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Amava bambini, aranci (come se il mondo avesse bisogno di portieri d’albergo)

Amava bambini, aranci

(come se il mondo avesse bisogno di portieri d’albergo)

«Per lui l’occidente era roba da ragionieri». La prima difficoltà che ha dovuto affrontare Cristina Battocletti per scrivere questa meravigliosa, ricchissima biografia di Bazlen è stata quella di trovarsi di fronte a un problema d’intraducibilità. Cosa più del materiale disponibile per ricostruire questa vita è frammentario, sfuggente alla categorizzazione, anomalo, idiosincratico e refrattario a una descrizione lineare? Da un lato, una montagna di cartoline, lettere, testimonianze, alberghi, amici, nemici, scritti apparentemente privi di una coerenza – dall’altro un volume stampato con eleganza da La nave di Teseo, privo di refusi – che già di per sé è una notizia nel panorama attuale – ben scritto, a volte scritto in modo trascinante («Piazza dell’Unità d’Italia è un bagliore di ori e pinnacoli che guarda con devozione all’acqua, mentre la sua lingua più lunga, il molo Audace, è una specie di desiderio di goderne un’ultima vertigine»), molto più avvincente di un romanzo, di quelli che, quando finisci di leggerli, ti appigli all’indice, al sommario, alla quarta di copertina – genere in cui Bazlen eccelleva – pur di non doverli cedere.

Come tutte le intraducibilità, nemmeno questa è assoluta: Cristina Battocletti l’ha vinta, e l’ha vinta con stile, dimostrandosi in primo luogo un’eccellente mediatrice linguoculturale.

«L’obiettivo di Bobi non era arricchirsi, quanto continuare con la sua vita di lettore e di nomade»: Bobi Bazlen non era uno scrittore, non era un editore, non era un traduttore («non ho voglia di fare come tutti le solite traduzioni pagate a metro: facendole con un certo impegno, e lavorando tutta la giornata, non salta fuori nemmeno un ristorante decente», «se traduceva dal tedesco, sua lingua madre, preferiva rimanere anonimo»), non era un poeta («È chiaro che lei non è un poeta» gli disse Elsa Morante), non era un consulente editoriale («suggeriva le opere da pubblicare agli amici»), non era un addetto alle public relations, non era un talent scout («non ha mai avuto un ruolo ufficiale nell’editoria o una pubblicazione che ne definisse la figura. Non ha assunto la direzione di una collana editoriale»), non era l’amico di poeti e scrittori («poeta delle note editoriali e aforista geografico»), non fondava case editrici («la sua genialità era il fiuto editoriale finissimo»): era tutte queste cose messe insieme. «Per Bobi la professione di editor era così commistionata con il privato da averla esercitata fino a un attimo prima di morire».

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Cristina Battocletti

Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste

La nave di Teseo, 400 pagine. 19,50 euro cartaceo. 9,99 euro ebook.

 

Ceci n’est pas un biais

biais

Quando la mente umana si trova davanti a un fenomeno nuovo, cerca subito il modo di descrivere tale fenomeno a sé stessa per poterlo riconoscere economicamente in futuro. Dato che tale descrizione deve essere sintetica, la mente cerca nella complessità del fenomeno delle costanti ricorrenti, dei pattern, in modo da rendere più agevole il riconoscimento. Se per esempio d’estate il cielo all’improvviso si oscura, tira vento e gli uccelli smettono di cinguettare, so che sta per scoppiare un acquazzone: «acquazzone» è il nome di un pattern riconoscibile, applicabile a fenomeni diversi ma che hanno qualcosa in comune.

 

Sulla base di un pattern percettivo, la mente si crea un modello: è quella che si chiama modellizzazione, e serve per la prossima volta che percepirò qualcosa di assimilabile.

L’acquisizione di un modello della realtà è però un’arma a doppio taglio: se da un lato accelera la percezione, dall’altro rischia di deformare la realtà: in questo caso si parla di «bias».

Il bias è un pattern di deviazione da standard di giudizio che comporta la formulazione di congetture irragionevoli. È l’applicazione inconscia di un filtro mentale deformante alla realtà, così che non è recepita in modo oggettivo, ma ‘obliquo’, ‘storto’.

Tale filtro è applicato dalla nostra mente in modo inconsapevole, perciò noi abbiamo l’illusione di percepire La Realtà.

Ma perché mai dovrebbe interessare ai mediatori linguoculturali? Perché, se tutti sono soggetti a deformazioni percettive, le percezioni deformate dei mediatori si riflettono sul testo che producono, e quindi su migliaia di ascoltatori/lettori successivi.

I tipi principali:

  1. bias di ancoraggio (basarsi solo sulle informazioni avute per prime); per esempio, se cerco una parola nel dizionario e trovo varie spiegazioni, mi fisso sulla prima trascurando le altre;

  2. patternicity (illudersi di trovare pattern significativi in quelli che invece sono fenomeni casuali); come fanno gli scommettitori professionali del lotto quando puntano sul numero che non esce da più tempo, ritenendo che ci sia un modello secondo cui tutti i numeri devono uscire con la stessa frequenza;

  3. bias di conferma (o ideologismo; pescare tra i dati tenendo solo conto di ciò che conferma quello di cui si è a priori convinti);

  4. il “senno di poi” («te l’avevo detto»; illudersi di avere sempre stati certi dell’esito di una determinata situazione).

«Bias» è una parola strana. Un po’ perché non si sa con certezza da dove arrivi, anche se si tende a pensare che venga dal provenzale «biais» che significa «obliquo». I francesi però a loro volta sostengono che a loro sia giunto dal greco βιάς / biás, «atto di violenza».  Nonostante tutto ciò, a noi arriva dall’inglese, che la pronuncia |ˈbīəs|, e così, obbedienti, noi la pronunciamo bàias.

Probabilmente la metafora dello sbieco ciascuno di noi la può intuire: così come «guardare di sbieco» significa «guardare storcendo gli occhi», si può ben capire che, storcendo gli occhi, le cose si vedono deformate. E uno sguardo bieco è obliquo, prima di risultare eventualmente anche minaccioso e sinistro.

Lo sbieco è quella fettuccia, tessuta a 45° anziché a 90°, in cui i fili sono girati in senso trasversale a quelli del vestito, motivo per cui va molto bene per fare orli, poiché se la si piega, mantiene la piega già prima di essere cucita e applicata al tessuto del vestito.

La mispercezione del bias mi fa venire in mente quella della ostranenie, o “stranificazione”, parola di cui proprio quest’anno ricorre il centenario, perché nel 1917 Viktor Šklovskij la coniava per spiegare il procedimento artistico (priëm), ossia descrizione in modo strano di un oggetto allo scopo di far uscire il lettore dall’automatismo della percezione. Con la differenza che l’artista usa la ostranenie apposta – ed è perché la usa che lo consideriamo artista – invece noi tutti la subiamo senza accorgercene.

Originariamente pubblicato su L’Altiero, luglio 2017

copertinasilva

Prefazione

Silva si è manifestata nella frazione di Passano (Deiva) nell’agosto del 2008 e – non incoraggiata – ci ha seguìto fino a casa. Angelo, il veterinario, le dava più o meno un anno. È entrata nella nostra vita con le zampe di velluto, senza fare rumore, per non disturbare. Nemmeno abbaiava, solo nel sonno, ogni tanto, le venivano fuori degli abbaietti trattenuti, in falsetto. Per il resto dove la mettevi stava, fosse la sua cuccia, l’automobile, il Bar Atlantic, o la panchina fuori dal supermercato ad aspettare chi faceva la spesa. Solo una volta, mentre facevo la spesa con mio figlio, si è divincolata dal collare e ci è corsa incontro trovandoci nel reparto latticini.

A fine agosto 2013 aveva tentato una specie di fuga – forse con l’idea di andarci a cercare chissà dove – immettendosi sull’autostrada vicino al casello di Deiva, camminando sull’angusto marciapiedino che c’è nelle gallerie in quel tratto. Anonime persone sensibili e preoccupate evidentemente l’avevano scorta ed erano riuscite ad accostare in una piazzola d’emergenza per farla salire, consegnandola poi agli uomini della Salt, che ci avevano telefonato da Spezia dove l’avevano tenuta fino al nostro arrivo, apparentemente tranquilla. E un mese dopo una non meglio spiegata paralisi l’aveva immobilizzata per una settimana, ma subito dopo aveva ripreso le sue corse da lepre.

Paralisi simile l’ha colpita il 20 settembre 2015, solo che questa volta non si è ripresa, e il giorno dopo il suo cuore si è fermato.

La voragine che s’è aperta con la sua mancanza nei cuori di noi tutti ci ha fatto capire molto anche di noi stessi. Gli esseri meno invadenti, più beneducati, si fanno strada nel cuore degli altri in modo quasi impercettibile, ma poi lasciano un grande vuoto.

Queste liriche, in parte mie in parte dei miei famigliari, sono in sua memoria.

Bruno Osimo

5 ottobre 2015

http://store.streetlib.com/a-silva-liriche-a-quattro-zampe

Intervista di Lilie Ha-Ha Fantomatique a Bruno Osimo sulla poesia «Le smagliature del tuo seno»

Le smagliature del tuo seno

 

le smagliature del tuo seno

così bene posso capire solo io

dalla scollatura della maglietta a V verde militare troppo giovane per te

 

le venature delle tue gambe

le costellazioni di capillari scoppiati

chi meglio di me che le ha viste nascere

chi meglio di me che le ha viste crescere

può conoscere-apprezzare-venerare

 

i giovani corpi che ti danzano intorno

gli sguardi luminosi che ti ronzano intorno

le bocche vogliose che ti sciamano intorno

sono turgidi, sono gravidi

ma mentre amoreggi con loro continuano a passarti le immagini di te

mentre gestisci le mie voglie

Lilie: Nel tuo secondo romanzo, Bar Atlantic, hai inserito componimenti poetici. Purtroppo, hai dovuto sottostare alla scelta e alle limitazioni imposteti dall’editore, col risultato che forse la più bella poesia di questa raccolta è stata depennata e si può trovare solo all’indirizzo:

https://www.trad.it/hum-mugdal-le-smagliature-del-tuo-seno-traduzione-di-maya-katzir-e-bruno-osimo/

Bruno: Ti ringrazio, Lilie, per il complimento. Ti confesso che per me questa poesia è davvero centrale per il romanzo, è una sorta di Ur-Testo dal quale sono scaturite svariate idee che mi sono poi servite per l’elaborazione dell’intreccio.

Lilie: Ma in fondo poco importa sapere se questi versi siano attinenti o meno al romanzo (dal mio punto di vista lo sono), mentre è doveroso mettere in rilievo la loro grazia e la ricchezza dei contenuti. Perché questa poesia racchiude elementi universali che vanno ben oltre le inquietudini e la vita precaria sentimental-sessual-lavorativa di Adàm, protagonista del romanzo.

Bruno: Beh, naturalmente un romanzo ha senso se cerca non solo di propinare un intreccio, frutto della fantasia creativa dell’autore, ma anche di toccare corde che risuonino al di fuori del qui-e-ora. In questo senso mi fa molto piacere quello che dici, perché anche secondo me la prospettiva di Adàm ha connotazioni estensibili ad altri uomini e ad altre donne.

Lilie: Le giovani donne che i media ci propinano, perfette e patinate, non sono la realtà, se non in rarissimi casi, a cui peraltro Photoshop fornisce non pochi “aiutini”. La prova? Qualche passerella di dive intente a portare a spasso pargoli o in coda al supermercato; prive di trucco, gioielli e abiti da sogno, appaiono a volte anche al limite della sciatteria, per non dire banali e bruttine.

Bruno: Quello che tu dici rappresenta, dal mio punto di vista, uno dei momenti di maggiore volgarità della nostra cultura e società: non tanto il trucco in sé o la necessità di apparire più belli possibile, quanto la “vergogna” che si prova per essere “còlti in fragrante” quando si è allo stato naturale, come se la nostra cultura fosse una continua negazione della realtà. La mia ambizione scrivendo questo romanzo era spostare il focus della volgarità dal sesso all’arroganza, dall’erotismo alla falsità: per questo motivo il romanzo è costellato di episodi erotici che puntano a non essere volgari né pornografici.

Lilie: Dove e come si situa per te il limite tra descrizioni/episodi erotici e volgari/pornografici?

Bruno: Non è volgare il sesso, né l’anatomia, ma i costrutti culturali che vi vengono fatti sopra. È volgare pensare di potersi far dettare le “regole” del buon gusto dai media, e poi andare in giro come tapini con queste inserzioni forzose di “moda” trapiantate su corpi intrinsecamente volgari per come sono gestiti in senso alimentare e sanitario. In altre parole, trovo volgare che una persona che mangia male, e si cura male, e quindi ha un corpo che lo lascia trasparire, poi si metta il “capino” di moda, come ciliegina sulla fogna.

Lilie: Le donne vere sono quelle che invecchiano, sotto colpi impietosi: degli anni che attentano ai capillari; delle gravidanze e diete che producono smagliature e varici; del principio di gravità – quest’ultimo, almeno, in comune con gli uomini. Uomini che ci dicono – e quasi sempre ci dimostrano nei fatti – che il turgore della giovinezza è ciò che li attrae inesorabilmente; sorta di maschi soccombenti “povere vittime” – più o meno consenzienti – adescate dal tradimento, malgrado possano continuare ad amare o addirittura venerare la consorte o la compagna principale, come appare nella poesia, quasi nostalgicamente… Mastroianni ha sempre detto di essere cercato dalle donne e non viceversa!

Bruno: Sollevi una questione per me fondamentale: quella dell’autenticità delle donne, e dei maschi. Adàm Goldstein è un personaggio a mio modo di vedere autentico, e la sua frammentazione in vari rivoli di attività affettiva e anche sessuale non lo identifica col macho italiota a cui alludi tu, Lilie, ma dimostra la possibilità di avere vite parallele senza per questo necessariamente essere traditori. Adàm non tradisce ma moltiplica, è un piccione viaggiatore dell’affetto, non può farne a meno, come Boccadirosa.

Lilie: Questa risposta mi sembra una scusa per dare alibi ai maschi su come tradire comunque e senza alcun senso di colpa, purché – infatti – si tratti di frammentazione affettiva e purché si tratti di vite parallele a compartimenti stagni; a tal proposito ricordo che il maschio è biologicamente concepito per inseminare molte femmine in tutto il mondo animale, mentre la teoria della moltiplicazione affettiva itinerante, combinata al sesso, mi pare molto meno difendibile a meno di labilità specifiche o patologiche del maschio umano – quindi espressione di un deficit, magari anche positivo rispetto al macho – tanto più che il cervello del maschio è stato appunto ritenuto diverso da quello femminile anche dal punto di vista affettivo. Dunque vedo la tua versione come un harem dislocato autorizzato che, se tale, secondo me, è inconciliabile con coppia fissa o matrimonio o comunque una relazione privilegiata. I maschi o le femmine Boccadirosa sono per me non esempi universali ma casi limite o sporadici, sebbene idealmente attraenti e senz’altro poetici.

Bruno: Hai perfettamente ragione. La mia era solo una fantasia poetica, non una strategia pratica. Che nessuno se ne approfitti!

Lilie: I fiori freschi, sono bellissimi e profumati ma presto fanés: ma che dire di quei fiori, viole specialmente, che ci piace inserire e far seccare dentro un libro a imperitura memoria? Quando li ritroviamo, non ci paiono avvizziti ma bellissimi e forieri di ricordi ed emozioni, li mettiamo persino sotto vetro, religiosamente…

Bruno: il corpo femminile può invecchiare in modo volgare o in modo poetico. Volgare è quando è pretenzioso (e posticcio, aggiungerei, come le false travi a vista incollate al soffitto): quando pretende con pròtesi di silicone, e ostenta un seno tanto artificioso quanto brutto (implausibile) (e visi sfigurati-omologati – vedi labbra a canotto -); quando il chirurgo rimpiazza un difetto autentico con una perfezione falsa (presunta). Ma è volgare anche l’apparecchio che raddrizza artificiosamente denti meravigliosamente storti, nel maschio e nella donna.

Lilie: Quel che non ci dicono mai, codesti uomini, è che il turgore delle giovani donne rende forse più turgido ciò che la graduale senescenza maschile rammollisce ogni giorno di più, e non certo a causa della partner attempata. E soltanto colui il quale – pur con qualche assaggio di carne soda per rallegrare i sensi con menù alternativo e magari arginare qualche inizio di impotenza – ha costruito una relazione affettiva profonda, può vedere nel decadimento fisico della persona amata la storia di ciò che hanno vissuto e costruito assieme e tutte le sfumare passate e presenti – e chissà anche future – di un amore che può resistere nel tempo.

Bruno: Sono d’accordo con te su quello che si potrebbe definire «consumismo sessuale». Il narcisismo – e il bisogno di conferme, a sostegno di tante insicurezze maschili – dei maschi in questione li spinge a comportamenti autodistruttivi: sull’onda di un’erezione, mettono a repentaglio relazioni solide di coppia e, a volte, stima e affetto dei figli per inseguire il sogno impossibile della cancellazione della vecchiaia. Mi viene in mente la pubblicità (ricordi Lilie gli anni Sessanta? Carosello?) di «La pancia non c’è più» che, trasposta nel discorso che stiamo facendo, potrebbe diventare «L’età non c’è più». Non stupisce che in certi casi le compagne giovani di questi maschi attempati-ma-senza-volerlo-ammettere attuino ritorsioni sotto forma di ricatti e capricci («se non fai questo ti tradisco»), perché si accorgono di essere anche loro vittime di un narcisismo vuoto, senza fondamenti.

Lilie: Se poi ci addentriamo nell’andropausa, le donne vincono non solo sul fronte del viagra, ma anche grazie alla loro sapienza sessuale, amorosa e affettiva in età matura, che oggi non è più un tabù e che le rende spesso più attraenti delle giovani rivali, e capaci di condurre le danze (senza peraltro attentare alla virilità) come il poeta qui dice senza veli. Ulteriori prove ne siano le coppie spesso formate da donne anche parecchio più grandi dei loro partner. Ma qui, il poeta e io non stiamo parlando di toy-boys: questi fanno parte di un’altra storia, molto meno interessante di quanto ci racconta «Le smagliature del tuo seno».

Con parole remote Opera recensita: Con parole remote, di Giancarlo Pontiggia, Guanda, 1998, p. 96, 18.000 lire del 22 aprile 1998

Giancarlo Pontiggia

Con parole remote

Guanda, pp. 96, 18.000 lire

«Vieni ombra / ombra vieni / ombra ombra / vieni oh vieni […]». Con questo canto di evocazione si apre la splendida raccolta di poesie di Giancarlo Pontiggia. Traduttore dal francese, dal greco e dal latino, come poeta in proprio gli piace lasciarsi guidare dalla musica e dal ritmo delle parole, rievocando immagini che traggono vita da una fusione sublime di suono e senso. È apprezzabile la distanza da certa poesia sperimentale degli anni Settanta e Ottanta, che in certi casi tendeva a essere un’intromissione della prosa saggistica nell’ambito della lirica. Particolarmente ammirevole in Con parole remote è la totale assenza del «poetese», quello stereotipo del linguaggio poetico che storpia e banalizza il discorso ampolloso per dare un gusto artificioso del poetico. Qui invece a essere poetica è la sostanza del testo, ed è sostanza ingenua, trasparente, — in senso etimologico — infantile. La parola inconsueta, o la sua collocazione straniante, casomai, si trovano come lasciti, preziosi ma non impreziositi, di traduzioni dai classici: «[…]con parole remote / in un fuoco tutelare // tra questi crocei ceppi / — vampe […]». Il ritmo è scandito da misure contemporaneamente grafiche, sonore, respiratorie. Gli enjambement e, più in generale, la disposizione dei caratteri sulla pagina accompagnano l’emissione del suono; l’interruzione dei versi, le righe in bianco non dividono «strofe» nel vero senso della parola, ma sono soprattutto pause — in mezzo al periodo — in cui non bisogna respirare, ma restare senza fiato, giungere all’altra riva in apnea per poi continuare la lettura ansimando, gradevolmente storditi e sordi ai referenti. «[…] già / dall’alto ti vedevo / fuggente, // non c’era posto per te sull’onda […]» La lettura viene spinta, dinamizzata da un uso strategico dell’anafora: «salivo su, su, tra i numeri, le ombre. E già / la luna era corsa, già / dall’alto ti vedevo / fuggente,». All’evocazione s’intercala l’invocazione, modalità espressiva in cui l’animo del poeta può permettersi di mostrarsi nudo nel desiderare, nel chiedere, dimostrando la propria possenza: «[…] di una casa remota / dalle chiuse porte / in un libro più forte / di ogni ombrosa sorte // salvami». Oppure dispensando  esortazioni: «Viandante che passi, / amico della polvere e del vento, / onora i tuoi lari, / qui brucia un grano d’incenso.» L’ombra, la polvere, la nuvola, la pioggia non sono presenze spettrali di un’isotopia cupa ma, al contrario, vengono invocate come divinità del ricordo inconscio, della forza di ricostruzione onirica. La lettura trasporta a cronotopi lontani, ad atmosfere classiche, armoniose, nelle quali bagnarsi dà refrigerio, deterge dall’inquinamento verbale quotidiano, con grande sollievo.

Bruno Osimo

23 aprile 1998