Hermans: produzione e riproduzione della traduzione

Hermans: produzione e riproduzione della traduzione

Valeria Tunesi

 Fondazione Milano

Milano Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

Relatore: professor Bruno OSIMO

Diploma in Mediazione linguistica

Dicembre 2012

© Theo Hermans, «Produzione e riproduzione della traduzione», 2002

© Valeria Tunesi per l’edizione italiana 2012

Hermans: produzione e riproduzione della traduzione

 

 

Abstract italiano:

Qui si analizza l’articolo The production and reproduction of translation di Theo Hermans nella versione italiana. L’autore parte da un problema molto comune quando ci si trova ad affrontare testi tradotti, ovvero come mai ci si sente autorizzati a contestare alcune scelte compiute dal traduttore. Nell’articolo si analizza il problema tramite i concetti di norma e comunicazione per giungere poi alla teoria sistemica di Luhmann e fornire l’adeguata spiegazione teorica a un problema di natura pratica. L’esempio finale mira ad applicare i concetti illustrati da una prospettiva storica.

 

English abstract:

Here I’m going to analyze the Italian version of the article The production and reproduction of translation by Theo Hermans. The author begins with a very common problem regarding translated texts, i. e. why we feel authorized to question some of the choices the translator has made. This article analyzes the problem through the concepts of norm and communication and introduces Luhmann’s system theory, in order to provide and adequate theoretical explanation to a practical problem. The final example aims to apply these concepts from a historical perspective.

 

Samenvatting:

Hier wordt de Italiaanse versie van het artikel The production and reproduction of translation van Theo Hermans geanaliseerd. De auteur gaat uit van een vaak voorkomend probleem bij vertaalde teksten, ofwel hoe komt het dat men zichzelf het recht geeft om bepaalde vertalingskeuzes van de vertaler in twijfel te trekken. In het artikel wordt dit probleem geanaliseerd met behulp van norm- en communicatiebegrippen, om dan verder in te gaan op de systematische theorie van Luhmann en er wordt een theoretische uitleg gegeven voor een praktisch probleem. Tot slot volgt er een voorbeeld dat de betreffende concepten toepast vanuit een historisch perspectief.

 

Sommario:

 

  1. Prefazione
  2. Traduzione

 

1. Prefazione

 

1.1La presente tesi ha come oggetto la traduzione dell’articolo The producion and reproduction of translation (Produzione e riproduzione della traduzione). L’articolo è stato scritto da Theo Hermans nel 2002 per il libro Translations: (Re) shaping of Literature and Culture (curato da Saliha Parker, Bogaziçi University Press, Istanbul, 2002).

 

Theo Hermans è docente di Nederlandese e Letteratura Comparata all’University College of London e nella sua carriera si è occupato più volte dello studio e dell’analisi della traduzione, con numerose pubblicazioni, lezioni e articoli redatti in varie lingue, inglese e nederlandese soprattutto. L’articolo tradotto in questa tesi fa parte di una serie di saggi che vogliono sfidare l’idea delle traduzioni come prodotto derivato di poca importanza letteraria o culturale. Per raggiungere questo scopo, vengono selezionati e presentati una serie di concetti nati dal moderno studio della traduzione e applicati a un contesto storico, per dimostrare la validità di tali idee e la forza delle traduzioni e delle scelte traduttive come un importante mezzo per studiare e comprendere contesti storici e culturali passati.

 

Hermans approccia il problema tramite tre diverse fasi. In primo luogo presenta un problema comune quando si ha a che fare con testi tradotti di qualunque tipo, da romanzi a testi tecnici, ovvero perché ci si sente autorizzati a criticare una scelta traduttiva. L’autore, dunque, si sposta dal piano pratico a quello teorico presentando il concetto di «aspettativa normativa» o «norma», che nel caso della traduzione non è un semplice legame di causa-effetto, bensì l’interazione tra gli individui che devono comunicare tramite la traduzione e, quindi, coordinarsi dal punto di vista del contatto interpersonale, tempo e spazio. Le norme servono a sottolineare che, per ogni situazione, c’è una gamma di opzioni disponibili, dove il traduttore ha cercato e trovato la parola di cui aveva bisogno e alla quale ci si rifà quando si critica questa scelta traduttiva.

 

Prima di approdare alla teoria sistemica di Luhmann, Hermans si sofferma ulteriormente sul significato della traduzione come «comunicazione» e sull’importanza, spesso trascurata, che anche la scelta del testo stesso, quello che poi viene tradotto, è suggerita da una serie di situazioni e decisioni, che si concludono con la scelta di quel determinato testo rispetto ad altri. La traduzione, secondo Hermans, è un sistema composto da comunicazioni e affermazioni riguardo la traduzione: è un sistema che si auto-riproduce all’infinito e non esiste per sé, ma si lega ad altri sistemi e ad altri interessi.

L’esempio storico conclusivo scelto da Hermans è la traduzione dal latino di Consolazione della filosofia di Boezio da parte del prete fiammingo Adrianus de Buck. Il lavoro di de Buck si inserisce in un contesto complesso e allo stesso tempo delicato, che spiega le scelte, talvolta bizzarre, compiute dal prete, che hanno poi influenzato i successivi lavori di traduzione di quell’area culturale.

 

1.2  Di seguito l’analisi dei problemi di traduzione più significativi riscontrati.

 

  • · Various other scholars, mostly in Germany and in the Low Countries, have used Luhmann’s concepts and terminology.

 

In questa frase la difficoltà è dovuta alla traduzione della parola Low Countries, perché indica una realtà storica che attualmente non esiste più. Partiamo dalla definizione:

 

Territorio di estensione variabile, posto nell’Europa nordoccidentale tra le Ardenne e il mare, e che per più di tre secoli coincise con le diciassette province:vi appartennero, per periodi più o meno brevi, anche il Lussemburgo, la Francia settentrionale (Artois, Fiandra, Hainaut) e alcuni territori renani (Colonia) o bassotedeschi (Münster).

(Atlante Enciclopedico Touring, Storia moderna e contemporanea, 1990)

Vediamo quindi che la traduzione letterale, ovvero «Paesi Bassi», non solo è riduttiva, ma anche errata, così come «Paesi Bassi storici» non è di immediata comprensione. «Low Countries» («Lage Landen» in nederlandese) indica un territorio che storicamente corrispondeva agli attuali Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, più alcune regioni francesi e tedesche. In assenza di un termine che definisca questa unità territoriale in modo immediato e senza utilizzare descrizioni eccessive, ho scelto di tradurre «Low Countries» con «Benelux».

Nonostante il contesto storico tra le due entità sia ben diverso, la delimitazione geografica di «Benelux» è quella che più si avvicina al concetto di «Low Countries». Questo concetto, inoltre, viene presentato nell’introduzione dell’articolo, al di fuori dell’esempio storico conclusivo: la mancanza di una precisa indicazione temporale e la complessità della definizione di «Low Countries» rende piuttosto difficile la comprensione. L’autore ha probabilmente voluto introdurre presto questo concetto per poi rifarsi all’esempio storico successivo, ambientato proprio nel Seicento, quando i «Low Countries» erano una realtà.

 

La frase in italiano risulterà:

  • · Numerosi altri studiosi, la maggior parte in Germania e Benelux, hanno utilizzato i concetti e la terminologia di Luhmann.

 

 

  • · De Buck’s translation appeared in Bruges, i.e., in the Southern Netherlands then still under Catholic Spanish rule. The mainly Protestant (more particular, Calvinist) Northern Netherlands had, after a prolonged war with Spain, become an independent and astonishingly prosperous republic. Spain formally recognized the Dutch Republic as an independent state in 1648.

 

Di nuovo ci vengono introdotte entità territoriali storiche non più esistenti. La differenza dal passaggio precedente è che, però, qui l’autore sta illustrando l’esempio storico a cui aveva accennato in precedenza e fornisce numerosi riferimenti temporali (poco prima ha infatti citato l’anno preciso della pubblicazione del lavoro di De Buck, il 1653). Ci troviamo, quindi, davanti a un contesto in cui i riferimenti storici sono ben chiariti oltre a parlare di entità più note dei precedenti «Low Countries».

 

Ho scelto quindi di mantenere le traduzioni letterali per «Southern Netherlands» (Paesi Bassi meridionali) e «Northern Netherlands» (Paesi Bassi settentrionali): i primi corrispondono a gran parte del Belgio moderno e al Lussemburgo, mentre gli altri corrispondono agli attuali Paesi Bassi. «Northern Netherlands» in questo contesto storico corrisponde inoltre a«Dutch Republic», «Province Unite»: ho però deciso di mantenere Paesi Bassi settentrionali in tutto il testo del testo per rispecchiare la voluta contraddizione tra Nord e Sud che l’autore sottolinea in tutto l’esempio.

La frase in italiano risulterà:

 

  • La traduzione di de Buck venne pubblicata a Brugge, ovvero nei Paesi Bassi meridionali quando ancora erano dominati dagli spagnoli, cattolici. I Paesi Bassi settentrionali, per lo più protestanti (calvinisti, per essere precisi) erano diventati una ricca repubblica indipendente, dopo una lunga guerra contro la Spagna, che riconobbe l’indipendenza della Repubblica delle Sette Province Unite nel 1648.

 

 

ñ . Its only durability and stability, as a concept and a practice, comes from its constant autopoiesis as a system.

 

Così come all’inizio del paragrafo avevamo incontrato l’aggettivo «autopoietic», qui ci viene riproposto in forma sostantivata, «autopoiesis». La parola, che in italiano è resa semplicemente con «autopoiesi», si è rivelata particolarmente difficile da contestualizzare, poiché definizioni di questo concetto si trovano in numerose discipline.

Consultando numerosi dizionari monolingua di italiano, le uniche informazioni che ho ottenuto sono state l’origine della parola e una definizione scarna:

 

Autopoiesi

n.f. invar. capacità di un sistema di autoriprodursi, conservando invariate le sue caratteristiche 
Comp. di αὐτo- (auto-) e ποίησις (poiesis, produzione).

(Treccani, dizionario della lingua italiana, 2010)

 

Questa definizione non è però sufficiente per capire come mai Luhmann stesso aveva fatto uso di questo termine nella sua teoria sistemica. È stata utile invece la consultazione di un dizionario tecnico:

 

Autopoièsi [Comp. di auto- e poiesi] La capacità di riprodurre sé stessi che caratterizza i sistemi viventi in quanto dotati di un particolare tipo di organizzazione, i cui elementi sono collegati tra loro mediante una rete di processi di produzione, atta a ricostruire gli elementi stessi e, soprattutto, a conservare invariata l’organizzazione del sistema (spec. di fronte a mutamenti che possono intervenire nello spazio fisico in cui esso opera). ◆ Più in generale, il termine è riferito a ogni sistema la cui organizzazione si riproduce in forma invariata e in modo essenzialmente indipendente dalle modificazioni dello spazio fisico in cui esso opera.

(Treccani, dizionario tecnico, 2012)

Inoltre:

Autopoiesi è un termine coniato intorno al 1972 dai biologi cileni Humberto Maturana e Francisco Varela, unendo le parole greche auto- (se stesso) e poiesis (creazione, produzione).Un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente sé stesso ed al proprio interno si sostiene e si riproduce. Maturana e Varela sono i primi a riconoscere l’autorganizzazione quale discriminante tra vivente e non vivente.

(Louis W. Sander, Pensare differentemente. Per una concettualizzazione dei processi di base dei sistemi viventi. La specificità del riconoscimento, 2005)

Hermans vuole sottolineare che la scelta di Luhmann del termine «autopoiesi» non è solo dettata dalla volontà di indicare la traduzione come un sistema che contiene in sé gli elementi necessari per la sua auto-riproduzione, ma che la traduzione è un sistema vivente, in continuo movimento, e non qualcosa di immobile, passivo.

 

2. Traduzione

Production and reproduction of translation

Introduction

 

Imagine that we are happily reading a translation, let’s say a translated novel, and suddenly we stumble upon a real howler, a glaring anomaly, something irreconcilable with our idea – our expectation – of what a translated text should be, of what constitutes a ‘proper translation’? What do we do?

The least likely response is one of relaxed acceptance, of the kind ‘Oh well, this must be another way of doing it, one I had never considered as coming within the purview of translation, but there you are.’ No, the common response is that, having looked twice to make sure we are not dealing with a printing error, we grow indignant. We say: ‘Wrong!’, ‘Incompetent!’, ‘Unacceptable!’. We say: ‘Do they call this translation?’ – meaning: I don’t, therefore it isn’t, and everyone who knows anything about translation is bound to agree with me – which makes it very hard for any self-respecting witness to disagree. And if the fancy takes us we set to work on the text with a red pencil, or write to the publisher, or phone the translation agency. In doing so we are emphatically upholding and reaffirming our idea of ‘translation’, what it is, and what in our view it evidently is not. At the same time we appeal

to a publicly recognized and acknowledged category, both a concept and a practice, to which, in our view, this translation must be made to correspond if it is to be accepted as a valid translation.

Consider our starting point again. How to respond when our expectations are disappointed by a flagrant transgression?

 

 

Produzione e riproduzione della traduzione

Introduzione

Immaginiamo di essere felicemente intenti a leggere una traduzione, un romanzo tradotto per esempio, e di inciampare all’improvviso in un vero strafalcione, una lampante e inaccettabile anomalia, qualcosa di completamente inconciliabile con la nostra idea, con la nostra aspettativa, di ciò che dovrebbe essere un testo tradotto o di ciò che costituisce una «traduzione vera e propria». Cosa facciamo?
Potemmo essere tranquilli a riguardo e dire «Oh bé, dev’essere un altro modo di tradurlo, un modo che non avevo mai pensato fosse accettabile in una traduzione, ma eccolo qui». Come tutti noi sappiamo, una risposta del genere è improbabile. Al contrario, la reazione comune è, dopo aver letto due volte per accertarsi di non aver a che fare con un errore di stampa, uno scoppio di indignazione e condanna. Diciamo «Che errore!», «Inaccettabile!», «Stupido!». Diciamo: «E la chiamano traduzione, questa?» intendendo: io no, perciò non lo è, e chiunque sappia qualcosa di traduzione sarà d’accordo con me (il che tronca sul nascere le obiezioni di un qualsiasi testimone con un minimo di amor proprio). E se ci gira ci mettiamo a lavorare sul testo con una penna rossa, o scriviamo all’editore, o chiamiamo l’agenzia di traduzione. E così facendo stiamo sostenendo e riaffermando in modo energico la nostra idea di «traduzione», cos’è, cosa dal nostro punto di vista chiaramente non è e, nel contempo, ci appelliamo a una categoria pubblicamente riconosciuta, in teoria che una pratica, a cui questa traduzione in particolare deve adeguarsi perché essa sia accettata come valida.

Riprendiamo in considerazione il nostro punto di partenza. La domanda era: come si affronta un’anomalia lampante?

Broadly speaking we have a choice between two alternatives: we can be flexible, and adjust our mental picture of the world to the empirical reality we observe; or we can keep our world view intact by dismissing the anomaly or by correcting it (that is, undoing it) in one way or another.

In the first case we may be said to adopt a learning attitude. This means it is we who change, in that we seek to incorporate the new experience into our world picture by adjusting the picture so as to accommodate the new reality. In this case we adjust our expectations

about the world and the range of likely occurrences in it to the possibility of another occurrence like the apparently anomalous one we just observed. In our example this would mean accepting the apparent breach as a possible alternative way of translating.  By adjusting our expectation we build in the possibility that we may encounter similar cases in the future.

In the second case we refuse to let our experience affect our idea of the nature of things. Having censured the anomalous fact, we either erase it or force it back into line with our mental picture. At best we let it pass, this once, and hope it will not happen again. This

allows us to stick to our existing beliefs and to carry on as we were, despite the occurrence of an incongruous fact, which, we decide, should not have happened in the first place.

The first attitude, the adaptive, learning one, is a matter of having cognitive expectations. This is an attitude which will try to build and amend and forever rebuild hypotheses about the world. If our mental scheme of things falls out with the world, we adjust the scheme. This mode of  expectation tends towards the world of science. Science seeks to understand the world as it is, and remains prepared to redesign its models of the world. The other attitude, which is unwilling to learn, corresponds to a normative expectation. It provides more peace of mind to the individual because it is more stable. It is ‘counterfactually stable’ in that disappointments, anomalous occurrences, even flagrant breaches do not really upset it. It carries on regardless.

 

In linea di massima, possiamo affermare che la scelta ricade tra due alternative: essere flessibili e adattare la nostra immagine mentale del mondo alla realtà empirica che osserviamo, oppure mantenere intatta la nostra concezione del mondo, accantonando l’anomalia o correggendola, per esempio annullandola in un modo o nell’altro.
Nel primo caso assumiamo un atteggiamento teso all’apprendimento. Cerchiamo di incorporare la nuova esperienza nella nostra immagine del mondo modificandola così che si adatti alla nuova realtà. Così facendo, cambiamo noi, adattiamo le nostre aspettative sul mondo e la gamma di possibili occorrenze all’eventualità dell’insorgere di un’occorrenza simile a quella appena osservata. Nel nostro esempio significherebbe accettare l’ovvia anomalia come un modo radicalmente diverso di tradurre. Per quel che riguarda le reazioni alle traduzioni, questo comportamento può essere assunto in alcuni casi, forse nella traduzione di poesie, ma è raro.
Nel secondo caso, non permettiamo che la nostra esperienza influisca sulla nostra idea di «natura delle cose». Dopo aver condannato il fatto anomalo, la nostra linea d’azione si sposterà sul cancellarlo o rimetterlo forzatamente in linea con la nostra immagine mentale. Nella migliore delle ipotesi lasciamo correre e speriamo non si ripresenti più. Questo ci permette di attenerci alle nostre attuali opinioni e andare avanti a essere quelli che siamo, malgrado il fatto incongruente che, decidiamo, in primo luogo non si sarebbe dovuto verificare.

Il primo atteggiamento, quello adattivo, di apprendimento, è questione di avere aspettative cognitive. Questo tipo di comportamento proverà a costruire e rivedere e ricostruire in continuazione ipotesi sul mondo. Adattiamo il nostro schema mentale delle cose, se questo si scontra con il mondo. Questa modalità di aspettativa propende verso il mondo della scienza. L’altro atteggiamento, quello non intenzionato ad apprendere, corrisponde a un’aspettativa normativa. In realtà da più serenità perché è più stabile. È controfattualmente stabile (termine di Luhmann) per il motivo che delusioni, occorrenze anomale, violazioni evidenti non la sconvolgono davvero. Va avanti malgrado tutto.

 

More than that: following disappointment it may emphatically and publicly reaffirm the validity of its model of the world. This mode of expectation leans towards the law, which, as we know, remains intact despite frequent crimes being committed.

In the case of our renegade translation, we condemned the transgression, invoked the law and reached for the rule-book – which we reckoned the translator also knew or should have known, as everyone else connected with the profession does or should do. In

essence, most translation criticism and reviewing, and a good deal of translation teaching, is of this nature, and is necessarily so: in weighing and evaluating, it apportions blame or praise against the background of a shared, known category.

It is in this sense, it seems to me, that we can speak of a social entity called ‘translation’ and a form of behaviour called ‘translating’ with which, give or take a few nuances, we assume we are all familiar with in our own language and culture. This is what allows us, for example, to expect of translators that, as they go about their task, they select certain appropriate options from among an available array of permissible options. The set of permissible options constitutes ‘translation’. The meaning of the term ‘translation’ – or of that term or cluster of terms in another language which, rightly or wrongly, we translate as ‘translation’ – is codified in both monolingual and multilingual dictionaries. There are professional activities called translation, we have organisations representing professional and other kinds of translators, institutes for translator training, and so on. In other words: in our own respective cultures at the present moment, in other contemporary cultures, and in past cultures, we encounter terms which, rightly or wrongly, we interpret as denoting that concept and that activity that we recognize for ourselves as constituting ‘translation’. There is an extraordinary complication built into this idea to which I will return, but let us ignore it for the moment and retain that – again, rightly or wrongly – we assume that, when we use the term ‘translation’ or its counterpart in another language, it indicates a socially recognizable and recognized category, both a known concept and a socially acknowledged practice. The category called ‘translation’, that is, of the production of utterances recognized as communcation of a certain kind (the practice), and of statements about translation (the concept, insofar as it is explicitated).

È più di tutto questo, come ha mostrato il nostro esempio: in seguito alla delusione può riaffermare la sua validità categoricamente e pubblicamente. Questo tipo di modalità di aspettativa propende verso la legge, che, come sappiamo, rimane integra nonostante crimini vengano commessi quotidianamente.

Nel caso della nostra traduzione ribelle, abbiamo condannato la trasgressione, ci siamo appellati alla legge e preso il “libro delle regole” – che pensavamo conoscesse o avrebbe dovuto conoscere anche il traduttore, come chiunque collegato alla professione fa o dovrebbe fare. In sostanza, tutta la critica e la revisione, e l’insegnamento, della traduzione è di questa natura e lo è per forza: soppesando e valutando traduzioni individuali, critici e insegnanti distribuiscono colpe o elogi sullo sfondo della categoria condivisa e riconosciuta.

È in questo senso, quindi, che possiamo parlare di un’entità sociale chiamata «traduzione» e di una forma comportamentale chiamata «tradurre» che noi tutti crediamo di conoscere nella nostra lingua e cultura. E’ per questo che ci aspettiamo dai traduttori, per esempio, quando si mettono al lavoro  che scelgano determinate opzioni appropriate da una gamma di opzioni accettabili. L’insieme di opzioni accettabili costituisce la «traduzione». Il significato del termine «traduzione», o di quel termine o insieme di termini in un’altra lingua che, correttamente o erroneamente, pensiamo traduca «traduzione» è codificato nei dizionari, ci sono attività professionali chiamate traduzione, abbiamo organizzazioni che rappresentano traduttori, istituti per la formazione di traduttori, ecc. In altre parole: attualmente nelle nostre rispettive culture, così come in altre culture contemporanee e passate, ci imbattiamo in termini che -di nuovo: correttamente o erroneamente- interpretiamo come indicatori del concetto e dell’attività che riconosciamo come parti costitutive della «traduzione». C’è un’allarmante complicazione incorporata in quest’idea di «tradurre la traduzione», sia interlinguistica che intralinguistica, ma lasciamola da parte, ci ritornerò solo alla fine dell’articolo. Per il momento mi basta tenere fermo un punto, che quando usiamo il termine «traduzione» o la sua traducente in un’altra lingua ci appelliamo a una categoria socialmente «riconoscibile» e «riconosciuta», sia un concetto che una pratica socialmente noti. La categoria «traduzione», in altre parole, consiste nella produzione di enunciati riconosciuti come comunicazioni di un certo tipo (la pratica) e di affermazioni a proposito della traduzione (il concetto, per quanto è reso esplicito).

The two, production and discourse about it, practice and concept, are held together by the fact that whenever we come across an instance of ‘translation’ (a translated text, an occurrence of the term ‘translation’, a statement about it), we activate a certain disposition, a set of expectations, which we assume others will share. Our expectations may be fulfilled or disappointed on some occasions, and in the latter case we tend – we don’t have to, and we don’t always, but we tend – to respond by branding the offending occurrence as a transgression, thus outlawing it and reaffirming the boundaries of the existing concept and the permissible practices and statements within its sphere.

There is nothing very new in this. However, approaching the matter in this way allows me to stress, firstly, that translation, as a social category, is circumscribed by expectations, which are partly cognitive but also, and even primarily, normative in nature;secondly, that, if we regard translation as consisting not only of the production and circulation of translated texts but also of the exchange of communications about translation, then there is nothing to stop us from speaking of translation in terms of a ‘social system’ – more about this below; thirdly, that our expectations about translation also structure the ‘domain’, the ‘field’, indeed the ‘system’ of translation, in a sense I will also try to explain; and fourthly, that with key operational terms like ‘communication’, ‘system’, ‘expectations’ and a few more that I shall introduce below, we can begin to develop a conceptual and methodological  framework for considering translation as a social and historical phenomenon, a framework which I think is more promising than most existing approaches.

Before I go on, let me make it clear that when I speak of translation as constituting a social system, I have in mind the concept of ‘system’ as it is used by the German sociologist Niklas Luhmann. Luhmann himself applied systems theory to every subject under the sun, including education, religion, politics, law and justice, love, ecological discourse, contemporary art and art history, science, everything except translation. Other researchers, in Germany and in the Low Countries, have used Luhmann’s concepts and terminology as tools to approach literature and various other fields (see, for instance, De Berg 1995 for a general account and a bibliography).

I due, concetto e pratica, sono legati tra di loro dal fatto che ogni volta che ci imbattiamo in un esempio di «traduzione» (un testo tradotto, un’occorrenza del termine «traduzione», un’affermazione in proposito), attiviamo una certa disposizione, certe aspettative, che supponiamo gli altri condividano. Queste aspettative possono, poi, essere soddisfatte o deluse e in quest’ultimo caso tendiamo (non dobbiamo, e non sempre, ma tendiamo) a reagire bollando l’occorrenza colpevole come trasgressione e, così facendo, riaffermiamo i confini del concetto pre-esistente di traduzione e le pratiche e le affermazioni ammesse nel suo ambito.

Non c’è niente di nuovo in questo. Quello che voglio sottolineare, comunque, è, in primo luogo, che la traduzione, come categoria sociale, è limitata dalle aspettative di tipo cognitivo, ma anche, addirittura in modo prevalente, da quelle di tipo normativo. In secondo luogo che, se consideriamo la traduzione  non solo come produzione e circolazione di testi tradotti ma anche scambio di comunicazioni riguardo la traduzione stessa, allora niente ci impedisce di parlare della traduzione in termini di un “sistema” (approfondirò questo tema più avanti). In terzo luogo che le nostre aspettative a proposito della traduzione compongono la struttura del «dominio», del «campo», del «sistema» della traduzione, in un modo che cercherò di spiegare anch’esso più avanti. E infine che, con termini chiave come «comunicazione», «sistemi», «aspettative» e un paio di altri che devo ancora introdurre, possiamo iniziare a sviluppare una cornice metodologica per lo studio della traduzione in quanto fenomeno sociale e storico, una cornice che credo sia più promettente della gran parte degli approcci esistenti.

Prima di andare avanti, permettetemi di fare ora una precisazione per puntualizzare che quando parlo di traduzione in quanto parte integrante di un sistema, un sistema sociale, mi riferisco  al concetto di sistema così come viene usato da Niklas Luhmann, sociologo tedesco contemporaneo. Lo stesso Luhmann ha applicato la teoria moderna dei sistemi a qualsiasi argomento esistente, inclusi istruzione, religione, politica, legge, amore, dissertazioni sull’ecologia, arte contemporanea e storia dell’arte, scienza, tutto tranne la traduzione. Diversi altri studiosi, la maggior parte in Germania e nel Benelux, hanno utilizzato i concetti e la terminologia di Luhmann come strumenti per affrontare letteratura, storia dell’arte e altri campi ( per un resoconto generale e un indice bibliografico, De Berg 1995).

To my knowledge, Andreas Poltermann is the only translation scholar to have applied Luhmann’s ideas to issues of translation (Poltermann 1992). It seems to me that, if we want to understand translation in its social and historical context, we could do worse than to explore the ideas of someone like Luhmann. Moreover, an approach along these lines is, I think, perfectly compatible with existing empirical and historicizing approaches such as polysystem theory and the work of  Pierre Bourdieu, and it has some additional features to recommend it.

 

Norms

 

In what follows I should like to do three things. First, I want to return to the issue of normative expectations, since they are important for the social and historical functioning of translation and its relative stability over time. Then I need to explain briefly some aspects of Luhmann’s concept of social systems and indicate its relevance for the study of translation. Finally I will take up a single example, in an attempt to demonstrate the usefulness and productivity of this approach.

Let me begin by returning to normative expectations, or norms for short. Please bear in mind that, when I speak of a ‘norm’, I do not mean some abstract, static, formal or mechanical rule which relates to the practice of translation as cause to effect, of the type: if this is the feature displayed in a text under study, then that must have been the norm that triggered it. By a ‘norm’  I mean, rather, a particular kind of expectation. The term implies, in the case of translation, structured interaction between individuals, as clients, patrons, producers, consumers, teachers or critics of translation.

A quanto ne so , Adreas Poltermann è l’unico studioso di traduzione ad aver applicato le idee di Luhmann a problemi traduttivi (Poltermann 1992). Mi sembra che, se vogliamo capire la traduzione come fenomeno sociale e storico, dovremmo fare peggio ancora che indagare le idee di qualcuno come Luhmann. Inoltre, un approccio che segue queste direttive, è, penso, perfettamente compatibile con gli approcci empirici, sociologici e storicizzanti  (teoria del polisistema; Bordieu), e ci sono altre caratteristiche a sostegno di questo approccio aggiuntivo per suggerirlo.

 

Norme

 

Nel paragrafo che segue vorrei fare tre cose: prima di tutto, voglio ritornare al problema delle aspettative normative, poiché sono importanti per il funzionamento sociale e storica della traduzione. Poi sarà necessario che spieghi brevemente il concetto Luhmaniano di sistemi sociali  e indichi la sua pertinenza con i nostri scopi. Infine sceglierò un esempio nel tentativo di consigliare l’utilità e la produttività di questo approccio.

Per prima cosa, quindi, torniamo al concetto di aspettative normative, o “norme”, per abbreviare. Tenete a mente, comunque, che quando parlo di “norma” non intendo una regola astratta, statica, formale o meccanica collegata alla pratica della traduzione come la causa all’effetto, del tipo: se questa è la caratteristica che si manifesta nel nostro testo, allora quella dev’essere la norma che l’ha innescata. Piuttosto, quello che intendo con “norma” non è nient’altro che un tipo particolare di aspettativa. Il termine implica, nel caso della traduzione, un’interazione strutturata tra individui, come per esempio clienti, committenti, produttori, consumatori, insegnanti, critici o studenti della traduzione.

My basic assumption in all this is that translation, like other types of language use, is a matter of communication, that is, a form of social behaviour which requires a degree of cooperation among those involved. For communication to take place, the participants need to coordinate their actions to a certain extent. This can be done on the level of immediate interpersonal contact in face-to-face interaction, but it also applies across time and space. Norms, like conventions, arise as answers to interpersonal coordination problems of this kind.

The classic definition of convention (by David Lewis, 1969) hinges on exactly this point. Conventions, as Lewis defines them, imply the expectation, shared by all, that in a given situation one member of the group is likely to do one thing rather than another. The convention thus has a regulatory function. It restricts the number of practically available options in recurrent situations of a given type by offering a particular option as the one known to be preferred by everyone involved.

The main difference between a norm and a convention lies in the modality of the expectation. A convention is a purely probabilistic expectation. Norms tell individual members of a community not just how everyone else reckons they are probably going to behave in a given situation, but how they ought to behave. e. Norms imply that there is, among the range of possible options that present themselves, a particular course of action which isgenerally accepted as ‘proper’, or ‘correct’, or ‘appropriate’. That course of action, it is

agreed, should therefore be adopted by all who find themselves in that type of situation. And each time a norm is observed, its validity is confirmed and reinforced.

It will be obvious that norms can and will be broken. Which norms are observed or boken by whom, where and when, will depend on such things as the nature and the strength of the norm, the kind of sanction that might apply, the individual’s status in a given community and other such factors.

Il mio presupposto di base in tutto questo è che la traduzione, come qualsiasi altro uso della lingua, è una questione di comunicazione, ovvero una forma di comportamento sociale che richiede un livello di interazione, di collaborazione, tra chi viene coinvolto. Perché abbia luogo la comunicazione, i partecipanti devono coordinare le loro azioni, non solo a livello di contatto interpersonale immediato, ma anche attraverso tempo e spazio, se la situazione lo richiede. Le norme, come le convenzioni, nascono come risposte a problemi di coordinazione come questo.

La definizione classica di convenzione (Lewis 1969) si basa esattamente su questo punto: le convenzioni, come definite da Lewis, implicano l’aspettativa, condivisa da tutti, che in una data situazione un membro del gruppo sia più propenso a compiere un’azione rispetto a un’altra. Le convenzioni hanno funzione regolatrice, restringono il numero delle opzioni disponibili nella pratica in situazioni ricorrenti di un certo tipo, offrendo una particolare opzione che viene riconosciuta come la privilegiata da tutti gli interessati.

La differenza principale tra una norma e una convenzione sta nella modalità dell’aspettativa. Le norme indicano all’interno di una comunità come il singolo dovrebbe comportarsi, non solo come chiunque altro pensa si comporterebbe in una data situazione. Le norme implicano che, nella gamma di opzioni che si presentano, c’è una particolare linea di azione, generalmente considerata come «giusta», o «corretta» o «appropriata». Questa linea di azione, su cui ci si trova d’accordo, dovrebbe perciò essere scelta da chiunque si trovi in quel tipo di situazione. E ogni volta che la norma viene osservata, la sua validità viene confermata e rafforzata.

È ovvio che le norme possono essere infrante e qualcuno lo farà di sicuro. Quali vengono osservate o infrante da chi, dove e quando dipenderà da fattori come la natura e la forza della norma, il tipo di sanzione che può essere applicato, lo status dell’individuo in una data comunità e altri motivi del genere.

When, in the 1960s, Louis and Celia Zukofsky rendered Latin poetry into English mimicking the sound of the words and playing down everything else including the meaning of the Latin words, it is relevant to know that this was done in a literary context, that even in that domain it was generally interpreted as a provocative and norm-breaking gesture, and that already at this time Louis Zukofsky was widely recognized as a prominent poet in his own right The newly graduated translator who has just been given a job in the United Nations headquarters in New York and wants to make a career there would be ill-advised to follow the Zukovskys’example.

Norms can be strong or weak, limited or extensive in scope, more or less enduring over time. They take the form of obligations or prohibitions, and exert different kinds of pressure on the choices which individuals make. At the same time, because in an irreversible

temporal sequence no two situations are exactly the same, every instance of compliance ornon-compliance with a norm changes the norm, however slightly. Whether the expectation is fulfilled or disappointed in a given instance, it incorporates that experience and becomes

stronger or weaker. Norms therefore change continually.

Norms are not innate. They are inculcated as part of the process of socialization. Just as learning to speak is learning to speak ‘properly’, in accordance with the linguistic norms of the relevant community (the family, the circle of friends, the school, the workplace), so learning to translate means learning to operate the norms of translation, to operate, that is, with them and within them, anticipating, accommodating, calculating, negotiating the expectations of others concerning the social institution called translation. In the same way readers, too, learn what they can and cannot expect when they pick up a book labelled ‘translation’. On both sides of the equation, in fact on all sides since the production and consumption of translation involves more than two parties, certain expectations are activated, certain bonds and contracts entered into. They may be clearly stated and understood by all concerned, or remain vague and unspoken. The question of who controls whom in this respect depends on power and position. In other words, norms are not independent of local conditions and of the social relations within communities, whether these relations are material (economic, legal, financial) or what Pierre Bourdieu calls ‘symbolic’ and bear on status and legitimacy.

Negli anni Sessanta, Louis e Celia Zukofsky tradussero poesie latine in inglese imitando solo il suono delle parole ed escludendo tutto il resto, compreso il significato delle parole latine: è importante sapere che ciò è stato fatto in un contesto letterario, che è stato generalmente interpretato, persino in quell’ambito, come un gesto provocatorio, per infrangere le norme, che già allora Louis Zukofsky era conosciuto come poeta ecc. Se al traduttore neolaureato, appena assunto alla sede delle Nazioni Unite a New York, venisse suggerito di seguire l’esempio degli Zukofsky per fare carriera, sarebbe un pessimo consiglio.

Le norme possono essere forti o deboli, dalla portata limitata o estesa, più o meno durature nel tempo. Prendono la forma di obblighi o divieti ed esercitano diversi tipi di influenze sulle scelte compiute dagli individui. Allo stesso tempo, poiché in una sequenza temporale irreversibile nessuna situazione è esattamente uguale a un’altra, ogni caso di rispetto o non rispetto di una norma cambia la norma stessa, seppur lievemente. Che l’aspettativa sia confermata o delusa in un dato caso, incorpora quell’esperienza e che la rafforza o la indebolisce. Di conseguenza le norme cambiano continuamente.

Le norme non sono innate, ma insegnate nel processo di socializzazione. Proprio come imparare a parlare è imparare a parlare «correttamente», in conformità con le norme linguistiche di una certa comunità  (la famiglia, il gruppo di amici, la scuola, l’ambiente di lavoro), imparare a tradurre significa dunque imparare ad agire con e all’interno delle norme di traduzione, anticipando, adattando, calcolando, negoziando le aspettative degli altri nei confronti della categoria sociale – l’istituzione- chiamata traduzione. Allo stesso modo i lettori sono sanno cosa possono e non possono aspettarsi quando prendono un libro classificato come «traduzione». A entrambi i lati dell’equazione, in realtà a tutti i lati dato che la produzione e il consumo della traduzione coinvolge più di due parti, certe aspettative vengono attivate, e si entra nel merito di certi vincoli e contratti. Possono essere dichiarati apertamente e compresi da tutti gli interessati, o rimanere vaghi e inespressi. La questione di chi controlli chi dipende dal potere e dalla posizione. Le norme non sono indipendenti dalle condizioni locali, e dalle relazioni sociali tra comunità, siano queste relazioni materiali (economiche, legali, finanziarie) o quelle che Pierre Bourdieu chiama z«simboliche», ovvero relazioni che hanno a che fare con lo status e la legittimità, e con chi conferisce questa legittimità.

Large, complex and differentiated societies accommodate a multiplicity of different, overlapping and often conflicting norms. The translator’s work is inevitably entangled in several of these networks at once, if only because the product of the translator’s labour is never a ‘translation per se’ but a specific kind of translated text, say a translated computer manual, a translated novel or a translated medical record. In each case the translator enters an existing network of discourses and social relations. The translational discourse comes to occupy a place in this network. It is part of the ambivalence of translated texts that they are expected to comply with both the translational and the textual norms regarded as pertinent by a given community in a given domain. If translations manage to do this, as a consequence of the translator having made the requisite choices, they will be deemed‘legitimate’ translations.

Learning to translate correctly, then, means precisely the acquisition of this competence, which consists of the skills required to select and apply the norms that will help to produce legitimate translations, that is, translations socially recognized as legitimate within a certain community and its concept of translation. Furthermore, just as one of the main functions of the educational system is that of transmitting the requisite social skills, expectations and ‘dispositions’ (in Bourdieu’s sense), continually reproducing and reaffirming the community’s dominant values and models in the process, so, in the field of translation, one of the roles of the translator training institute consists in transmitting the skills and dispositions that we associate with professional translating. To do this, the traininginstitute reproduces within itself the social institution called translation, which in turn contributes to the very process of the institutionalization of translation. Let me add immediately that other discourses about translation, including so-called descriptive and historicizing discourses, do very much the same thing, if perhaps more covertly. They all contribute to the ongoing self-reproduction of translation, and to its self-description.

Ovviamente in società grandi, complesse e diversificate coesiste un’ampia varietà di norme differenti, sovrapposte e spesso in conflitto tra loro. È inevitabile che il lavoro del traduttore sia intrecciato in molte di queste reti nello stesso momento, perché il prodotto della sua fatica non è mai una «traduzione per sé», ma la traduzione di un manuale per un computer, di un romanzo, di una cartella clinica ecc. In ogni caso il traduttore entra in una rete di discorsi e relazioni sociali esistenti, il suo discorso traduttivo si pone all’interno o almeno in rapporto a quella rete. Fa parte dell’ambivalenza del testo tradotto che ci si aspetta si attenga sia alle norme traduttive, sia a quelle testuali considerate importanti da una determinata comunità in un determinato campo. Se la traduzione riesce a rispettare questo criterio, perché il traduttore ha compiuto le scelte necessarie, sarà considerata una traduzione «valida».

Imparare a tradurre correttamente, quindi, significa proprio acquisire quella competenza, ovvero le abilità necessarie per scegliere e applicare quelle norme che contribuiscono a produrre traduzioni valide, cioè traduzioni socialmente riconosciute come valide all’interno di una certa comunità e del relativo concetto di traduzione. Inoltre, proprio come una delle funzioni primarie del sistema educativo nel complesso è trasmettere abilità sociali necessarie, aspettative e «disposizioni» (nel senso inteso da Bourdieu), mentre si riproducono e si riaffermano in continuazione valori e modelli dominanti della comunità, nel campo della traduzione uno dei compiti di un istituto per la formazione di traduttori è proprio riprodurre al suo interno la categoria sociale, il sistema sociale chiamato traduzione. Permettetemi subito di aggiungere che altri discorsi riguardo la traduzione, inclusi quelli cosiddetti descrittivi e storicizzanti fanno esattamente lo stesso, forse meno apertamente. Contribuiscono tutti alla continua auto-riproduzione della traduzione e, peraltro, alla sua auto-descrizione.

Communication

 

Terms like ‘self-reproduction’ and ‘self-description’ bring us close to the vocabulary of modern systems theory. In what follows I would like to sketch an approach to translation based on Niklas Luhmann’s theorizing about social systems. It will be a very rough sketch, but I hope to be able to suggest that the approach has research potential.

Systems, in this context, are conceived as composite, adaptive, self-reproducing wholes that have differentiated themselves from what lies outside them, from their environment. Social systems are self-reproducing systems in that they continually produce and reproduce the elements of which they consist. These elements – and this is crucial – are communications, communicative acts. In other words, social systems consist, not of individuals or of groups of people, but of communications, and of specific types of communication. These communications have not only to be produced and processed by means of signs, they also have to be linked and connected in a temporal sequence for the system to continue to exist. There are no social systems without communication, but at the same time communications are momentary, fleeting phenomena, here one moment and gone the next. This explains the need for connectivity, for structures that can endure over time.

Another important point is that Luhmann does not conceive of communication in terms of the transmission of a pre-given message. Rather, meaning is construed by the recipient as a result of recognizing selectivity. What is offered acquires meaning against the background of the possibilities that were available in principle but have been excluded. The element of selection concerns both the utterance, the intentional act of producing a communication, and the information, the referential level of what the communication is about.

Comunicazione

 

Parole come «auto-riproduzione» e «auto-descrizione» ci avvicinano al vocabolario di cui abbiamo bisogno se vogliamo parlare della traduzione in termini di teoria sistemica moderna. Per illustrare questo approccio, devo dare qualche informazione sulla teoria di Luhmann riguardo ai sistemi sociali.

In questa teoria i sistemi sono pensati come un insieme composto, adattivo, che si auto-riproduce: è quello che si trova al di fuori che li rende diversi, il loro ambiente. I sistemi sociali sono sistemi auto-riproduttivi in quanto producono e riproducono continuamente gli elementi di cui sono composti. Questi elementi – ed ecco il punto cruciale – sono comunicazioni, ovvero atti comunicativi. In altre parole, i sistemi sociali non sono composti né da individui, né da gruppi di persone, ma da comunicazioni e da tipi specifici di comunicazioni. Queste non devono solo essere prodotte e trasformate tramite segni (o da quello che il destinatario interpreta come segno), devono anche essere collegate e connesse in sequenza temporale perché il sistema continui ad esistere. Non esistono sistemi sociali senza comunicazione, ma allo stesso tempo le comunicazioni sono fenomeni temporanei, sfuggenti, un attimo sono qui, l’attimo dopo sono scomparse. Questa caratteristica spiega il bisogno di connettività, di strutture che resistano allo scorrere del tempo. Approfondirò questo aspetto più avanti.

Un’altra questione importante è che Luhmann non concepisce la comunicazione in termini di trasmissione di un messaggio dato a priori. Piuttosto, il significato è costruito dal destinatario ed è il risultato di una selezione di ciò che viene riconosciuto: ciò che viene offerto acquisisce significato sullo sfondo delle possibilità disponibili inizialmente, che sono però state poi escluse. La selezione riguarda sia l’affermazione, ovvero l’atto intenzionale (i significati attribuiti, il momento scelto) sia l’informazione, ovvero il livello referenziale (i «temi» e i «dati» evidenziati, cioè quelli selezionati in modo diverso).

Because communication takes place in a certain context and at a certain moment in time, understanding a communication means being alive not only to the difference between utterance and information, but also to the communication’s selective aspects, its negative foil, the difference between what has been included (that is, selected) and what has been excluded (left aside, negated). One Luhmann commentator speaks of the “temporalization of semantics” (De Berg 1993: 50), a useful phrase, especially when we want to engage in historical study.

It follows from this that texts have no fixed meaning in themselves. They are invested with meaning as communications in a selective, differential context. When we look at texts (or other communications) in this way, through their ‘temporalized semantics’, we may be able to glimpse the speaker’s agenda. How likely was this communication in these particular circumstances? Why were this theme, and this mode of transmission, selected at this moment, against which set of potential alternatives? What issue or problem has it chosen to address, and what other issues are being obscured as a result? How did this particular communication  ‘connect’ and how does it, in turn, contribute to the establishment of a new context, a new range of possibilities?

If this is true of texts, it is true also of translations. Their ‘meaning’, their ‘sense’, their ‘point’ as communications does not reside in ‘the words on the page’, decipherable by means of linguistic and other codes in a social or historical vacuum. Nor can it be reduced to some semantic or other relation with a source text. Such reductions ignore the selectivity of communication. It is part of the meaning of a translated text as communication that this and no other foreign-language text was selected from among a range of potential candidates, that it was selected for translation and not for some alternative form of transmission or importation, and that a particular ‘translational mode’ was selected, one particular style of representing the original against the possibility of other available and permissible styles.

Poiché la comunicazione avviene in un certo momento nella sequenza temporale, in un dato contesto, «comprendere» o «dare un senso» allo scambio comunicativo significa non solo essere consapevoli dei suoi «temi» o del suo «modo di espressione», ma anche del suo aspetto selettivo, del suo negativo, della differenza tra ciò che è stato incluso, cioè selezionato, e ciò che è stato escluso, cioè negato. Inoltre, dipende dalla comprensione della differenza tra l’espressione e l’informazione. Uno dei critici di Luhmann (De Berg, 1993:50) parla della «temporalizzazione della semantica», una locuzione utile, specialmente quando vogliamo pensare a uno studio con prospettiva storica.

Ne consegue che le comunicazioni, e quindi testi, non hanno un significato fisso in sé, ma ne assumono uno quando si trasformano in comunicazioni inserite in un contesto selettivo e differenziale. Quando guardiamo dei testi (o altre comunicazioni) in questo modo, attraverso la loro «temporalizzazione semantica», potremmo essere in grado di sbirciare nell’agenda del parlante: quanto era probabile questo scambio in quelle circostanze particolari, perché quel tema, quel modo di trasmissione, scelto in quel momento, preferito a quale gamma di potenziali alternative. A quale problema si rivolge – in modo mirato? E come, a sua volta, questa particolare comunicazione si «connette», ovvero come contribuisce alla creazione di un nuovo contesto, di una nuova gamma di possibilità?

Se tutto ciò vale per i testi, vale anche per le traduzioni. Il loro «significato», «senso» e «scopo» in quanto comunicazioni non risiede nelle «parole scritte sulla pagina», decifrabili tramite strumenti linguistici e altri codici, in un ambito sociale e storico. E la traduzione stessa non può neppure ridotta a un rapporto semantico di altro tipo con un originale. In entrambi i casi, quello che viene trascurato è proprio l’aspetto della selettività, della differenza selettiva. È parte del «significato» del testo tradotto in quanto comunicazione che questo testo in una lingua straniera è stato selezionato da una gamma di potenziali candidati, che era stato scelto per la traduzione e non per altre forme di trasmissione, importazione o riciclaggio e che la è stata scelta la «modalità traduttiva» , una modalità particolare per rappresentare l’originale rispetto ad altre possibili, cioè rispetto alle alternative scartate dalla gamma di candidati più o meno probabili e modalità più o meno permissibili.

Invoking the array of available and permissible styles take us straight back to the cognitive and normative expectations governing translation, and hence to translation as institution. It is  clear that we are talking about expectations within a limited range of options. The domain of translation, of that which is termed ‘translation’, has its limits, a socially acknowledged boundary differentiating it, sometimes sharply, sometimes only diffusely, from other modes of representing anterior discourses such as paraphrase, adaptation, plagiarism, summary, quotation, imitation, and so on. The expectations which police the boundaries of translation as institution are usually referred to as the ‘constitutive norms’ of translation. If you breach them you are perceived as doing something which will no longer be called ‘translation’, at least not by the group that sees itself as being addressed and as having a legitimate claim to the definition of ‘translation’. In that sense we can speak of these expectations as circumscribing the domain of translation. Within the perimeter of the constitutive norms it is customary to speak of ‘regulatory norms’. The term refers to expectations concerning what is appropriate in certain cases, regarding certain types or areas of discourse. These expectations constitute the structure of the translation system, in a sense compatible with Luhmann’s terminology. Luhmann holds that whereas social systems consist of communications in that communications are the elements the system is made of, expectations about communications build the structure of a social system. Social structures are structures of expectation (Luhmann 1984:139, 377ff.). Structure here means precisely that some occurrences and some combinations are more likely than others. If all occurrences and all combinations were all equally likely, this would produce entropy in the system.

Frasi come «la gamma di candidati più o meno probabili e modalità più o meno permissibili» meritano di essere sottolineate, ci riportano direttamente indietro alle aspettative («più o meno probabili») e alle aspettative normative («più o meno permissibili»). Perché è chiaro che stiamo parlando di aspettative contenute in una gamma di opzioni limitata. L’ambito della traduzione, ovvero quello che il termine «traduzione» copre, ha dei limiti, un confine socialmente riconosciuto che lo differenzia, talvolta in modo netto, talvolta diffusivo, da altre modalità di rappresentazione di discorsi precedenti – modalità come parafrasi, adattamento, plagio, riassunto, citazione, traslitterazione e via dicendo. Le aspettative, che sorvegliano i confini della traduzione, vengono di solito riconosciute come «norme costitutive» della traduzione. Se le infrangi, il tuo lavoro non verrà percepito come un qualcosa che si può definire «traduzione», almeno dal gruppo a cui è indirizzato e che ha una rivendicazione legittima su questa definizione. In questo senso possiamo dire che le aspettative delimitano il campo della traduzione. All’interno di questo ambito si parla di solito di «norme regolatrici» intendendo aspettative normative riguardo a ciò che è appropriato in alcuni casi, circa determinati tipi o aree di discorso. Queste aspettative formano la struttura del sistema traduttivo, inteso compatibilmente con la terminologia di Luhmann. Luhmann sostiene che, siccome i sistemi sociali sono composti da comunicazioni, nel senso che nelle comunicazioni ci sono gli elementi di cui è fatto il sistema, le aspettative riguardo alle comunicazioni costituiscono la struttura dei sistemi sociali. Le strutture sociali sono strutture di aspettativa (Luhman 1984). Struttura qui significa precisamente che alcune occorrenze e alcune combinazioni ritornano più facilmente di altre.

System

 

Both constitutive and regulatory expectations and their respective normative loads are continually negotiated and confirmed by practising translators and by all who are recognized as having a legitimate claim to discourse about translation. In that sense we can speak of translation as a social system, that is, a self-regulating, self-reflexive and selfreproducing (or ‘autopoietic’) system. The elements of the translation system are translations and discourses about translation. The system’s temporal dimension lies in the fact that communication generates communication. We can translate because there are translations and because, when we translate or speak about translation, we routinely take account of the conditioning factors which govern the concepts and practices we call ‘translation’ in our respective cultures. This creates the necessary connectivity and a sufficient ‘horizon of expectations’ to produce further translations and statements about translation. These expectations constitute the structure of the translation system. The system’s function consists in supplying representations of existing communications across semiotic boundaries. Its identity as a differentiated functional system, its ‘guiding difference’ (Luhmann speaks of a ‘code’), is based on this specific role. In the course of history the terms of this basic code can be, and have been, fleshed out in very different ways, in the form of ‘programmes’, the various poetics of translation, in the way specific legal traditions, for example, can be understood as ‘programmes’ of the legal system.

Now, translation does not operate in and for itself. It caters for other interests, other systems. The normal mode of existence of a translation, as we saw, is not as a translation per se but as a translated legal document, a translated philosophical treatise, and so on.

Sistema

 

Entrambi gli insiemi di aspettative, e i rispettivi carichi normativi, vengono continuamente messi in discussione, confermati, sistemati e modificati da traduttori di professione e da tutti coloro che partecipano alla discussione riguardo la traduzione. In questo senso – e qui è dove voglio arrivare – possiamo parlare di traduzione come sistema, un sistema che si auto-regola, risponde automaticamente e si auto-riproduce o («autopoietico»). Gli elementi del sistema traduttivo sono traduzioni, in quanto comunicazioni, e affermazioni riguardo la traduzione. La dimensione temporale del sistema, ovvero la dimensione storica, risiede nel fatto che la comunicazione genera comunicazione, in determinate condizioni. Possiamo tradurre perché ci sono traduzioni e perché, quando traduciamo o parliamo della traduzione, teniamo sempre in considerazione i fattori in grado di condizionarla, che governano i concetti e le pratiche chiamate «traduzione» nella nostra cultura. Tutto ciò crea la connettività necessaria e un «orizzonte d’attesa» sufficiente a produrre altre traduzioni e affermazioni riguardo la traduzione. Queste aspettative formano quello che Luhmann chiama la «struttura» del sistema.

La funzione del sistema consiste nel produrre rappresentazioni di comunicazioni esistenti tra sistemi semiotici diversi. La sua identità di sistema funzionale differenziato, la sua «differenza fondamentale» è basata su questo specifico ruolo rappresentativo e le sue conseguenze – per esempio, il fatto che il traduttore, nel rendere un’altra espressione, non parla a suo nome e questo porta la traduzione ad avere un soggetto discorsivo ibrido. Il primo mezzo di differenziazione e auto-organizzazione del sistema è un «codice» binario, una distinzione operativa tra «adeguato» e «non adeguato» in termini di rappresentazione. Ovviamente, nel corso dei secoli i termini di questo «codice» di base possono essere – e sono stati – arricchiti in molti modi, sotto forma di «programmi», poetiche della traduzione, nello stesso modo in cui, per esempio, diversi gruppi di leggi concrete possono essere concepite in quanto «programmi» del sistema legale.

Ora, come sappiamo, la traduzione non opera in sé e per sé, ma tiene conto di altri interessi, altri sistemi. In condizioni normali la traduzione non è un «testo tradotto» in sé, ma un testo legale tradotto, un trattato di filosofia tradotto, un romanzo tradotto.

Translations integrate into existing discursive forms and text types. In this sense translation can be said to be overdetermined: they normally defer, and are expected to defer, to the prevailing discourse of the client system. A systems-theoretical account of this form of entanglement or complicity can be found in the notions of ‘structural coupling’ and ‘interpenetration.’ The terms mean that the system may adjust it structures to the demands of another system, and even, in the stronger case of interpenetration, that the norms, criteria and resources of one system are largely internalized by another system. Since translation is on the whole much less clearly differentiated and hence much less autonomous than, say, modern art or religion, it is particularly prone to this kind of internal modification.

To the extent however that the translation system has its own momentum, it identity and relative stability as a system, it continually reproduces itself. This means that whatever its entanglement in other systems, it interprets its environment in terms of its own interests and priorities. In doing so, it reflects and builds on its own experience and maintains its own distinctive difference. Without such an independent and self-reflexive momentum it would not be a system. Nevertheless it is important to realize that in this perspective the term ‘translation’ has no fixed, inherent or immanent meaning. Rather, the category ‘translation’, including what I called its representational function, is constantly being reproduced by means of communication. Its semantics changes in the process of reproduction, just as historically its basic code is occupied by a succession of different terms, oppositions and values, that is, by different programmes. Its only durability and stability, as a concept and a practice, comes from its constant autopoiesis as a system.

Le traduzioni sono inserite in pratiche e forme discorsive già esistenti. In questo senso si può dire che la traduzione è sopradeterminata: le traduzioni si attengono al discorso prevalente del sistema cliente e ci si aspetta che lo facciano. Una spiegazione teorica-sistemica di questo tipo di legame o complicità può essere rintracciata nei concetti di «interpenetrazione» o «associazione strutturale» tra sistemi, per cui le norme, i criteri e le risorse di un sistema sono messe a disposizione o imposte a un altro sistema. Poiché la traduzione è, nel suo insieme,  molto meno differenziata, ovvero molto meno «autonoma» di, per esempio, l’arte moderna o la religione, è piuttosto portata a questo tipo di interferenza.

Nella misura in cui, comunque, il sistema traduttivo ha il suo momento, la sua identità e la relativa stabilità in quanto sistema, si auto-riproduce di continuo. Il modo in cui la traduzione si conserva e cambia in continuazione in quanto sistema sociale, quindi un sistema comunicativo governato da un particolare insieme di aspettative, determina il modo in cui produciamo, riceviamo le traduzioni e ne parliamo. È pero importante capire che in questa prospettiva il termine «traduzione» non ha un significato stabile, insito e immanente. Piuttosto la categoria «traduzione», inclusa quella che definisco la sua funzione rappresentativa, viene costantemente riprodotta attraverso/mediante la comunicazione. La sua semantica cambia nel processo di riproduzione, proprio come il suo codice di base storico («adeguato/non adeguato come rappresentazione») è occupato da termini, opposizioni e valori differenti, ovvero da «diversi programmi». La sua durevolezza o stabilità, come concetto e pratica, viene dalla sua autopoiesi in quanto sistema, ovvero da operazioni ricorsive di auto-riproduzione e auto-riflessione. Al giorno d’oggi, le nostre discussioni, tra cui anche quelle in Scienza della Traduzione e questo mio articolo, sono parte di questo processo.

Illustration

 

Let me try to illustrate some of these points with a brief historical example. It concerns a seventeenth-century Flemish Catholic priest, one Adrianus de Buck, a now totally forgotten figure who lived in the town of Veurne (Furnes), close to the French border. We know of only two publications by him: a book of prayers, and his translation, in 1653, of Boethius’ Consolation of Philosophy, from Latin into Dutch (De Buck 1653; Hermans 1996). Just two copies of De Buck’s Boethius have dome down to us. The book was printed and published in Bruges, in what was known at the time as the Southern Netherlands, a region then still under Catholic Spanish rule. The mainly Protestant – more particularly, Calvinist – Northern Netherlands had, after a prolonged war with Spain, become an independent and extremely prosperous republic. Spain formally recognized the Dutch Republic as an independent state in 1648.

De Buck dedicated his translation to a number of local dignitaries. The dedication leaves the reader in no doubt that the translator is green with envy at the miracle of Dutch culture in the Northern Netherlands, not least because, as he observes, they have appropriated the learning of every other language in the world, including Hebrew, Turkish and Arabic. Clearly, De Buck was acutely aware of living in what, by comparison with the Northern republic, was rapidly becoming a cultural backwater. Not only that, the Southern Netherlands were also a vulnerable region that had already felt the effects of the expansionism of its powerful neighbour, France.

And so he translates Boethius. As is well known, Boethius (lived 480-526) wrote his Consolation of Philosophy when he was in prison, awaiting his execution.

Illustrazione

 

Fatemi spiegare alcuni di questi punti con un solo, breve esempio storico: riguarda un prete cattolico di origine fiamminga vissuto nel diciassettesimo secolo, Adrianus de Buck, una figura storica oggi totalmente dimenticata. Ci sono arrivate solo due pubblicazioni sue: un libro di preghiere e la traduzione dal latino all’olandese, risalente al 1653, di Consolazione della filosofia, scritto da Boezio (De Buck 1653; Hermans 1996). La traduzione di de Buck venne pubblicata a Brugge, ovvero nei Paesi Bassi meridionali quando ancora erano dominati dagli spagnoli, cattolici. I Paesi Bassi settentrionali, per lo più protestanti (calvinisti, per essere precisi) erano diventati una ricca repubblica indipendente, dopo una lunga guerra contro la Spagna, che riconobbe la Repubblica delle Sette Province Unite come stato indipendente nel 1648.

Esistono solo due copie della traduzione di De Buck, che dedicò il suo lavoro a dei dignitari locali: leggendo la dedica, il lettore non ha dubbi sul fatto che il traduttore stava morendo d’invidia per il miracolo culturale dei Paesi Bassi settentrionali, non ultimo perché, come sottolinea, hanno fatto in modo di avere a disposizione strumenti per imparare tutte le altre lingue del mondo, tra cui l’ebraico, il turco e l’arabo. È chiaro che De Buck fosse estremamente conscio di vivere in uno stato in cui, confrontato con la repubblica settentrionale, la cultura stava sempre più stagnando. E non solo, i Paesi Bassi meridionali erano anche una regione vulnerabile, che già aveva risentito degli effetti dell’espansionismo del suo potente vicino, la Francia. La città natale di De Buck, Vernue, era stata invasa dalle truppe di Luigi XIV pochi anni prima.

E allora ha deciso di tradurre Boezio. Come tutti sanno, Boezio (vissuto tra il 480 e il 560) scrisse la sua Consolazione della filosofia in prigione, in attesa della sua esecuzione.

The book consists of both verse and prose. De Buck has translated it, he tells us in his dedication, partly to offer consolation to his compatriots who have suffered at the hands of the French, partly because he reckons that the Protestant heretics in the North have left Boethius untranslated on account of the references to free will and purgatory in the Consolation (both concepts are unacceptable to Calvinist theology), and partly because he wants to prove that, as he puts it, “the sun also shines on our Flemish land and there is fire in our souls too.” This last point may well be the reason why in his translation De Buck renders every one of the poems in

Boethius not once, but twice, in two different metres.

Through his decision to translate, through his selection of a particular text to translate, through opting for a particular mode of translating, and through his reflection on his own work and motivation, De Buck offers us a cultural self-description, a selfpositioning which is religious and political as well a cultural and, more narrowly, literary. An interpretation – or, if you like, a translation – of De Buck’s Boethius in systems terms cannot alter the material facts. It can, however, put things in a new light, which, I hope, will prove

illuminating. What such a reading might draw attention to are aspects like the following.

(1) In De Buck’s choice of a particular source text for translation, various systemic relations come together. They are all part of the translation’s “temporalized semantics.”  In this sense we can view the choice in relation to the function of the translation, as De Buck explains it in his dedication. He wants to render a service to the community as a whole, that is, to his compatriots as citizens. Just as Boethius drew comfortfrom philosophical speculation at a time when he was facing imminent death, so the hardpressed citizens of Flanders will find consolation by reading Boethius in their hour of need. That is what makes Boethius an apt choice for De Buck, in preference to an unspecified number of alternative texts he could have translated instead. In providing comfort and a morale-booster, the translation constitutes an answer to a problem, or at least to a perceived problem.

Il libro comprende sia prosa che poesia. De Buck l’ha tradotto, ci dice nella sua dedica, in parte per consolare i suoi compatrioti che hanno sofferto sotto il dominio francese, in parte perché pensa che gli eretici protestanti del nord non abbiano tradotto Boezio per i riferimenti al libero arbitrio e al purgatorio contenuti nella Consolazione (entrambi i concetti sono inaccettabili nella teologia calvinista). E un po’ anche perché voleva dimostrare che, come scrive lui stesso: «Il sole splende anche sulle nostre Fiandre e c’è del fuoco anche nella nostra anima». Quest’ultimo punto potrebbe essere la ragione per cui, nella sua traduzione, De Buck traduce ogni poesia di Boezio non una volta, ma due, in due metri differenti.

Tramite la sua decisione di tradurre, la scelta di un testo in particolare, la scelta di una traduzione seguendo una modalità traduttiva ben precisa e la sua riflessione sul lavoro svolto e la motivazione, De Buck ci offre un’auto-descrizione culturale, un’auto-definizione e posizionamento che è sia religioso che politico, così come culturale e, più prettamente, letterario. Un’interpretazione – o, se preferite, una traduzione – del Boezio di De Buck in termini di sistema non può alterare i fatti materiali: può, comunque, dare una nuova prospettiva che, spero, si dimostrerà illuminante. Una lettura del genere può attirare l’attenzione su alcuni aspetti come i seguenti.

(1) Nella scelta di De Buck di un particolare prototesto su cui concentrarsi rientrano numerose relazioni sistemiche, tutte facenti parti della «temporalizzazione semantica». In questo senso possiamo vedere la scelta in relazione alla funzione della traduzione, come De Buck spiega nella sua dedica: vuole rendere un servizio alla comunità nella sua interezza, ovvero ai suoi compatrioti in quanto cittadini. Come Boezio trovò conforto dalle speculazioni filosofiche quando si trovò ad attendere la sua morte, così i fiamminghi oppressi dagli stranieri troveranno consolazione dalla lettura di Boezio nel momento del bisogno. Questo fa di Boezio la scelta adatta per De Buck rispetto a un indefinito numero di testi alternativi che avrebbe potuto tradurre al suo posto. Nel fornire conforto e richiamo morale, la traduzione è una risposta a un problema o, perlomeno, a quello che viene percepito come tale.

But we can also consider De Buck’s choice of Boethius in relation to the cultural system in the Northern Netherlands. De Buck notes that Boethius is not selected fortranslation there, for religious reasons. In this respect his own choice becomes both oppositional and differential. It challenges the North politically and ideologically, and it contributes to the differentiation of the Southern cultural system vis-à-vis that of the North. More particularly, De Buck’s choice of Boethius feeds into the ongoing redefinition and repositioning of Southern culture in the broader context of the deployment of translation – as of other cultural resources – in support of the Catholic Counter-Reformation.

The alignment and subordination of culture to religion, politics and ideology can readily be described in terms of structural coupling. In this case it means that, in De Buck’s Southern Netherlands, the criteria for source text selection prevalent in one system are imposed on another system. In addition, it is clear that De Buck’s selection of a particular source text is governed by normative constraints which are more like those of Catholic Spain than those of the more tolerant Northern Netherlands. De Buck’s compliance with the Catholic norm will in turn influence the issue of source text selection for subsequent translators. In other words, in pinpointing religion as a significant point of difference between North and South, and in placing translation, as a cultural activity, under the aegis of the Counter-Reformation, De Buck’s choice signals the emergence of translation in the Spanish Netherlands as a system separate from the Northern Netherlands and emphatically allied with Catholic Europe.

(2) If translation is viewed as representation, as the production of a text that resembles a source text in such a way that it can act as its representative, it can be understood as also observing its source text. The translation points to its original, brings the original into view and thus observes this original. It also makes a statement about it. In claiming to represent Boethius’ Latin text, De Buck’s translation presents us with a communication

about it, and puts it in a certain light. As representation, moreover, it offers a selection of a particular mode of representation from among a range of available, permissible modes. This selection determines the translation’s specific modulation, what we may call its style.

Ma possiamo considerare la scelta di De Buck in relazione al sistema culturale e traduttivo dei Paesi Bassi settentrionali: De Buck osserva che Boezio non rientra tra gli autori tradotti delle Provincie Unite per motivi religiosi. Rispetto a questo punto di vista, la sua traduzione diventa un modo di opporsi e di differenziarsi: sfida politicamente e ideologicamente il Nord e contribuisce alla differenziazione del sistema traduttivo del Sud rispetto a quello del Nord. Ancora più nel dettaglio, la scelta di Boezio alimenta la ridefinizione e riposizionamento in corso della cultura meridionale nel contesto più ampio della diffusione della traduzione – così come di altre risorse culturali – a supporto della Controriforma.

L’allineamento e la subordinazione della cultura alla religione, politica e ideologia, può essere prontamente descritto in termini di accoppiamento strutturale. In questo caso vuol dire che nei Paesi Bassi meridionali di De Buck i criteri per la selezione del prototesto prevalgono in un sistema e sono imposti in un altro. Inoltre, è chiaro che la selezione di De Buck per un particolare testo è dominata da costrizioni normative più simili a quelle della Spagna cattolica che dei più tolleranti Paesi Bassi settentrionali. La conformità di De Buck alla norma cattolica influenzerà, a sua volta, il problema della scelta del prototesto per traduttori successivi. In altre parole, indicando con precisione la religione come punto di differenza significativo tra Nord e Sud e la traduzione, come attività culturale, sotto l’egida della Controriforma, la scelta di De Buck segnala la progressiva affermazione della traduzione nei Paesi Bassi spagnoli come un sistema separato dalle Province Unite e empaticamente alleato con l’Europa cattolica.

(2) Se la traduzione è vista come rappresentazione, in quanto testo che offre un riflesso completo di un prototesto, può essere concepita come parte integrante di un tipo di osservazione sul prototesto. La traduzione punta a un originale, rende visibile il testo originale e, quindi, osserva il testo originale. Fa anche una dichiarazione a riguardo: nel dire di rappresentare il testo latino di Boezio, la traduzione di De Buck si presenta con una comunicazione sul testo. Come rappresentazione, però, offre una scelta di un particolare modalità da una gamma di modalità disponibili e permissibili. Questa selezione determina l’orchestrazione traduttiva specifica rispetto alla loro funzione, che possiamo chiamare il suo «stile».

Style, understood here as the orchestration of a translation in respect of its intended function, allows us to see two things at once: firstly, how a translation relates to a certain tradition, to prevailing expectations regarding the ‘adequacy’ of the representation, and, secondly, what it contributes to the subsequent strengthening or modification of these expectations. In this way style organizes the contribution that an individual text makes to the self-reproduction or autopoiesis of the system (Luhmann 1986; 1990).

The choice of a particular style amounts to a self-reflexive statement about stylistic choice. Assuming that more than one mode of representation is available, the selection of one mode rather than another highlights the exclusions. Selecting a particular mode thus points in two directions are once. It highlights both the existence of alternative possibilities, of paths not chosen, and the stylistic allegiances that align this translation with similar choices made by previous translators. In De Buck’s Boethius this is made explicit. It is thematized in the translator’s unusual decision to render the Latin poems not once, as we might expect, but twice, in two different forms. The ‘double’ translation does not really serve the translation’s function as representation at all. Translation normally makes do with just one target text to representing the source.

In one way, the double rendering dramatizes the fact that there are alternative possibilities, and in that sense it provides an emphatic comment on permissible modes of translating, and therefore on the very structure of the translation system itself. In addition, it underlines the fact that the system’s basic function, that of supplying representations of existing texts, can be fulfilled in more ways than one, in accordance with different programmes or poetics, and that the two different ways which the translator is illustrating here are both valid – and there is no suggestion that they exhaust the range of valid modes.  In that sense De Buck’s dramatization, or thematization, of modes of translating shows him observing his ownpractice as a translator, his own mode of treating the original together with potential other modes. Through his double translation he presents an observation on the ways in which translations observe originals and their own relations to them. It is a supremely self-reflexive moment.

Stile, inteso qui come l’orchestrazione di traduzioni rispetto alla loro funzione, ci permette di vedere due cose nello stesso momento: prima di tutto come una traduzione si lega a una certa tradizione, a aspettative prevalenti riguardo l’«adeguatezza» della rappresentazione e, in secondo luogo, come contribuisce al conseguente rafforzamento o modifica di queste aspettative. In questo modo lo stile organizza il contributo che il singolo testo da all’auto-riproduzione o autopoiesi del sistema (cf. Luhmann 1986;1990).

Eppure, la scelta di uno stile particolare è allo stesso tempo un’affermazione auto-riflessiva riguardo la scelta stilistica. Partendo dal presupposto che esiste più di una modalità di rappresentazione disponibile, la scelta di un determinato tipo sottolinea nello stesso momento l’esclusione di altri e quindi indica altre possibilità, o percorsi non scelti, così come fedeltà stilistiche, scelte simili fatte da traduttori precedenti. Nel Boezio di De Buck ciò è reso più esplicito. È tematizzato nella curiosa scelta dell’autore di tradurre le poesie latine due volte, in due forme diverse. La «doppia» traduzione in realtà non è funzionale alla traduzione come rappresentazione, dato che alla traduzione basta di solito una versione per rappresentare il protesto. Piuttosto, la «doppia» traduzione esagera il fatto che esistono alternative possibili e in quel senso rappresenta un commento empatico sui modi di traduzione possibili, ovvero sulla struttura vera e propria del sistema. Sottolinea, inoltre, che il codice di base del sistema, quella «rappresentazione adeguata versus rappresentazione non adeguata» può in pratica essere completata in più di un modo, rispetto diversi programmi o poetiche, e che i due diversi modi che qui De Buck presenta sono entrambi validi – e non è scritto da nessuna parte che siano i due soli modi esistenti. In questo senso la drammatizzazione, o tematizzazione, di De Buck dei modi traduttivi mostra lui stesso che osserva il suo lavoro come traduttore, come guarda all’originale e insieme a altri modi possibili.

At the same time, on a different level, the ‘double’ translation supports a conspicuous claim to legitimacy by a Southern translator vis-à-vis what he evidently perceives as the stronger system in the North. The South may be a backwater, he appears tobe saying, but it is not devoid of talent. By demonstrating competence and even virtuosity, he claims professional equality as a practitioner, but he still distances himself ideologically from the North. The ideological distance is highlighted at the level of the mode of translation by De Buck’s emphatically Catholic rendering of the passages on divine providence and free will. In these passages his vocabulary borrows directly from the terminological and discursive resources of the Catholic Church. But it is worth noting that what is alignment in one direction – the Catholic Church –  is polemic in another – the Protestant North.

(3) If De Buck’s self-reflexive comment on his own mode or style of translation, in which the system can be said to observe itself from within, is called secondorder observation (the observation of observation,Luhmann 1990), then ‘third-order’ observation would be a matter of observing second-order observation, that is, the observation of self-reflexive behaviour. This is what happens when we comment on De Buck as I have been doing. Here we can raise issues like the relative strength of the normative and other expectations that structure a system and the place De Buck seems to accord himself in this network, the way its organizing codes are fleshed out by particular programmes, the manner in which the system marks its boundaries and the relations it entertains with other systems. To do this properly we would need to put De Buck’s theory and practice of translation in a broader historical context. The endeavour would have to include other translations and prevailing ideas about translation, other modes of writing and of representation by means of writing, and a fuller picture of the temporal sequence of which De Buck’s work forms part, showing how his work connects with earlier translations and with discourses about translation, and how it affects the spectrum of connectivity for subsequent translations. Needless to say, this line of inquiry would lead us further afield than I can take it here.

Attraverso la sua traduzione doppia presenta un’osservazione sui modi di osservazione, ovvero una meta-osservazione.

Nello stesso momento, e su un livello diverso, la «doppia» traduzione sostiene una richiesta di legittimazione non indifferente di un traduttore meridionale rispetto a ciò che a quanto pare percepisce come il sistema più forte nel Nord. Dimostrando questa competenza, anche in modo virtuoso, rivendica uguaglianza «traduttiva» e professionale come professionista, mentre si distanzia dal punto di vista ideologico. Questa distanza ideologica è enfatizzata a livello di modalità traduttive nella resa cattolica dei passaggi riguardo la divina provvidenza e il libero arbitrio dove, in un caso ovvio di «accoppiamento strutturale», il vocabolario di De Buck pesca direttamente dalle risorse terminologiche e discorsiali della Chiesa cattolica. Ma vale la pena sottolineare che quello che è sostegno da un lato (la Chiesa cattolica) è polemica dall’altro (il Nord protestante).

(3) Se il commento auto-riflessivo di De Buck sulla sua modalità o stile di traduzione, nel quale il sistema si guarda al suo interno, è chiamato meta-osservazione o osservazione di secondo grado (un osservatore che osserva il suo comportamento, cf. Luhman 1990), un’osservazione «terzo grado»  quindi riguarda l’osservare il secondo livello di osservazione, ovvero si tratta di un’osservazione   auto-riflessiva. È quello che noi facciamo commentando il lavoro di De Buck come sto facendo io ora. Possiamo scovare problemi come la forza relativa o aspettative normative e di altro tipo che formano il sistema e il posto che De Buck si assegna in questo sistema, il modo in cui i suoi codici di organizzazione contengono programmi particolari, la demarcazione dei confini del sistema e i collegamenti con altri sistemi. Per fare un bel lavoro dovremmo inquadrare la teoria e il lavoro di De Buck in un contesto storico più ampio, che includa altre traduzioni e idee prevalenti riguardo la traduzione, altri modi di scrittura e rappresentazione tramite mezzi di scrittura e un quadro più completo del contesto temporale di cui il lavoro di De Buck è un tassello, mostrando come la sua comunicazione traduttiva si leghi alle comunicazioni precedenti (traduzioni e discorsi sulla traduzione) e l’effetto che ha sullo spettro della connettività delle successive comunicazioni. Questa indagine ci porterebbe però al di là di quello che voglio analizzare qui.

Let me end on an altogether different note, by drawing attention to a particularly unsettling actor which affects – perhaps I should say: which infects, or afflicts – all our attempts to speak about translation. I remarked in passing, above, that we could interpret, “or translate,” De Buck’s Boethius in system-theoretical terms. The description of the case itself constitutes a representation of it across semiotic boundaries. The transposition of this description into a different conceptual scheme amounts to another translation, at least if we accept Roman Jakobson’s view that translation comprises not only interlingual but also intralingual and intersemiotic representations (Jakobson 1959). In speaking about De Buck’s Boethius I am also translating that translation. Communication about translation means translating translation: the discourse about translation translates the practice of translation. But this entails that we translate according to our contemporary, culture-bound concept of translation, and into this concept of translation. Once we realize this, the neat distinction between objectlevel and meta-level which descriptive studies have cherished, collapses, and we are reminded of the uncomfortable fact that the study of translation  is likely to rebound on our own categories and assumptions, our own disciplinary modes of translating translation. There is no escape form this dilemma. But by conceptualizing it in terms of the selfreproducing and self-reflexive operations of a system, we can at least become aware of it – as we must, since it is a fundamental problem that affects, infects and afflicts all our work.

Permettetemi di concludere con un tipo di riflessione del tutto diversa, attirando l’attenzione su un fattore preoccupante che riguarda – forse dovrei dire: che infetta o affligge – tutti i nostri tentativi di parlare di traduzione. Quando qui sopra ho casualmente notato che possiamo interpretare «o tradurre» il Boezio di De Buck in termini di teoria del sistema, ero serio riguardo questo utilizzo di «tradurre». La descrizione del caso stesso costituisce una rappresentazione di ciò attraverso i confini semiotici. La trasposizione di questa descrizione in uno schema concettuale diverso è un’ulteriore traduzione, non contestata, in una disciplina che ha abbracciato la visione di Jakobson che la traduzione comprende rappresentazioni non solo interlinguistiche, ma anche intralinguistiche e intersemiotiche. Quindi, parlando del Boezio di De Buck sto traducendo quella traduzione. La comunicazione riguardo alla traduzione è a sua volta la traduzione di una traduzione: i discorsi sulla traduzione traducono la pratica della traduzione. Ma ciò significa, inevitabilmente, che traduciamo secondo il nostro concetto di traduzione che si lega alla nostra cultura e all’interno del nostro concetto di traduzione. Una volta che ci accorgiamo di ciò, la distinzione netta tra tra livello-oggettivo e meta-livello, così caro agli studi descrittivi, scompare e ci viene ricordato del fatto poco piacevole che lo studio della traduzione si ripercuote sulle nostre categorie e affermazioni, sulle nostre modalità disciplinari di tradurre la traduzione.

Non c’è scampo da questo dilemma, ma contestualizzandolo in termini di operazioni auto-riproduttive e auto-riflessive di un sistema possiamo almeno rendercene conto – come dobbiamo, in quanto è un problema fondamentale che infligge e affligge tutto il nostro lavoro.

 

Note bibliografiche

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