Dalla Brianza a Yehoshua. Intervista ad Alessandra Shomroni, traduttrice di Yehoshua e Grossman

Che tu sia per me la pioggia

 

La pioggia. Imparare a concepirla non come un nemico da cui ripararsi, ma come dono di trasformazione, al quale presentarsi solo col proprio corpo. Imparare a lasciarsi trasformare dalle persone che si incontrano, dai libri che si leggono, dai paesi in cui si va a vivere. Nuotare senza timori nel mare in perpetuo movimento. O almeno provarci.

Incontro Alessandra Shomroni in una casa, o meglio in un parco che racchiude al suo interno una casa. È primavera avanzata nell’Oltrepò pavese, l’asfalto della strada moltiplica il caldo del sole, ma, appena imboccati i due solchi in mezzo all’erba del vialetto, e nascosta l’automobile dietro un alto cespuglio di arbusti, il clima è subito diverso: più fresco, più accogliente.

L’interno della casa appare sulle prime scuro, dopo il protratto bagliore del sole e, in quella che mi sembra ancora una penombra, due donne con vesti larghe di tinte naturali parlano tra loro in una lingua che risveglia in me frammenti di ricordi forse rimossi o forse solo trascurati, della scuola elementare: sì, è proprio l’ebraico, benché così fuori contesto.

La padrona di casa si chiama Katka, è di origine ceca, ma ha vissuto parecchi anni negli Stati Uniti, e sa l’ebraico per educazione familiare. La sua somiglianza con Alessandra, al punto di sembrare sua sorella maggiore, non è attribuibile ad alcun legame di parentela, seppure lontano. Forse si assomigliano perché legate da un’intensa amicizia, che le ha a poco a poco rese simili.

Alessandra è italiana, ma non vive in Italia, anche se ci viene regolarmente per incontrare amici, parenti, editori. Vive a Mey Ami, un villaggio agricolo nel nord di Israele.

Trapiantata in Israele vent’anni fa, da tre anni traduce testi contemporanei, tra cui Alef Bet Yehoshùa e Davìd Grossman. Camminiamo nel parco rigoglioso di Katka e intanto bussano e chiedono il permesso di uscire le domande nella mia mente di traduttore. Lei è disponibile a parlare della sua complicata esperienza.

Abitare in Israele nei primi tempi era come vivere lacerata fra due mondi, con una ferita aperta. Quando era in Israele aveva nostalgia dell’Italia, e viceversa. Insomma, non era facile. Da tre anni vive in modo meno angoscioso la distanza tra le sue due patrie, tra le sue due lingue.

Avere radici profonde in due culture molto diverse può portare a una sorta di schizofrenia geografica e culturale, provoca un’inevitabile quanto continua angoscia e nostalgia. Alessandra ora ha trovato un modo molto elegante per sublimare questo desiderio di essere qua e là: dopo vent’anni in Israele, nei quali si è sposata con un cittadino israeliano, ha lavorato in kibùz, ha avuto due figli e si è laureata, conosce la cultura e la lingua di Israele meglio di qualsiasi straniero (le ho sentito dire: «mi sento profondamente cittadina israeliana»), e in un’opera letteraria contemporanea della sua nuova patria riesce a cogliere sfumature di registro, coloriture gergali, allusioni a dati di realtà, fenomeni culturali, peculiarità di idioletto. E dedica la propria competenza ai lettori italiani.

La sua ferita ha cominciato a rimarginarsi da quando lavora come traduttrice, professione già di per sé schizofrenica, creazione di una sorta di ponte tra due culture. Non potrei dire che effetto faccia a un israeliano, quando parla ebraico, la sua pronuncia: lei mi dice che non usa la erre uvulare tipica dell’ebraico moderno, ma quella dentale a cui siamo abituati noi. Quando parla italiano, però, come uno straniero che abbia imparato bene la lingua del paese, ha una particolare dizione priva di inflessioni, quasi il segno di una cicatrice.

Quando Alessandra si è accinta a tradurre il suo primo Grossman – Che tu sia per me il coltello, romanzo che racconta una relazione fatta di parole, di lettere che trasformano la vita di due persone – si è resa conto di non essere in sintonia con l’ossessiva ansia introspettiva del romanzo. Alessandra è una persona pragmatica, e la sua preoccupazione era di non riuscire a trasmettere le sfumature psicologiche delle relazioni tra Myriàm e Yaìr.

Fortunatamente in Israele i rapporti sociali sono improntati all’informalità, neppure la lingua ha certe forme di cortesia, ci si dà tutti del tu. È stato perciò naturale per Alessandra, prima di cominciare la traduzione, andare da Davìd, spiegargli le proprie difficoltà e farsi condurre per mano attraverso il suo testo.

Quando Davìd Grossman legge un buon libro, vuole esserne sconvolto, vuole, dopo avere letto l’ultima pagina, non sentirsi più la stessa persona. E, verosimilmente, scrive libri che vogliono produrre un analogo effetto. Così è accaduto ad Alessandra durante i mesi di convivenza intima con il testo, che ogni traduttore letterario vive in modo più o meno intenso, sentendosi comunque ogni volta cambiato.

Ogni volta che un traduttore si immerge in un lavoro letterario nuovo, deve risolvere numerosi problemi legati innanzitutto alla necessità di condividere il punto di vista del narratore e, in una seconda fase, risolvere anche problemi pratici legati alla trasposizione del testo, che presuppone un trasferimento culturale oltre che linguistico.

In Che tu sia per me il coltello,  c’è stata la difficoltà di tradurre i numerosi giochi di parole. Uno riguarda la parola imahùt, che vuol dire «maternità»; se però la si scompone in «i mahùt», significa letteralmente «mancanza di essenza», come del resto spiega lo stesso Grossman. Il lettore italiano ne ha una traduzione letterale che però manca della finezza e dell’arguzia dell’originale.

Per una traduttrice (per un traduttore), ogni libro che esce è come un figlio. E questo gioco di parole sulla mancanza di essenza sembra calzante, come se ogni traduzione fosse mancanza di un’essenza precisa, fosse un atto di trasformazione. Senza spingere quel calembour alle conseguenze più estreme, di certo si può dire che l’atteggiamento di chi si dispone a leggere, e a maggior ragione di chi si dispone a tradurre, è un atteggiamento di apertura, curiosità, desiderio di accogliere un punto di vista nuovo, disponibilità a lasciarsi trasformare dalla convivenza con un testo, che all’inizio è un testo-altro e gradualmente cresce al proprio interno fino a diventare un figlio.

Superficialmente si potrebbe pensare che una personalità del genere sia labile, priva di un senso profondo della propria identità. Al contrario, questa apertura mentale è segno di forza. Chi sente la propria identità minacciata dal confronto con un’entità estranea (che sia un testo, una persona o una cultura) se ne difende evitando il confronto. Chi invece sceglie di lasciarsi attraversare dalle esperienze sa di poter contare su un forte senso di sé.

Quando, vent’anni fa, da Rovellasca una studentessa iscritta alla facoltà di lingue è partita per un kibùz con l’intenzione di toccare con mano questa forma di socialismo realizzato, e con l’esigenza di parlare l’inglese in un posto dove non ci fossero troppi italiani, non sospettava che questa esperienza l’avrebbe portata a sentirsi a casa propria in quella terra, avara di pioggia e di pace. Che l’avrebbe trasformata fino a questo punto. Non immaginava certo che i suoi figli avrebbero dormito in un edificio insieme a tanti altri bambini, e non nella sua casa, e che sarebbe scoppiata una guerra che avrebbe costretto lei, il marito Avnèr e i bambini a indossare maschere antigas ogni volta che fosse suonato l’allarme. Una guerra che noi abbiamo seguìto alla televisione dalla poltrona del nostro salotto, troppo vaccinati dalla pioggia continua di immagini per riuscire a immaginarci davvero cosa succedeva nelle case e nelle strade.

Eppure ora Alessandra non riesce a fare a meno della vivacità culturale israeliana, delle radio accese a tutte le ore del giorno, dei commenti a caldo su ogni evento sociale, politico, della vicina di casa che ogni settimana legge un romanzo e poi ne discute con lei. Mentre da noi per le elezioni ormai la partecipazione è scarsa, il dibattito langue, pochi sono davvero interessati. E i lettori non abbondano.

Ma se pensa all’Italia, c’è qualcosa di cui sente particolarmente la mancanza: il verde del paesaggio mosso della sua infanzia, il verde bagnato, spesso e volentieri, dalla pioggia. E quando è in Italia e piove, non usa l’ombrello ma esce e non si ripara, lasciando che i ricordi la riportino indietro, a quando ancora apparteneva solo a queste colline.

È sera quando riprendo il vialetto in mezzo all’erba alla volta di casa. Katka e Alessandra, davanti alla porta, mi salutano, lo sguardo sereno, in pace con il mondo. E il cielo, nero di nuvole, promette un acquazzone.

 

Testo dell’intervista

Come è successo che dalla Brianza ti sei ritrovata in Israele?

Io sono andata in kibuz perché volevo migliorare l’inglese, ero stata un anno in Inghilterra ma non era servito perché abitavo con italiani. Poi negli anni settanta c’era il mito del socialismo, mi incuriosivano, e così sono partita. All’inizio avevo un atteggiamento molto aperto e molto positivo perché era una cosa nuova. Come quando sei turista, e vedi le cose dal di fuori, non conosci in realtà le magagne che stanno sotto questa patina di allegria, di cosa bella, che funziona. E mi ero trovata molto bene in quei sette mesi e ho conosciuto anche Avnér [suo attuale marito NdR]. Poi sono rientrata in Italia perché ero iscritta a lingue. Ma, grazie alla nostalgia, sono tornata a trovare Avnér e lui mi ha convinto a iscrivermi a un ulpan [scuola di ebraico per immigrati NdR], l’ho finito, e dopo un anno abbiamo deciso di sposarci.

Ti piaceva il lavoro che facevi in kibuz?

No, ecco quella è sempre stata una fonte di grande frustrazione per me perché in realtà in kibuz soprattutto una donna non può trovare un lavoro appagante. Io sono arrivata nel kibuz della Hashomer azair [quelli con le idee più radicali, perché esistono anche quelli di Ihùd meuhàd (di sinistra ma moderati), e quelli religiosi. I miei figli sono cresciuti nella inàm huté, vivevano in comune, dormivano in comune, non li ho allevati io, e c’era ancora il sidùr avodà, l’ufficio dove ogni giorno ti dicono dove lavorerai il giorno dopo. Bisognava accettare quello che dicevano di fare e all’inizio mi mettevano sempre in cucina. Se no le donne le facevano lavorare coi bambini…

Ma allora non era poi tanto di sinistra…

Era una sinistra stalineggiante, c’erano schemi mentali rigidi, c’era un’imposizione dall’alto. C’era sì il principio della rotazione, però (adesso sto pensando in ebraico sto facendo fatica a tradurre contemporaneamente) chi aveva questo ruolo di persona che deve assegnare i lavori automaticamente assegnava questo tipo di lavoro a una donna perché ormai era così da anni, le cose si erano sedimentate. Quello non mi è mai piaciuto. Anche oggi penso: oddio, è difficile trovare una donna che si senta realizzata in kibuz perché oggi c’è molta più libertà poi oggi si può uscire a lavorare, puoi cercare lavoro fuori. Invece quando io sono arrivata in kibuz era una cosa assolutamente inaudita. Ci sono arrivati per necessità, perché ormai più non riuscivano a mantenere un sistema in cui la maggior parte della gente lavora nei servizi e non è produttiva. Si erano molto indebitati a causa della politica del governo Netanyahu, hanno avuto bisogno di soldi, e molti “compagni” (haverim) sono andati a lavorare fuori.

Da quanto tempo i vostri figli vivono con voi?

Quando è scoppiata la guerra del Golfo in molti kibuz si era già passati a tenere i bambini a dormire in casa, Anche perché le case non erano costruite in modo che si potesse ospitarli. Di solito erano bilocali, non c’era la camera dei bambini, se ne avevi due o tre facevi fatica a vivere. Quando però è scoppiata la guerra e di notte c’erano le sirene dovevi svegliarti e mettere le maschere non si poteva gestire una situazione del genere e i bambini stavano coi genitori. Dopodiché i genitori non hanno più voluto riportarli, così il kibuz si è indebitato ancora di più perché è stato necessario ingrandire le case. È una situazione che può essere proiettata su tutti i kibuz della Hashomer azair. L’ultimo che è passato al Linah mishpahtit è Bar Am che è il kibuz più radicale che è proprio uno dei kibuz che ospita i garim degli italiani quando finiscono la tinuah e dovrebbero fare la shammah, cioè fare l’alyah e l’immigrazione è uno dei kibuz in cui arrivano, Bar Am.

Quando hai deciso di non lavorare più in kibuz, sei venuta in Italia per alcuni anni, poi sei tornata a vivere in Israele e da allora fai la traduttrice. Stai meglio quando soggiorni in Italia o quando sei in Israele?

Più vado avanti e più cerco di crearmi un equilibrio tra Italia e Israele in modo da raggiungere anche una tranquillità interiore mia perché per anni non l’ho avuta. Era come vivere in due mondi. Quando ero là avevo nostalgia dell’Italia, quando sono qui so che devo tornare, ho nostalgia, non è facile insomma. Anche perché sono da sola in questa cosa, cioè mio marito ha sempre dato per scontato che io dovessi sentirmi israeliana fin dall’inizio. Ho sentito che non mi ha mai appoggiata: non sapeva come aiutarmi per rimarginare questa mia ferita che si è aperta quando sono andata in Israele e ho deciso di stabilirmi lì. Adesso a poco a poco invece…

Pensi di riuscire a farla rimarginare?

Certo sì, io ne sono convinta. Oggigiorno sì.

Però in qualche modo stando sempre a cavallo tra Italia e Israele…

Sì, sì sì, io non potrò mai decidere solo Italia o solo Israele.

Sei condannata al pendolarismo…

Alla schizofrenia, se vuoi, perché è vero, è così, non trovo un altro modo per definirlo.

Molti sostengono che i traduttori sono schizofrenici. A te che hai due patrie essere traduttrice serve a unire queste due anime, a mediare tra queste due realtà?

È proprio così. Questa mia ferita ha cominciato a rimarginarsi quando ho cominciato a fare questo lavoro, perché è la creazione di una sorta di ponte. Trasmettere quello che ho imparato in questi vent’anni di soggiorno in Israele, trasmettere ai lettori italiani che decidono di leggere questi libri di Yehoshua, di autori israeliani. Credo di riuscire a farlo anche bene perché conosco così a fondo la società israeliana contemporanea e le sfumature del linguaggio, le espressioni gergali, la mentalità del posto…

Molto meglio di un traduttore che sta in Italia.

Forse sì. Magari ho delle lacune dal punto di vista dell’italiano quotidiano, ma garantisco una comprensione totale del testo, una fedeltà assoluta a quello che l’autore vuole trasmettere.

Quando parli di fedeltà intendi al significato. E lo stile?

Ogni autore, ogni libro è un’impresa diversa. Io cerco di adeguarmi più possibile allo stile del libro. Non so se riesco sempre a farlo.

Gli interventi dei redattori certe volte non rischiano di appiattire le peculiarità stilistiche di un autore che tu hai cercato di trasmettere?

Grossman è un cultore della lingua, usa moltissimo i giochi di parole, il libro che ho tradotto, benché sia bello anche in Italiano, perde moltissimo, perché io non sono riuscita a tradurre tutti i giochi di parole che sono parte fondamentale del testo ebraico.

Hai fatto a Grossman delle proposte su possibili giochi di parole in italiano?

L’ho fatto con lui e con l’editor in Italia. Per esempio: imahut, che vuol dire maternità, se li scomponi, in ebraico, può diventare imahut che significa letteralmente «mancanza di essenza», e questo Grossman lo scrive. Questo siamo riusciti a renderlo. Però c’erano dei giochi di parole molto complessi e molto belli in ebraico che proprio non sono riuscita a rendere. Io ho detto a David: «Qui non ce la faccio, qui devo ammettere i miei limiti». Il libro che ho tradotto di Yehoshua, Viaggio alla fine del millennio, aveva uno stile aulico, perché lui voleva ricreare la lingua del passato in cui si esprime il narratore. E fin qui sono riuscita, più o meno, penso, a inquadrarlo. Poi però ci sono stili spregiudicati di autori moderni, molto più colloquiali, e non sempre è facile per un traduttore, perché deve fare dei salti mortali.

Ti è mai capitato di tradurre un’opera che inizialmente non ti piaceva o con la quale non ti sentivi in sintonia e che problemi ti ha causato?

Proprio questo, il libro di Grossman, che è uno scavare  nell’anima, nella psiche di qualcuno. Tu sia per me il coltello, già il titolo stesso lo dice, e io sono una persona abbastanza pratica, pragmatica, così, facevo molta fatica. L’ho superato grazie a lui, a David. Ci siamo incontrati e gli ho fatto capire che non era il mio testo preferito, e lui mi ha aiutato, mi ha presa per mano e, frase per frase, mi ha fatto capire e l’ho apprezzato e alla fine sono arrivata ad amare questo libro. Però ho subìto un processo di trasformazione durante questa traduzione. Un regista della Televisione della Svizzera Italiana ha fatto un’intervista a Grossman: lui diceva che quando legge un libro, vuole esserne sconvolto, vuole, dopo avere letto l’ultima pagina, non sentirsi più com’era alla prima. Devo dire che traducendo questo libro mi è successa la stessa cosa. Ed era molto bello sapere che anche lui vuole che succeda una cosa del genere, sapere che l’ha fatto con me.

Che effetto ti fa essere a contatto quotidiano con personalità della letteratura mondiale come Yehoshua e Grossman?

Per me è talmente normale. Tra l’altro la cosa bella in Israele è che è un paese molto informale, ci si dà del tu, tutti quanti, perché non esiste la forma di cortesia, quindi già il rapporto è molto più immediato con quelle persone, poi li chiami per nome, non li chiami «signor». Yehoshua per esempio lo chiamiamo tutti «Buli», anche i miei figli, la moglie e gli amici lo chiamano Buli, e per noi è Buli. So che sono personalità, ma per me prima di tutto sono amici.

Non riesci a guardarti dall’esterno?

No, assolutamente, anche perché penso che mi spaventerei: non è possibile che una cosa del genere stia succedendo proprio a me. Chi sono io in fin dei conti? La voglio considerare una cosa normale. Anche ieri ho telefonato a casa e Avnèr mi ha detto «Ha telefonato Buli, ti cercava». Buli è Alef Bet [Avraham Buli NdR] Yehoshua, niente, voleva solo un’informazione, non sapeva come compilare un modulo: per me è una cosa normale.

Vivi in Israele da quasi vent’anni e pensi e sogni in ebraico, e ora mentre conversiamo sei costretta a tradurre in italiano ciò che mi dici. Che effetto ti fa che la tua lingua madre sia una lingua straniera?

Non ci ho mai pensato. Sì, è strano. Quando torno in Italia fatico un po’ a trovare le parole. Oppure quando parlo di argomenti israeliani devo tradurre, altrimenti non ho nessun problema.

Ai tuoi figli, da neonati, parlavi ebraico?

Sì. Tale era il mio entusiasmo viscerale per Israele, che ho imparato canzoncine o filastrocche in ebraico per insegnarle ai miei figli.

Leggi letteratura italiana? Puoi farmi qualche nome di autori che ti piace rileggere?

Gadda. Morante. Leopardi. Pascoli. Poi mi piace molto la letteratura americana. Per esempio Robert Frost. E la letteratura inglese classica: Blake, Tennyson, D. H. Lawrence, Joyce. Tra i poeti israeliani Natan Zach.

Cosa ti piace trovare in Italia?

Il paesaggio. In Israele c’è troppa aridità. Il paesaggio della mia infanzia è costellato di colline, montagne, pioggia. Credo che faccia bene all’anima.

Cosa ti manca di più di Israele in Italia?

Il dinamismo culturale. La partecipazione che senti, il coinvolgimento in qualsiasi avvenimento del paese. Per esempio, le elezioni qui in Italia le vivo come una cosa distante, in Israele vivi la vita del paese, politica, sociale. È una vita molto intensa. È un posto molto piccolo e sai sempre cosa succede, l’attualità che rimbalza sempre alla radio, molti hanno sempre la radio accesa. Non puoi isolarti nel contesto della tua famiglia, non ti è permesso. Le contraddizioni vissute giorno per giorno ti fanno sentire più viva. Alef Bet Yehoshua sostiene che in Israele c’è un buco culturale, che non ci sono riviste letterarie, però io non la sento così. Per esempio, la mia vicina di casa ogni settimana compra un libro e se lo legge. Discutiamo spesso. La narrativa è molto diffusa. C’è una notevole proliferazione di giovani autori, ci sono dibattiti alla televisione, è molto più sentita che in Italia, simposi, inserti letterari nei giornali. Si legge molto in Israele. Anche l’immigrazione russa ha innalzato il livello culturale della società israeliana. In dieci anni si sono verificati cambiamenti, Israele è in continua ebollizione, ed è molto bello. È un paese molto vivo.

È paragonabile alla società statunitense all’inizio del secolo?

Forse sì. Effettivamente.

Ti fa piacere vedere che i libri che traduci hanno successo?

Sono timidissima. Mi imbarazza moltissimo. Mi fa piacere per l’autore, ma se potessi cancellare il mio nome dal frontespizio lo farei. Traduco perché mi piace, perché mi appassiona. Poi consegno la traduzione e lascio che viva la sua vita. Mi fa piacere per  David o per Buli se loro vendono e sono riconosciuti e il libro è apprezzato, però io non ne voglio sapere.

Le tue traduzioni non sono tuoi figli?

Sì, ma figli miei, non di qualcun altro. Non voglio metterli in mostra, non mi piace. Io li nasconderei.

Ti dà fastidio quando i redattori ci mettono mano?

Quando l’intervento è eccessivo, sì. Ma ho un ottimo rapporto con i redattori, perciò quando su una modifica non sono d’accordo, lo dico.

Da cosa ha origine la scelta di usare il tuo nome da sposata?

È un fatto pratico. In Israele le donne sposate perdono il cognome precedente, che viene proprio cancellato. Si rimane solo col cognome del marito. Perciò in Israele nessuno conosce il mio nome da ragazza. Sono arrivata in Israele già sposata, e tutti mi hanno conosciuta esclusivamente come Shomroni.

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