanti ad una finestra. Di nuovo incorniciata, Alice, in figura intera, si agita cercando di spiegare le proprie ragioni, mentre Bill, sempre seduto sul letto ripreso frontalmente, sembra a tratti essere colto da afasia.

Quinto segmento: Alice attraversa nuovamente la stanza, passa per la seconda volta ai piedi del letto, si arresta in prossimità di un’altra finestra e viene inquadrata ancora una volta in figura intera. La macchina da presa non la lascia un istante in questo suo peregrinare nella stanza, al punto che quando la donna, in preda ad una risata isterica, barcolla fino ad accasciarsi a terra, lo sguardo su di lei si fa estremamente mobile, liberandosi in una macchina a mano, ed assecondando i sussulti del suo corpo, sempre secondo la soggettiva di Bill. A

93 F. Villa, 2002

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questo punto appare un’inedita visione: la donna viene improvvisamente ripresa in primo piano e lateralmente da quel fuori campo iniziale, nello spazio al di qua della camera matrimoniale, dove la macchina da presa era posizionata all’avvio della lunga scena. Quest’ultimo segmento arriva al cuore della confessione di Alice, ripresa in primo piano di lato dall’inizio fino al termine del suo lungo monologo.

Le ultime tre sequenze prese in esame ritraggono il tentativo disperato da parte di Alice di ridestare il marito dal torpore che lo avvinghia e di risvegliare in lui la comprensione ed il desiderio che probabilmente un tempo li aveva accomunati. Ma egli risponde alle provocazioni della moglie con enorme insensibilità:

Alice: «E posso sapere perché non sei mai stato geloso di me?».

Bill: «Oh, questo non lo so Alice. Probabilmente perché sei mia moglie, può darsi perché sei la madre di mia figlia, forse perché penso che tu non mi tradiresti mai».

Alice: «Tu sei un uomo molto, molto sicuro di se stesso, vero?».

Bill: «No, sono sicuro di te».94

Dare per scontata la fedeltà della propria compagna significa essere convinto di possederla totalmente, senza riconoscerle autonomia e capacità di scelta, significa considerarla un oggetto la cui proprietà non può essere messa in discussione. Quando nascono dissidi all’interno della coppia e il clima diventa astioso e tagliente, possono generarsi all’improvviso le emozioni più imprevedibili ed intense; possono sprigionarsi anche dell’odio e dell’ostilità molto profondi che prendono il sopravvento sulle circostanze. Ecco allora screzi e dissapori, continui scontri verbali che feriscono l’anima come spade

94 S. Kubrick, 1999

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taglienti95.

Incompresa ed insultata in questo modo, Alice cerca di sottrarsi a quella degradante posizione subalterna nella quale l’ha relegata il marito confessando e svelando ciò che si nasconde nel proprio animo: infatti, non appena Bill dichiara la propria sicurezza, una macchina a mano traballante segue la donna che scoppia a ridere e, dalla posizione eretta nella quale si trova, si abbassa progressivamente fino a sedersi sul pavimento. Analizzando unicamente lo stile, Alice si abbassa sia fisicamente sia metaforicamente e l’inquadratura traballa, ovvero la sua immagine si abbassa moralmente agli occhi del marito, il quale vede andare in frantumi le proprie certezze96.

La lunga scena della confessione viene chiusa dalla telefonata che Bill riceve da parte di Marion: il padre della ragazza è deceduto ed il medico trova così una via di fuga.

Nicole Kidman interpreta il ruolo di protagonista femminile con grande tensione emotiva e sensibilità, conferendo al personaggio profonda verità. Ella ottiene questo risultato con notevole economia di mezzi, modulando in modo raffinato le espressioni del volto, ma soprattutto movendo il proprio corpo con spontaneità e insieme con grande sapienza interpretativa, proponendolo splendidamente come strumento di comunicazione. In tal modo crea un personaggio credibile e stilizzato, inquietante ed affascinante insieme, i cui sogni e fantasie assumono connotati estremamente concreti ed emotivamente coinvolgenti.

In Doppio Sogno la confessione di Albertine non viene bruscamente interrotta da una telefonata e Fridolin non fugge. Alla confessione della moglie, il medico risponde con la sua personalissima confessione, aggiungendo tradimento a tradimento. E la donna, pur restando la prima a dichiarare segni di illecita

95 A. Carotenuto, 2003 96 F. Prono, 2002

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passione, cede il passo al racconto dei desideri, ancor più proibiti, del marito, senza reclamare la scena. Fridolin diviene allora il protagonista del segmento narrativo, segnato dal suo improvviso dinamismo nei confronti della moglie, ora statica:

«[…] Non farmi altre domande, Fridolin, ti ho detto tutta la verità. E poi anche tu hai avuto qualche avventura su quella spiaggia – lo so».

Fridolin si alzò, si mise a camminare avanti e indietro per la stanza, poi disse: «Hai ragione». Stava presso la finestra, il viso in ombra.97

Alla confessione del tradimento non consumato da parte di Fridolin, che lo vede attratto da una giovanissima fanciulla su di una spiaggia dove era solito passeggiare ogni mattino durante la vacanza danese, segue un intenso dialogo fra i due protagonisti, nel quale riemergono i fantasmi delle avventure giovanili del medico nonché il ricordo del loro primo incontro, al quale seguì il fidanzamento dei due protagonisti. Ed è solo in quest’ultimo scambio di battute che emerge, nel racconto di Schnitzler, tutta la problematica del personaggio maschile, nel quale, come già detto, si riflettono con maggiore limpidezza la debolezza e la fragilità dell’animo umano oltre che le contraddittorietà dettate dalla natura umana e dal pregiudizio borghese che, da sempre, relega la donna ad una degradante posizione subalterna mentre concede all’uomo il diritto ad una morale:

«In ogni donna – credimi, anche se può sembrare una facile affermazione – in ogni donna che credevo di amare ho sempre cercato te; ne sono convinto più di quanto tu possa capire, Albertine».

Ella sorrise triste. «E se anch’io avessi avuto voglia di cercarti prima in altri uomini?» disse, e il suo sguardo si trasformò e divenne freddo e impenetrabile. Fridolin abbandonò le sue mani, quasi l’avesse sorpresa mentre diceva una menzogna o lo tradiva; ma lei continuò: «Ah, se solo

97 A. Schnitzler, 1977, p. 15-16

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sapeste!» e tacque di nuovo.98

La stessa contraddittorietà e lo stesso ipocrita pregiudizio borghese che contraddistinguono l’uomo sono rilevabili nel dialogo fra Bill e Alice prima che quest’ultima confessi al marito il suo mancato tradimento:

Bill: «Che cosa fa? Ah, ma io non lo so Alice … Che cosa fa? Ah, guarda: le donne non … non sono così, non ci pensano nemmeno a queste cose».

Alice: «Milioni di anni di evoluzione! Vero? Vero? Mentre gli uomini si preoccupano di infilarlo dovunque possono, le donne devono solo pensare alla stabilità della famiglia, alla fedeltà coniugale e a chissà quali altre cazzate!».

Bill: «Un concetto un po’ troppo semplificato, Alice. Ma di sicuro è qualcosa del genere».

Alice: «Se invece voi uomini solo sapeste …».99

Sebbene Kubrick anticipi questo momento, rendendo poi il dialogo fra i due personaggi più semplificato, molto meno verboso, meno articolato e conferendogli una modernità espressiva che naturalmente non si addirebbe allo stile di Schnitzler, e depenni la confessione del medico, eliminando in tal modo anche la duplicità e la forza della rivelazione che condurrà poi i due personaggi a vivere separatamente, seppure parallelamente, il loro viaggio onirico-reale- surreale, riesce comunque a mantenere intatte le dinamiche principali che muovono la coppia dei due protagonisti nel film: l’ipocrisia, la gelosia, le ossessioni e i turbamenti insiti nel profondo dell’anima sono ben presenti.

In Doppio Sogno, però, la gelosia che muove Fridolin viene espressa ed esternata in modo più articolato e con maggiore maestria narrativa rispetto a quanto non

98 A. Schnitzler, 1977, p. 18-19 99 S. Kubrick, 1999

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abbia saputo fare Kubrick nel film, a causa dell’imponente taglio operato a questa sequenza all’interno della novella:

«Non riesco a capire» disse Fridolin. «Avevi appena diciassette anni quando ci fidanzammo». «Sedici passati, Fridolin. Eppure …» lo guardò francamente negli occhi «Non dipese da me se divenni tua moglie ancora vergine».

«Albertine …».

Ed ella raccontò:

«Fu sul Wörthersee, poco prima del nostro fidanzamento, Fridolin; una splendida sera d’estate un bellissimo giovane si fermò davanti alla finestra che guardava sull’ampia distesa del prato, ci mettemmo a parlare e durante quella conversazione pensai […]: che ragazzo simpatico e affascinante, – se dicesse ora una sola parola, quella giusta naturalmente, […] stanotte potrebbe avere da me tutto quello che vuole. […] Ma l’incantevole giovane non pronunciò quella parola; mi baciò delicatamente la mano, – e il mattino successivo mi chiese se volevo diventare sua moglie. E io dissi di sì».

Fridolin lasciò andare seccato la mano della moglie, poi disse: «E se quella sera ci fosse stato per caso un altro davanti alla tua finestra e gli fosse venuta in mente la parola giusta, per esempio …» pensò a quale nome dovesse dire […].100

È soprattutto a questo punto che Fridolin esterna la propria gelosia, quasi indifferente al fatto che il giovane indicato dalla moglie era lui. Egli, oramai confuso ed infastidito, toccato nel profondo e senza più alcuna certezza, associa la figura dell’ufficiale di marina, che l’estate precedente aveva avvinto la moglie, con quella di se stesso ventenne: in entrambi i casi, infatti, la donna è stata magicamente attratta con un semplice sguardo da un giovane, senza alcun

100 A. Schnitzler, 1977, p. 19-20

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contenuto intimo del guardato. E scoprire, tutto d’un tratto, una parte che non conosceva, i torbidi meccanismi mentali che non credeva potessero appartenere alla figura femminile della propria moglie e madre della propria figlia, mette in discussione i meccanismi stessi e le sicurezze dell’esistenza di Fridolin. La frase «pensò a quale nome dovesse dire» lasciata così, senza soluzione, rivela come ciò che non sapeva in passato rimanga a lui ignoto anche nel presente. Egli è quel giovane che non conosceva, e non conosce tuttora, la parola magica che gli avrebbe permesso di possedere Albertine prima del matrimonio e di penetrare la sfera intima della sua compagna. Quella parola è rimasta nella mente della moglie senza che lui ne venisse a conoscenza. Questo è soltanto un indizio della separazione comunicativa che connota la crisi dei due personaggi e la considerazione iniziale della scena lo rende ancora più significativo: infatti, i due protagonisti erano rimasti soli per comunicarsi l’uno con l’altro le proprie impressioni e le proprie fantasie suscitate dall’esperienza vissuta al veglione mascherato della sera precedente, con la speranza che una sincera confessione fosse in grado di liberarli da un senso di oppressione e di incomunicabilità che cominciava a divenire insopportabile. Ma dalla successiva conversazione risulta che entrambi hanno vissuto separatamente quei momenti. Una volta rivelati mettono in crisi le certezze del medico; e poiché la sicurezza in se stesso è uno dei capisaldi sui quali si fonda l’amor proprio di Fridolin, egli sente la necessità di riscattarsi della delusione subita mediante le parole di Albertine.

Ecco, dunque, che nel film è stata notevolmente ridotta e sfilacciata una parte fondamentale del racconto di Schnitzler, cosicché la sua resa all’interno del film ne è risultata alquanto compromessa, determinando inoltre un consistente residuo traduttivo. Infatti, sebbene Kubrick riesca con notevole maestria e sapienza cinematografica, sfruttando al meglio le tecniche cinematografiche ed i mezzi espressivi caratteristici del cinema, a riprendere e a raffigurare i temi dominanti di tale sequenza e dell’intera opera sia nella riproduzione, seppure ridotta, di tale sequenza sia nella riproduzione dell’intera vicenda, la

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soppressione di una parte tanto importante quale il racconto del tradimento non consumato da parte del protagonista maschile, contenuto nel racconto di Schnitzler, non può non determinare una sorta di sbilanciamento all’interno del film: qui in effetti, come già detto, il viaggio onirico-reale-surreale appartiene principalmente al medico, che in tal senso subisce passivamente la rivelazione della moglie; e la donna, grazie alla quale pur tuttavia prende avvio la vicenda stessa vissuta dal protagonista maschile, in seguito al racconto dei propri desideri di illecita passione, viene relegata ad una posizione subalterna di co- protagonista.

Inoltre, il momento centrale della confessione, in Doppio Sogno vera e propria apertura del racconto, viene proposto da un impeccabile narratore onnisciente ed il punto di vista sulle cose e sui personaggi resta “oggettivo”.

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CONCLUSIONI

Riprendendo quanto affermato e considerato nell’Introduzione in merito alle valutazioni ed alle ricerche sinora condotte dagli studiosi di semiotica – ed in particolare da Torop, al quale maggiormente mi sono rifatta nella mia analisi della trasposizione cinematografica di Doppio Sogno in Eyes Wide Shut – in merito ai problemi inerenti all’analisi traduttologica del prototesto in vista della traduzione filmica e alla possibilità concreta di sviluppare un metodo scientifico per l’analisi dei fondamentali cambiamenti traduttivi che avvengono nella traduzione filmica, e ripercorrendo, a posteriori, l’intero lavoro di scomposizione ed analisi da me proposto e condotto su un caso concreto di trasposizione cinematografica, mi appare doveroso annotare alcune osservazioni finali, che si propongono come estrema sintesi di un intero percorso.

Ho già notato e segnalato quali siano le differenze intrinseche e fondamentali che intercorrono fra romanzo e film, prodotti appartenenti a due diversi sistemi segnici. Ed ho visto come l’analisi traduttologica del prototesto sia legata ad un processo di indagine e di scomposizione nei suoi elementi costitutivi e potenziali, per i quali verrà attuata una ricerca di strategie traduttive e di nuova sintesi al fine di trasformare – attraverso la scelta delle dominanti contenute nel prototesto – e rappresentare tali elementi mediante i mezzi espressivi caratteristici del cinema, fino alla creazione del metatesto, ovvero il testo filmico.

L’analisi e la scomposizione del prototesto nei suoi elementi costitutivi – e dei quali è formato anche il metatesto – è riconducibile all’individuazione dei tre tipi di cronotopo riconosciuti da Torop: a qualunque genere di sistema segnico appartenga, un testo è composto dal cronotopo topografico, dal cronotopo psicologico e dal cronotopo metafisico. A seconda che il testo appartenga ad un sistema di segni verbale – come il romanzo – o non soltanto verbale – come

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il film – i tre tipi di cronotopo si esplicheranno in modi e mediante mezzi espressivi diversi. Inoltre, il dominio di un cronotopo sull’altro o, diversamente, la loro fusione armoniosa, determinerà un diverso approccio all’analisi traduttologica ed una differente rilevazione delle dominanti presenti nel testo stesso – sia nel prototesto sia nel metatesto.

Infine, ho osservato come la traduzione filmica sia una vera e propria opera creativa, in quanto non esiste ancora un metodo scientifico che stabilisca in che modo ogni traduzione deve essere condotta, semplicemente esistono delle concordanze di segni, per cui ogni elemento appartenente al prototesto trova un suo corrispettivo traducente nel metatesto, seppure secondo modalità diverse per ogni singolo romanzo e per ogni singolo film.

Per quanto concerne il caso preso in esame è possibile riscontrare, in fase di analisi, come il regista si sia sostanzialmente concentrato sulla lettura ed in particolare sui temi del romanzo. Infatti, sebbene vi siano delle notevoli differenze fra le due opere, che lascerebbero supporre uno stravolgimento totale da parte di Kubrick del racconto di Schnitzler, ad un esame più accurato è possibile notare, invece, come la storia del medico Fridolin e della moglie Albertine venga semplicemente rivestita della storia di Bill e Alice, e come tale rivestimento lasci continuamente affiorare l’intreccio, i temi e gli elementi costitutivi originali del prototesto.

Il viaggio onirico-reale-surreale viene proposto e ricreato sia mediante l’utilizzo di un contrasto cromatico – rosso e blu – che delinea il conflitto fra realtà psichica e realtà materiale, fra il giorno e la notte, fra il rassicurante e noto mondo domestico e il misterioso, ignoto e dunque perturbante mondo esterno – che si insinua del mondo interno –, sia mediante l’utilizzo di movimenti di macchina che sembrano inghiottire, avviluppare e condurre il protagonista maschile verso un “laddove” proibito, una discesa entro i gorghi della sua stessa psiche – in quel territorio intermedio e fluttuante che si cela fra conscio e inconscio e che Schnitzler definiva «medioconscio» –, sia mediante la

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ricostruzione in studio di una New York quasi irreale e labirintica, che viene percorsa e ripercorsa sino allo sfinimento, con la costante impressione da parte dello spettatore di trovarsi, invece, sempre nello stesso punto.

La dualità della coppia di protagonisti viene rappresentata, ancora, dal contrasto cromatico, dalla contrapposizione fra il calore dell’ambiente domestico e la freddezza del mondo esterno, dall’impiego di luci soffuse in opposizione a luci diffuse, dall’ampio utilizzo di inquadrature soggettive che si sovrappongono, in taluni casi, a quelle sonore, fornendo così ulteriormente un’impressione di scissione fra ciò che viene visto – la realtà materiale – e ciò che, al contrario, viene percepito – la realtà psichica.

Il tema del doppio, più in generale, viene ricostruito attraverso l’uso di specchi – simboli del doppio per eccellenza –, di luoghi, elementi e personaggi identici o analoghi, di situazioni simili fra loro oppure di carattere opposto, e di una struttura filmica caratterizzata dalla specularità.

Lo smarrimento interiore del personaggio, in special modo di quello maschile, viene raffigurato da una mimica facciale e da una recitazione volutamente goffe e ricercate, talvolta artificiose, che tendono a evidenziare le insicurezze e tutta l’inadeguatezza, da parte protagonista, nell’affrontare situazioni nuove ed impreviste, nonché dalla rappresentazione di un tempo – interno alla mente del protagonista – che si disgrega, grazie all’uso di numerose soggettive, di ripetizioni, di blocchi e di un insolito impiego della dissolvenza incrociata.

Il mascheramento sociale e l’ipocrisia della morale borghese affiorano continuamente durante la rappresentazione e sono evidenziare sia dai dialoghi sia dai comportamenti perbenisti e allo stesso tempo vuoti, meccanici, fatici, dei personaggi – inclusi i due protagonisti – sia dal raffronto di alcune scene e situazioni apparentemente opposte eppure complementari fra loro, come le due feste, o, ancora, dall’uso delle luci, dei colori, nonché, in modo molto più esplicito, dall’utilizzo delle stesse maschere. La famiglia, l’istituzione rappresenta una facciata illusoria dietro la quale si nasconde un groviglio di

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dubbi, di angosce e di desideri repressi, diviene il luogo nel quale con maggiore lucidità si insidia e si sprigiona d’improvviso, travolgendo ogni certezza, il perturbante.

Tale lettura filologica, rivista in chiave moderna dovuta alla trasposizione cronotopica della storia di Doppio Sogno in una New York contemporanea, è stata possibile anche grazie alla comunione dei temi prediletti dal regista e quelli affrontati dallo scrittore viennese sia nel romanzo in oggetto sia nel corso della carriera artistica di entrambi gli autori. Questa similarità fra Schnitzler e Kubrick ha fatto sì che la novella schnitzleriana figurasse come un soggetto ideale per il regista statunitense.

Le principali differenze traduttive apportate da Kubrick alla novella di Schnitzler riguardano in special modo la scelta dell’ambientazione e alcune scelte in merito all’intreccio.

Per quanto riguarda l’ambientazione, mentre la storia di Doppio Sogno si svolge nella Vienna di inizio Novecento, quella di Eyes Wide Shut si svolge nella New York contemporanea; di conseguenza, la storia intera è stata completamente trasposta e modernizzata, con una conseguente modernizzazione anche dei realia e di alcuni motivi appartenenti alla cultura e all’epoca nella quale ha luogo la vicenda del prototesto – ad esempio, nel romanzo il protagonista maschile esprime il timore di contrarre una malattia venerea laddove nel film lo stesso timore viene espresso nei confronti dell’Aids; o, ancora, se il mezzo di trasporto utilizzato nel romanzo è la carrozza, nel film viene utilizzata l’automobile. Tuttavia, la New York descritta e rappresentata da Kubrick si discosta di gran lunga da quella vera: infatti, essa appare quasi un ibrido fra la reale città odierna e la Vienna di inizio Novecento, poiché costellata di nomi, personaggi, luoghi nonché musiche che si ricollegano al mondo mitteleuropeo e ricordano e regalano un clima tardo romantico.

Per quanto riguarda l’intreccio, nella storia di Eyes Wide Shut si possono rilevare numerose differenze narrative rispetto a quella originale: sia perché presenta

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una dilatazione temporale – la vicenda di Doppio Sogno si svolge in due giorni mentre quella del film in quattro giorni – sia perché la storia stessa, come appena descritto, è stata ambientata in uno spazio ed in un’epoca differenti, sia e soprattutto perché alla trama nel film sono state apportate svariate modifiche, riguardanti vari fattori: in primo luogo la scelta di nomi di luoghi, personaggi, nonché della parola d’ordine per accedere alla festa orgiastica diversi rispetto al romanzo; in secondo luogo la modifica e l’amplificazione di alcune scene – in particolare, mi riferisco alla scena della prima festa alla quale partecipano entrambi i protagonisti: mentre nel racconto di Schnitzler questi impiega soltanto poche righe per descriverla, nel film viene dato ampio spazio alla rappresentazione della stessa sequenza –, che determinano anche l’assegnazione di un diverso peso delle stesse situazioni nel film rispetto al romanzo; in terzo luogo l’aggiunta ex novo di alcune sequenze e personaggi – ovvero l’introduzione del personaggio di Victor Ziegler nonché, nel sottofinale, il confronto fra quest’ultimo e il protagonista maschile nella sala del biliardo –; in quarto ed ultimo luogo, la soppressione di alcune scene, a mio avviso molto importanti, contenute invece nel romanzo – la reciproca confessione del tradimento non consumato da parte di entrambi i coniugi viene ridotta alla confessione di un desiderio di illecita passione unicamente da parte della protagonista femminile, cosicché la confessione del medico viene interamente depennata; allo stesso modo, il racconto del sogno da parte della donna, al rientro in casa del medico in seguito alle sue avventure notturne, viene notevolmente ridotto e alcuni suoi aspetti non vengono del tutto menzionati –, che determinano dunque, all’interno del film, un sensibile sbilanciamento di un tema fondamentale del romanzo di Schnitzler: la rappresentazione del doppio, nonché la doppia valenza del viaggio onirico-reale-surreale vissuto da entrambi i protagonisti.

Tale sbilanciamento si esplica più precisamente nel cosiddetto «residuo

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traduttivo»101. Ogni tipo di traduzione – interlinguistica, intralinguistica e dunque anche quella intersemiotica extratestuale – comporta un residuo traduttivo, ossia un insieme di elementi che, in base alla strategia traduttiva adottata, non vengono trasferiti nel metatesto, poiché sono difficilmente riproducibili o perché non costituiscono una dominante del prototesto e vengono di conseguenza ignorati oppure spiegati in altro modo – ad esempio, nella traduzione metatestuale attraverso l’impiego di note.

Nel caso specifico, ovvero nella trasposizione cinematografica presa in esame, la scelta di depennare nel metatesto due sequenze tanto importanti – che contribuiscono alla costituzione di una dominante del prototesto, ovvero la dualità della coppia e la dicotomia fedeltà-tradimento – risulta difficilmente condivisibile e comprensibile e non appare dovuta né ad una possibile difficoltà di rappresentazione da parte del regista mediante le tecniche cinematografiche né, tanto meno, alla scarsa significatività delle due sequenze stesse. Purtroppo, la morte prematura e repentina di Kubrick ha lasciato un alone di mistero attorno all’ideazione del film e, soprattutto, alla sua effettiva rappresentazione. Infatti, sebbene determinate scelte siano state ampiamente commentate – da critici e studiosi, nonché dagli stessi attori e aiutanti del regista e, in ultimo, dallo sceneggiatore – nel vano tentativo di fornire delle spiegazioni esaustive e interpretazioni su di esse, tale tentativo si perde in una girandola di delucidazioni e dichiarazioni che altro non sono che ipotesi.

Dunque, non resta altro che questo: formulare congetture.

Anche in Doppio Sogno i temi dominanti si sviluppano maggiormente nella figura del medico, nella quale meglio si esplicano le contraddittorietà racchiuse nell’animo umano. Nel film, tuttavia, viene totalmente privilegiata la raffigurazione dello smarrimento interiore e del viaggio vissuto dal personaggio maschile a discapito di quello femminile. Inoltre, mentre nel romanzo la parola

101 B. Osimo, 2001

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scritta consente allo scrittore di descrivere – e al lettore di penetrare – con più acume le profondità del pensiero e della psiche dell’uomo, nel film l’assoluta quanto naturale mancanza della parola scritta priva la storia di tanta interiorità e profondità. Kubrick cerca di ovviare sia alla soppressione da lui apportata alla vicenda sia all’impossibilità di utilizzare la parola scritta per raffigurare il tema della dualità e del parallelismo attraverso l’uso insistito di elementi iconici che rinviano lo spettatore all’immagine del doppio: ad esempio, viene fatto ampio uso di specchi o di figure identiche o simili; inoltre, il film ha una struttura più marcatamente simmetrica rispetto al romanzo e la dualità del viaggio, fra conscio e inconscio, viene rappresentata mediante diversi espedienti, come il contrasto cromatico.

Quel che è certo, però, è che Eyes Wide Shut si presenta come un capolavoro, l’ennesima, oltre che ultima, odissea kubrickiana che abbatte ogni confine fra realtà e sogno, e penetra in profondità nell’animo umano, rivelando, con la freddezza cinematografica che ha contraddistinto tutto il cinema di Kubrick, le più inconfessate debolezze e le più intime pulsioni dell’uomo.

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Davide De Giorgi Stuart Campbell Sandra Hale Translation and Interpreting Assessment in the Context of Educational Measurement Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Stuart Campbell Sandra Hale

Translation and Interpreting Assessment in the Context of Educational Measurement

Davide De Giorgi

FONDAZIONE SCUOLE CIVICHE MILANO Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti 18, 20151 MILANO

Relatore: Prof. Bruno Osimo Correlatrice: Prof.ssa Elena Berlot

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica 24 Novembre 2003

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Sommario

Abstract (English)……………………………………………………………..pag. V

Abstract (français)…………………………………………………………….pag. VII

Prefazione………………………………………………………………………..pag. IX

Problematica Traduttiva…………………………………………………….pag. XIV

Traduzione con testo a fronte…………………………………………….pag. 1

Bibliografia……………………………………………………………………….pag. 47

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Abstract (English)

The candidate has carried out the translation from English into Italian of a recent contribution by Stuart Campbell and Sandra Hale published in the book «Translation Today: Trends and Perspectives». The contribution aims at providing a global analysis of a number of works, published over the last decades, concerned with assessment procedures in educational contexts (including accreditation procedures). The analysis shows that testing procedures designed and adopted by scholars or academic/non-academic institutions may range widely and that the numerous interpreting/translation competences required are generally quite well verified; the most serious gap in today’s interpreting and translation assessment is to be found in the lack of validity and reliability in the current testing procedures. And as new modes of translation emerge, the need for clearly formulated and uniformly accepted – and therefore more reliable – methods of assessment of translation and interpretation competence becomes greater .

In the Preface to the work the candidate examines the topic in detail, closely analyses the discussions and trends in language testing found in the contribution and expresses his views on the subject. The Preface is completed by a further section entitled «Problematica traduttiva» in which the candidate presents a comprehensive translation-oriented analysis of his work: he comments on his choice of words, expressions and explains how he has solved the main translation problems encountered. This section includes a discussion focusing on the main translational aspects: the candidate describes the translated text as an open text and highlights the importance of connotation/connotative meaning of words – as opposed to denotation/denotative meaning – and of intertextuality (e.g. quotations) in defining the degree of openness of the text. In close relation to this topic, he draws the discussion on polysemy and on how the connotative meaning of words is essentially determined by the contest and co-text. The candidate analyses the two key elements of his «translation strategy» – the «dominant» and the «model reader» – establishing a comparison with the «narrative strategy»

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adopted by the authors of the source text. He then explains, by means of examples, how choosing a particular «translation strategy» can affect or even radically alter the way a message or a whole text is received and decoded by the «empirical readers».

As a postscript, the candidate deals with the issue of «communication loss» and explains the difficulty involved in reaching an acceptable compromise between a «linguistic» and a «cultural» translation.

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Abstract (français)

Le candidat a réalisé la traduction de l’anglais en l’italien d’une récente étude de Stuart Campbell et Sandra Hale publiée dans le livre «Translation Today: Trends and Perspectives». Cette étude contient une analyse générale d’une série d’ouvrages, publiés ces dernières décennies, qui ont pour objet les procédures et les méthodes d’évaluation adoptées dans des contextes académiques (y compris les procédures d’accréditation). De cette analyse il résulte que les tests (d’aptitude par exemple) conçus et choisis par les experts ainsi que par les institutions universitaires et non-universitaires, peuvent être très variés; par ailleurs les nombreuses compétences en interprétation/traduction sont souvent bien cernées. Cependant, les méthodes d’évaluation ne sont pas suffisamment standardisées et manquent souvent de fiabilité. Avec l’apparition de nouvelles spécialisations en traduction/interprétation, une nouvelle nécessité se fait jour, celle de disposer de méthodes d’évaluation des compétences plus claires et qui soient largement acceptées et utilisées – et de ce fait plus fiables.

Dans la préface de sa traduction, le candidat donne un aperçu détaillé des sujets abordés par les auteurs et du débat ouvert en matière d’évaluation des compétences linguistiques et il exprime son point de vue à cet égard. La préface est complétée par une section intitulée «Problematica Traduttiva» dans laquelle le candidat présente une analyse traductologique de son travail, commentant le choix qu’il a fait de certains termes et justifiant certaines expressions et les solutions adoptées pour les principaux problèmes de traduction rencontrés dans le texte. Cette section inclut un examen des aspects traductologiques fondamentaux: le candidat aborde la question de l’«ouverture sémantique» du texte et explique comment celle-ci évolue en fonction de la valeur connotative des mots – par opposition avec la dénotation – et de la présence de références intertextuelles (par exemple les citations). Ce sujet se rattache au thème que le candidat développe sur la polysémie des mots et sur l’importance que le «contexte» et le «cotexte» (le texte autour d’un énoncé) revêtent afin d’aboutir au sens «connotatif» des mots. Ensuite il analyse les deux éléments clefs de sa «stratégie

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traductive» – soit la recherche de la «fonction dominante» et l’identification du «lecteur modèle» – en établissant une comparaison avec la «stratégie narrative» adoptée par les auteurs du texte de départ. En s’aidant d’exemples, le candidat explique dans quelle mesure le choix d’une «stratégie traductive» peut affecter, voire altérer radicalement la façon dont un message ou un texte entier est reçu et décodé par les «lecteurs empiriques». En dernier lieu le candidat aborde le problème de la «perte de communication» et il fait part de son espoir d’être parvenu à un équilibre acceptable entre traduction «linguistique» et traduction «culturelle».

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Prefazione

Il tema della valutazione della traduzione e dell’interpretazione in ambito accademico è da molto tempo al centro di studi, ricerche, dibattiti che coinvolgono studiosi e docenti di tutto il mondo. Al fine di comprendere il motivo di tanto interesse per questo tema è necessario tenere presente che maggiore conoscenza e padronanza delle principali lingue in uso nel mondo e maggiore duttilità nell’utilizzo delle stesse sono capacità divenute, negli ultimi decenni, sempre più richieste in molti ambiti lavorativi, primo fra tutti quello della traduzione e dell’interpretazione. In realtà, parlare oggi di traduzione e interpretazione tout court sarebbe piuttosto limitativo, poiché la tendenza generale nel mondo del lavoro è richiedere competenze e conoscenze sempre più specialistiche e ad alto livello. Basti pensare che già da tempo esistono figure professionali di interpreti/traduttori che operano in ambiti specifici quali il settore giuridico/giudiziario e medico/sanitario, l’assistenza sociale e di comunità, la salute mentale, la localizzazione di software, la pubblicità etc. Si tratta di attività di mediazione linguistica specializzate destinate a divenire sempre più diffuse e richieste nella prospettiva di un mondo sempre più «globalizzato», multietnico e multiculturale in cui il problema principale sarà fondamentalmente la difficoltà di comunicazione. Sempre più spesso, quindi, essere dei buoni traduttori o interpreti può non bastare; sempre più spesso si richiedono conoscenze che vanno al di là della semplice padronanza della lingua. Negli ultimi decenni sono fiorite, in tutto il mondo, moltissime scuole per interpreti e traduttori e oramai molte università offrono corsi di traduzione e interpretazione ai quali è possibile accedere con un diploma e il superamento di test di ammissione. La necessità di sfornare professionisti in mediazione linguistica qualitativamente migliori ha portato gli esperti del settore (linguisti, docenti, valutatori, ideatori dei test) a porre in primo

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piano e a riesaminare alcune questioni fondamentali quali la formazione di interpreti e traduttori, l’attendibilità e l’utilità dei più disparati modelli di test (dai test attitudinali e di profitto agli esami di accreditamento e di trasferimento di crediti), le modalità di valutazione della prestazione in traduzione e interpretazione e, non ultimo, l’attendibilità e la coerenza valutativa degli esaminatori. Il saggio di Stuart Campbell e Sandra Hale si propone infatti di comprendere e di farci comprendere quale sia lo stato dell’arte degli studi condotti e delle opere pubblicate fino ad oggi riguardanti tali questioni. In particolar modo grande attenzione è riservata al tema della valutazione in traduzione e in interpretazione. La valutazione della prestazione rappresenta infatti un anello fondamentale della catena formativa in traduzione e in interpretazione; se da un lato la preparazione alla professione di mediatore linguistico deve essere costantemente aggiornata per restare al passo con l’evolversi stesso della professione e del mondo del lavoro, dall’altro è necessario adottare metodi di valutazione più precisi e obiettivi possibili, che forniscano dunque gli stessi risultati o comunque risultati confrontabili da valutatore a valutatore, da candidato a candidato e nel corso del tempo. In realtà oggi questo non è ancora possibile in quanto ogni istituzione, ogni università adotta modelli di test, metodi di valutazione e approcci valutativi differenti (basti pensare alla differenza fondamentale tra i test basati sulla norma, dove i risultati del singolo vengono rapportati a quelli di altri individui dello stesso gruppo e i test basati su criteri, in cui le competenze del singolo sono rapportate a criteri prefissati). Ovviamente bisogna ricordarsi che qualsiasi test, che si prefigga di «misurare» la competenza linguistica di un individuo, non potrà mai essere uno strumento totalmente esatto e preciso, in quanto rappresenta un campione di comportamento che non può prendere in considerazione tutte le variabili umane e psicologiche (attitudine all’apprendimento, diverso approccio personale, motivazione e atteggiamento psicologico ecc.). I vari autori, presi in rassegna nello studio, trattano di valutazione della traduzione e dell’interpretazione in maniera diversa e, spesso, concentrano la loro attenzione solamente su alcuni tipi di test o su alcuni aspetti dei test (ad esempio lo scopo o le competenze da valutare) mentre rimangono sul vago o addirittura non affrontano altre questioni altrettanto fondamentali ai fini di una valutazione attendibile. In altre parole non esistono dei

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criteri di valutazione oggettivi prestabiliti e universalmente accettati e applicati e, quindi, nell’ideazione dei test e dei metodi valutativi (soprattutto in interpretazione) molto spazio è lasciato alla soggettività, all’intuito degli ideatori dei test e dei docenti. Nell’ambito della traduzione si parla molto di valutazione finalizzata all’accreditamento (es. presso le Nazioni Unite) o alla didattica, mentre raramente si discute dei test attitudinali per traduttori. Molti autori addirittura parlano di valutazione della traduzione senza fare alcun riferimento allo scopo. I tipi di competenze richieste in traduzione variano enormemente, dato che in pratica ogni autore elabora un proprio schema o una tabella delle competenze (principalmente linguistiche e tecniche) o dei tipi di errore nella lingua di arrivo. A eccezione di un autore, la traduzione di un testo sembra essere la modalità standard per la valutazione delle capacità traduttive. Resta quasi del tutto insoluto il problema della lunghezza ideale dei test di traduzione o del tempo massimo consentito per il loro svolgimento: ogni istituzione (es. NAATI, l’ente australiano deputato all’accreditamento di interpreti e traduttori) adotta le proprie procedure e ogni autore propone modelli di test differenti. Per quanto riguarda gli approcci base degli strumenti dei test sembra esserci una netta preferenza per lo schema di valutazione upside-down, cioè capovolto, nel quale da un punteggio pieno si detraggono i punti degli errori. In realtà, si tratta di un metodo che ben poco si adatta alla valutazione di una traduzione se si considera che questa può essere fatta in infiniti modi e che esistono molti possibili errori; il numero di punti massimo è arbitrario e non è in alcun modo collegato al possibile numero di errori. Da un punto di vista teorico un individuo potrebbe totalizzare un numero così elevato di errori da ottenere un punteggio di valutazione inferiore allo zero (es. in una scala di valutazione da 0 a 100 punti); è dunque impossibile fissare un minimo (nel nostro esempio 0) alla scala di valutazione e perciò valutare con precisione e attendibilità la prestazione di tutti i candidati.

Sulla valutazione dell’interpretazione si è pubblicato ancora meno. Quasi tutta la letteratura esistente è dedicata ai test attitudinali di accesso ai corsi di interpretariato di conferenza, agli esami di accreditamento per esercitare la professione di interprete e alla valutazione qualitativa di interpreti professionisti, soprattutto di conferenza. I test attitudinali e i test d’ingresso mirano più o meno

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tutti a saggiare le stesse capacità e competenze e seguono, in genere, il modello basato su criteri in cui i candidati sono chiamati a soddisfare tutti i criteri prestabiliti. Anche le forme dei test sono più o meno comuni (es. shadowing, traduzione a vista, ecc.). Mancano però dei criteri valutativi oggettivi e dunque risulta oltremodo difficile valutare l’attendibilità di tali test.

Un’altra lacuna della letteratura presa in esame può essere individuata nello scarso approfondimento di questioni relative alla formazione dei valutatori, alle scale di valutazione, al punteggio e alle procedure di equiparazione dei test.
Esiste un esiguo numero di testi che si occupano di esami di accreditamento o certificazione per ottenere una qualifica professionale (ad esempio gli esami dell’australiana NAATI); tuttavia anche le linee guida, fissate dalla NAATI per la valutazione della prestazione interpretativa, lasciano ampia discrezionalità valutativa agli esaminatori a discapito di una maggiore obiettività e attendibilità dei risultati. Nonostante la NAATI si servi di esaminatori qualificati e cerchi di aggiornare i suoi esami, siamo ancora lontani da un’analisi attenta e sistematica della validità e dell’attendibilità dei test.

In generale si può affermare che vi sia un certo accordo sui gruppi di competenze da valutare, sia in traduzione sia in interpretazione, ma quasi mai si discute dell’efficacia di un particolare strumento di valutazione nel giudicare tali competenze. Se da un canto si parla in maniera abbastanza diffusa di scopi, competenze e forma dello strumento di valutazione, quasi mai l’approccio di base (basato sulla norma o su criteri) è trattato in maniera esplicita, nonostante vi sia una tacita preferenza per l’approccio basato su criteri. Poca attenzione è inoltre riservata al tipo di risultati, all’utilità di uno strumento basato sulla norma nel differenziare i candidati e ai meccanismi di feedback.

Gli autori della ricerca concludono la loro analisi affrontando la mancanza più evidente in tema di misurazione e valutazione accademica, cioè l’attendibilità. Bachmann, citata più volte dagli autori dell’articolo, ribadisce la necessità di adottare criteri più chiari per una resa corretta. In effetti, spesso, i giovani studenti di traduzione e di interpretazione si trovano a dover reagire in maniera istintiva al momento di dover scegliere tra una resa più fedele o una meno fedele al messaggio originale ma più vicina e comprensibile per il ricevente; per quale

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soluzione bisogna optare? Per di più, se il candidato compie un ipotetico «atto di coraggio» scegliendo una soluzione ardita e meno fedele all’originale, verrà premiato o penalizzato? L’assenza di indicazioni chiare ed esplicite in merito alla fedeltà può influire sull’attendibilità del test. Anche il grado di rapidità è determinante; di conseguenza il tempo massimo, per lo svolgimento di un test, dovrebbe essere fissato non in base a criteri puramente arbitrari bensì solo dopo aver stabilito se esiste una velocità alla quale sia possibile ottenere, dalla maggior parte dei candidati, una prestazione ottimale e quindi più vicina alle loro reali capacità. Un esempio pratico che mette in luce la carenza di attendibilità dei test è offerto dalle ripetizioni. Se un candidato sbaglia la traduzione di un elemento ripetuto (per questioni formali o stilistiche) va penalizzato una o più volte? La ripetizione potrebbe essere vista come un elemento che riduce il grado discriminatorio del test, compromettendo l’attendibilità del test stesso; d’altro canto la presenza di ripetizioni, in alcuni casi, potrebbe fungere da stimolo alla ricerca di soluzioni creative che possano rappresentare un valore aggiunto alla prestazione del candidato. Ma non sono solamente i test ad essere oggetto di studio sull’attendibilità; spesso si parla infatti di attendibilità dei singoli esaminatori e di attendibilità delle valutazioni tra più esaminatori. Alcune istituzioni, come la NAATI e l’American Translator Association (ATA), sembrano dare molto peso al comportamento professionale degli esaminatori al fine di raggiungere un maggior grado di attendibilità. In ogni caso, in nessuna delle pubblicazioni prese in esame compare uno studio serio sul tema dell’attendibilità e della coerenza dei valutatori. In conclusione, dalla ricerca effettuata da Stuart Campbell e Sandra Hale, si può facilmente comprendere quanto lavoro vi sia ancora da compiere nel campo della valutazione e quanta strada bisogna ancora percorrere per arrivare a test estremamente attendibili. Impiegare test più attendibili e obiettivi significherebbe essenzialmente saper valutare e formare meglio le nuove schiere di giovani che si apprestano ad entrare nel mondo della traduzione o dell’interpretariato e che, forse, un giorno, saranno chiamati a loro volta a dover valutare e formare nuovi professionisti della mediazione linguistica.

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Problematica traduttiva

La traduzione del testo originale ha presentato una serie di problemi traduttivi. La prima e principale questione riguarda la traduzione in italiano del termine inglese «interpreting»; come molte volte accade nella lingua inglese, questa parola ammette in italiano una serie di possibili traducenti diversi. In funzione di sostantivo può essere tradotta come «interpretariato» o «interpretazione»; in funzione di aggettivo si traduce con «interpretativo». Gli autori del saggio l’hanno impiegata per tradurre indistintamente «interpretariato», «interpretazione» e «interpretativo». Solamente in due sporadici casi si ricorre alla parola inglese «interpretation»: nel primo caso si parla di «…Graduate Institute of Translation and Interpretation Studies…», nel secondo di «judicial interpretation». Soprattutto in quest’ultimo caso non risulta ben chiaro il motivo per cui gli estensori abbiano optato per questa variante lessicale dato che nello stesso paragrafo si fa riferimento alla stessa attività con l’espressione «judicial interpreting» e «court interpreting». Probabilmente si tratta di una scelta dettata da motivi estetici, stilistici, quindi per evitare di ripetere troppe volte la stessa parola.

In italiano il discorso sembra più complesso e meno chiaro. I termini «interpretariato» e «interpretazione» possono significare la stessa cosa, ovvero l’attività, la funzione svolta dall’interprete; tuttavia nella mia traduzione mi sono servito di entrambi i traducenti. In realtà, la scelta di una parola piuttosto che l’altra è stata a volte intuitiva ed è dipesa in gran parte dal contesto in cui la stessa è collocata: se da un canto parlo di «valutazione dell’interpretazione» (intesa come «prestazione interpretativa») dall’altro parlo di «corso di interpretariato» o di «interpretariato di conferenza» o di «interpretariato di comunità o in campo medico/sanitario e giuridico/giudiziario». (Tuttavia al punto

n. 8 della

pagina web

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www.club.it/culture/culture2001/giuliana.garzone/note.garzone.html si parla di «interpretazione di comunità nel campo medico e sanitario e giuridico/giudiziario»). Ho preferito utilizzare il vocabolo «interpretazione» in riferimento all’aspetto della prestazione interpretativa in sé o alla generica traduzione orale di un messaggio, e il termine «interpretariato» in riferimento all’attività dell’interprete vera e propria (soprattutto se si specifica il tipo di interpretariato: ad esempio di trattativa, di conferenza ecc…). Si tratta, come già detto, di una scelta da un lato arbitraria e intuitiva e dall’altro dettata dal fatto che «interpretazione» è una parola generica ampiamente usata anche in psicologia, ermeneutica, critica d’arte, semiotica ecc., mentre «interpretariato» è un termine settoriale univoco.

Una ricerca condotta con il motore di ricerca Google ha comunque confermato una tendenza ad usare indistintamente i vocaboli «interpretazione» e «interpretariato»: si parla infatti ad esempio di «corsi di laurea in traduzione e interpretazione» come pure, con maggior precisione terminologica, di «corsi di laurea in traduzione e interpretariato».

Restando nell’ambito dell’interpretariato, Roseann Dueñas Gonzáles, un’autrice citata dagli estensori del saggio, si serve dell’espressione «…simultaneous (unseen or spontaneous)…translation…» in riferimento all’interpretariato giuridico. Si tratta di espressioni specifiche relative al settore dell’interpretariato giuridico e, con tutta probabilità, connotate geograficamente (in uso negli Stati Uniti ma poco note in Europa). Per tale motivo trovare una traduzione accettabile, in un primo momento, ha comportato notevoli difficoltà. In effetti è stata proprio Sandra Hale, uno degli autori, a fornirmi la soluzione al problema. In genere si parla di «unseen simultaneous translation» allorché l’interprete giurato, nel corso di un processo, traduce con il metodo dello «chuchotage», cioè bisbigliando la traduzione (quindi senza l’ausilio di apparecchiature audiovisive), alla parte in causa non inglese – o comunque di lingua diversa da quella del processo – da un luogo o postazione non visibile al pubblico dell’aula (per questioni di sicurezza o privacy). Nell’interpretazione consecutiva l’interprete si trova invece a fianco al testimone di fronte alla corte al momento della deposizione. L’espressione «spontaneous» sta semplicemente a significare che l’interprete deve saper tradurre velocemente

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senza avere tempo per riflettere o prendere appunti; probabilmente l’autrice fa riferimento a quel tipo di interpretariato che normalmente, nel contesto europeo, prende il nome di «instant translation» o «liaison interpreting» ovvero una interpretazione «frase per frase» o «di collegamento» o «di trattativa». Anche quest’ultima forma di interpretariato non prevede l’utilizzo di attrezzature audiovisive o la possibilità di prendere appunti dato che l’interprete è fisicamente vicino ai suoi uditori e spesso si pone tra le parti che beneficiano della traduzione. Da notare inoltre che, normalmente, la «unseen translation» sta a indicare ciò che noi chiamiamo «traduzione a vista».

Il vocabolo inglese «testing» ha posto qualche problema di traduzione. In alcuni casi (es. «aptitude testing») ho optato per il traducente «test»; in altre situazioni ho preferito una resa differente a seconda del contesto, ad esempio: «modalità di valutazione», «procedure di verifica» (per «testing procedures»), «valutazione linguistica» o «modalità di valutazione del linguaggio» (per «language testing» ), «test di verifica» o «prove».

Nel quadro della valutazione, qualche difficoltà ha comportato la scelta del giusto traducente per i vocaboli «rater», «marker», «grader» ed «examiner»; per una questione di coerenza e maggiore semplicità ho preferito servirmi del traducente «esaminatore» per la resa di «examiner» e del traducente «valutatore» nei restanti casi. In realtà tra i due vocaboli esiste una certa differenza: la parola «esaminatore» ha un più ristretto campo di utilizzo, poiché in genere è applicabile solamente ad un contesto d’esame/concorso; la «valutazione» invece può avvenire anche al di fuori di un esame. È pur vero che, generalmente, chi svolge il ruolo di esaminatore debba anche emettere un giudizio, una valutazione; in questo caso, il significato e l’impiego dei due traducenti tenderanno a sovrapporsi.

In linea di massima ho usato lo stesso traducente, cioè «valutazione», per tradurre sia «assessment» sia «evaluation».
Per quanto riguarda la resa del verbo «to measure» ho impiegato, a seconda dei casi e del contesto linguistico, diversi traducenti: i più frequenti sono «giudicare», «misurare», «valutare», «calcolare».

La traduzione dei termini «norm-referenced test» e «criterium-referenced test» ha comportato qualche problema. Da una veloce ricerca condotta con Google sui siti

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italiani è emerso che si tende ad usare le stesse espressioni inglesi. Per una maggiore chiarezza io ho preferito invece trovare traducenti italiani che fossero comprensibili e avessero lo stesso significato, ovvero «test basato sulla norma» e «test basato su criteri».

Per la traduzione del termine «performance» ho scartato quasi subito l’idea di lasciarlo in inglese e ho optato, nella maggior parte dei casi, per il traducente italiano «prestazione» e talvolta per il traducente «rendimento», anche se il primo mi è sembrato più adatto al contesto della valutazione delle capacità traduttive. Inizialmente ho avuto dubbi anche sulla resa dell’onnipresente concetto della «reliability» nell’ambito della valutazione. I possibili traducenti erano «attendibilità» e «affidabilità». In ultima analisi ho scelto il traducente «attendibilità» poiché, a mio parere, si addice di più a un metodo di valutazione; invece, in genere si tende a parlare di «affidabilità» in riferimento a una persona o a un mezzo meccanico.

Anche il vocabolo inglese «scholarship», in realtà poco frequente nell’originale, ha inizialmente posto qualche problema di resa. Si tratta di una parola che abbraccia tutta una serie di traducenti differenti, ovvero ha un campo semantico denotativo abbastanza ampio: infatti, consultando il dizionario bilingue inglese-italiano, alla voce «scholarship» ho riscontrato i seguenti traducenti italiani:

borsa di studio (come primo significato)
cultura, erudizione, sapere, dottrina (come secondo significato)
studiosi (pl) (come ultima scelta)
Mi sono dunque trovato di fronte alla necessità di operare una scelta lessicale importante. Si tratta, in altre parole, di un caso, del resto abbastanza frequente, in cui l’intervento interpretativo del traduttore gioca un ruolo considerevole nel mantenimento di una coerenza lessicale. Io ho optato per i traducenti «conoscenze», «dottrina» e «studi» poiché «scholarship» è usato in riferimento al campo di conoscenze e alla ricerca alla base della formazione di interpreti e traduttori.
Di un certo interesse anche la traduzione del termine «sub-skills»; nei siti internet italiani non compare quasi mai il termine inglese e risultano poco diffusi anche i traducenti «sub-capacità» e «sub-abilità»; si parla più comunemente di

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«sottocapacità» o «sub-competenze» e soprattutto di «sottoabilità» e «sottocompetenze». Quest’ultimo risulta il più comune ed è quello che ho deciso di adottare nella traduzione.
La traduzione del termine inglese «sub-test» è stata più agevole; infatti nei siti internet italiani quella più diffusa è «subtest» o «sub-test» ma ho riscontrato anche l’uso – meno frequente però – del termine «sottotest». Anche in questo frangente ho adottato la versione più comunemente accettata, ovvero «subtest».

La traduzione non ha presentato ulteriori problemi traduttivi degni di nota. L’esistenza di uno studio della problematica traduttiva, di una semiosi del testo è comunque indicativo dell’apertura del testo stesso. Tale apertura è dovuta sia alla presenza di una certa connotazione, sia ai continui riferimenti intertestuali. Il testo è infatti ricco di rimandi e citazioni che, comunque, sono spesso ben identificabili (esplicitezza) grazie all’uso di delimitatori grafici (virgolette) mentre le fonti sono sempre citate e specificate (esplicitezza della fonte); anche il motivo delle citazioni (esplicitezza della funzione) mi è sembrato spesso facilmente comprensibile. In ogni caso la decodifica delle citazioni è risultata a volte problematica per me a causa della disconoscenza sia degli autori citati che delle loro teorie; in una certa misura è un problema che potrebbe aver riguardato anche i lettori della cultura emittente e che potrebbe riguardare parte dei lettori della cultura ricevente. Leggendo il testo è facile imbattersi in vocaboli polisemici, cioè che ammettono molteplici interpretazioni e possono avere uno spettro semantico più o meno esteso; per tale ragione essi sono comprensibili solamente se teniamo conto del contesto e del co-testo in cui si trovano; casi emblematici sono, ad esempio, le parole inglesi «portrayal» o «stakeholders». La prima, da un punto di vista denotativo, ammette tre significati: «raffigurazione», «presentazione» e «ritratto». Nel testo sarebbe stato tuttavia difficile stabilire quale significato attribuire alla parola, se non avessi considerato con attenzione il suo contesto e in modo particolare il suo co-testo; infatti è stato proprio grazie allo studio del contesto linguistico della parola che sono stato in grado di comprenderne il significato connotativo, ovvero «(qualità) della resa linguistica». Lo stesso ragionamento vale per il vocabolo «stakeholders»; esso infatti normalmente indica l’«azionista», il

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«partecipante» ma è risultato subito ovvio che il termine non andava preso nel suo senso strettamente letterale ma in senso figurato, ovvero «soggetti coinvolti». Anche in questa situazione il contesto ed il co-testo sono stati fondamentali al fine della comprensione.

In fase di stesura del testo tradotto, una delle mie maggiori preoccupazioni è stata la gestione del «residuo comunicativo», che inevitabilmente accompagna ogni traduzione e più in generale ogni atto comunicativo. Il residuo comunicativo consiste essenzialmente nella progressiva perdita del contenuto o del significato del messaggio originale attraverso i vari passaggi di decodifica in materiale psichico e di ricodifica, e quindi di riverbalizzazione dello stesso messaggio nel codice ricevente. A questo proposito ha giocato un ruolo rilevante la scelta della «strategia traduttiva». Per poterla elaborare ho dovuto procedere all’individuazione della «strategia narrativa» degli autori dell’originale – la «dominante» e il «lettore modello» del prototesto (primo grado della ricostruzione abduttiva secondo Peirce). Trattandosi di un testo saggistico la funzione dominante che ho individuato è di carattere informativo (cosa che si evince in maniera inequivocabile già dal titolo): gli autori si propongono innanzitutto di divulgare e commentare i risultati della loro indagine. È comunque possibile individuare marche a livello lessicale, dovute essenzialmente al diffuso impiego di termini ed espressioni settoriali proprie del vocabolario tecnico della misurazione accademica e della interpretazione / traduzione. Per di più nel caso specifico dei termini «unseen» e «spontaneous» (di cui sopra) è presente un’ulteriore marca di carattere geografico; sembrerebbe trattarsi infatti di espressioni proprie dell’intepretariato giuridico statunitense e per tale motivo non condivise da molti interpreti italiani e probabilmente europei. Qui sono dovuto ricorrere a espressioni forse semanticamente non del tutto coincidenti con quelle originarie («instant translation» come analogo culturale di «spontaneous translation») ma che risultano per lo meno comprensibili ai lettori del metatesto. Volendo invece prendere in prestito la terminologia dello scienziato della traduzione Toury, potrei dire di aver sacrificato, in questo frangente, l’«adeguatezza» della mia traduzione a vantaggio dell’«accettabilità». Esiste inoltre un altro caso in cui ho optato per una «traduzione culturale» e «accettabile»: nella fattispecie, ho deciso di tradurre

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l’espressione inglese «postgraduate…course» ricorrendo al suo equivalente nella cultura italiana del dopo riforma dei cicli di studio, ovvero «corso di laurea di secondo livello». Si tratta di una palese manipolazione del testo originale che sortisce l’effetto di annullare la distanza cronotopica tra prototesto e lettore del metatesto, avvicinando, pertanto, il prototesto alla metacultura. I miei lettori non dovranno compiere alcuno sforzo per comprendere ciò di cui parlo, molti di loro saranno ignari del mio «intervento culturale» e solamente i più attenti e smaliziati potrebbero accorgersi, o per lo meno sospettare una tale manipolazione.

Più in generale credo di essere comunque riuscito a mantenere un certo equilibrio tra «adeguatezza» e una «accettabilità» traduttive. Ad esempio, nel caso di espressioni settoriali ho scelto di conservare il termine inglese solo se esso non ha traducenti in italiano o se, pur avendone, è con buona probabilità ampiamente conosciuto o facilmente comprensibile per il mio lettore modello (es. «default»); per contro ho tradotto le espressioni che ammettono uno specifico traducente in italiano (es. «aptitude test») e ho cercato un traducente «accettabile» anche per quelle espressioni di più difficile e meno intuitiva comprensione (si vedano, ad esempio, le espressioni «criterium-referenced» e «norm-referenced»).

Ho riscontrato ulteriori elementi di marcatezza a livello lessicale. In particolare, in una citazione, si fa riferimento al criterio di «scoreability»; all’inizio ho pensato che si potesse trattare di un vocabolo creato ad hoc dall’autore citato per descrivere le caratteristiche di un determinato tipo di test attitudinale. In realtà, attraverso un’attenta analisi dei riscontri sui siti internet, ho potuto constatare un utilizzo abbastanza diffuso del vocabolo, seppur limitato a pochi settori specifici. Uno di questi è proprio quello della valutazione: sul sito http://www.ed.psu.edu/insys/ESD/darling/Assess.html, Linda Darling-Hammond, un’esperta americana impegnata sul fronte della riforma del sistema scolastico e dei metodi di valutazione, parla di «…efficiency and and easy scoreability…» in riferimento ai test di verifica. In questo contesto mi sembra abbastanza chiaro che per «scoreability» si debba intendere la possibilità di attribuire un punteggio o una votazione. Nella mia traduzione la scelta del giusto traducente ha posto una difficoltà aggiuntiva: dato che il vocabolo è inserito in un’enumerazione, ho ritenuto che l’adozione, nel testo tradotto, di una perifrasi avrebbe appesantito

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troppo l’enunciato rallentandone il ritmo; pertanto la scelta è caduta sul traducente «valutabilità».
Il vocabolo «scoreability» trova anche ampia applicazione in un altro campo: l’industria della carta. Secondo il glossario della CE, Eurodicautom, esso sta a indicare l’«attitudine alla fustellatura» della carta o del cartone (presumibilmente usati per realizzare scatole), ovvero la capacità di tali materiali di resistere, senza subire danni o rotture, ad un processo di sagomatura eseguita con attrezzi specifici (fustella).

In un contesto totalmente diverso, quello sportivo e, nello specifico, nel mondo del bowling, il vocabolo «scoreability» in genere indica l’ottimizzazione di una boccia o della corsia – ad esempio, grazie all’impiego di materiali e tecnologie costruttive particolari – al fine di accrescere la percentuale di successo dei colpi, quindi di fare più punti. In senso lato la «scoreability» di una boccia è direttamente proporzionale alle sue qualità dinamiche e alla precisione che essa garantisce durante il gioco.

In altri contesti (es. medico-scientifico) si parla invece di «scoreability» in riferimento alla possibilità di quantificare o di attribuire un punteggio o all’affidabilità/precisione di dati forniti.
Considerando la natura strettamente tecnica e settoriale della trattazione, non è stato difficile ipotizzare quale fosse il «lettore modello» che gli autori avevano in mente al momento di scegliere la strategia testuale da adottare; con tutta probabilità era ed è l’esperto, lo studioso nel campo della misurazione o il mediatore linguistico specialmente anglofono. Sono in realtà le stesse figure professionali che io ho individuato come probabili destinatari dell’opera da me tradotta – ovvero i «lettori modello» del metatesto; è comunque ragionevole pensare che essa, in quanto prodotto di una cultura emittente extraeuropea, ottenga un successo più limitato nella cultura ricevente (italiana) e si rivolga dunque a quella ristretta cerchia di specialisti più colti o che mostrano più interesse e attenzione per le tendenze e i fenomeni che avvengono anche al di fuori dell’Italia o dell’Europa. Non ho effettuato cambiamenti traduttivi di rilievo, almeno per quanto concerne lo stile e il registro. A livello culturale, ho optato per un cambiamento generalizzante in un caso: ho tradotto «…California Court

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certification examination…» con «esame di certificazione per gli interpreti giurati californiani», ritenendo che tale scelta non avrebbe pregiudicato la comprensione del testo da parte del mio lettore modello.
Nelle note conclusive del testo in inglese, la valutazione, ambito scientifico ancora quasi del tutto inesplorato ma che ha un grosso potenziale di sviluppo, viene paragonata ad un bambino che muove i primi passi; anche in questo caso ho preferito una traduzione generalizzante: «…assessment does need to…realize that there are some bigger kids on the block for it to learn from…» diventa dunque «…la valutazione deve…comprendere che ci sono discipline più evolute e mature dalle quali imparare…». Come si può notare ho compiuto una manipolazione stilistica eliminando l’immagine del bambino, poiché ho ritenuto che nel testo italiano avrebbe perso parte dell’efficacia e della bellezza che invece assume nell’originale. Si tratta comunque di una scelta personale e pertanto opinabile.

In conclusione, posso affermare che vi sia quindi una sostanziale corrispondenza tra la «strategia narrativa» adottata dagli autori e la mia «strategia traduttiva». Ho cercato di limitare il residuo comunicativo mantenendomi, per quanto possibile, fedele al testo originale, operando delle scelte traduttive che privilegiassero l’adeguatezza del lessico (ad eccezione dei casi descritti sopra) ma anche della sintassi e del registro e affidando a questo apparato metatestuale la spiegazione delle scelte traduttive meno comprensibili per la metacultura.

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Introduction

Translator and interpreter education is now widely practised around the world and is supported by an increasingly sophisticated body of research and scholarship. Much of this work is concerned with identifying the components of competence and proposing curriculum models that incorporate these components and suitable teaching strategies. The scholarship supporting translation and interpreting education necessarily entails discussions of assessment and there has been some encouraging work in this area. However, there has been little recognition in translation and interpreting circles that educational measurement as a broader field has its own tradition of scholarship, a widely accepted body of knowledge and terminology, and a range of approaches. Notions like reliability and validity are part of the basic architecture of educational measurement.

Test designers need to ensure that test results are reliable, for example, yielding the same results with different groups of candidates and at different points in time; and they need to construct tests that are valid in that they, for instance, reflect the model of learning that underpins the curriculum and are relevant to the professional behaviour taught in the curriculum. A major issue in educational measurement of relevance to translation and interpreting assessment is the fundamental difference of approach between norm- and criterion-referenced testing. Norm-referenced tests are designed to rank candidates against each other; criterion-referenced tests require candidates to demonstrate that they have satisfied a set criterion. These fundamental issues are comprehensively dealt with in standard works on educational measurement such as Ebel (1972) and Thordike et al. (1991). Closer to our discipline, Bachmann (1991) represents a comprehensive discussion on language testing, firmly grounded in measurement theory.

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Introduzione

Oggi la formazione di traduttori e interpreti è un’attività ampiamente diffusa nel mondo ed è supportata da un corpus sempre più vasto e complesso di ricerche e conoscenze a livello accademico. Si tratta prevalentemente di studi che si concentrano sull’individuazione delle componenti della competenza e che propongono modelli di curricula che incorporano queste componenti nonché delle opportune strategie d’insegnamento. La dottrina alla base dell’insegnamento della traduzione e dell’interpretazione non può prescindere da discorsi relativi alla valutazione ed è proprio in questo ambito che sono stati compiuti incoraggianti passi avanti. Eppure nelle cerchie di interpreti e traduttori sono in pochi a riconoscere che la misurazione accademica intesa come più vasta materia abbia una propria tradizione di studi, un corpus di conoscenze e di terminologia ampiamente condiviso e una serie di approcci differenti.
Nozioni quali attendibilità e validità sono parte integrante della struttura di base della misurazione accademica.

Gli ideatori di test devono assicurarsi che i risultati dei test siano attendibili e che pertanto essi, per esempio, producano gli stessi risultati con diversi gruppi di candidati e in momenti diversi nel tempo. Allo stesso modo i test devono essere validi e quindi, ad esempio, rispecchiare il modello di apprendimento sotteso al programma di studi e l’atteggiamento professionale insegnato. Nell’ambito della misurazione accademica una delle questioni di primaria importanza relative alla valutazione della traduzione e dell’interpretazione è la differenza fondamentale di approccio tra test basati sulla norma e i test basati su criteri. I primi mirano a stabilire un raffronto tra i candidati; i secondi prevedono che i candidati dimostrino di aver soddisfatto una serie di criteri prefissati. Tali questioni fondamentali sono trattate in maniera esaustiva nelle opere di base sulla misurazione accademica di autori come Ebel (1972) e Thorndike et alia (1991). Più strettamente legata al nostro argomento risulta essere l’esauriente disamina di Bachmann (1991) sulle modalità di valutazione del linguaggio, profondamente radicata nella teoria della misurazione.

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The discussion in this contribution sets itself outside a current and vital issue in Translation Studies (and to a much lesser extent in work on interpreting) – the instability of notions such as quality, value and assessment. A recent volume of The Translator was dedicated to this issue, with an introduction by Carol Maier that points out the difficulty of defining these concepts on the basis of theories about the nature of translation. Maier observes that «one sees a shared emphasis on defining and assessing quality in the context of specific situations, especially pedagogical ones» (Maier, 2000: 140). While we acknowledge the complexity and importance of defining these notions, we confess that we sidestep the issue and jump straight into Maier’s pedagogical context; our approach has been to scrutinize translation and interpreting assessment with the broader perspective of educational measurement. Using some fundamental criteria from educational measurement as a framework, we ask how current translation and interpreting assessment practice stands up to broader scrutiny, and what directions we need to take in the future.

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La disamina in questo saggio si colloca al di fuori di una questione quantomai attuale e vitale nei Translation Studies (e in misura minore negli studi sull’interpretazione) – l’instabilità di concetti come qualità, valore e valutazione. Un recente numero del Translator è stato dedicato a questo argomento; nell’introduzione di Carol Maier si mette in evidenza come sia difficile definire questi concetti sulla base di teorie sulla natura della traduzione. Maier fa notare che «è possibile cogliere un comune interesse nel definire e nel valutare la qualità nel contesto di situazioni specifiche, soprattutto quelle pedagogiche» (Maier, 2000: 140). Se, da un canto, riconosciamo la complessità e l’importanza di definire tali nozioni, dall’altro confessiamo di eludere il problema e di tuffarci nel contesto pedagogico di Maier; il nostro approccio è consistito nell’analizzare attentamente la valutazione della traduzione e dell’interpretazione nella più ampia prospettiva della misurazione accademica. Prendendo come riferimento alcuni criteri fondamentali della misurazione accademica ci chiediamo quante volte la pratica della valutazione della traduzione e dell’interpretazione regga il confronto con un’analisi più ampia e approfondita e in quali direzioni dovremo muoverci in futuro.

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Basic Approach

Our basic approach has been to propose a checklist of criteria against which an assessment procedure might be measured. We have then examined a selection of published works that deal with translation and interpreting assessment procedures in some fashion, and weighed their findings against some of the criteria on the checklist. The works were collected through a search of the Linguistics and Language Behaviour Abstracts (LLBA) and Modern Language Association (MLA) databases, as well as our private collections. It is important to note that we limited our choice of works to those that deal specifically with assessment procedures in an educational context (including accreditation), for which reason the absence of seminal works like House (1981) should come as no surprise. We concede that the published works examined are by no means a comprehensive collection, but we maintain that they are a fair representation of the state of art over the last decades, as published; however, there is no doubt a good deal of interesting practice locked away in the internal documentation of teaching institutions.
The checklist is not intended as a definitive taxonomy of the characteristics of assessment procedures, and we acknowledge that there are overlaps between some of the items. For example, a procedure that aims at summative assessment may generate information that can be used for credit transfer (cf. item 2 below); but of course credit transfer information requires the additional potential for translatability between education systems or institutions. In an Australian educational institution, for instance, test procedures can have the purpose of producing (a) summative information so that the institution can award grades, (b) information that will allow accreditation by the external accrediting authority, and (c) information that will allow another institution to calculate the amount of credit to be granted. A single programme might include units whose assessment procedures do one of these things or several at once. Similarly, items 6 and 8 below overlap to an extent, but differ in their focus; item 6 is oriented towards the institution and its assessment policies while item 8 is oriented towards the broader constituency of stakeholders in the assessment process.

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Approccio di Base

Il nostro approccio di base è stato quello di proporre un elenco di criteri secondo i quali una procedura di valutazione potrebbe essere giudicata. In seguito abbiamo preso in esame una selezione di pubblicazioni che in qualche modo trattano di procedure di valutazione della traduzione e dell’interpretazione e abbiamo quindi confrontato i loro risultati sulla base di alcuni parametri dell’elenco. Per la scelta delle pubblicazioni abbiamo consultato, oltre alle nostre raccolte private, gli Abstracts del Linguistic and Language Behaviour (LLBA) e i data base della Modern Language Association (MLA). È importante sottolineare che ci si è limitati a scegliere quei testi che trattano specificamente di procedure di valutazione in un contesto accademico (compreso l’accreditamento), ragion per cui l’assenza di opere autorevoli come House (1981) non deve sorprendere. Sappiamo che le pubblicazioni esaminate non costituiscono in alcun modo una raccolta completa ma riteniamo che formino un quadro sufficientemente rappresentativo dello stato dell’arte del materiale pubblicato su questo argomento negli ultimi decenni; comunque non vi è dubbio che una gran quantità di interessanti procedure sia conservata nei documenti interni delle istituzioni accademiche.

La lista non va considerata una tassonomia definitiva delle caratteristiche delle procedure di valutazione e ammettiamo che vi siano delle sovrapposizioni tra alcune voci. Ad esempio, una procedura finalizzata a una valutazione sommativa può generare informazioni che possono essere usate per il trasferimento dei crediti (cfr. voce 2 sotto); ma ovviamente i dati relativi al trasferimento dei crediti necessitano del potenziale aggiuntivo per la loro traducibilità tra sistemi accademici o istituzioni. In una istituzione accademica australiana, per esempio, le procedure dei test possono servire a ottenere (a) informazioni sommative che permettano alle istituzioni di attribuire voti, (b) informazioni che permettano l’accreditamento da parte dell’autorità esterna preposta, e (c) informazioni che permetteranno a un’altra istituzione di calcolare l’ammontare del credito da assegnare. Un singolo programma può includere unità le cui procedure di valutazione svolgano una di queste funzioni o più funzioni allo stesso tempo. Allo stesso modo i punti 6 e 8 sotto si sovrappongono in parte, ma si concentrano su aspetti differenti; il punto 6 si rivolge alle istituzioni e alle relative politiche valutative mentre il punto 8 si rivolge alla più ampia cerchia di soggetti coinvolti nel processo valutativo.

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The checklist follows:

  1. (1).  What broad area is being assessed? For example, interpreting, translation, subtitling, specific language combinations, etc.
  2. (2).  What is the purpose of the assessment instrument? For example, is aimed at:
    • Measuring aptitude (e.g. to enter a training course);
    • Determining placement (e.g. at a particular starting point in a trainingcourse);
    • Providing formative assessment (i.e. the skills and knowledge attained atpoints during a training course);
    • Providing summative assessment (i.e. the skills and knowledge attained at

    the end of a training course);
    • Accreditation (e.g. for entry into a professional body);
    • Credit transfer (e.g. to allow student mobility between universities)?

  3. (3).  What competencies are assessed, e.g. language 1 and language 2 knowledge, transfer competence, speed, accuracy, memory, terminology, cultural knowledge, etc.?
  4. (4).  What is the form of the assessment instrument? For example, a timed translation, an interpreting role play, a multiple choice test, etc
  5. (5).  What is the basic approach of the instrument? For example, is it norm-referenced, i.e. ranking candidates from best to worst; or is it criterion-referenced, i.e. measuring performance against a known criterion? Or does it assess skills learned on the job?
  6. (6).  What kind of results does the instrument generate? For example, does it generate a qualitative description of performance, a numerical score based on the objective items, a pass/fail result, etc?
  7. (7).  How well does a norm-referenced instrument discriminate among candidates?

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La lista è la seguente:

  1. (1)  Quale area generica viene valutata? Ad esempio, interpretazione, traduzione, sottotitolaggio, combinazioni linguistiche specifiche ecc.
  2. (2)  Quale scopo ha lo strumento valutativo? Ad esempio, è finalizzato a:
    • Misurare l’attitudine (es. a partecipare a un corso di formazione);
    • Stabilire l’inserimento (es. ad un particolare punto di partenza in un corso diformazione);
    • Fornire una valutazione formativa (cioè le capacità e le conoscenzeacquisite in diversi momenti durante un corso di formazione);
    • Fornire una valutazione sommativa (cioè le capacità e le conoscenzeacquisite al termine di un corso di formazione);
    • L’accreditamento (es. per aver accesso a un ordine professionale);
    • Trasferimento dei crediti (es. che permetta la mobilità degli studenti trauniversità).
  3. (3)  Quali competenze sono valutate, es. conoscenza della lingua 1 e della lingua 2, capacità traduttive, velocità, accuratezza, memoria, terminologia, conoscenze culturali, ecc.?
  4. (4)  Quale forma deve avere lo strumento di valutazione? Ad esempio, una traduzione con limite di tempo, un gioco di ruolo interpretativo, un test a scelta multipla, ecc.
  5. (5)  Qual è l’approccio di base dello strumento? Ad esempio, è un test basato sulla norma, cioè finalizzato a classificare i candidati dal migliore al peggiore; o un test basato su criteri, cioè finalizzato a misurare la prestazione sulla base di un dato criterio? Oppure valuta capacità acquisite al lavoro?
  6. (6)  Che tipo di risultati fornisce lo strumento? Ad esempio, fornisce una descrizione qualitativa della prestazione, un punteggio numerico basato su elementi oggettivi, indica il superamento o il non superamento della prova, ecc.?
  7. (7)  Quale utilità può avere uno strumento basato sulla norma nel differenziare i candidati?

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(8)

(9) (10)

What are the reporting mechanisms? For example:

  • Who receives feedback (e.g. candidate, instructor, institution)?
  • When does feedback occur (e.g. immediately, months later)?
  • How is feedback given (e.g. qualitatively, quantitatively)?How valid is the assessment instrument?How reliable is the assessment instrument?

We note in advance of the discussion that some of the items in the list are simply not discussed in the materials that we examined. We will return to these gaps later in this chapter.

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  1. (8)  Quali sono i meccanismi relazionali? Ad esempio:
    • Chi riceve il feedback (es. il candidato, l’istruttore, l’istituzione)?
    • Quando viene recepito il feedback (es. immediatamente, dopo alcuni mesi)?
    • Come viene dato il feedback (es. qualitativamente, quantitativamente)?
  2. (9)  Quale validità ha lo strumento di valutazione?
  3. (10)  Quale attendibilità ha lo strumento di valutazione?Prima di addentrarci nel discorso segnaliamo che alcuni punti della lista non sono

trattati nel materiale da noi esaminato. Torneremo a parlare di queste lacune più avanti in questo capitolo.

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Translation Assessment

Works on assessment in translation can be divided into two broad categories of assessment purpose: accreditation and pedagogy, reflecting the two broad constituencies of recruitment and training. In the accreditation area, Schäffner (1998) provides a critique of the Institute of Linguists syllabus in German. A UN accreditation perspective from Beijing is provided by Wu (1994), while Bell (1997), Martin (1997) and Ozolins (1998) discuss national accreditation in Australia. The offerings from Beijing and Australia each deal with both interpreting and translation, while all the works deal in some fashion with tests that bestow a public validation of competence. The pedagogy area in translation is less clear cut in terms of purpose: Brunette (2000) makes some reference to translation didactics in her attempt to establish a terminology for translation quality assessment, but is not clear about purpose, for example, diagnostic, formative or summative assessment. Dollerup (1993), Kussmaul (1995) and Sainz (1993) are clearly concerned about formative assessment, while Farahzad (1992) and Ivanova (1998) discuss summative assessment in the form of final translation examinations at university. James et al. (1995) is the only work in our selection to examine credit transfer (in the area of screen translation), while Campbell (1999) makes some small inroads into diagnostic assessment. Interestingly, we came across very little discussion of aptitude testing for translator education, although Cestac (1987) describes selection tests for recruitment at UN Headquarters; conversely there is a good deal of discussion of aptitude for interpreter education (cf. below). What is also interesting is that a number of writers discussed translation assessment without making any reference to purpose (for example, Bowker, 2000). Something of a hybrid is the Institute of Linguists New Diploma in English and Chinese described by Ostarhild (1994), which appears to be an attempt to move an accreditation instrument from an earlier test of bilingualism to one that also tests translation.

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Valutazione della Traduzione

È possibile suddividere la letteratura sull’argomento della valutazione in traduzione in due ampie categorie a seconda che lo scopo della valutazione sia l’accreditamento o la pedagogia: il primo scopo si collega all’ambito dell’assunzione, il secondo a quello della formazione. In materia di accreditamento, Schäffner (1998) ci lascia una critica in tedesco del programma d’insegnamento dell’Institute of Linguists, Wu (1994), da Pechino, esprime il suo punto di vista sull’accreditamento presso le Nazioni Unite mentre Bell (1997), Martin (1997) e Ozolins (1998) disquisiscono di accreditamento nazionale in Australia. I contributi provenienti da Pechino e dall’Australia trattano sia di interpretazione sia di traduzione, mentre più in generale tutti i testi presi in rassegna si occupano in qualche modo dei test che certificano pubblicamente delle competenze. Lo scopo pedagogico nella traduzione è meno chiaro: Brunette (2000) fa qualche accenno alla didattica della traduzione nel tentativo di stabilire una terminologia per la valutazione della qualità della traduzione, ma non si esprime chiaramente in merito allo scopo, quale può essere, ad esempio, quello diagnostico, formativo o di una valutazione sommativa. Dollerup (1993) e Sainz (1993) dimostrano un chiaro interesse per la valutazione formativa, mentre Farahzad (1992) e Ivanova (1998) parlano di valutazione sommativa negli esami finali di traduzione all’università. L’opera di James et alia (1995) è l’unica, fra quelle prese in esame, ad analizzare il trasferimento dei crediti (nel campo della traduzione per i media), mentre Campbell (1991) fa qualche breve excursus nel campo della valutazione diagnostica. È interessante osservare che raramente ci siamo imbattuti in qualche discorso sui test attitudinali per traduttori, anche se Cestac (1987) parla di test di selezione per l’assunzione presso i Quartieri Generali delle Nazioni Unite; per contro abbiamo trovato molto materiale sull’attitudine all’interpretazione (cfr. sotto). Altrettanto degno di nota è il fatto che diversi scrittori abbiano parlato di valutazione della traduzione senza fare riferimento allo scopo (si veda ad esempio Bowker, 2000). Risulta ibrido invece il New Diploma in English and Chinese dell’Institute of Linguists descritto da Ostarhild (1994), che assomiglia a un tentativo di trasferire uno strumento di accreditamento da un precedente test di bilinguismo ad un altro che valuta anche la traduzione.

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The types of translation competencies discussed range widely, but a crucial factor seems to be the extent to which translation is integrated into a socio-communicative framework. Where translation is not linked to such a framework, a default position seems to operate, in which competencies are largely target language focused. An example of this type is Dollerup’s (1993) assessment scheme for translation in the framework of language study, which works empirically from target language (TL) error analysis in order to construct student feedback form that assesses detailed competencies grouped under text, spelling, punctuation, words/word knowledge, syntax/grammar and expression. Sainz (1993) develops a similar feedback chart that allows students to critique their own work, but does not specify the competencies, other than to suggest that teachers can compile a «chart of “Types of Mistakes”»; she suggests that for a particular text it might include connectors, grammar, lexical items, misunderstanding, nouns (agreement), omission, prepositions, punctuation, style, register, syntax, and tenses. Farahzad’s (1992) list is somewhat different: accuracy, appropriateness, naturalness, cohesion, style of discourse/choice of words. Ivanova (1998) tells us a little about translation assessment at the University of Sophia; although she provides a review of literature on translation competence, the final examination marking scheme described simply deals with lexical infelicities, lexical error, grammatical mistake and stylistic inappropriateness.

Scholars working within a communicative framework grounded in theory tend to go beyond the classification of TL errors. An example is the approach taken by Hatim and Williams (1998), who, although they do not mention assessment in their discussion of a university translation programme in Morocco, do outline a syllabus based on a sophisticated model of communication which aims to have students «negotiate the transaction and exploit the signs…which surround them». Very detailed objectives – presumably reflecting the competencies to be assessed – cascade from these broad aims. Similar is the approach of Kussmaul (1995), who lists a number of «categories of evaluation» of texts, which seem to us to reflect competencies (he is after all dealing with translator education).

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I tipi di competenze richieste in traduzione finora discusse variano enormemente, ma un fattore di fondamentale importanza sembra essere il grado di integrazione di una traduzione in un quadro socio-comunicativo. Laddove la traduzione non è collegata a questo quadro, sembra intervenire una posizione di default che vede le competenze concentrarsi prevalentemente sulla lingua ricevente. Un esempio di questo tipo è lo schema di valutazione della traduzione nel quadro dello studio della lingua elaborato da Dollerup (1993); di fatto tale schema parte dall’analisi dell’errore nella lingua ricevente al fine di costruire una forma di feedback dello studente che valuti una serie dettagliata di competenze raggruppate sotto le seguenti voci: testo, spelling, punteggiatura, conoscenza di parole/parola, sintassi/grammatica ed espressione. Sainz (1993) elabora uno schema di feedback similare che permetta agli studenti di analizzare in modo critico il proprio lavoro; egli non specifica le competenze, ma lascia intendere la possibilità che siano gli insegnanti stessi a compilare un «grafico dei “Tipi di errore”». Tale grafico potrebbe includere per uno specifico testo i connettori, la grammatica, gli elementi lessicali, gli errori di comprensione, i nomi (concordanza), le omissioni, le preposizioni, la punteggiatura, lo stile, il registro, la sintassi e i tempi. Piuttosto differente è la lista proposta da Farahzad, che comprende: accuratezza, appropriatezza, naturalezza, coesione, stile del discorso/scelta lessicale. Ivanova (1998) ci parla brevemente della valutazione della traduzione presso l’Università di Sofia; sebbene fornisca un riesame della letteratura sulla competenza traduttiva, lo schema di valutazione dell’esame finale da lei presentato tratta semplicemente di scelte lessicali infelici, errori lessicali e grammaticali e di stile non appropriato.

Gli studiosi che operano in un quadro comunicativo teorico tendono ad andare oltre la classificazione degli errori nella lingua ricevente. Ne è un esempio l’approccio di Hatim e di Williams (1998), che, sebbene non parlino di valutazione nella loro analisi di un programma di traduzione universitario in Marocco, delineano un programma di insegnamento basato su un sofisticato modello comunicativo finalizzato a spingere gli studenti a «negoziare la transazione e a sfruttare i segni…che li circondano». Da questi intenti generali scaturisce una serie molto dettagliata di obiettivi – i quali presumibilmente riflettono le competenze da valutare. Simile è l’approccio di Kussmaul (1995), che elenca una serie di «categorie di valutazione» dei testi che sembrerebbero riflettere delle competenze (dopo tutto si sta occupando della formazione del traduttore).

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These are: cultural adequacy, situational adequacy, speech acts, meaning of words, «language errors» (Kussamaul’s quotation marks). Integrated into a professional context is the scheme of James et al. (1995), where a blend of linguistic and technical competencies is achieved in a discussion of screen translation assessment. The groups of competencies are portrayal, language quality, grammar, spelling, punctuation and time-coding, synchronisation, positioning, colour, breaks between subtitles respectively. A professional framework also informs the competencies assessed by Australia’s National Accreditation Authority for Translators and Interpreters (NAATI) (Bell, 1997). An approach to competencies beyond the mere listing of TL criteria is also found in the findings of experimental tests reported by Niedzielski and Chernovaty (1993) (dealing with both translation and interpreting in technical fields). The authors claimed (1993: 139) that «maturity and experience in some technical field(s)» and «original and creative thinking» were «factors found to achieve success in translating», on the basis of measuring information errors, lexical errors, grammatical errors, referential errors, style mistakes, and other criteria (cf. 1993: Tables 1-5, 144-6).

The translation of a text appears to be the standard form for translation assessment, although Ostarhild (1994) describes such tasks as skimming and scanning material in English and Chinese and producing «written commentaries in the other language» (1994: 53). The test described – the Institute of Linguists New Diploma in English and Chinese – is, as mentioned above, a kind of hybrid test of translation and bilingualism.

Surprisingly there seems to be very little discussion of the ideal length of translation tests or the time allowed for their completion, let alone any theoretically or empirically based findings on the subject. In the accreditation area, NAATI follows the curious practice of a strict time constraint on examinations at the basic Professional level (500 words in two hours), but a much more generous allowance at the Advanced level. Dollerup (1993) uses texts ranging from 50 to 700 words in his classroom-based model, presumably on the basis that students can handle longer texts as skill increases. Farahzad (1992) is braver, describing a range of test types including single sentences for translation and whole texts of 200 words.

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Nello specifico: adeguatezza culturale e situazionale, enunciazioni, significato delle parole, «errori linguistici» (le virgolette sono di Kussmaul). Inserito in un contesto professionale è lo schema di James et alia (1995), i quali, in una disamina sulla valutazione della traduzione per i media, arrivano a fondere una serie di competenze linguistiche e tecniche. I gruppi di competenze sono rispettivamente qualità della resa linguistica, qualità del linguaggio, grammatica, spelling, punteggiatura e codifica temporale, sincronizzazione, posizione, colore, intervalli tra i sottotitoli. Il contesto professionale è alla base anche delle competenze valutate dall’australiana National Accreditation Authority for Translators and Interpreters (NAATI) (Bell, 1997). È possibile riscontrare un approccio alle competenze che va oltre il mero elenco di criteri della lingua ricevente anche nei risultati di alcuni test sperimentali riportati da Niedzielski e Chernovaty (1993) (con risvolti negli aspetti tecnici della traduzione e dell’interpretazione). Gli autori affermavano (1993: 139) che «la maturità e l’esperienza in alcuni ambiti tecnici» e una «forma mentis originale e creativa» fossero «fattori chiave per avere successo nella traduzione», basandosi sulla valutazione degli errori di informazione, lessicali, grammaticali, referenziali, di stile e altri criteri (cfr. 1993: Tavole 1-5, 144-6).

La traduzione di un testo sembra essere la modalità standard per la valutazione della traduzione, anche se Ostarhild (1994) parla di attività quali l’esame superficiale e approfondito di materiale in inglese e cinese seguita dalla realizzazione di «commenti scritti nell’altra lingua» (1994: 53). Il test descritto – il New Diploma in English and Chinese dell’Institute of Linguists – è, come già detto, una specie di test ibrido di traduzione e bilinguismo.

Desta sorpresa il fatto che, apparentemente, il problema della lunghezza ideale dei test di traduzione o del tempo massimo consentito per il loro svolgimento non sia stato quasi per niente affrontato e che in merito non esistano risultati su basi empiriche o teoriche. Nell’ambito dell’accreditamento, le procedure seguite dalla NAATI risultano alquanto insolite, poiché prevedono ristretti margini di tempo per gli esami al gradino più basso del livello Professional (500 parole in due ore) e condizioni decisamente più favorevoli al livello Advanced. Dollerup (1993) impiega testi che variano dalle 50 alle 700 parole nel suo modello basato sulla classe, presumibilmente partendo dal presupposto che gli studenti riescono a gestire testi più lunghi man mano che le loro capacità aumentano. Farahzad (1992) è più coraggioso, e presenta una gamma di modelli di test che spaziano dalla traduzione di singole frasi a interi testi di 200 parole.

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Cestac (1987) describes the various UN examination papers, which include a 700-word general translation in three hours, a 2000-word summary in two hours, two 400-word specialized translations in three hours, and two 300-word translations from the candidates’ non-main language in two hours. Farahzad stands out in suggesting «limited response» items, where students are faced with, for example, several translations of a sentence and are asked to select the error-free version.

Little is written about the basic approaches of test instruments, and it is difficult to ascertain whether norm-referenced or criterion-referenced approaches are generally favoured. The upside-down marking scheme that seems to be commonly used (error marks being deducted from a perfect score) is so odd as to defy categorisation. Admittedly it is possible to establish a rank order of candidates using error marking (i.e. the top candidate is the one with the least errors), just as one can establish criteria for passing (i.e. every candidate with less than n errors passes). But the fundamental mathematics are so peculiar that we would have to be careful in determining whether it reflects a norm-referenced or criterion-referenced approach. Error marking works very well for TV quiz shows, because the number of correct responses equals the perfect score. But for translation the number of correct responses is infinite (on the reckoning that any translation can be done in an infinite number of ways) or very large (on the reckoning that there is a very large number of possible errors in any translation). The theoretical consequence is a ranked scale with an infinitely long tail. Let us say that the «perfect score» is 100, and that the two top candidates score 90 and 95. Now if the bottom candidate scores 0 and there is a normal distribution of scores in the candidature we have some sense of the relativities and we can compute means, standard deviations, z-scores, and the like – the tools of the trade in norm- referenced assessment. The problem comes when poor candidates score below zero (even though the marker may report the result as zero) – perhaps minus 20, minus 30, minus 80, or minus anything at all. Because there is no bottom to the scale, we have no way to assess the relative achievement of the top scoring candidates; depending on where the bottom of the scale finds itself, one may be very good and one exceptional, or perhaps they are separated by a whisker.

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Cestac (1987) descrive i vari documenti sugli esami delle Nazioni Unite tra i quali figura una traduzione generica di 700 parole con limite di tempo di tre ore, un riassunto di 2000 parole con limite di tempo di 2 ore, due traduzioni specialistiche di 400 parole in tre ore e due traduzioni di 300 parole dalla lingua straniera dei candidati con limite di 2 ore. Farahzad si segnala per la sua proposta di introdurre prove «a risposta breve» nelle quali gli studenti sono chiamati, ad esempio, a selezionare, tra le varie elencate, la versione corretta della traduzione di una frase.

Sugli approcci di base degli strumenti dei test si è scritto poco, e pertanto risulta difficile stabilire se in genere si propenda per approcci basati sulla norma o su criteri. Lo schema di valutazione upside-down che sembra essere comunemente usato (si parte da un punteggio pieno dal quale si detraggono i punti degli errori) è così strano da essere difficilmente classificabile. Ovviamente è possibile stabilire una classifica dei candidati usando il calcolo degli errori (cioè il candidato migliore è quello che ha fatto meno errori) come anche stabilire i criteri per il superamento del test (cioè tutti i candidati che hanno fatto meno di n errori superano il test). Tuttavia i calcoli matematici di base sono talmente particolari che dovremmo stare molto attenti a stabilire se rifletta un approccio basato sulla norma o su criteri. La valutazione basata sul calcolo degli errori funziona molto bene per i quiz televisivi perché il numero delle risposte corrette equivale al punteggio massimo. Ma nella traduzione il numero di risposte corrette è infinito (se si considera che una traduzione può essere fatta in infiniti modi) o comunque molto vasto (se si considera che esistono molti possibili errori in una traduzione). Ne conseguirebbe, da un punto di vista teorico, una scala di valutazione che non ha mai fine. Supponiamo che il «punteggio massimo» sia 100 punti e che i due migliori candidati totalizzino rispettivamente 90 e 95 punti. Ora, se il candidato peggiore totalizza 0 punti e vi è una normale distribuzione dei voti tra i candidati, abbiamo un senso della relatività tra i candidati e possiamo calcolare medie, deviazioni standard, z-scores e così via tutti gli elementi per una valutazione basata sulla norma. I problemi nascono quando vi sono dei candidati che ottengono un punteggio inferiore a 0 (anche se il valutatore può riportare un punteggio di 0) – come meno 20, meno 30, meno 80 o meno qualsiasi punteggio. Poiché la scala di valutazione non ha un minimo, non c’è modo di valutare i risultati relativi dei candidati migliori; a seconda di dove si trovi il minimo stesso della scala, un candidato potrebbe essere molto buono, un altro addirittura eccezionale, o magari i due differiscono di poco.

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In fact the balance of evidence shows that error deduction marking is really a criterion-referenced system, in which the number of marks in a perfect score is arbitrary and bears no relation to the possible number of errors. A pass mark (i.e. the perfect score less the maximum number of errors tolerated) is simply an indication of a criterion. If this is true, then a list of ranked scores based on error deduction is no more than a kind of statistical window dressing. Teague (1987), in describing the accreditation marking scheme of the American Translators Association, confirms this. Although «the grader…totals up the errors, and applies a final scale to get a final mark», the result is simply «fail» or «pass» (1987: 22). As a postscript, Bastin (2000) emphasises that «trainees must be taught how to do things right rather than being punished for what they have done wrong» (2000: 236); as both university teachers and accreditation examiners, the present authors are deeply unhappy about the practice of importing error deduction techniques into the educational context.

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In effetti, i fatti indicano come la valutazione basata sulla deduzione degli errori sia proprio un sistema basato su criteri, nel quale il numero di punti massimo è arbitrario e non è in alcun modo collegato al possibile numero di errori. Un voto che permetta di superare l’esame (es. il punteggio massimo meno il massimo numero di errori tollerati) è semplicemente un’indicazione di un criterio. Se ciò fosse vero, classificare una serie di punteggi in base al criterio della deduzione dei voti non differirebbe molto dal compiere una operazione statistica di facciata. Teague (1987), nel descrivere lo schema di valutazione della American Translators Association conferma quanto appena detto. Sebbene «il valutatore…sommi tutti gli errori, e applichi una scala di valutazione finale per ottenere il voto finale» il risultato sarà semplicemente il superamento o il non superamento dell’esame. (1987: 22). In conclusione, Bastin (2000) fa notare che «sarebbe meglio insegnare agli studenti come evitare gli errori piuttosto che punirli per quelli che commettono» (2000: 236); sia come docenti universitari che come esaminatori nell’ambito dell’accreditamento, questi autori sono estremamente scontenti dell’impiego di tecniche di deduzione degli errori nel contesto accademico.

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Interpreting Assessment

There is very little written on interpreting assessment (Hatim & Mason, 1997). This may be partly due to the relatively few formal courses in the field worldwide, to the limited research in the area, and to the intuitive nature of test design and assessment criteria. The little literature that exists on interpreting assessment is dominated by discussions on aptitude tests for entry to conference interpreting courses (Keiser, 1978; Gerver et al., 1984; Gerver et al., 1989; Longley, 1989; Bowen & Bowen, 1989; Lambert, 1991; Moser- Mercer, 1994; Arjona-Tseng, 1994). The other categories include: accreditation or certification examinations to enter the profession, in particular community interpreting and court interpreting (Bell, 1997; Gentile, 1997; Scweda Nicholson & Martinsen, 1997; Miguélez, 1999; Vidal, 2000); testing that is related to interpreter training courses, most of which train conference interpreters (Longley, 1978; Macintosh, 1995; Schjoldager, 1995); and quality assessment of interpreting performance, mainly of professional conference interpreters (Pöchhacker, 1993; Bühler, 1986; Kopczynski, 1992; Dejean Lefeal, 1990; Kalina, 2001). The last category will not be discussed here given our focus on educational contexts.

Common to all aptitude tests described in the literature are the competencies the tests aim to assess, the subjective marking criteria, and the high failure rate. There is general agreement on the skills and abilities necessary of a trainee interpreter to succeed in a conference interpreting course or in the profession (Lambert, 1991), although this is not based on any empirical data, but rather on intuitive judgements by trainers who are mostly practising interpreters. These competencies include: good knowledge of the relevant languages, speed of comprehension and production, good general knowledge of the world, good public speaking skills, good memory, stress tolerance and ability to work as a team. The tests tend to be criterion-referenced, with candidates required to reach each criterion in order to pass the test. In some of the tests, the initial components act as eliminatory components, where a candidate cannot progress to the next phase of the examination, if he or she fails any of the preceding phases.

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Valutazione dell’Interpretazione

Molto esigua è la quantità di testi scritti sulla valutazione dell’interpretazione (Hatim & Mason, 1997). Ciò può essere in parte ascritto alla relativa carenza di corsi ufficiali in questo campo a livello mondiale, alla limitata attività di ricerca nel campo e alla natura intuitiva dell’ideazione dei test e dei criteri di valutazione. La poca letteratura esistente sulla valutazione dell’interpretazione è dominata da discussioni sui test attitudinali per accedere a corsi di interpretariato di conferenza (Kaiser, 1978; Gerver et alia, 1984; Gerver et alia, 1989; Longley, 1989; Bowen & Bowen, 1989; Lambert, 1991; Moser-Mercer, 1994; Arjona-Tseng, 1994). Tra le altre categorie di test figurano: gli esami di accreditamento o certificazione per avere accesso alla professione, in modo particolare all’interpretariato di comunità o in campo giuridico/giudiziario (Bell, 1997; Gentile, 1997; Schweda Nicholson & Martinsen, 1997; Miguélez, 1999; Vidal, 2000); i test relativi a corsi di formazione d’interpretariato, in special modo quelli dedicati agli interpreti di conferenza (Longley, 1978; Macintosh; 1995; Schjoldager, 1995); e la valutazione qualitativa della prestazione interpretativa in modo particolare di interpreti di conferenza professionisti (Pöchhacker, 1993; Bühler, 1986; Kopczynski, 1992; Dejean Lefeal, 1990; Kalina, 2001). Avendo circoscritto la nostra analisi ai contesti accademici non tratteremo in questa sede l’ultima categoria.

Comuni a tutti i test attitudinali descritti nella letteratura presa in esame sono le competenze che i test mirano a valutare, i criteri soggettivi di valutazione, e l’alto tasso di insuccesso. Vi è consenso generale sulle capacità e le competenze che un apprendista interprete deve necessariamente possedere per poter riuscire in un corso di interpretariato di conferenza o nella professione stessa (Lambert, 1991), anche se tutto ciò non trova riscontro nei dati empirici quanto piuttosto nei giudizi intuitivi di istruttori che per lo più formano interpreti. Tra queste competenze figurano: una buona conoscenza delle lingue in questione, velocità di comprensione e produzione, una buona conoscenza generale del mondo, buone capacità di esprimersi in pubblico, una buona memoria, la capacità di sopportare lo stress e di lavorare in gruppo. I test seguono generalmente il modello basato su criteri in cui i candidati sono chiamati a soddisfare uno per uno tutti i criteri per poterli superare. In alcuni tipi di test, le componenti iniziali fungono da componenti selettive e quindi un candidato non può accedere a una fase successiva se non ha superato quelle precedenti.

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The forms of the assessment instruments are also shared by most entrance/aptitude tests. These include shadowing, cloze tests (both oral and written), written translation, sight translation, memory tests, and interviews. The rigour of these entrance tests and their high failure rates have led some to question the appropriateness of these assessment instruments which seem to expect applicants to perform almost at the level of professional interpreters before they even commence the training course (Gerver et al., 1984). The predictive power of the tests and the lack of objectives assessment criteria used have also been criticised by some, who advocate research to correct these deficiencies (Gerver et al., 1989; Arjona- Tseng, 1994; Moser-Mercer, 1994).

The reliability of the test results is very difficult to ascertain. As Moser-Mercer (1994) points out, there are no standardized interpreting aptitude tests. In spite of the advances made in language testing, little of that knowledge has been adopted by interpreter educators in the design of their testing (Moser-Mercer, 1994: Hatim & Mason, 1997). Bowen and Bowen (1989; 111) state that their aptitude tests are based on «Robert Lado, then Dean of Georgetown University’s School of Languages and Linguistics and his criteria of validity…reliability…scoreability…economy…and administrability» but, apart from mentioning a standardised English terminology test recommended by the University’s Psychology Counselling Centre, there is no other mention of how the tests are assessed for validity and reliability. Moser-Mercer (1994: 65) comments that Bowen and Bowen’s standardisation «in no way meets the criteria for true standardisation». Two apparently well-motivated testing procedures are reported in the literature, by Gerver et al. (1984: 1989) and Arjona-Tseng (1994). Gerver et al. (1984: 1989) report the results of a research project which developed and assessed a set of psychometric aptitude tests. The aim of the study was to lead to the establishment of objective criteria for the entrance tests used for the postgraduate conference interpreting course run by the Polytechnic of Central London. At the time of the study, only two thirds of students who passed the initial aptitude test successfully completed the intensive six-month course. The final examination comprised language specific interpreting tests in both the consecutive and simultaneous modes.

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Anche le forme degli strumenti valutativi sono comuni alla maggior parte dei test d’ingresso o attitudinali. Citiamo ad esempio lo shadowing, i cloze test (orali e scritti), la traduzione scritta, la traduzione a vista, i test mnemonici e i colloqui. La severità di questi test d’ingresso e l’alto tasso di insuccessi ha portato alcuni a mettere in dubbio la validità di tali strumenti valutativi che sembrerebbero dare per scontato che i candidati, ancora prima di cominciare il corso di formazione, rendano quasi al livello degli interpreti professionali (Gerver et alia, 1984). Quest’ultimo aspetto dei test e la mancanza di criteri valutativi oggettivi impiegati sono pure stati oggetto di critiche da parte di alcuni per i quali la ricerca dovrebbe colmare queste lacune. (Gerver et alia, 1989; Arjona-Tseng, 1994; Moser-Mercer, 1994).

L’attendibilità dei risultati dei test è molto difficile da appurare. Come Moser- Mercer (1994) ha fatto notare, non esistono modelli standardizzati di test attitudinali d’interpretazione. Nonostante i progressi compiuti nel campo della valutazione linguistica, solo una piccola parte delle conoscenze acquisite è stata impiegata dagli insegnanti di interpretazione nel mettere a punto i loro test (Moser-Mercer, 1994; Hatim & Mason, 1997). Bowen & Bowen (1989: 111) dichiarano che i loro test attitudinali si basano su «Robert Lado, allora preside della School of Languages and Linguistics della Georgetown University e su i suoi criteri di validità…attendibilità…valutabilità…economia…e amministrabilità» ma, al di là di una menzione al test standardizzato di terminologia inglese raccomandato dallo University’s Psychology Counselling Centre, non vi sono altri riferimenti su come valutare la validità e l’attendibilità dei test. Moser-Mercer (1994: 65) commenta la standardizzazione di Bowen & Bowen sostenendo che «non soddisfa in alcun modo i criteri per una reale standardizzazione».

Due procedure di verifica, apparentemente con una buona motivazione, sono menzionate nella letteratura analizzata da Gerver et alia (1984; 1989) e da Arjona-Tseng (1994). Gerver et alia (1994; 1989) riportano i risultati di un progetto di ricerca finalizzato a sviluppare e valutare una serie di test attitudinali psicometrici. L’obiettivo dello studio era stabilire dei criteri oggettivi per i test d’ingresso per il corso di laurea di secondo livello d’interpretariato di conferenza organizzato dal Poytechnic of Central London. All’epoca dello studio, solo due terzi degli studenti che avevano passato il test attitudinale iniziale erano stati in grado di completare con successo il corso intensivo di sei mesi. L’esame finale comprendeva specifici test interpretativi linguistici in consecutiva e in simultanea.

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The study looked at three types of tests: text-based, drawing on work done in the area of text processing (Kintsch, 1974); sub-skill based, drawing on the work on cognitive tests (Eckstrom et al., 1976), and stress-based, drawing on the work done on speed testing (Furneaux, 1956). Sub-tests were conducted under each of these broad categories. Under the text-based test there were the following sub-tests: recall-text memory, recall-logical memory, completion/deletion – cloze, completion/deletion – error detection. Under the sub-skill-based test there were: a synonyms test, an expressional fluency test where candidates had to rewrite a test, and a verbal comprehension test. For the stress-based test, the team used an existing instrument, the Nufferno test (Furneaux, 1965), which measures the effect of speed stress on a cognitive task. The results of these tests were compared with the results of the final examinations. The study found that candidates who passed the final interpreting examination had scored higher on all the entrance tests than those who failed. The researchers conclude that «the tests appear to have been successful in reflecting generally the abilities required for interpreting» (Gerver et al., 1984: 27).

Arjona-Tseng emphasises the dearth of literature on «rater-training issues, decision- making rules, reliability and validity issues, scaling, scoring, and test-equating procedures» (1994: 69). She attempts to address this need by proving a psychometrically-based approach to the development of entrance tests, with a standardised set of administration procedures, a tighter set of assessment criteria, appropriate rater training, and pilot testing. These new tests have been used at the Graduate Institute of Translation and Interpretation Studies at Fu Jen Catholic University with a 91% success rate for those selected to complete the course. Arjona-Tseng stresses the need for valid and reliable aptitude tests for admission to interpreter training courses.

Although aptitude testing dominates the interpreting assessment literature, a small literature exists on accreditation or certification examinations for professional recognition. Most accreditation or certification examinations are conducted in the area of community interpreting in general, or specifically for court interpreting. Few countries train interpreters in community interpreting or use university courses as the only entry path to the profession.

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Lo studio prendeva in esame tre tipi di test: quelli basati sul testo, che si ispiravano al lavoro svolto nell’ambito della elaborazione di testi (Kintsch, 1974); quelli basati sulle sottocompetenze, ispirati ai test cognitivi (Eckstrom et alia, 1976); e quelli basati sullo stress, ispirati ai test di verifica della velocità (Furneaux, 1956). Dei subtest erano stati condotti per ognuna di queste tre ampie categorie. I test basati sul testo comprendevano le seguenti sottocategorie di test: capacità di memorizzare testi o nessi logici, cloze test con possibilità di completamento/eliminazione, individuazione di errori con possibilità di completamento/eliminazione. I test basati sulle sottocompetenze comprendevano: test sui sinonimi, test sulla scorrevolezza espressiva in cui i candidati erano chiamati a riscrivere una testo, e un test sulla comprensione verbale. Per il test sullo stress, il team si era servito di uno strumento già esistente, il test Nufferno (Furneaux, 1965) che misura gli effetti dello stress dovuto alla velocità su un compito cognitivo. I risultati dei test erano stati confrontati con gli esiti degli esami conclusivi. Ne era emerso che i candidati che avevano superato l’esame finale di interpretazione erano gli stessi che avevano ottenuto i punteggi più alti in tutti i test di ammissione. I ricercatori avevano concluso che «i test sembrano aver riflesso in linea di massima le capacità richieste per l’interpretazione» (Gerver et alia, 1984: 27).

Arjona-Tseng pone l’accento sulla penuria di testi su questioni relative alla formazione dei valutatori o riguardanti le regole del processo decisionale, i problemi di attendibilità e validità, le scale di valutazione, il punteggio e le procedure di equiparazione dei test (1994: 69). La studiosa cerca di sopperire a queste mancanze fornendo un approccio fondato sulla psicometria per lo sviluppo di test d’ingresso, il quale prevede una serie di procedure amministrative standardizzate, un più esiguo numero di criteri valutativi, un’appropriata formazione dei valutatori e test pilota. Questi nuovi test sono stati impiegati presso il Graduate Institute of Translation and Interpretation Studies dell’Università Cattolica di Fu Jen e il risultato è stato che il 91% degli studenti selezionati ha concluso positivamente il corso. Arjona-Tseng rileva la necessità di test attitudinali validi e attendibili per l’ammissione a corsi di formazione d’interpretariato.

Sebbene siano le questioni relative ai test attitudinali a monopolizzare la letteratura esistente sulla valutazione dell’interpretazione, esiste un esiguo numero di testi sugli esami di accreditamento o certificazione per il riconoscimento professionale. Buona parte di questi esami sono condotti nell’ambito generale dell’interpretariato di comunità o più specificatamente in quello dell’interpretariato in campo giuridico/giudiziario. Sono pochi i paesi che formano interpreti specializzati in interpretariato di comunità o che usano i corsi universitari come unica via d’accesso alla professione d’interprete.

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On the contrary, however, entry to the conference interpreting profession normally depends on successful completion of a university course.
The National Accreditation Authority for Translators and Interpreters is the accrediting body in Australia. Although there is accreditation for conference interpreting, examinations are not available for this skill, and conference interpreters gain accreditation on the basis of recognition of qualifications. The bulk of examinations is at the Professional level (formerly Level Three) and the Paraprofessional level (formerly Level Two). Courses in Australia that are approved by NAATI must adhere to NAATI guidelines when conducting their students’ final examinations, which must reflect the NAATI format, content, and assessment criteria. Bell (1997: 98) describes NAATI examinations as «skills-based (performance assessments)». The Paraprofessional examination contains two dialogues of approximately 300 words in length each, and four questions on ethics of the profession and sociocultural aspects of interpreting. These examinations aim to assess the candidates’ ability to practice as «paraprofessional» interpreters, mainly in the areas of welfare and education. The Professional interpreter examination comprises two dialogues of approximately 450 words each in length, with questions on ethics of the profession and sociocultural aspects of interpreting, and two 300-30 word passages, normally speeches, to be used for consecutive interpretation. These examinations aim to accredit interpreters to work in all areas of community interpreting, including medical and legal settings.

Candidates must pass each component with a minimum seventy marks out of one hundred, although, because of the error deduction marking scheme used, this cannot be interpreted as a percentage (cf. the discussion of error deduction marking earlier in this chapter). All examinations are marked by two examiners using NAATI’s marking guidelines, which allow a good deal of subjective latitude. When discussing issues of accreditation for community interpreters, Gentile (1997) makes the point that evaluation criteria are usually vague, with specific meanings being left to the interpretation of each individual. He also comments on the difficulty of achieving standardisation across language pairs.

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Per contro, per accedere alla carriera professionale di interprete di conferenza è in genere necessario portare a termine un corso universitario.
La National Accreditation Authority for Translators and Interpreters è l’ente preposto all’accreditamento in Australia. Sebbene l’accreditamento esista per l’interpretariato di conferenza, non esistono esami per questa specializzazione; per questo motivo gli interpreti di conferenza acquisiscono crediti sulla base del riconoscimento delle loro qualifiche. La maggior parte degli esami avvengono al livello Professional (in passato Level Three) e al livello Paraprofessional (in passato Level Two). In Australia, gli esami conclusivi dei corsi approvati dalla NAATI devono conformarsi alle linee guida NAATI per quanto riguarda la struttura, il contenuto e i criteri di valutazione impiegati. Bell (1997: 98) descrive gli esami NAATI come «(valutazioni del rendimento) basate sulle capacità». L’esame al livello Paraprofessional prevede due dialoghi di circa 300 parole ciascuno e quattro quesiti sull’etica della professione e sugli aspetti socioculturali dell’interpretariato.

Questi esami mirano a valutare la capacità dei candidati di lavorare come interpreti «paraprofessionali», segnatamente nell’ambito dell’assistenza sociale e in quello accademico. Gli esami al livello Professional prevedono due dialoghi di circa 450 parole ciascuno, con quesiti sugli aspetti etici e socioculturali della professione e l’interpretazione consecutiva di due brani, in genere discorsi, di 300-30 parole. Tali esami sono finalizzati a fornire agli interpreti la qualifica necessaria per poter lavorare in tutti gli ambiti dell’interpretariato di comunità, compresi i settori medico/sanitario e giuridico/giudiziario.

I candidati devono ottenere come minimo una votazione di 70/100, sebbene questa non vada letta in termini percentuali per via del metodo di deduzione dei punti utilizzato (cfr. la discussione sulla sottrazione dei punti già presentata in questo capitolo). Due esaminatori assegnano una votazione a tutti gli esami basandosi sulle linee guida della NAATI inerenti alla valutazione, che comunque permettono un’ampia discrezionalità personale. In merito alle questioni relative all’accreditamento per gli interpreti di comunità, Gentile (1997) spiega che i criteri di valutazione sono di solito vaghi, lasciando a ognuno il compito di interpretarne il significato specifico. Egli inoltre si esprime sulla difficoltà di raggiungere la standardizzazione tra coppie linguistiche.

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These examinations have never been systematically scrutinised from the point of view of validity and reliability, although Bell states that: «In order to conduct valid and reliable tests, NAATI contracts more than 250 examiners on 46 different Examiners’ Panels…In order to keep the examinations relevant to the development of the profession and the requirements of the employers, NAATI consults regularly with related individuals and organizations» (1997: 98). Our assumption is that these measures are intended to generate debate between the profession and NAATI which will help it improve the general quality of its tests; but this is of course a far cry from systematic scrutiny of the testing regime. The validity of the examinations has been questioned by Dueñas Gonzáles, who criticised their capacity to assess the skills and competencies required by court interpreters, stating that:

the test should not be used to examine court interpreters for three reasons: (1) it does not reflect the rigorous demands of the three modes used in judicial interpreting: simultaneous (unseen or spontaneous), legal consecutive and sight translation; (2) it does not test for mastery on all the linguistic registers encountered in the legal context,…and (3) it would not be a valid instrument to determine ability in judicial interpretation because its format, content and assessment methods are not sufficiently refined to measure the unique elements of court interpreting.

(Dueñas Gonzáles et al., 1991: 91)

Anecdotal evidence shows that most practitioners are also dissatisfied with the tests’ validity in other areas of community interpreting, especially with regard to the long consecutive passages which do not reflect the practice. In response to such criticism, NAATI is currently conducting a complete review of its examinations, the results of which will not be available for some time.

Unfortunately we were unable to access any literature on the California Court certification examination and cannot report on it. Such information would have allowed for a useful comparison with accreditation/certification examinations in other countries.
The court interpreter examination conducted by the Ministry of Justice in Spain comprises two main components: the translation of two texts, one into each language, without the use of dictionaries and with a one-hour time limit.

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La validità e l’attendibilità di questi esami non sono mai state valutate in maniera attenta e sistematica, sebbene Bell affermi che: «al fine di condurre test validi e affidabili, la NAATI assume a contratto più di 250 esaminatori provenienti da 46 Panel di esaminatori differenti…Allo scopo di garantire che gli esami siano sempre al passo con l’evolversi della professione e con i requisiti imposti dai datori di lavoro, la NAATI consulta regolarmente i singoli e le organizzazioni ad essa affiliati» (1997: 98). Presumiamo che tali misure abbiano lo scopo di instaurare un dialogo tra il mondo professionale e la NAATI utile a migliorare la qualità generale dei suoi test; ma, com’è ovvio, siamo ancora decisamente lontani da un esame approfondito delle procedure dei test. A mettere in dubbio la validità degli esami è stato Dueñas Gonzáles, secondo cui non permetterebbero di valutare le capacità e le competenze richieste agli interpreti giurati:

il test non deve essere impiegato per esaminare interpreti giurati per tre ragioni: (1) non soddisfa i rigorosi requisiti delle tre modalità impiegate nell’interpretariato giuridico: la traduzione simultanea (chuchotage o instant translation), consecutiva di carattere giuridico e a vista; (2) non verifica la completa padronanza di tutti i registri linguistici presenti nel contesto giuridico,…e (3) non sarebbe un valido strumento per stabilire l’abilità nell’interpretariato giuridico poiché la struttura, il contenuto e i metodi di valutazione non consentono di giudicare con sufficiente precisione gli elementi peculiari dell’interpretariato giuridico.

(Dueñas Gonzáles et alia, 1991: 91)

L’evidenza aneddotica rivela come la maggior parte dei professionisti non siano soddisfatti della validità dei test in altri ambiti dell’interpretariato di comunità, soprattutto in riferimento ai lunghi brani di consecutiva che non trovano riscontro nella realtà.
In risposta a queste critiche la NAATI sta attualmente conducendo una completa revisione dei suoi esami e i risultati di tale operazione non sono ancora disponibili.

Sfortunatamente non abbiamo avuto modo di consultare alcun testo inerente all’esame di certificazione per gli interpreti giurati californiani e non possiamo riferirvi nulla in merito. Peccato, perché sarebbe stato interessante e utile confrontare questi dati con gli esami di accreditamento/certificazione in altri paesi.
L’esame per interpreti giurati condotto dal Ministero di Giustizia spagnolo si compone di due parti principali: la traduzione di due testi, uno verso ciascuna lingua, senza l’aiuto di dizionari e con un limite tempo di un’ora.

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Those who pass this phase with at least 50% can take the second component, a one-hour written examination on the government, the Ministry of Justice, the court system, and the laws and regulations surrounding workers’ rights. There is no examination of any interpreting skill whatsoever, or of interpreter role or ethics. The only prerequisite for sitting the examination is a secondary school certificate. Miguélez strongly criticises this examination on the basis of lack of reliability and validity (Miguélez, 1999: 2). The certification examination which sworn interpreters take has currently been modified. The old examination consisted of two timed translations into Spanish. The first translation exercise is eliminatory and consists of texts ranging from 299-500 words in length, taken from magazines or newspapers and with no standard guidelines on level of difficulty. The text for the second exercise is always on a legal or economic/commercial topic, with a length ranging from 472-794 words. Two hours are allocated per exercise. Once again, Miguélez criticises this examination, making the observation that «it is reasonable to think that the same candidate sitting for different versions of the exam could get very different results» (1993: 3).

The new certification examination does not improve much on the old one. It maintains the translation exercises as described above and adds two components: a translation from Spanish and an oral exercise, where the candidate reads a text in the foreign language and then summarises it and answers questions on it to a panel of examiners. Miguélez attacks the new examination by stating that «the most obvious problem with this new test format is that it does not in any way test a candidate’s ability to translate a legal document into the language of certification or to interpret in any of the three modes. The exam…lacks even the most basic standards of validity and reliability» (Miguélez, 1999: 4).

Nicholson and Martinsen (1997) describe the examination used in Denmark for interpreters to become members of the Authorized Interpreters Panel, approved by the National Commission of the Danish Police. Candidates must either possess a degree in a foreign language or be a native speaker of a foreign language. The only testing conducted is an oral test to assess the candidate’s knowledge of Danish. The other language is not tested nor are any interpreting skills (1997: 262-3).

If little has been written on interpreting assessment in general, even less is found on any type of assessment as part of training courses.

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Coloro che superano questa fase con almeno il 50% passano alla seconda fase, ovvero un esame scritto della durata di un’ora sul governo, il Ministero di Giustizia, il sistema giuridico, le leggi e i regolamenti a tutela dei diritti dei lavoratori. Non sono previsti esami sulle capacità interpretative o sul ruolo o l’etica dell’interprete. L’unico requisito necessario per accedere all’esame è un diploma di scuola secondaria. Miguélez critica pesantemente questo tipo di esame in quanto mancherebbe di attendibilità e validità (Miguélez, 1999: 2). L’esame di certificazione che gli interpreti giurati sostengono è attualmente in fase di modifica. Il vecchio esame consisteva nella realizzazione di due traduzioni a tempo verso lo spagnolo. Il primo esercizio di traduzione ha valore eliminatorio e consta di un testo che varia dalle 299 alle 500 parole, tratto da riviste o quotidiani e che non deve rispettare linee guida prestabilite riguardo al grado di difficoltà. Il testo del secondo esercizio, la cui lunghezza varia dalle 472 alle 794 parole, tratta sempre argomenti di carattere economico o commerciale. Si hanno a disposizione due ore di tempo per svolgere ciascun esercizio. Ancora una volta Miguélez critica questa prova facendo notare che «è ragionevole poter pensare che lo stesso candidato, sostenendo diverse versioni dell’esame possa ottenere risultati anche molto discrepanti» (1993: 3).

Il nuovo esame di certificazione non è poi molto migliorato rispetto al precedente. Gli esercizi di traduzione appena descritti non cambiano, ma sono state aggiunte due prove: una traduzione dallo spagnolo e un esercizio orale in cui il candidato legge un testo in una lingua straniera e poi lo riassume e risponde ad alcuni quesiti su di esso di fronte ad un panel di esaminatori. Miguélez contesta questo tipo d’esame sostenendo che «il problema più evidente del nuovo tipo di test è che non permette di valutare in alcun modo la capacità del candidato di tradurre un documento legale nella lingua in cui deve ottenere la certificazione né d’interpretare in una delle tre modalità. L’esame…non soddisfa neppure gli standard di base quanto a validità e attendibilità» (Miguélez, 1999: 4).

Nicholson e Martinsen (1997) descrivono il tipo d’esame che, in Danimarca, gli interpeti devono superare per entrare a far parte dell’Authorized Interpreters Panel, approvato dalla National Commision of the Danish Police. I candidati devono essere laureati in una lingua straniera oppure madrelingua stranieri. L’unica prova condotta è un test orale che mira a saggiare la conoscenza della lingua danese da parte del candidato. Non sono valutate né la conoscenza dell’altra lingua né le capacità interpretative. (1997: 128).

Se si è scritto poco sulla valutazione dell’interpretazione in generale, ancora meno esiste in merito a qualsiasi tipo di valutazione nei corsi di formazione.

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Macintosh points out, however, that although there seems to be little published on assessment systems, performance measurement is an area that has long been recognised as in need of systematic study: «some courses (e.g. ETI Geneva) have developed comprehensive and detailed marking schemes for final examinations, which attack different weightings to different components of a candidate’s performance» (1995: 128). This may very well be so, and a survey of assessment procedures used by interpreting courses worldwide might produce very interesting results.

We have already explained that, in Australia, training courses that are NAATI approved must adhere to NAATI guidelines. Hence the description of the NAATI accreditation examination also applies to the final examinations conducted in educational programmes (units taken prior to final examinations are not assessed under NAATI guidelines). Gerver et al. make a brief mention of the final examination for the conference interpreting course at the former Polytechnic of Central London, mentioning that it tests for consecutive and simultaneous interpreting skills. Longley (1978) mentions that they use professional interpreters as raters in their London six-month intensive conference interpreting course. Longley makes one interesting observation about the difference between intuitive marking and more systematic marking. As part of a government funded course conducted by her institution, weighted marks were requested for specific types of errors. The raters had made an intuitive assessment of each candidate’s performance at the end of the examination and were then faced with the time-consuming task of allocating marks for each specific component, or deducting marks for each type or error. Surprisingly, the results were very similar under both systems (1978: 54).

Schjoldager (1995) provides us with a marking sheet to assess simultaneous interpreting, which can be used by interpreters and students to self evaluate their performance, as well as by interpreter trainers. The sheet provides a set of criteria under four major categories: Comprehensibility and delivery, Language, Coherence and plausibility and Loyalty, with arguments and examples for each criterion. Schjoldager states that her «intention is merely to offer an explicit, systematic alternative to intuitive assessment procedures, whose criteria are not only implicit but also, I feel, arbitrary. Only explicit criteria can be useful to learners» (1995: 194).

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Macintosh fa comunque notare che, sebbene la letteratura sui sistemi di valutazione sia piuttosto scarna, da lungo tempo si avverte la necessità di uno studio sistematico nel campo della misurazione della prestazione: «in alcuni corsi (come ad esempio all’ETI di Ginevra) sono state sviluppate tabelle di valutazione complete e dettagliate per gli esami conclusivi, nelle quali viene dato peso diverso ai vari aspetti della prestazione del candidato» (1995: 128).

Potrebbe benissimo essere così e un’indagine condotta sulle procedure di valutazione usate nei corsi d’interpretariato in tutto il mondo potrebbe fornire risultati estremamente interessanti.
Abbiamo già spiegato come, in Australia, i corsi di formazione riconosciuti dalla NAATI debbano conformarsi alle linee guida NAATI. Pertanto la descrizione degli esami di accreditamento della NAATI vale anche per gli esami finali condotti nei programmi accademici (le unità precedenti ai test conclusivi non seguono il modello valutativo NAATI). Gerver et alia fanno un breve accenno alla prova conclusiva del corso di interpretariato di conferenza dell’ex Polytechnic of Central London, dicendo che valuta le capacità interpretative sia in simultanea sia in consecutiva. Longley (1978) fa notare che nel loro corso intensivo d’interpretariato di conferenza della durata di sei mesi a Londra si servono di interpreti professionisti come valutatori. Longley inoltre compie un’interessante osservazione in merito alla differenza tra una valutazione intuitiva e una valutazione più sistematica. Nell’ambito di un corso finanziato dallo stato e diretto dalla sua istituzione, i voti ponderati erano necessari per alcuni tipi di errore. I valutatori, al termine della prova, esprimevano una valutazione intuitiva della prestazione di ciascun candidato e si trovavano poi a dover svolgere il lungo lavoro di assegnazione dei voti per ogni specifico elemento o di sottrazione dei punti per ciascun tipo di errore. I risultati ottenuti con entrambi i sistemi erano sorprendentemente molto simili (1978: 54).

Schjoldager (1995) ha elaborato una tabella di valutazione per l’interpretazione simultanea, utile sia per gli interpreti e gli studenti che desiderano autovalutare la propria prestazione sia per i docenti di interpretazione. La tabella stabilisce una serie di criteri inseriti in quattro categorie principali: Comprensibilità e resa, Linguaggio, Coerenza e plausibilità e Fedeltà. Ogni criterio è accompagnato da argomentazioni ed esempi. Schjoldager afferma di «voler semplicemente fornire un’alternativa esplicita e sistematica alle procedure di valutazione intuitive, contraddistinte da criteri, a mio parere, non soltanto impliciti ma anche arbitrari. Solo dei criteri espliciti possono essere utili agli studenti» (1995: 194).

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Knowledge Gaps in Translation and Interpreting Assessment

It will be evident from comparing our checklist with our survey that there exists a number of knowledge gaps in translation and interpreting assessment. In this section we briefly mention some of the less crucial gaps before a somewhat lengthier discussion of a fundamental omission in the literature – reliability. We will argue that this issue above all is in need of serious work.

The first four items on our checklist are reasonably well covered in the literature, at least as far as the traditional modes of interpreting and translation are concerned; assessment in newer or more peripheral modes of work such as interpreting in mental health settings, software localisation, and multilingual advertising has barely been discussed. Nevertheless, we have a fair understanding of the state of the art in the domains of the areas and purpose of assessment, the competencies assessed, and the forms of assessment. There are, however, differing amounts of emphasis with, for example, a preponderance of work on aptitude testing for interpreting, and a spread of work across achievement and accreditation testing in translation. Generally speaking, there is some agreement on the sets of competencies assessed in both translation and interpreting, but little explicit discussion of the efficacy of particular assessment instruments to measure those competencies. The basic forms of both translation and interpreting tests reflect a philosophy that the tests should resemble the real-world task, although in conference interpreting aptitude testing there are attempts to separately measure underlying competencies.

The fifth item – the basic approach – is rarely if ever explicitly discussed, but there seems to be tacit adoption of a criterion-referenced approach (although with no solid discussion of the actual criteria). The next three items – types of results, discrimination, and reporting mechanisms – are only minimally discussed.

These less crucial issues contrast starkly with the paucity of discussion on the central topics of validity and reliability. The knowledge gap in these areas is so large that we can do no more here than sketch the problem.

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Lacune conoscitive nella Valutazione della Traduzione e dell’Interpretazione

Mettendo a confronto la nostra lista iniziale con la ricerca condotta noterete chiaramente la presenza di alcune lacune conoscitivi nell’ambito della valutazione della traduzione e dell’interpretazione. In questo paragrafo tratteremo brevemente di alcuni dei gap meno gravi prima di affrontare un discorso più approfondito relativo a una grande mancanza della letteratura analizzata – l’attendibilità. Ed è soprattutto su questo aspetto che secondo noi bisognerà condurre un serio lavoro.

I primi quattro punti della nostra lista sono trattati con sufficiente completezza nei testi esaminati, per lo meno per quanto concerne le tradizionali modalità di traduzione e interpretazione; in effetti, non si discute quasi per nulla di valutazione in modalità lavorative più recenti o secondarie come l’interpretariato nell’ambito della salute mentale, della localizzazione di software, della pubblicità in più lingue. Nonostante ciò abbiamo un quadro generale abbastanza chiaro dello stato dell’arte nell’ambito delle aree e dello scopo della valutazione, delle competenze valutate nonché delle forme di valutazione. Tuttavia ad alcuni temi è riservata una maggiore attenzione rispetto ad altri, ad esempio si parla molto di più di test attitudinali di interpretariato che non dei test conclusivi o di accreditamento in traduzione. In generale, possiamo dire che vi è un certo accordo sui gruppi di competenze da valutare sia in traduzione sia in interpretazione, ma non si discute quasi per nulla dell’efficacia di un particolare strumento di valutazione nel giudicare tali competenze. Le forme base dei test d’interpretariato e di traduzione rispecchiano la concezione che il test debba riprodurre una situazione di lavoro reale, sebbene nei test attitudinali per l’interpretariato di conferenza si cerchi di valutare le competenze intrinseche in modo separato.

Il quinto punto – l’approccio di base – non è quasi mai trattato in maniera esplicita, ma sembra esserci una tacita preferenza per l’approccio basato su criteri (sebbene manchi un’analisi esaustiva dei criteri veri e propri). I tre punti successivi – tipo di risultati, differenziazione e meccanismi relazionali – sono affrontati in modo superficiale.

Questi aspetti meno rilevanti si pongono in netto contrasto con lo scarso approfondimento delle questioni cruciali di validità e attendibilità. In questi ambiti il gap conoscitivo è talmente ampio che non possiamo fare altro che accennare il problema.

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Indeed we will say very little at all about validity given that the consensus in measurement and evaluation circles is that tests cannot be valid unless they (or more accurately their scores) are reliable. Validity in interpreting and translation testing is tied up with knotty issues such as the nature of the competencies assessed, the models of learning underpinning educational programmes, and the extent to which tests should reflect professional tasks. Reliability stands out as the priority problem, and we devote the remainder of this section to a sketch of what we see as the main issues.

While reliability is extensively discussed in standard manuals on educational measurement, we have drawn on Bachmann (1991) to frame our discussion given that this work on language testing is a little closer to home than more general works.

According go Bachmann:

The investigation of reliability is concerned with answering the question, «How much of an individual’s test performance is due to measurement error, or to factors other than the language ability we want to measure?» and with minimizing the effects of these factors on test scores. (Bachmann, 1991: 163)

These factors can be grouped into «test method facets», «attributes of the test taker that are not considered part of the language capabilities that we want to measure», and «random factors that are largely unpredictable and temporary» (1991: 164). Given that the latter two groups apply to tests of any kind, we will focus on «test method facets» as criteria affecting the reliability of interpreting and translation assessment. Chapter 5 of Bachmann (1991) is dedicated to test methods, and the summary of test method facets on page 119 could, we feel, be adapted to the interpreting and translation context. For example, explicitness of criteria for correctness resonates with the frequent query from translation and interpreting examinees about fidelity to the source text (ST); how closely, one is often asked, do I need to stick to the original? An inexplicit translation test instruction could affect the reliability of the test if one candidate believes that the target text must owe its loyalty to the ST rather than the target reader, while another candidate believes the opposite.

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In effetti, parleremo molto poco di validità dato che gli esperti di misurazione e valutazione comunemente ritengono che i test non possono essere validi a meno che questi (e i loro punteggi nello specifico) non siano attendibili. Per i test di traduzione e interpretazione la validità è legata a questioni spinose quali la natura delle competenze da valutare, i modelli di apprendimento alla base dei programmi accademici e il grado di somiglianza dei test con le reali situazioni professionali. L’attendibilità rappresenta il problema principale, pertanto nel resto del paragrafo cercheremo di delineare quelli che noi riteniamo gli aspetti più importanti della questione.

Sebbene il tema dell’attendibilità sia ampiamente trattato nei manuali di base sulla misurazione accademica, abbiamo fatto riferimento a Bachmann (1991) per delineare il nostro discorso dato che il suo lavoro sulla valutazione linguistica è un po’ più vicino al nostro campo d’indagine rispetto ad altri testi più generali.

Secondo Bachmann:

Lo studio dell’affidabilità non può prescindere dalla risposta a questa domanda, «in che misura il rendimento di un individuo in un test è dovuto all’errore di misurazione, o a fattori diversi dall’abilità che si vuole valutare?», come pure dall’attenuazione, per quanto possibile, degli effetti di tali fattori sui punteggi dei test. (Bachmann, 1991: 163)

È possibile raggruppare questi fattori negli «aspetti metodologici del test», «gli attributi dei candidati che non fanno parte delle capacità linguistiche che vogliamo giudicare», e «i fattori accidentali spesso imprevedibili e temporanei» (1991: 164). Dato che gli ultimi due gruppi sono validi per test di qualsiasi tipo, ci concentreremo sugli «aspetti metodologici del test» in quanto criteri che influiscono sull’affidabilità della valutazione nella traduzione e nell’interpretazione. Il quinto capitolo dell’opera di Bachmann (1991) è dedicato ai metodi dei test, e riteniamo che il riassunto degli aspetti metodologici del test presente a pagina 119 possa essere applicato al contesto dell’interpretazione e della traduzione. Ad esempio, la necessità di criteri chiari per una resa corretta trova riscontro nei dubbi che spesso nutrono i candidati interpreti o traduttori riguardo alla fedeltà al prototesto; spesso ci si domanda, in che misura bisogna restare fedeli all’originale? La mancanza di istruzioni chiare ed esplicite in un test di traduzione può influire sull’attendibilità del test se un candidato ritiene di dover restare fedele all’originale piuttosto che al lettore del metatesto mentre un altro candidato compie il ragionamento opposto.

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Degree of speededness is highly relevant: when we impose a time limit on a test, do we know from empirical investigation the extent to which the speededness affects performance quality? Is there a speed at which we will get the optimum performance from the majority of candidates, and therefore have an optimally reliable test (at least on this facet)?

For interpreting and translation, a very significant test method facet is the degree of difficulty of the source material. Despite some inroads into the question of translation text difficulty (Campbell, 1999; Campbell & Hale, 1999), this remains a major barrier to improving test reliability. We would assert that in the absence of convincing methods for assessing ST difficulty, any testing regime that regularly introduces fresh STs and passages (for example, for security reasons) will potentially generate highly unreliable scores.

A basic concept in considering reliability is parallel tests (Bachmann, 1991: 168), from which can be derived a «definition of reliability as the correlation between the observed scores on two parallel tests». In other words, the most reliable test is one where parallel versions yield the same scores (i.e. a perfect correlation). In translation, this would involve finding or composing two examination texts of exactly the same degree of complexity in lexis, grammar, content, style and rhetorical structure. The lack of any real discussion of even this most basic measure of test reliability is a serious indictment of the present state of translation assessment. While occasional statements of intent are made (for example, Bell, 1997), we know of no serious work on basic questions such as the reliability of translation test scores over time, from language to language, or from text to text. Campbell (1991) makes a preliminary foray into the discriminatory power of items in translation tests in an attempt to launch a discussion about the internal consistency of such tests.

Much work, then, needs to be done. Again, we rely on Bachmann to frame the following discussion, highlighting some of the specific problems encountered in assessing translation and interpreting.

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Il grado di rapidità è determinante; se viene stabilito un tempo massimo per un test, è possibile comprendere da un esame empirico in che misura la velocità influisca sulla qualità della prestazione? Esiste una velocità alla quale sarà possibile ottenere dalla maggior parte dei candidati una prestazione ottimale e pertanto un test pienamente attendibile (per lo meno da questo punto di vista)?

Per quanto riguarda la traduzione e l’interpretazione, un aspetto metodologico del test estremamente significativo è il grado di difficoltà del materiale originale. Sebbene qualche approfondimento sul tema della difficoltà di traduzione dei testi sia stato compiuto (Campbell, 1999; Campbell & Hale, 1999), questo aspetto rimane uno dei principali ostacoli alla creazione di test più attendibili. Potremmo dire che in mancanza di metodi convincenti per stabilire la difficoltà del prototesto, qualsiasi sistema che regolarmente introduca nuovi prototesti e brani (ad esempio per motivi di sicurezza) rischierà di fornire punteggi altamente inattendibili.

Uno dei concetti chiave legati all’attendibilità è il test parallelo (Bachmann, 1991: 168); l’attendibilità viene così ad essere presentata come «la correlazione tra i punteggi di due test paralleli». In altri termini, il test più attendibile è quello in cui versioni parallele forniscono gli stessi punteggi (cioè una correlazione perfetta). Allo stesso modo per la traduzione bisognerebbe trovare e assemblare due testi d’esame caratterizzati da uno stesso grado di complessità del lessico, della grammatica, del contenuto, dello stile e della struttura retorica. Il fatto che non si discuta nemmeno di questo basilare metodo di calcolo dell’attendibilità dei test la dice lunga sull’attuale situazione della valutazione della traduzione. Se occasionalmente vengono pronunciate dichiarazioni d’intenti in merito (si veda Bell, 1997), non siamo a conoscenza di alcun testo che si occupi seriamente di questioni basilari quali l’attendibilità dei punteggi dei test di traduzione nel tempo, da lingua a lingua e da testo a testo. Campbell (1991) compie un’iniziale incursione nell’ambito del potere discriminante delle voci nei test di traduzione con l’intento di promuovere un dibattito sulla coerenza intrinseca di tali test.

In breve c’è ancora molto da lavorare. Ancora una volta ci rifacciamo a Bachmann per presentare il prossimo argomento nel quale cercheremo di mettere in luce alcuni dei problemi specifici riscontrati nella valutazione della traduzione e dell’interpretazione.

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Internal consistency

If we assume that the basic test format is to translate or interpret, then investigation is needed into the way that candidates perform on different parts of the written or spoken input, and the extent to which those parts may be differentially weighted. A simple example is that of repeated material in a written or spoken passage. How, for instance, do we deal with passages with repeated chunks (for example, formulaic expressions introducing clauses in a treaty)? The implications for test reliability are profound: if a candidate mistranslates a repeated chunk, do we penalize multiple times? This is a common dilemma in translation test marking that goes to the heart of reliability because it may be argued that the candidate’s performance could have been more reliably measured if he or she had been given a chance to be tested on a number of different items; the repeats may be interpreted as a test method facet that diminishes the discriminatory power of the test and therefore reduces its reliability. On the other hand, the repetitions may call for a creative solution that draws out the competence of the candidate. Arabic, for example, often employs a degree of parallelism that is not tolerated in English, and we might reward the candidate who manages to convey the rhetorical effect through a more natural English device. Internal consistency is also an issue tied up with text development and is particularly critical when we try to construct parallel tests. Let us say that we want to base a test on a 1000-word press article, using, say 500 words. In the first 250 words the writer is likely to be laying the groundwork for his or her argument, perhaps using irony or humour. The next 500 words may contain detailed exposition based on a technical account of the issue, and the last 250 a concluding summary that picks up the rhetorical flavour of the introduction, or even introduces a new note of warning. While it would be tempting to think that the most efficient way to create parallel tests is to cut one text into two, it is obvious that in this example neither half would reflect the rhetorical structure of the other and thus both would have different internal consistency.

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Coerenza intrinseca

Dando per scontato che la struttura base del test preveda un lavoro di traduzione/interpretazione, è necessario studiare come i candidati si disimpegnano nelle diverse parti del messaggio scritto od orale e in che misura queste parti possono essere valutate in maniera differente. Una semplice prova consiste nel riproporre più volte lo stesso messaggio in un brano scritto od orale. Come bisogna comportarsi, per esempio, in presenza di brani in cui compaiono delle ripetizioni (come accade nel caso di espressioni stereotipate che introducono le clausole di un trattato)? Ancora una volta emergono le profonde implicazioni dell’attendibilità dei test: il candidato che sbaglia la traduzione dell’elemento ripetuto va penalizzato una o più volte? Si tratta di un vero e proprio dilemma per tutti coloro che devono valutare dei test di traduzione, un dilemma che va dritto al cuore dell’attendibilità in quanto qualcuno potrebbe dire che la prestazione del candidato sarebbe stata giudicata in maniera più affidabile se questi avesse avuto la possibilità di essere giudicato su una serie di elementi diversi; le ripetizioni potrebbero essere interpretate come un aspetto metodologico del test che diminuisce il potere discriminatorio del test e di conseguenza ne riduce il grado di attendibilità. D’altro canto, però, la presenza di ripetizioni può rappresentare uno stimolo alla ricerca di soluzioni creative che possano rivelare le capacità e le conoscenze del candidato. La lingua araba, ad esempio, spesso si serve di un grado di parallelismo che non è accettato nell’inglese e potremmo quindi premiare il candidato che riesce a restituire l’effetto retorico per mezzo di un artificio che suona meglio in inglese. Il problema della coerenza intrinseca è anche strettamente correlato allo sviluppo del testo e si pone con maggiore urgenza nella costruzione di test paralleli. Ipotizziamo di voler basare il nostro test su un articolo di giornale di 1000 parole, usandone, diciamo, 500. Le prime 250 parole probabilmente serviranno all’autore per porre le basi della propria tesi, magari usando un tono ironico o umoristico. Le successive 500 parole potrebbero contenere una dettagliata esposizione basata su di un resoconto tecnico della questione e le ultime 250 una sintesi conclusiva che riprende il sapore retorico dell’introduzione o che introduce persino una nota d’ammonimento. Se da un canto sarebbe bello poter pensare che il modo migliore di creare dei test paralleli sia quello di dividere un testo in due metà, dall’altro, risulta chiaro che in quest’esempio nessuna delle due metà rifletterebbe la stessa struttura retorica e pertanto avrebbero una diversa coerenza intrinseca.

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Estimating Reliability

Those lucky enough to use multiple choice and other brief response test item types have the luxury of measuring test reliability through split-half methods, where «we divide the test into two halves and then determine the extent to which scores on these two halves are consistent with each other» ( Bachmann, 1991: 172). The crucial requirement of split- half measures is that performance on one half must be independent of performance on the other half. Even if we could find ways to split interpreting and translation tests (for example, odd versus even paragraphs, first half versus second half), there is no way that the two halves can be independent; if they were, they would not constitute a text. Split-half methods appear, then, to be ruled out. An alternative approach – the Kuder-Richardson reliability coefficients – suffer the same fate for different reasons. The KR formulae are based on the means and variances of the items in the test, and assume that all items «are of nearly equal difficulty and independent of each other» (1991: 176); even if discrete items could be identified, the criteria of equal difficulty and independence would be impossible to achieve.

Indeed, interpreting and translation tests seem to have much more in common with open-ended instruments like essays, where statistical methods of estimating reliability on the basis of individual test items are extremely difficult to apply. The practice of «second markers», «trial marking», etc. indicates a focus on the marker rather than the items as a source of information about reliability. Bachmann speaks of intra- and inter-rater reliability (1991: 178-81). Estimates on intra-rater reliability are made by having a marker rate the same group of subjects twice – on two separate occasions and in different orders – and calculating a correlation coefficient of some kind. Anyone who has spent a day on an interpreting assessment jury or marking a pile of translation examinations will be aware of the potential shifts in rater behaviour through fatigue, or through recency effects as markedly different candidates present. Similarly, a correlation coefficient can be calculated to estimate how consistently two or more markers rate the same candidates.

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Valutare l’Attendibilità

Coloro che sono abbastanza fortunati da usare la scelta multipla o altri tipi di test a risposta breve si possono permettere il lusso di calcolare l’affidabilità dei test con metodi split-half ovvero di divisione a metà, nei quali «dividiamo il test in due parti e stabiliamo fino a che punto i punteggi di queste due metà siano coerenti tra loro» (Bachmann, 1991: 172). Il requisito fondamentale delle misurazioni split-half è che la prestazione raggiunta per la prima parte sia indipendente da quella della seconda parte. Anche se trovassimo un modo per suddividere i test di traduzione e interpretazione (ad esempio, paragrafi pari/dispari; prima parte/seconda parte), le due parti non potrebbero mai essere indipendenti; se lo fossero, non formerebbero mai un testo. Per questa ragione i metodi split-half sembrerebbero da scartare. Un approccio alternativo – i coefficienti di affidabilità di Kuder-Richardson –è altrettanto inutilizzabile per altre ragioni. Le formule KR si basano sulle medie e le varianze delle voci di un test e presuppongono che tutte le voci «siano all’incirca della stessa difficoltà e che siano indipendenti tra loro» (1991: 176); sebbene sia possibile ravvisare voci distinte, sarebbe impossibile soddisfare i criteri di pari difficoltà e indipendenza.

In effetti, i test di traduzione e interpretazione sembrano avere molti più aspetti in comune con gli strumenti di verifica aperti come i temi, ai quali è molto difficile poter applicare metodi statistici di valutazione dell’attendibilità sulla base delle singole voci del test. L’impiego di «indici secondari», della «valutazione di prova» ecc. indica che sono i valutatori e non gli aspetti del test ad essere ritenuti una fonte di informazioni sull’affidabilità. Bachmann fa un distinguo tra attendibilità dei valutatori e attendibilità tra valutatori (1991: 178-81). È possibile elaborare delle stime sull’attendibilità dei valutatori facendo loro giudicare lo stesso gruppo di soggetti due volte – in due momenti diversi e in ordine differente – e calcolando un coefficiente di correlazione di qualche tipo. Chiunque, almeno per un giorno, abbia fatto parte di una commissione di valutazione d’interpretazione o abbia dovuto valutare un gran numero di prove di traduzione sarà sicuramente a conoscenza dei possibili cambi di atteggiamento del valutatore dovuti alla stanchezza o all’avvicendarsi di candidati estremamente differenti tra di loro. Allo stesso modo, si può calcolare un coefficiente di correlazione per stimare in quale misura due o più valutatori sono coerenti nel giudicare gli stessi candidati.

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Organisations like NAATI and American Translators Association (ATA) appear to depend heavily on intra- and inter-rater behaviour to achieve reliability. We can only guess at the extent to which educational institutions take rater reliability seriously in achievement tests, final examinations, and the like. It is somewhat surprising to note, then, that our sample of reading contained not a single major published study on the issue or rater consistency.

Concluding Remarks

The translation and interpreting research world asks a great deal of itself. With major current research pushes in area as diverse as cognitive processing, cultural studies, lexicography and machine translation, it is perhaps not surprising that the field of assessment is in its infancy. But assessment does need to grow up a little and realise that there are some bigger kids on the block for it to learn from; the wider field of measurement and evaluation represents a solid source of knowledge that we can use to understand and improve our assessment practice. It is not just a question of filling in the knowledge gaps, but a question of profession building. As an applied discipline, translation and interpreting puts people into real and important jobs; better assessment means better translators and interpreters.

Note
1. The assistance of Adriana Weissen in undertaking the literature search is

acknowledged.

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Alcune organizzazioni come la NAATI e l’American Translator Association (ATA) sembrano dare molto peso al comportamento dei valutatori e tra i valutatori al fine di raggiungere l’affidabilità. Noi non possiamo fare altro che ipotizzare in quale misura delle istituzioni accademiche prendano sul serio l’attendibilità dei valutatori nei test di profitto, negli esami finali ecc. Tuttavia è abbastanza sorprendente il fatto che di tutte le letture prese in esame nessuna di esse contenga un importante studio pubblicato sul tema della coerenza degli valutatori.

Note conclusive

Il mondo della ricerca nel campo della traduzione e dell’interpretazione nutre in se grandi aspettative. Ma visto che attualmente gli stimoli alla ricerca sono più forti nei campi più disparati, quali l’elaborazione cognitiva, i cultural studies, la lessicografia e la traduzione automatica forse non ci si deve sorprendere se il campo della valutazione stia muovendo solo ora i primi passi. Ma la valutazione deve assolutamente crescere e comprendere che ci sono discipline più evolute e mature dalle quali imparare; il più vasto campo della misurazione e della valutazione rappresenta una fonte consolidata di conoscenze che possiamo utilizzare per capire e migliorare i nostri metodi di valutazione. Non si tratta solo di colmare i gap conoscitivi, ma anche di crescere professionalmente. In quanto discipline applicate, la traduzione e l’interpretazione pongono le persone in contesti professionali reali e importanti; un miglior metodo di valutazione significa migliori traduttori e interpreti.

Nota
1. Si riconosce l’aiuto di Adriana Weissen nella ricerca della letteratura presa in esame.

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Marina Grillo, recensione del DIZIONARIO AFFETTIVO DELLA LINGUA EBRAICA DI BRUNO OSIMO

Adoro i dizionari letterari, da me considerate liste un po’ più elaborate, quelli che nascondono sempre storie bellissime quasi con leggerezza. E in quanto portatrice insana di liste e dizionari non potevo sfuggirmi l’ultimo libro di Bruno Osimo, Dizionario affettivo della lingua ebraica (Marcos y Marcos).
(per continuare la lettura clicca sul link sottostante:)
http://www.internostorie.it/recensioni/dizionario-affettivo-della-lingua-ebraica-di-bruno-osimo/

The Fundamentals of Translation, ebook by Bruno Osimo

fundamentals copertina

Bruno Osimo

The Fundamentals of Translation

Introductory Course with Exemplifying Tables for B. A. Students

translations by Alice Rampinelli, Anna Paradiso, Bruno Osimo

ISBN 9788898467099

1 Communicating always means translating

1.1 What is translation?

When speaking about translation, people usually think of the trasposition of a text from a language (a natural code) to another, different from the one in which the text was originally conceived and written. As a matter of fact, that is just a peculiar subprocess within the boundless universe of translation. One of the first steps towards a more scientific and complete approach to translation as it is generally thought of consists in acknowledging all its potential aspects.

The translation process is often described with metaphors relating to space and movement. In some languages the terms referring to “source text” and “target text” are undoubtedly linked to the notion of “space”. In Italian, for instance, “testo di partenza” and “testo d’arrivo” (literally, “starting text” and “arrival text”) refer to the semantic field of runs and races. The same is true, for example, for the French “texte de départ” and “texte d’arrivée”.

To some extent, it seems that translation were a sort of transportation of something (apparently words) from one place to another. And this might be due to the fact that even the Latin word from which “translation” derives, “translatus”, comes from the verbtrans-fero meaning “to bring on the opposite side of”. But even though it is true that translation has a spatial dimension, it also has a temporal and cultural one, all three made up of a number of other interrelated elements.

To avoid all the words which are too explicitly linked to the semantic field of departures and arrivals, which remind of military targets (“target text”) or which imply the misleading idea that there were no previous influences on the first text (“source text”), one may call “original” the text from which the translation process stems, and “translation” the text resulting from it. However, the word “translation” does not allow to make a distinction between the process and the outcome.

That is why the ideal terms would be “prototext” (i.e. “first text”, the original text) and “metatext” (i.e. the subsequent text, deriving from the first one). Such terms were coined by the Slovak semiotician Anton Popovič (1933-1984), who gave a substantial boost to translation studies in the 1960s and 1970s. Unfortunately, his ideas spread to the Western countries only after he had prematurely died.

It is also necessary to define the notion of “text”. The first definition that comes to mind when speaking of a text is a consistent group of written words with a unified structure that makes it a whole. But according to semiotics, the notion of “text” needs to be extended to nonverbal languages, such as music, figurative arts, cinema, advertisement, natural environment, street signals, and so on.

The consequences of such a widening of horizons are clear: if by “translation” we mean any process transforming a prototext into a metatext, with the text belonging to any verbal or nonverbal language or code (and by the way, prototext and metatext can even be expressed with the same code!), then the notion of “translation process” embraces a very wide range of processes, related to all possible transformations of texts.

That is why the translation process includes apparently different phenomena, such as film translation (often called “movie version”, a definition which does not stress its belonging to the sphere of translation) and intertextual translation (quotations, references, allusions, and so on). Already in 1683 the French churchman and scholar Pierre-Daniel Huet wrote in his De interpretatione:

the term “translation” also refers to the clarification of abstruse doctrines, to the interpretation of enigmas and dreams, to the interpretation of oracles, to the solution of complex issues, and, finally, to the spreading of all that is unknown. (Huet 1683:18)
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In the previous table, each row contains a communicative act which belongs to the translation process. Let us see some examples of translation processes.

The first row shows the standard interlingual translation process. The prototext is expressed in a natural code (i.e. in a language – English for instance – that differs from artificial codes such as, say, mathematics), and its transformation into a metatext is textual (both metatext and prototext are verbal texts) and interlingual (the prototext language is different from the metatext language).

The second row shows paraphrase: the process is the same as interlingual translation, but paraphrase usually occurs within the same language, as the content of the message is simply re-expressed with other words.

Quotations may take on the form of references or allusions especially if their ‘delimiters’ (such as inverted commas) are missing: sometimes it is a very hard task for the reader to recognize them as alien texts which were originally part of another, far different text. Even quotations are forms of translation because a word or a sentence uttered by someone in a given context and co-text (→ section 3.1) is re-uttered in a new context and co-text. In this way, the original utterance is now part of a new text: it is ‘translated’. The Internet and all the other telecommunication media are exponentially increasing intertextuality in our every-day communication practice. It is extremely easy for people with access to the Internet to come into contact with the other’s words, and the most modern communicative acts are consequently intertexts, i.e. intertextual translations.

Among the different types of intersemiotic translation there are also reading and writing, all the stages of dream elaboration as both intra- and interpersonal phenomena (i.e. reporting the dream, transcribing it), and psychotherapy, consisting both in the repeated translation of affects, feelings, and drives into words, and in the decoding and recoding of such words, which finally act as a feedback for the patient.

* * *

 

With a scientific explanation for the translation process as its goal, contemporary translation science does not only deal with interlingual translation. The present course on the fundamentals of translation does not aim at teaching how to translate – the translation practice represents a subsequent phase in the education of translators –, but at shading light on an often taken for granted and unconsciously practiced activity, as well as at paving the way for the interlingual translation practice.

http://store.streetlib.com/fundamentals-of-translation

Roman Jakobson’s Translation Handbook

Bruno Osimo1

 

 

This book is based on the principle that it is possible to create a text out of the writings of an author, focusing on a subject that had not necessarily been considered central or fundamental in the original author’s view. Roman Jakobson wrote many articles and books, that only partially dealt with translation. My intention here is to synthesize his thought on translation by collecting a number of quotations from different papers and essays of different times, originally written in various languages, and rearranging them according to my own criteria.

 

jakobson handbook copertina

The result is a series of paragraphs and chapters whose identity derives from the assembling of heterogeneous texts that, however, see one given topic from different perspectives. The first chapters focus on inner language as a nonverbal code, and the consequences of the continuous shift from verbal to nonverbal and viceversa occurring during speech, writing – coding –, hearing, reading – decoding –, and therefore occurring within the translation process itself. The notion of “intersemiotic translation” is considered from a new perspective.

In the central chapter Jakobson’s distinctive features method is applied to translation. Using the similarity/contiguity and imputed/factual variables, taken from Peirce’s writings, Jakobson realizes that one of the four actualizations is missing from Peirce’s treatment. Translation, that according to Jakobson is not equivalence but evolution of sense, may well be imputed similarity, the missing actualization of the aforementioned variables.

In the third chapter the focus is on the difference between humane disciplines and exact sciences, and where translation studies belong. Scientific method should be limited to exact disciplines or extended to humane fields as well? This decision has many implications, starting from the name of our discipline – translation science, translatology, translation studies, translation theory – passing through scientific terminology and arriving to semiotics, that according to Jakobson is the science within which the translation discipline should develop itself. Since in classic times disciplines were divided into trivium (humane fields) and quadrivium (sciences), following Jakobson’s semiotic path would mean to overcome trivium, to get out of triviality, in a sense.

In a slightly different form the three chapters were published as articles as follows:

 

(2009). Jakobson and the mental phases of translation. Mutatis Mutandis, 2(1), 73 – 84.

(2008) Translation as imputed similarity”. Sign Systems Studies 36.2:315-339.

(2016) Translation from rags to riches in Jakobson. Sign Systems Studies, still to be defined.

 

 

 

http://store.streetlib.com/roman-jakobson-s-translation-handbook

 

Alessandro de Lachenal, LA SCUOLA DI NITRA (E MOLTO ALTRO)

Cominciò con una domanda, apparentemente generica, su una lista di discussione. In realtà risultò ben mirata, perché mi fece rendere conto quasi subito di non saper trovare assolutamente nulla sull’argomento Nitra school – nonostante i libri ben impilati sugli scaffali e qualche altro chiletto di fotocopie impolverate (ricettacolo di temibilissimi pesciolini d’argento).
Ed è finito con un convegno proprio a Nitra, organizzato presso l’università statale diCostantino il Filosofo [1] (così chiamata dal 1996, dopo esser stata fondata quattro anni prima a aprtire da un istituto pedagogico esistente dal 1959) dal locale Dipartimento di studi traduttivi (posso tradurre così ‘Translation Studies’?), dall’Istituto di letterature mondiali dell’Accademia slovacca delle scienze e dalCETRA, il Centro di studi traduttivi di Lovanio.
Una joint venture inedita e (anche per questo) interessante, rispecchiata pure dal titolo assegnato all’intera manifestazione: Some Holmes and Popovič in All of Us?, che Bruno Osimo mima nel suo intervento, fissato per le 14,30 di oggi (giovedì 8 ottobre, nella sessione 1): Any Holmes and Popovič in any of us Italians?

Il logo del convegno slovacco.

Il logo del convegno slovacco.

Tutti gli altri relatori col programma completo li trovate in un PDF di 8 pagine a questo link.
Andate invece sul sito ufficiale per ogni altra informazione, compresa la sponsorizzazione dell’editore Brill, che ha innestato un catalogo tipicamente accademico sulla lunga e nobile tradizione editoriale dei Paesi Bassi (sebbene oggi l’azienda abbia sede non più solo a Leida, ma anche a Boston e Tokyo).

 

Per chi non conosca bene Holmes e Popovič, dirò subito che condividono una morte prematura attorno alla metà degli anni Ottanta, la quale forse ha impedito loro di dispiegare tutte le implicazioni delle loro proposte, che però sono state accolte tempestivamente e in maniera estremamente positiva dalla comunità dei ricercatori interessati.

James Stratton Holmes (1924-1986) figura in quasi tutte le trattazioni di storia più recente della traduzione, nella cui ricostruzione ha assunto, grazie al saggio The Name and Nature of Translation Studies del 1972 (ma pubblicato tre anni più tardi), il ruolo di fondatore della corrente omonima: da un lato voleva opporsi sia all’impressionismo dell’approccio letterario, sia alle pretese di scientificità (ritenute eccessive) dell’approccio linguistico imperante, ma dall’altro ampliava le prospettive di studio e riflessione in una direzione che poi sarebbe stata ‘culturologica’. [2]
Un suo saggio del 1969 sulla traduzione poetica (La versificazione: le forme di traduzione e la traduzione delle forme, tradotto da Margherita Di Michiel) è incluso nell’antologia curata da Siri Neergard, Teorie contemporanee della traduzione(Bompiani 1995, 20022, pp. 239-256); che sia un contributo secondario rispetto al tema qui escusso lo dimostra, credo, il fatto che l’introduzione stessa della curatrice gli dedica una sola paginetta (p. 36), sebbene l’apporto di Holmes alle ‘grandi manovre’ della traduttologia sia comunque riconosciuto nelle note 3 e 17 da Neergard.

Anton Popovič (1933-1984) è invece l’esponente più noto (si fa per dire…) in Occidente della scuola slovacca di Nitra, ed è merito assoluto di Osimo la presenza sul mercato librario italiano del suo testo chiave, «un pilastro della scienza della traduzione»: Teória umeleckého prekladu (Bratislava 1975), che tradotta da Daniela Laudani, rivista da Osimo e collazionata sull’edizione sovietica seriore (Problemy chudožestvennogo perevoda, Moskva 1980) ha dato origine a La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva (Hoepli 2006), «la prima traduzione in una lingua al di qua della vecchia cortina di ferro». [3]
Opportunamente sia la traduttrice sia Laura Salmon [4] rammentano la collaborazione fra i due studiosi ed, è ancora Osimo che affianca le loro schede nel suo Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei (Hoepli 2002, pp. 212-5)

La traduzione come processo creativo: Edward Balcerzan. Ksenia Elisseeva

Civica Scuola Interpreti Traduttori via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica 18 Aprile 2007

© Edward Balcerzan, 1978
© Ksenia Elisseeva per l’edizione italiana 2007

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Abstract in italiano

Nella tesi si prende in esame l’articolo di Edward Balcerzan intitolato Perevod kak tvorčestvo e apparso nella rivista internazionale di traduzione Babel, numero 3-4/1978, vol. XXIV, ISSN 0521-9744. Di questo articolo viene fornita innanzitutto una sintesi nella Prefazione alla luce dei contributi contemporanei su argomenti affini; nella seconda parte viene poi proposta la traduzione italiana dell’articolo con testo russo originale a fronte. La questione della creatività nel metatesto è un problema chiave della scienza della traduzione, perché riguarda da vicino il continuum che Toury definisce «adeguatezza versus accettabilità». L’articolo scientifico di Balcerzan indaga i limiti entro cui il traduttore può spingersi nella sua opera creativa.

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Краткое содержание дипломной работы

В своей дипломной работе я изучила статью Эдварда Бальцежана под названием Перевод как творчество, опубликованную в номере 3-4/1978 г. интернационального журнала для письменных переводчиков Babel (vol. XXIV, ISSN 0521-9744). В предисловии я попыталась кратко передать содержание статьи и проанализировать мнение автора о вопросе, затрагиваемом многими переводчиками и специалистами переводоведения в течение многих лет. Кроме того, я перевела статью на итальянский язык и привела перевод с текстом оригинала во второй части дипломной работы. Проблема творческого вмешательства в переводимый текст фундаментальна для науки, рассматривающей понятия эквивалентности и адекватности оригиналу. В данной научной статье автор устанавливает пределы “сочинительских” привилегий переводчика и их значимость.

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English Abstract

The object of this thesis is the translation from Russian into Italian and the analysis of the scientific article written by Edward Balcerzan Perevod kak tvorčestvo which appeared in 1978 in Babel, International Journal of Translation (vol. XXIV, ISSN 0521-9744, NO 3-4). The first part of this paper provides an outline of the au- thor’s point of view focused on a subject broached by many translators and experts of the theory of translation – the limits and the importance of target texts’ accommo- dation. In the second section the translation with parallel original Russian text can be found. The question of the translator’s creativity is fundamental for the science that studies such notions as equivalence and adequacy. The more translators change the spirit of the original text adapting it culturally, ideologically, aesthetically etc., the less its original aspect emerges. In his scientific article Balcerzan stabilizes the limits and the importance of such target texts’ accommodation.

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Abstract in het Nederlands

In deze scriptie wordt het opstel van Edward Balcerzan Perevod kak tvorčestvo onder de loep genomen en in het Italiaans vertaald. Het artikel werd in Babel, een internationaal tijdschrift voor vertalers, gepubliceerd (nummer 3-4/1978, vol. XXIV, ISSN 0521-9744). In het eerste deel van de scriptie wordt het standpunt van de auteur geschetst aangaande het onderwerp waarover door vertalers en deskundigen in de vertaalwetenschap heftig wordt gediscussieerd, namelijk: in hoeverre mag de doeltekst worden ‘aangepast’. Het tweede deel is gewijd aan de vertaling die naast de oorspronkelijke Russische tekst is geplaatst. De kwestie van de creativiteit van de vertaler, van de vrije vertaling dus, is fundamenteel voor de wetenschap die begrippen als overeenkomstigheid en aanvaardbaarheid analyseert. In zijn wetenschappelijk artikel geeft Balcerzan de grenzen aan waarbinnen de vertaler zich moet bewegen.

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Sommario

Abstract in italiano…………………………………………………………………………………………. 3

Краткое содержание дипломной работы ……………………………………………………….. 4

English Abstract…………………………………………………………………………………………….. 5

Abstract in het Nederlands………………………………………………………………………………. 6

Sommario……………………………………………………………………………………………………… 7

Prefazione …………………………………………………………………………………………………….. 8

Traduzione con il testo a fronte. La traduzione come processo creativo: Edward Balcerzan ……………………………………………………………………………………………………. 14

La traduzione come processo creativo…………………………………………………………. 15

Перевод как творчество…………………………………………………………………………… 21 Riferimenti bibliografici. ………………………………………………………………………………. 28

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Prefazione

«What is translation? On a platter A poet’s pale and glaring head, A parrot’s screech, a monkey’s chatter And profanation of the dead».

Vladimir Nabokov

Come ci immaginiamo un traduttore? Una persona, con il volto concentrato in cerca d’ispirazione, seduta alla scrivania e circondata da librerie piene di dizionari e enciclopedie. Davanti, un libro, un quaderno, una penna (oppure, nella versione contemporanea, un computer), probabilmente anche una tazza di tè o caffè. Legge attentamente (anche a voce alta) la frase che deve tradurre da una lingua all’altra per capirla, cercare di percepire il pensiero che l’autore vuole comunicare al lettore, lo traduce in un suo linguaggio interno e finalmente lo trasforma in una frase in lingua diversa, la rilegge, la unisce con quella precedente, cambia verbo … È un processo complesso, non da sottovalutare, che richiede tempo, molta passione e abilità.

Sappiamo perfettamente che la traduzione fa parte della nostra vita quotidiana. Comunicando con una persona siamo costretti a decifrare il messaggio che questa persona tenta di trasmettere. Dico tenta perché non riusciamo a comunicare tutto quello che vorremmo far capire al nostro interlocutore; il nostro pensiero può essere interpretato in modo diverso, possiamo semplicemente non essere in grado di esprimerlo. Nella prefazione al suo diario Tolstoj scrisse: «Čudnaâ noč ́! Luna tol ́ko čto vybralas ́ iz-za bugra i osveŝala dve malen ́kie, tonkie, nizkie tučki … Â dumal: pojdu, opišu â, čto vižu. No kak napisat ́ èto? … Bukvy sostavât slova, slova-frazy; no razve možno peredat ́ čuvstvo?»1. «Mysl ́ izrečënnaâ est ́

1 «Che bella notte! La luna è appena spuntata dalla collina illuminando due piccole, trasparenti, basse nuvolette … Stavo pensando: vado e descrivo quello che vedo. Ma come faccio a descriverlo? … Le lettere si uniscono in parole, le parole in frasi. Ma riuscirò mai a trasmettere il sentimento?». Tolstoj, 22: 65-66

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lož ́»2 – diceva Tûtčev. Allora il testo scritto non è mai completo e traducendolo si perde del tutto l’emozione dell’autore? Il traduttore è autorizzato ad aggiungere i propri sentimenti, ad interpretare a modo suo, a creare, trasformare, trasportare? Perché una macchina, un programma automatico non ne è in grado? Quali tecniche e metodi usano i traduttori, quali sono giusti e quali no? Approccio meccanico o personale? Chi decide se una traduzione è bella o brutta? Accettabile o adeguata? Mantenere i realia del prototesto o aiutare il lettore eliminando gli elementi estranei e privandolo di possibilità di conoscere la cultura dell’autore? Proprio o altrui? Molti esperti di traduttologia cercano le risposte a queste e molte altre domande che riguardano il processo traduttivo.

Edward Balcerzan è un noto narratore, poeta, traduttore e critico letterario polacco. È nato nel 1937 in una cittadina russa. All’età di nove anni si è trasferito in Polonia dove si è laureato in lettere presso l’Università Adam Mickiewicz di Poznań e dove ha conseguito il titolo di dottore e professore universitario e dove tuttora insegna alla facoltà di storia e filologia polacca. Ha vinto alcuni premi per il suo contributo nelle scienze letterarie. Conosce bene la cultura e la letteratura italiana grazie ai legami professionali e d’amicizia con Andrzej Litwornia, docente di letteratura e civiltà polacca presso l’Università degli Studi di Udine, autore di varie dissertazioni sul tema dei rapporti culturali tra l’Italia e la Polonia.

Nel saggio che ho tradotto per questa tesi di laurea Balcerzan si esprime sul concetto di creatività nel processo traduttivo, sul suo sviluppo nel corso degli anni, oserei dire secoli, è un evidente sostenitore del concetto di adattamento della traduzione in funzione del lettore, afferma che il compito di ogni traduttore non è quello di preoccuparsi di parole, frasi, strutture grammaticali, ma di cercare di trasmettere ciò che l’autore dell’originale intende comunicare sacrificando in alcuni casi la letteralità, ma mai esplicitando poiché è il dovere del lettore e l’intenzione dell’autore; perciò un buon traduttore, sostiene Balcerzan, non può essere che un artista. Ma ogni intervento creativo del traduttore deve avvenire in modo consapevole e legittimo, ovviamente senza trasformare il campo dei «costrutti

2 «Il pensiero una volta espresso è falso». Tûtčev, Silentium! 9

semantici importanti» (personaggi, fabula ecc.). L’autore polacco si esprime anche sull’arbitrarietà delle opere tradotte affermando che ogni traduzione è errata, come lo è anche l’originale. Molte affermazioni di Balcerzan messe alla luce in questo suo saggio e riassunte in questo paragrafo possono essere duramente criticate, ma nel corso del lungo processo di sviluppo della scienza della traduzione vi furono manifestazioni di pensiero molto più radicale e, se vogliamo, aggressivo. Vediamo ora di capire cosa intende Balcerzan per «traduzione come processo creativo» e come avviene.

Prima di cominciare a scrivere ogni traduttore affronta la fase

«intersemiotica» della traduzione nella quale parole, frasi, concetti vengono tradotti

in una lingua individuale e mentale del traduttore che li analizza, accetta o critica,

comprende o rifiuta, sottolinea o ignora. Tale proiezione mentale del testo – così l’ha

definita Hönig – avviene in seguito a due processi mentali: quello inconscio e quello

conscio, la cosiddetta analisi traduttologica del testo. Nel caso la prima strategia

prevalga sulla seconda, il risultato rischia di essere molto diverso dal testo originale e

può essere chiamato «traduzione» solo in senso lato. Un traduttore consapevole e

esperto conosce il peso e il valore delle espressioni come «differenze culturali»,

«traducibilità», «accettabilità e adeguatezza», «residuo traduttivo», «realia»,

«dominante» e solo dopo una serie di considerazioni e riflessioni fa una sua scelta

ottimale tra le soluzione che il codice della lingua madre, generalmente, gli offre.

Questa scelta è non sempre, quasi mai, perfetta perché può enfatizzare un’accezione

della parola piuttosto che un’altra, creare rimandi intratestuali eliminandone altri,

esplicitare certi concetti o darli per scontati, creare una dominante diversa da quella

del metatesto. Roman Jakobson ha affrontato il problema dell’equivalenza

impossibile affermando che in due lingue non esistono due parole che coprono lo

stesso campo semantico e il traduttore è obbligato a fare una scelta oggettiva

motivata escludendo altri significati inclusi nel campo semantico della parola

straniera e assenti nella parola della sua lingua madre.
Secondo Edward Balcerzan scegliere tra il repertorio delle possibilità che la

lingua madre offre non è il compito più difficile del traduttore. Un po’ più interessante è analizzare la dominante e decidere se mantenerla o cambiarla, se concentrarsi sull’autore del prototesto o sul lettore empirico del metatesto, se attenersi – se usiamo la terminologia di Toury – al principio di adeguatezza o a

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quello di accettabilità. La dominante di una traduzione adeguata è quella dell’autore: diventa fondamentale mantenere i tratti peculiari dell’originale, le sue caratteristiche culturali, lo stile originale dell’autore, i realia, sconvolgere le regole della struttura grammaticale della lingua del metatesto se lo fa lo scrittore nel prototesto e così via. Purtroppo vi è un residuo anche in questo tipo di traduzione, vi è il rischio che tali testi diventino illeggibili, che il lettore li abbandoni e che li dimentichi. Questo capita meno spesso con una traduzione basata sul principio di accettabilità da dove scompaiono del tutto l’originalità, le caratteristiche della cultura altrui. Nasce un testo comprensibile «in cui linguaggio e stile sono in piena armonia con le convenzioni linguistiche e letterarie della cultura ricevente» (Leuven-Zwart: 1992). Balcerzan sostiene che la trasformazione dell’originale avviene in funzione del lettore, ma allo scopo di perfezionare il disegno creativo dell’autore. Chiama tale trasformazione «strategia dell’apocrifo» o «plagio à rebours». Qui l’intervento creativo del traduttore è massimo, e equiparabile a quello dell’autore stesso. Balcerzan ci dimostra inoltre come il principio dell’annessione (fondamentale negli scritti della letteratura preromantica e che oggi si potrebbe definire «plagio») abbia influenzato la scienza della traduzione d’oggi rendendola più attenta a non permettere un intervento eccessivo da parte del traduttore per far sì che le traduzioni rimangano filologicamente affini agli originali.

Ogni prototesto richiede l’applicazione dei quattro principali cambiamenti: omissione, aggiunta, spostamento e sostituzione. Balcerzan considera lo spostamento l’intervento meno dannoso, ma anche meno creativo e non tollera l’aggiunta, in quanto un traduttore non è autorizzato a scrivere al posto dell’autore. L’omissione – sostiene lo studioso – è, in alcune circostanze, inevitabile e perciò comprensibile. Un caso in cui l’intervento creativo del traduttore, secondo me, è perfino inevitabile è quello esemplificato dalla frase fiabesca russa «izbuška na kur ́ih nožkah»3. Eco definisce frasi di questo tipo «segnali di genere» che non ogni lettore del metatesto riuscirebbe a comprendere per mancanza di conoscenze enciclopediche. Le vie d’uscita potrebbero essere almeno quattro: tradurre alla lettera spiegando in una nota

3 Izbà sulle zampe di gallina

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a piè di pagina il significato e la funzione della frase; tradurre alla lettera senza dare spiegazioni; sostituire l’elemento con un altro simile tipico della cultura ricevente, applicando il principio dell’apocrifo, ma correndo il rischio di inserire elementi estranei alla cultura emittente; oppure omettere il segnale di genere (nel peggiore dei casi). È una considerazione di carattere generico dato che tutto dipende dal contesto e ogni traduttore considera il testo nel suo insieme per non compromettere la dominante scelta. Quale alternativa avrebbe scelto Balcerzan? Di sicuro non avrebbe tradotto la frase alla lettera con una nota esplicativa, di certo non avrebbe neanche pensato di ometterla, ma l’avrebbe forse sostituita con una figura retorica comprensibile al lettore del metatesto (magari ce ne fosse una con funzione molto simile a quella dell’autore dell’originale! Sarebbe ideale!), ma non avrebbe mai piantato in asso l’autore tralasciando questa particolarità visto che l’aspetto più importante di ogni traduzione per Balcerzan è che il lettore riesca a cogliere l’intenzione dell’autore dell’opera originale e che il traduttore rimanga un mediatore mai troppo creativo per cercare di superare e riscrivere l’opera inventiva altrui, ma sufficientemente e inevitabilmente creativo per produrre un testo leggibile, diverso da quello che anche un traduttore elettronico sarebbe in grado di fare.

Detto questo mi sembra opportuno soffermarmi sulle difficoltà che ho riscontrato traducendo l’articolo Perevod kak tvorčestvo. A scopo informativo ricordo che Balcerzan è di madrelingua russa, ma ha passato in Russia solo pochi anni della sua infanzia. Questo ha avuto alcune ripercussioni sulla sua conoscenza della lingua, o meglio: è evidente l’influenza di una lingua europea, anche se di origini slave. L’articolo che ho riportato in seguito con la mia traduzione è l’opera originale di Balcerzan scritta in russo, non tradotta. Il saggio è senza dubbio strutturato molto bene, ma un occhio attento riuscirà a notare che l’autore usa strutture grammaticali atipiche per il russo, un po’ differenti da quelle usuali; usa vocaboli di origine straniera, sostantiva i verbi e viceversa (facoltà superflua data la ricchezza della lingua russa) e esagera, a mio avviso, con l’uso delle virgolette. Non sono abbastanza esperta in materia e non posso perciò spiegare con certezza tali caratteristiche del linguaggio di Balcerzan in questo articolo.

Un’altra complicazione che ha rallentato moltissimo la traduzione del saggio è la sua complessità. Trattandosi di un argomento piuttosto articolato, ma espresso in

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poche cartelle, ogni singola frase racchiude in sé un intero concetto, idea, che può dar vita a un altro articolo scientifico (con questo non voglio assolutamente implicare che il testo sia privo di collegamenti). Sono dovuta stare molto attenta a capire bene il significato di ogni parola, frase, concetto. Sono dovuta ricorrere al mio relatore, esperto in materia, per decifrare il messaggio nascosto in alcune proposizioni. Devo assolutamente ammettere di essere rimasta molto soddisfatta del risultato di questa collaborazione in quanto il testo in italiano mi sembra più chiaro, più leggibile e comprensibile. Lo penso davvero! Nonostante quello che può sembrare, il mio testo comunica lo stesso messaggio dell’originale, però sono stata molto attenta alla costruzione delle frasi per non rendere pensieri già complessi con strutture grammaticali ancora più composte in una lingua la cui difficile sintassi ostacola, nel caso specifico, la comprensione.

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Traduzione con il testo a fronte.
La traduzione come processo creativo: Edward Balcerzan

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La traduzione come processo creativo Edward Balcerzan

«Traducendo in versi a volte ci si abbandona allo slancio artistico, si “crea”, possiamo dire, perdendo lo spirito critico verso quello che si scrive, la “traduzione”».

Valerij Brûsov

La storia della letteratura può essere definita come un processo nel quale la scrittura e la traduzione diventano sempre più isolate e indipendenti. Ed è per questo che lo sviluppo di molte letterature nazionali, tra cui quella polacca e quella russa, può essere suddiviso in due fasi ben distinte. Innanzitutto, la scrittura creativa è un processo sincretistico, combinatorio, che permette di combinare, nell’ambito della stessa opera, invenzioni originali dell’autore con prodotti della fantasia altrui. Qui il confine tra composizione e ricomposizione dei valori artistici è indistinto. La concezione della paternità dell’opera è problematica. La codifica e la ricodifica del testo si sviluppano lungo il continuum tra due poli. Da un lato è il principio dell’apocrifo: la parola propria si presenta come parola altrui. «Apocrifo» (nel significato che ci interessa) si può definire come un plagio à rebours. Il traduttore attribuisce idee e immagini proprie all’autore dell’originale. «A volte i letterati antichi slavi, – afferma Lihačëv, – traducendo ricostruivano il testo o creavano sulla sua base delle grandi composizioni eterogenee […]» (Lihačëv 1962: 390). La competenza autoriale del traduttore si estendeva in quel periodo – fino al Settecento – a tutti i livelli della struttura del testo: non soltanto quelli più profondi, lessicali e fraseologici, ma anche gli strati superficiali (fabula, personaggi, narratore interno e altri cosiddetti «costrutti semantici importanti»). «Se è necessario, – si è pronunciato Bogomolec, – disambiguo, se invece il discorso dell’autore fa giri di parole inutili, riassumo lo stesso concetto in modo molto conciso per non solo confrontarmi con l’autore che sto traducendo, ma anche per superarlo nella capacità di resa» (Balcer- zan 1976: 71).

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Dall’altro lato c’è il principio dell’annessione – un fattore non di minore importanza che informava la letteratura dell’epoca preromantica. La parola altrui si presenta come parola propria. L’appropriazione di un testo – scritto in un’altra lingua –assomiglia a un atto di plagio, e oggi diremmo che si tratta di un plagio vero e proprio; nel sistema del classicismo la parafrasi di testi scritti in lingue diverse (più spesso di singoli episodi o di alcune componenti dell’opera altrui) è ammissibile con un minimo di aggiunte da parte del traduttore. A volte è sufficiente che la parola annessa sia tradotta nella lingua ricevente.

Tak i ja, jak z autora którego wiersz zarwę,

Za swój go już mam własny, jeno dam mu barwę,
– affermava in tutta sincerità Kochowski (Balcerzan 1976: 68).

[Anch’io, come l’autore a cui “strappo” la poesia, la sento mia se solo le do una nuova tinta]. Evidentemente il «principio dell’annessione» indirizza le ricerche sulle opere originali del classicismo verso la “pista” della traduzione implicita. Walter Benjamin analizza l’incrocio tra i due principi – dell’“apocrifo” e dell’“annessione” – e approfondisce la famosa affermazione secondo la quale un buon traduttore è un artista, mentre un artista mediocre è un cattivo traduttore (Benjamin 1975: 300).

Il romanticismo scredita «la scuola degli imitatori e dei traduttori» (Adam Mickiewicz); proclama la dittatura dell’originalità e dell’innovazione. Nell’Ottocento il lavoro del traduttore si complica e nel contempo si riduce il campo della sua libertà creativa. L’estensione della lista di doveri implica un graduale restringimento dei privilegi “autoriali”. Questo fenomeno ha due aspetti. Innanzitutto, il sistema dei procedimenti di trasformazione si sta rendendo “asimmetrico” in un modo particolare. Se accettiamo la tesi di Koptilov secondo cui la traduzione richiede l’applicazione dei quattro principali cambiamenti, e cioè: omissione, aggiunta, spostamento e sostituzione degli elementi del testo (Koptilov 1962), possiamo notare che questi ultimi hanno un potenziale “creativo” diverso. L’omissione fa parte di un approccio non tanto creativo, quanto censorio al testo. Lo spostamento risulta un intervento più creativo dell’omissione e meno creativo della sostituzione degli elementi del testo. Indubbiamente tutto dipende dal contesto e i nostri ragionamenti

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hanno un carattere prevalentemente generico, tipologico. Dal punto di vista tipologico il più caratteristico segno della “creatività” traduttiva è l’aggiunta di elementi non presenti nell’originale (non dettata dal desiderio di compensare i residui). Proprio questo processo è diventato oggi oggetto di dura critica. L’omissione (senz’altro solo in alcune circostanze) è perdonabile; l’intervento inventivo causa sempre rabbia. Ecco perché Vvedenskij risulta l’eroe negativo della storia della traduzione narrativa russa. Nel 1930 Čukovskij affermò che «il maggior peccato di Irinarh Vvedenskij è l’amore immenso per gli interventi inventivi. Appena ritiene che Dickens si stia esaurendo, stia fallendo, si mette a scrivere al posto suo, a completare e ad abbellire il suo testo» (Čukovskij 1930: 78). Dunque, l’espressione «scrivere al posto dell’autore» è l’antonimo di «tradurre».

Seconda osservazione: l’asimmetria avvolge la struttura del testo. Più alto è il livello della struttura, meno spazio c’è per l’invenzione creativa. Come si è già visto, il canone del classicismo permette di trasformare il campo dei «costrutti semantici importanti».

Nel Cinquecento Łukasz Górnicki poteva includere nel suo libero adattamento dell’opera di Castiglione nuovi capitoli, cambiare personaggi, o addirittura “trasfondere” la morale. È curioso che la traduzione intersemiotica, nell’ambito delle arti figurative (teatro e cinema), goda finora di simili agevolazioni. Nella traduzione letteraria è inconcepibile oggi la scomparsa dei personaggi, l’integrazione dell’intreccio e così via. Che cosa direbbe la critica se in una traduzione delle Tre sorelle di Čehov le sorelle fossero quattro o due o se ci fossero fratelli? Eppure tale metamorfosi dell’opera originale accade abbastanza spesso negli allestimenti teatrali. Nonostante le limitazioni delle competenze autoriali, la traduzione letteraria viene percepita oggi come arte. Si può presumere che l’idea di traduzione come arte serva ai traduttori stessi, sensibili alle specifiche e molto varie aspettative del lettore modello. L’analisi del testo secondo Lotman è determinata dall’opposizione: «testo non verosimile» versus «testo verosimile» (Lotman 1973). La traduzione è passibile di doppia “falsità”: inadeguatezza e casualità. Ci interessa di più il secondo aspetto del fenomeno. La fiducia del lettore contemporaneo nella letteratura è in gran parte legata all’ipotesi che lui fa sulla provenienza dei testi. Non è indifferente per il lettore sapere se un’opera è il risultato di un processo creativo

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finalizzato o se è frutto del puro caso. Indubbiamente la nostra cultura conosce alcune eccezioni a questa regola: per esempio il consumo di prodotti stereotipati della letteratura “commerciale”, che si rivela insensibile al movente psicologico del testo, oppure, per esempio, il dadaismo che cercava di trasformare la scrittura in un processo meramente casuale. Tuttavia possiamo affermare che il criterio romantico della “creatività”, accompagnato da quello della “verosimiglianza” del testo, rimane la costante principale dell’interesse del lettore.

Analizzare la traduzione come processo creativo è un compito arduo in quanto il concetto di «creatività» è il risultato di molti fattori storici. Secondo la teoria di Tatarkiewicz è solo uno “slogan comodo” incapace di soddisfare i requisiti di un concetto scientifico (Tatarkiewicz 1975: 311). Inoltre gli studi psicolinguistici e di altre interdiscipline ci permettono di stabilire, anche se con molte riserve e imprecisioni, alcune forme del comportamento discorsuale dell’uomo, soluzioni espressive più o meno creative dell’individuo. Švejcer cita «un’assai produttiva suddivisione tra due situazioni comunicative: quella tipica (o costante) e quella atipica (o incostante). Nelle situazioni tipiche le azioni dell’uomo sono strettamente regolamentate […]. Le situazioni comunicative atipiche (incostanti) sono caratterizzate da un’ampia scelta dei mezzi linguistici […]» (Švejcer 1977: 15).

Questo è il più facile, “neutro” livello d’opposizione tra il comportamento “creativo” e “non creativo”. Alla tesi di Švejcer bisogna aggiungere un’osservazione: il testo nato da una situazione costante (che esclude la creatività) si attiene alle norme esterne della comunicazione verbale. Si può capire se un testo è “corretto” o “scorretto” verificando se risponde a regole di tipo oggettivo (o meglio: intersoggettivo). Ci sono autorità che “sanno meglio” dell’individuo parlante se è giusto o sbagliato dire così. Qui è concepibile l’errore e può essere immediatamente corretto. A sua volta il testo che si forma in una situazione incostante diventa “creativo” quando il parlante si rifiuta di attenersi alle regole esterne (o meglio, ne vede i limiti). Ogni soluzione linguistica si trova quindi al confine tra la correttezza e la non correttezza. Ogni parola si può rivelare un errore stilistico (rimanendo in armonia con il canone del linguaggio non connotativo). La parola all’interno del processo creativo è sempre un neologismo. E non si tratta solo della letteratura sperimentale, del lessico astruso e delle invenzioni lessicali di Joyce, per esempio.

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Anche una frase semplice come questa: «V čas žarkogo vesennego zakata na Patriarših prudah poâvilos ́ dvoe graždan» (Bulgakov 1966, 11: 7) [Nell’ora di un caldo tramonto primaverile agli stagni Patriaršie apparvero due signori] perde le sue qualità di “tipicità”, ricade in una situazione potenzialmente metaforica poiché non esiste alcuna regola fissa – che non sia dell’autore – in grado di stabilire se un romanzo può o non può cominciare così. Il lavoro del traduttore si svolge lungo il continuum tra due poli: creativo e non creativo. Il traduttore crea modificando l’originale ai livelli più profondi della sua struttura. (È chiaro che la trasformazione delle unità lessicali e fraseologiche influisce sui «costrutti semantici importanti», ma questa influenza avviene indirettamente). Neanche il traduttore sa se la sua è l’unica soluzione possibile: se questa traduzione in polacco della frase sopraccitata di Bulgakov sia giusta:

«Kiedu zachodziło wlaśnie gorące wiosenne słońce, na Patriarszych Prudach zjawiło się dwu obywateli» (Bułhakow 1969: 7).

[Proprio mentre tramontava il caldo sole primaverile, ai Patriaršie prudy apparvero due signori]. In Bulgakov – «žarkij zakat» [caldo tramonto], in Lewandowska e Dąbrowski – «gorące słońce» [caldo sole]. Nell’originale la parola «prud» non fa solo parte del nome, ma richiama anche un’immagine, quella di uno stagno (in polacco «staw», «sadzawka»). Nella traduzione si perde l’ironia del conflitto tra il sublime e il meschino, si riflette solo la prima funzione della parola («prud» non suscita nel lettore polacco le associazioni previste). Non vogliamo affatto polemizzare con il traduttore! Ci interessa la discutibilità della traduzione in quanto tale. La variabilità della situazione comunicativa emerge, come abbiamo visto, anche quando in apparenza le scelte non sono molte. Ma scegliere tra il repertorio delle possibilità che la lingua madre offre non vuol dire ancora creare. La creatività vera e propria si esprime più spesso traducendo la poesia che la narrativa. Il traduttore di narrativa affronta a volte espressioni che trasmettono un’informazione nascosta. La traduzione letterale è impossibile. Bisogna trovare un traducente per la funzione della parola e non per la parola stessa. L’importante non è quello che viene detto, ma perché l’autore ha deciso di dirlo proprio in quel modo. Ogni soluzione del traduttore è una soluzione creativa (se per «creatività» intendiamo qualcosa che non trova conferma tra le norme esterne).

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Sulle prime pagine del Maestro e Margherita i due signori si precipitano verso un chiosco con la scritta «Pivo i vody» [Birra e acque]. L’acqua minerale Narzan non c’è, né la birra, c’è solo l’acqua al gusto di albicocca.

« – Nu, davajte, davajte, davajte!…»

Come può essere tradotta questa frase? La traduzione alla lettera («No, dawajcie, dawajcie, dawajcie» [Beh, me la dia, me la dia, me la dia!]) è la soluzione peggiore. Il traduttore deve inventare una frase che rifletta il significato nascosto tra le righe, in modo che il lettore lo indovini, lo colga.

« – Może być. Niech będzie!»

[Può andare. Vada per questa!] è la soluzione di Lewandowska e Dąbrowski. La si può criticare, e prendere in considerazione molte altre soluzioni proposte (per esempio «Dobra jest, dobra jest, dobra jest» [Va bene, va bene, va bene]) eppure la versione dei traduttori non è errata così come non lo è neanche l’originale. In entrambi i casi non esistono norme esterne. Entrambe le soluzioni sono il risultato di un processo creativo.

Le innovazioni che si formano ai livelli più profondi della struttura del testo, ai livelli microstilistici, hanno ripercussioni molto minori sulla struttura del testo che sul “sistema dei sistemi” degli stili, dei generi e in generale della letteratura: in questo consiste il paradosso dell’arte della traduzione.

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Перевод как творчество Эдвард Бальцежан

«Переводя в стихах, иногда отдаешься художественному порыву, так сказать, “творишь” и теряешь способность крити- чески отнестись к тому, что пишешь, как к “переводу”».

Валерий Брюсов

Историю литературного творчества можно рассматривать как процесс постепенно нарастающей изолированности и автономности писательской и переводческой деятельности. С этой позиции становление многих национальных литератур, в том числе польской и русской, довольно четко разделяется на два этапа. В первую очередь художественная письменность формируется в синкретическом, смешанном порядке, который позволяет совмещать – в рамках одного и того же произведения – оригинальные изобретения с продуктами чужой фантазии. Здесь граница между созданием и воссозданием художественных ценностей расплывчата. Понимание авторства проблематично. Кодирование и рекодироване текста развертывается между двумя полюсными принцыпами. С одной стороны, это принцип апокрифа: собственное слово представляется как чужое слово. Апокриф (в интересующем нас значении) можно охарактеризовать как плагиат à rebours. Переводчик приписывает автору подлинника свои мысли и образы. «Иногда древнеславянские книжники, – замечает Д. С. Лихачев, – перестраивали композицию переводного сочинения или создавали на их основе сводные большие композиции […]» (Лихачев 1962: 390). Авторские компетенции переводчика охватывали в это время – до XVIII столетия – все уровни структуры текста: не только нижние, лексические и фразеологические, но и верхние слои произведения (фабула, персонаж, внутренний повествователь и другие т.н. «крупные семантические фигуры»). Стратегия «апокрифиста»

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формируется сознательно; об этом свидетельствуют многие высказывания переводчкиков. Трансформация подлинника происходит ради читателя. Одновременно «принцип апокрифа» включает переводчика в творческий процесс: перевод служит совершенствованию авторского замысла. «Где понадобится, – гласил Богомолец, – там выскажусь шире, а где видно, что авторская речь расширяется без надобности, там кратчайшим образом ту же сущность выскажу, дабы не только сравниться с переводимым мною автором, но и возвыситься над ним живостью изложения» (Balcerzan 1976: 71).

С другой стороны – не менее сильным фактором, стимулирующим писательский опыт доромантической эпохи, является принцип аннексии. Чужое слово представляется как собственное слово. Присвоение иноязычного текста напоминает плагиаторство, и наша современность говорит в таких случаях о плагиате; в системе клаcсицизма допустимо пересказывание иноязычных текстов (чаще отдельных эпизодов или некоторых компонентов чужого произведения) при минимумe новизны. Иногда достаточно того, что аннексированное слово переведено на родной язык.

Tak i ja, jak z autora którego wiersz zarwę,
Za swój go już mam własny, jeno dam mu barwę,
– с полным откровением заявлял Коховски (Balcerzan 1976: 68).

[Стихотворение «сорванное» у другого автора считается «своим собственным», лишь бы дать ему новую «окраску»]. По-видимому, «принцип аннексии» предопределяет исследование многих оригинальных произведений классицизма как результат скрытого перевода. К фактам пересечения этих двух принципов – «принципа апокрифа» и «принципа аннексии» – восходит известное мнение, анализируемое В. Беньямином, согласно которому знаменитый переводчик – творец, а посредственный творец – дрянной переводчик (Benjamin 1975: 300).

Романтизм дискредитирует «школу подражателей и переводчиков» (А. Мицкевич); провозглашает диктатуру оригинальности и новаторства. Начиная с XIX в., труд переводчика усложняется и одновременно редуцируется область его творческой свободы. Умножению списка обязанностей сопутствует

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постпенное сужение «сочинительских» привелегий. У этого явления – два аспекта. Во-первых, система трансформационных приемов своеобразно «ассиметризуется». Если согласимся с В. Коптиловым, что перевод приводит в движение четыре главных приема, а именно: сокращение, дополнение, перестановку и замену элементов текста (Коптилов 1962), то увидим, что эти приемы не равноценны по отношению к «творчеству». Сокрашение связано не с творческим, а скорее с цензорским подходом к тексту. Перестановка кажется более творческой операцией, чем сокращение и менее творческой, чем замена элементов. Несомненно, все зависит от контеста и наши рассуждения имеют самый общий, чисто типологический характер. С типологической точки зрения наиболее яркий признак переводческого «творчества» есть дополнение текста элементами не заданными подлинником (и не стимулированнными необходимостью компенсации потерь). Именно этот признак стал в наше время объектом осторой критики. Сокращение (в определенных условиях, конечно) простительно – «отсебятина» всегда вызывает негодование. Недаром отрицательным героем русской истории прозаического перевода оказался Введенский. В 1930 г. К. И. Чуковский утверждал, что «главный грех Иринарха Введенского – это страстная любовь к отсебятинам. Чуть только ему померещится, что Диккенс ослабел, сплоховал, он начинает писать вместо Диккенса, дополнять и украшать его текст» (Чуковский 1930: 78). Итак, выражение «писать вместо автора» – антоним понятия «переводить».

Во-вторых, ассиметрия охватывает структуру текста. Чем выше уровень структуры, тем меньше возможностей творческого новшества. Как уже указывалось, конвенция классицизма разрешала трансформировать сферу «крупных семантических фигур».

В XVI в. Л. Гурницки мог включать в пересказ итальянского произведения Кастильена новые главы, менять персонажи, вплоть до «трансфузии» нравственных идей. Любопытно, что аналогичными льготами пользуется до сих пор интерсемиотический перевод, в области зрелищных искусств (театр и кино). В литературном переводе в настоящее время немыслимы исчезновения героев, дополнение сюжета и т. д. Что сказала бы критика, если бы в переводе Трех сестер Чехова – вместо трех сестер

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действовали четыре, или две, или же сестры оказались бы братьями? А ведь в театральном спектакле довольно часто случаются именно такие метаморфозы литературного подлинника. Несмотря на ограничения творческих свобод, литературный перевод и в наше время воспринимается как искусство. Можно высказать предположение, что идея «перевод – искусство» нужна самим переводчикам, самочувствие которых детерминировано особенностями кругозора читательских ожиданий. Оценка текста по мнению Ю. Лотмана, определяется оппозицией: «текст, который может быть ложным» – «текст, который не может быть ложным» (Лотман 1973). Перевод находится под угрозой двойной «ложности»: неадекватности и случайности. Нас интересует второй аспект явления. Современное читательское доверие к литературе во многом связано с догадкой о происхождении текста. Читателю не безразлично, является ли данное произведение результатом творческой целеустремленности, или же, наоборот, эффектом чистой случайности. Несомненно, наша культура знает отклонения от этого правила. Это и практика потребления трафаретных продуктов «коммерческой» литературы, сохраняющая равнодушие к психологической предыстории текста, и, скажем, дадаизм, который стремился к превращению писательского процесса в игру случайностей. Однако мы вправе сказать, что романтический критерий «творчества», как критерий «неложности» текста, остается самой устойчивой нормой читательского интереса.

Постановка вопроса «перевод как творчество» сложнее тем, что категория «творчества» обусловлена исторически. Согласно учению В. Татаркевича, она функционирует как «полезный лозунг» и не может справиться с требованиями, предъявляемыми научным понятиям (Tatarkiewicz 1975: 311). Вместе с тем уже в настоящее время опыт психолингвистики и других смежных наук позволяет нам установить, хотя и с многими оговорками и неточностями, некоторые формы речевого поведения человека, различаемые как более или менее творческие решения индивида. А. Швейцер ссылается на «весьма плодотворное разграничение двух видов речевых ситуаций – стандартных (или стабильных) и вариабельных (или переменных). В стандартных ситуациях действия человека жестко регламентируются […].

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Вариабельные (переменные) речевые ситуации отличаются более или менее широким диапазоном выбора языковых средств, […]» (Швейцер 1977: 15).

Это самый простой, «нулевой» уровень оппозиции «творческого» и «нетворческого» поведения. К рассуждениям А. Швейцера следует добавить одно замечание: текст порождаемый стабильными ситуациями (исключающими творчество) подчиняется внешним нормам языковой коммуникации. Правильность или неправильность текста определяется целиком через проверку исполнения правил объективного (точнее интерсубъективного) порядка. Вне говорящего индивида находятся авторитеты, которым «лучше видно», говорят так или нет. Здесь вполне уместно понятие ошибки и готовность к немедленному исправлению ее. В свою очередь текст, формирующийся в вариабельной ситуации, становится текстом «творимым», когда говорящий отказывается от подчинения внешним нормам (или, вернее, чувствует недостаток внешних норм). Каждое языковое решение находится здесь на границе правильности и неправильности. Каждое слово может оказаться художественной ошибкой (оставаясь в согласии с нормой нехудожественной речи). Ситуация слова в творческом процессе – всегда ситуация неологизма. Это относится отнюдь не к самым экстремистским опытам литературы, в роде заумной лирики или лексических изобретений Джойса. Обыкновенное предложение, например, «В час жаркого весеннего заката на Патриарших прудах появилось двое граждан» (М. Булгаков: Мастер и Маргарита 1966, 11: 7) теряет признаки «обыкновенности», попадает в ситуацию любой метафоры, ибо вне автора не существуют никакие устойчивые нормы, которые в состоянии решить, можно или нельзя именно так начинать роман. Деятельность переводчика развивается между творческими и нетворческими языковыми поведениями. Она приобретает творческий характер на самых низких уровнях структуры текста. (Естественно, что трансформация лексических и фразеологических единиц влияет и на «крупные семантические фигуры», но это влияние происходит косвенным путем). Переводчик тоже не знает, нашел ли он единственный эквивалент; правильно ли цитированное выше предложение из Булгакова перевести на польский язык таким образом:

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«Kiedu zachodziło wlaśnie gorące wiosenne słońce, na Patriarszych Prudach zjawiło się dwu obywateli» (Bułhakow 1969: 7).

У Булгакова – «жаркий закат», у И. Левандовской и В. Домбровского – «жаркое солнце». В подлиннике слово «пруд» не только название, но и образ (по польски «staw», «sadzawka»). В переводе исчезает ирония столкновения возвышенного и низкого, остается лишь одно название («Prud» не вызывает у польского читателя желанных ассоциаций). Наши сомнения – отнюдь не полемика с переводчиками! Нас интересует сомнительность перевода как такового. Вариабельность речевой ситуации вскрывается, как мы видели, даже в самых простых условиях перевода. Однако выбор из репертуара возможностей родного языка – еще не творчество. Истинно творческий процесс присутствует реже при переводе художественной прозы чем в переводе поэтическом. Переводчик прозы сталкивается иногда с высказываниями, передающими скрытую информацию. Буквальный перевод – невозможен. Надо найти эквивалент не слову, а функции слова. Дело не в том, что сказано, а в том, ради чего в подлиннике сказано именно так. Любое решение переводчика – творческое решение (если принять введенное выше понимание «творчества» как лишение опоры в мире внешних норм).

Двое граждан на первых страницах Мастера и Маргариты бросаются к будочке с надписью «Пиво и воды». Нарзана нет, пива нет, есть только абрикосовая вода.

« – Ну, давайте, давайте, давайте! (…) »

Как перевести эту фразу? Обыкновенная калька («No, dawajcie, dawajcie, dawajcie») – самое плохое решение. Переводчик должен сочинить слова с определенной контекстом скрытой информацией, подразумеваемой, угадываемой читателем.

« – Może być. Niech będzie!»

– это предложение Левандовской и Домбровского. С ним можно не согласиться, можно взять во внимание громадное множество иных решений (напр. «Dobra jest, dobra jest, dobra jest»), тем не менее текст переводчиков не есть ошибка: в том же смысле, в котором не является ошибкой текст

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подлинника. В обоих случаях не существуют внешние нормы. Оба решения – результат литературного творчества.

Парадокс искусства перевода заключается в том, что нововведения, формирующиеся на самых низких уровнях структуры текста, в микростилистике, с гораздо меньшей энергией перестраивают единичное произведение, чем «систему систем» стилевого, жанрового и других порядков отечественной литературы.

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Vasilij Grossman Vita e destino Prima parte

1

Sopra la terra c’era nebbia. Sui cavi dell’alta tensione, tesi lungo la strada, rilucevano i riverberi dei fari delle auto.

Non pioveva, ma all’alba la terra diventò umida, e quando si accendeva il segnale di interdizione sull’asfalto bagnato appariva una vaga chiazza rossastra. Il respiro del lager si sentiva da molti chilometri di distanza – vi tendevano, addensandosi sempre più, cavi, strade e binari. Questo era uno spazio pieno di linee rette, uno spazio di rettangoli e parallelogrammi che fendevano la terra, il cielo autunnale, la nebbia.

Cominciò l’urlo prolungato e sommesso di sirene distanti.

La strada si avvicinava alla ferrovia, e la colonna di automobili, cariche di cemento in sacchi di carta, si mosse per qualche tempo quasi alla stessa velocità del treno merci, infinitamente lungo. Gli autisti in cappotto militare non gettavano neanche uno sguardo ai vagoni che passavano accanto, alle chiazze pallide delle facce.

Dalla nebbia sbucò la recinzione del lager: file di cavi metallici, tesi tra pali di cemento armato. Le baracche si estendevano a formare larghe vie dritte. Nella loro monotonia si manifestava la disumanità dell’enorme lager.

Neanche tra un milione di isbe russe ce ne sono o ce ne possono essere due tanto simili da non distinguersi. Tutto ciò che è vivo è irripetibile. È inconcepibile che siano identici due esseri umani, due cespugli di rosa canina… La vita si attenua là dove la violenza tenta di cancellarne l’originalità e le peculiarità.

L’occhio attento e negligente del macchinista canuto osservava il susseguirsi delle colonnine di calcestruzzo, degli alti piloni con i riflettori girevoli, delle torri di cemento, dove attraverso il vetro si scorgeva la sentinella vicino alla mitragliatrice di torretta. Il macchinista fece un cenno all’aiutante, la locomotiva emise un segnale di avviso. Apparve la garitta illuminata dall’elettricità, la fila di macchine davanti alla sbarra a strisce, il rosso occhio bovino del segnale.

Da lontano si fecero sentire i fischi del convoglio che veniva in direzione opposta. Il macchinista disse all’aiutante:

– È Zucker, lo riconosco da quella voce pimpante, ha scaricato e se ne fila a Monaco con la ferraglia vuota.

Rombando, il convoglio vuoto incontrò il treno in arrivo al lager, l’aria lacerata si mise a scoppiettare, cominciarono a baluginare gli spiragli grigi tra i vagoni, d’improvviso i brandelli rotti dello spazio e della luce del mattino autunnale si riunirono in un tessuto che correva ritmicamente. L’aiutante del macchinista, tirato fuori di tasca uno specchietto, si diede uno sguardo alla guancia sudicia. Il macchinista con un gesto gli chiese lo specchietto.

L’aiutante disse con voce agitata:

– Ah, Genosse[1] Apfel, credetemi, potevamo tornare per pranzo, invece che alle quattro di mattina stanchi morti, se solo non ci si metteva questa disinfestazione dei vagoni. Come se poi la disinfestazione non si poteva farla da noi allo snodo.

Il vecchio si era stufato di quegli eterni discorsi sulla disinfestazione.

–  Dai un po’ il segnale lungo – disse – ci mandano non a quella di riserva, ma dritti alla piattaforma di scarico principale.

 

2

Nel lager tedesco, a Mihail Sidorovič Mostovskij toccò impiegare sul serio la sua conoscenza delle lingue straniere per la prima volta dopo il Secondo congresso del Komintern. Prima della guerra, quando viveva a Leningrado non gli capitava spesso di parlare con stranieri. Ora gli tornavano in mente gli anni in cui era emigrato a Londra e in Svizzera, dove nella comunità dei rivoluzionari si parlava, discuteva e cantava in molte lingue europee.

Il suo vicino di tavolaccio, il prete italiano Gardi, disse a Mostovskij che nel lager viveva gente di cinquantasei nazionalità.

Il destino, il colore del viso, i vestiti, lo strascicare dei passi, l’universale zuppa di ravizzone[2] e sagù[3] artificiale che i detenuti russi chiamavano «occhio di pesce» – tutto questo era identico per le decine di migliaia di abitanti delle baracche del lager.

Per i capi nel lager le persone si distinguevano dal numero e dal colore della fascetta di stoffa cucita sulla giacca: rossa per i politici, nera per i sabotatori, verde per i ladri e gli assassini.

Per via della diversità di lingue le persone non si capivano, ma erano legate da uno stesso destino. Esperti di fisica molecolare e di manoscritti antichi giacevano sul tavolaccio accanto a contadini italiani e pastori croati incapaci di scrivere il proprio nome. Quello che un tempo ordinava la colazione al cuoco e preoccupava la governante col suo poco appetito e quello che mangiava baccalà andavano insieme al lavoro, sbattendo le suole di legno, e si guardavano attorno con angoscia – magari stavano arrivando i Kostträger[4] – i portatori delle marmitte, «Kostrighi» come li chiamavano gli abitanti russi dei block.

Nel destino delle persone del lager l’affinità nasceva dalle differenze. Che nelle visioni del passato ci fosse un giardinetto vicino a una polverosa strada italiana, o il cupo fragore del mare del Nord, o un abat-jour di carta arancione nella casa del dirigente del personale al confine di Bobrujsk – per tutti i detenuti, senza eccezione, il passato era meraviglioso.

Quanto peggiore era stata la vita prima del lager, con tanto più zelo uno mentiva. Questa bugia non aveva scopi pratici, ma serviva a glorificare la libertà: fuori dal lager non si può essere infelici…

Prima della guerra questo era chiamato lager per criminali politici.

Poi era apparso un tipo nuovo di detenuti politici, creato dal nazionalsocialismo: criminali che non avevano commesso crimini.

Molti detenuti erano finiti nel lager perché in una conversazione con amici avevano espresso critiche al regime hitleriano, per una barzelletta a sfondo politico. Non avevano fatto volantinaggio né aderito a partiti clandestini. Ciò di cui li si accusava era che avrebbero potuto fare tutto questo.

Anche la reclusione dei prigionieri di guerra nei campi di concentramento politici era un’innovazione del nazismo. C’erano piloti inglesi e americani, abbattuti in territorio tedesco, e comandanti e commissari dell’Armata Rossa, interessanti per la Gestapo. Da loro si aspettavano informazioni, collaborazione, consulenze, firme in calce a dichiarazioni di ogni sorta.

Nel lager si trovavano sabotatori, cioè assenteisti che avevano cercato di abbandonare il lavoro nelle fabbriche e nei cantieri bellici senza autorizzazione. Anche la reclusione nel campo di concentramento di lavoratori per aver lavorato male era una conquista del nazionalsocialismo.

Nel lager si trovavano persone con pezze lilla sulle giacche: emigranti tedeschi che avevano lasciato la Germania nazista. Anche questa era un’innovazione del nazismo: chi lasciava la Germania, per quanto lealmente si fosse comportato all’estero, diventava un nemico politico.

Le persone con la fascia verde sulla giacca – ladri e scassinatori – erano i privilegiati dei lager politici; il comando militare si appoggiava a loro per la sorveglianza sui politici.

Anche nel potere del detenuto criminale su quello politico si manifestava lo spirito innovativo del nazionalsocialismo.

Nel lager si trovavano persone il cui destino era così singolare che non era stato trovato un colore di pezza che ne descrivesse uno simile. Ma anche per l’indiano incantatore di serpenti, per il persiano arrivato da Teheran a studiare la pittura tedesca, per il cinese studente di fisica il nazionalsocialismo preparava un posto sul tavolaccio, una gavetta di brodaglia e dodici ore di lavoro di scavo.

Giorno e notte continuava il viaggio dei treni merci verso i lager della morte, verso i campi di concentramento. Nell’aria c’erano i colpi delle ruote, il muggito delle locomotive, il fragore degli stivali di centinaia di migliaia di prigionieri che andavano al lavoro con numeri blu a cinque cifre cuciti addosso. I lager diventarono le città della Nuova Europa. Crescevano e si ampliavano con la propria planimetria, con i propri vicoli e piazze, gli ospedali, con i propri bazar di roba usata, i crematori e gli stadi.

Come sembravano ingenue e addirittura bonariamente patriarcali le vecchie carceri costrette nelle periferie cittadine in confronto a queste città-lager, in confronto al bagliore nero-vermiglio sopra i forni crematori, che faceva impazzire.

Sembrava che per il controllo di una tale massa di deportati servissero armate enormi di guardie e sorveglianti, che pure sfioravano il milione. Ma non era così. Gente con l’uniforme delle SS non compariva nelle baracche per settimane! Nelle città-lager i detenuti stessi si fecero carico delle mansioni di polizia. I detenuti stessi controllavano che venisse rispettato il regolamento interno delle baracche, badavano a che in cucina arrivassero solo patate marce e gelate, mentre quelle grandi e buone venissero smistate verso i depositi alimentari per l’esercito.

Erano detenuti i medici e i batteriologi negli ospedali e nei laboratori del carcere, i netturbini che spazzavano i marciapiedi del carcere, lo erano gli ingegneri che provvedevano alla luce del carcere, al calore del carcere, ai pezzi delle macchine del carcere.

La feroce ed efficiente polizia del lager – i kapò, che portavano sulla manica sinistra una larga fascia gialla, i Lagerältester, i Blockältester, gli Stubenältester – teneva sotto il proprio controllo tutta la verticale della vita del lager, dalle faccende che lo riguardavano nella sua interezza alle vicende private che succedevano di notte sui tavolacci. I detenuti erano ammessi alle operazioni segrete del regno del lager – persino alla stesura delle liste per la selezione, al trattamento degli inquisiti nelle Dunkelkammer[5] – portapenne di cemento. Sembrava che, sparendo i capi, i detenuti avrebbero continuato a mantenere la stessa alta tensione nei cavi, in modo che non si scappasse via ma si lavorasse.

Questi kapò e blockältester facevano da comandanti, ma sospiravano e a volte addirittura piangevano per coloro che portavano ai forni crematori… Tuttavia questo sdoppiamento non arrivava fino in fondo, nella lista per la selezione i propri nomi non ce li mettevano. A Mihail Sidorovič sembrava particolarmente sinistro che il nazionalsocialismo non arrivasse nel lager con un monocolo, superbo come un allievo ufficiale, estraneo al popolo. Il nazionalsocialismo viveva nel lager alla buona, non era isolato dal popolo minuto, scherzava al modo del popolo, e ridevano ai suoi scherzi; era un plebeo e si comportava in modo semplice, conosceva alla perfezione sia la lingua che l’anima e lo spirito di coloro che aveva privato della libertà.

 

 


[1] Tedesco: compagno.

[2] Pianta simile al cavolo, coltivata per i semi oleiferi.

[3] Farina alimentare ricavata dal midollo di parecchie specie di palme.

[4] Tedesco: portatori del cibo.

[5] Tedesco: camera oscura.