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Theodore Savory: Translating the Bible

Theodore Savory: Translating the Bible

 

 

MARGHERITA PREVIDE MASSARA

 

 

Fondazione Milano

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

 

 

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Dicembre 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Theodore Savory 1969

© Margherita Previde Massara per l’edizione italiana 2010

 

Theodore Savory: Translating the Bible

 

ABSTRACT

La Bibbia è il testo sacro di riferimento per milioni di persone, che nelle sue pagine hanno trovato e trovano conforto,  forza e modelli etici e riveste un ruolo unico nel panorama degli studi sulla traduzione. La prima parte del lavoro propone un’analisi dei due principali orientamenti della traduzione della Bibbia, quello formale e quello dinamico. Il primo è improntato a una resa che riproduca il più possibile il prototesto (sia nella forma che nel contenuto) e il secondo mira all’accessibilità del metatesto.Nella seconda parte viene presentato l’approccio di Erri De Luca alla traduzione di alcuni libri dell’Antico Testamento con esempi basati sull’apparato metatestuale dei suoi lavori. La tesi si conclude con la traduzione di «Translating the Bible», dal libro The Art of Translation di Theodore Savory.

ENGLISH ABSTRACT

The Bible is the holy book for millions of people who find in its pages relief, strength and ethical patterns. It plays a unique role among translation studies. The first part of this work analyses the two main approaches to Bible translation, the one oriented toward formal equivalence and that oriented toward dynamic equivalence. The former aims at a rendering which reproduces the source text as much as possible (both in form and in content) and the latter aims at the accessibility of the target text. The second part shows Erri De Luca’s approach to the translation of some of the Old Testament books, with examples based on the metatextual apparatus of his works. The thesis concludes with the translation of «Translating the Bible», from the book «The Art Of Translation» by Theodore Savory.

 

NEDERLANDSE SAMENVATTING

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Sommario

1.Prefazione. 4

1.1 Due fondamentali orientamenti in traduzione. 5

1.1.1 I princípi della traduzione formale. 7

1.1.2 I princìpi della traduzione dinamica. 9

1.2 Erri De Luca. 16

2. Traduzione con testo a fronte. 21

2.1 Translating the Bible. 23

References – Riferimenti bibliografici 55

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


1.Prefazione


1.1 Due fondamentali orientamenti in traduzione

 

Partendo dal presupposto che «non esiste, per essere esatti, niente di simile agli equivalenti identici» (Belloc, 1931 a e b:37), quando si traduce è necessario cercare il traducente che più si avvicini all’originale. Ci sono due tipi fondamentali di equivalenza: formale e dinamica.

L’equivalenza formale pone l’attenzione sul messaggio, sia nella forma che nel contenuto. In una traduzione di questo tipo bisogna prestare attenzione a corrispondenze come poesia-poesia, frase-frase e concetto-concetto. Tenendo conto di questo orientamento formale, l’importante è che il messaggio nella cultura ricevente corrisponda il più possibile ai diversi elementi della cultura emittente. Per questo motivo il messaggio nella cultura di arrivo dovrà essere costantemente confrontato con il messaggio della lingua di partenza, al fine di determinarne lo standard di accuratezza e correttezza.

Il tipo di traduzione che esprime al meglio questa equivalenza strutturale potrebbe essere chiamata «traduzione glossante» (Nida 1964: 159). Il traduttore, in questo caso, cerca di riprodurre la forma e il contenuto dell’originale senza perseguire ideali estetici, quasi parola per parola, con glosse.

Una traduzione glossante è pensata per permettere al lettore di identificarsi il più possibile con una persona appartenente al contesto della cultura emittente e di capire tutto quello che può delle usanze e delle modalità di pensiero e di espressione. Per esempio un’espressione come «bacio santo» (Romani 16,16) in una traduzione glossante verrebbe resa alla lettera e in una nota a piè pagina verrebbe spiegato che questo, ai tempi dell’Antico Testamento, era un modo comune di salutarsi.

Al contrario, una traduzione che mira a creare un’equivalenza dinamica si basa sul «principio dell’effetto equivalente» (Rieu e Phillips 1954). L’imperativo di questo tipo di traduzioni non è che il messaggio della cultura ricevente corrisponda con esattezza a quello della cultura emittente, ma che il rapporto tra ricevente e messaggio sia sostanzialmente lo stesso di quello esistente tra i riceventi originali e il messaggio.

Una traduzione dinamica mira a una totale naturalezza dell’espressione e cerca di collegare il ricevente a modalità comportamentali attinenti al suo contesto culturale. Non pretende che il ricevente capisca i modelli culturali del contesto della cultura emittente per poter comprendere il messaggio. Naturalmente ci sono molti gradi di traduzione dinamica. Per riprendere l’esempio sopra citato, una resa che mira a trovare un traducente dinamico è quella di Phillips, che traduce «greet one another with a holy kiss» con «give one another a hearty handshake all around».

Tra i due estremi della traduzione, tra l’equivalenza rigorosamente formale e l’equivalenza rigorosamente dinamica, ci sono innumerevoli gradi intermedi, che rappresentano vari standard accettabili di traduzione.


1.1.1 I princìpi della traduzione formale

 

Per capire meglio le caratteristiche dei diversi tipi di traduzione è importante analizzare più nel dettaglio i princìpi che governano una traduzione formale. Una traduzione di questo tipo è orientata alla cultura emittente, ossia è pensata in modo tale da far trapelare il più possibile della forma e del contenuto del messaggio originale.

A questo scopo si cerca di riprodurre determinati elementi formali, come unità grammaticali e coerenza nell’uso delle parole e nei sensi riguardanti il contesto della cultura emittente. La riproduzione di unità grammaticali implica:

– tradurre nomi con nomi, verbi con verbi, ecc.

– mantenere frasi e periodi intatti (ossia non separare e

poi  riassemblare le unità)

–       mantenere tutti gli indicatori formali, per esempio punteggiatura, divisione in paragrafi e paragrafi rientrati in poetica (Nida 1964: 165).

Per riprodurre la coerenza nell’uso delle parole, una traduzione formale di solito mira alla cosiddetta “concordanza terminologica”: nel metatesto, rendere una certa parola del prototesto sempre con una parola specifica. Questo principio può essere spinto fino all’estremo e il risultato sono serie di parole quasi senza senso. D’altra parte, in alcuni tipi di traduzione formale, va comunque cercato un certo grado di concordanza.

Il traduttore può anche servirsi di parentesi, incisi o corsivi (come nella King James) per aggiungere parole utili alla comprensione. Ecco un esempio «And to every beast of the earth, and to every fowl of the air, and to every thing that creepeth upon the earth, wherein [there is] life, [I have given] every green herb for meat: and it was so» (Genesi 1,30).

Per riprodurre sensi riguardanti il contesto della cultura emittente, la traduzione formale di solito non  cerca di adattare le espressioni idiomatiche, ma piuttosto di riprodurle più o meno parola per parola, così che il lettore possa percepire il modo in cui l’originale ha fatto uso di elementi della cultura locale per comunicare il senso.

In molti casi, comunque, determinati elementi formali del prototesto semplicemente non si possono riprodurre. Per esempio possono esserci giochi di parole, chiasmi, assonanze o acrostici. In questo caso è necessario ricorrere a note. In alcuni rari casi si riesce a creare un gioco di parole che si avvicina all’equivalenza. Per esempio, traducendo il testo ebraico di Genesi 2,22 troviamo la parola ishàh, che significa donna e deriva da ish, uomo. Quindi il traduttore inglese può usare rispettivamente «woman» e «man». Corrispondenze formali di questo tipo sono però molto rare, perché le lingue sono anisomorfe.

Una traduzione formale ha molti passi che il lettore medio fatica a capire. Si rendono quindi necessarie note, che hanno la funzione non solo di spiegare alcune delle caratteristiche formali che altrimenti non verrebbero adeguatamente rese, ma anche di rendere comprensibili alcuni equivalenti formali utilizzati, dal momento che queste espressioni potrebbero essere chiare solo nel contesto della cultura o della lingua emittente.

Alcuni tipi di traduzioni formali, per esempio quelle interlineari e le concordanze, hanno valore estetico limitato. Altre invece, hanno un grande valore estetico. Per esempio le traduzioni preparate per i linguisti raramente si spingono oltre la resa strettamente formale. In queste traduzioni la formulazione di solito è piuttosto letterale e le varie parti sono spesso numerate in modo tale da rendere più rapido il confronto tra le unità corrispondenti.


1.1.2 I princìpi della traduzione dinamica

 

Oltre alle traduzioni formali, ve ne sono di dinamiche. In queste l’attenzione è concentrata non tanto sul messaggio, quanto sulla reazione del lettore della cultura ricevente. La traduzione dinamica è una traduzione della quale una persona bilingue può ragionevolmente dire «è proprio come lo diremmo noi». In ogni caso è importante capire che una traduzione dinamica non è un altro messaggio più o meno simile a quello della fonte. È una traduzione e come tale deve riflettere in modo chiaro il senso e l’intento del prototesto.

La traduzione dinamica è « l’equivalente naturale più prossimo del prototesto» (Nida 1964: 166). Questo tipo di definizione consta di tre termini essenziali:

–       equivalente: orientato al prototesto;

–       naturale:        orientato alla cultura ricevente;

–       più prossimo: che lega i due orientamenti al livello      

                             al livello  più alto di approssimazione.

 

Considerato che la traduzione dinamica mira principalmente a un’equivalenza reattiva piuttosto che  formale, è importante definire in modo più esaustivo le implicazioni del termine «naturale» applicato a questo tipo di traduzioni. Il termine naturale è applicabile a tre aree del processo comunicativo. Una resa naturale deve aderire alla cultura ricevente, al contesto del messaggio specifico e al lettore del metatesto.

Il fatto che una traduzione sia conforme alla cultura ricevente nel suo insieme è un fattore essenziale di qualunque versione stilisticamente accettabile. Di fatto questa conformità si nota solo quando manca. J. H. Frere (1820: 481) spiega chiaramente il concetto affermando: «Pensiamo che la lingua della traduzione dovrebbe essere un elemento puro, impalpabile e invisibile, fare da tramite a pensieri ed emozioni e nient’altro. Non dovrebbe mai attirare l’attenzione su di sé. È bene evitare prestiti». Questo tipo di adattamento alla cultura ricevente produce un metatesto privo di traduzionalità (A. Popovič 2006: 174).

La traduzione naturale coinvolge due principali aree di adattamento: la grammatica e il lessico. In generale le modifiche grammaticali sono quelle più immediate, dal momento che molti cambiamenti grammaticali sono dettati dalla struttura della lingua ricevente. Ciò significa che si è spesso obbligati a un diverso ordine delle parole, o all’uso di verbi e pronomi al posto di nomi. La struttura lessicale del messaggio del prototesto è invece meno facile da adattare alle necessità semantiche della cultura ricevente, dal momento che ci sono numerose possibilità alternative. Generalmente devono essere presi in considerazione tre livelli lessicali:

–                    parole per le quali ci sono paralleli già disponibili, per

esempio «fiume», «albero», «sasso», «coltello».

–     parole che identificano oggetti diversi dal punto di vista

culturale, ma con funzioni in qualche modo simili. Per esempio la parola

«libro», che in italiano sta per «complesso di fogli della stessa misura,

stampati o  manoscritti, e cuciti insieme così da formare un volume,

fornito di copertina o rilegato» (Vocabolario Treccani 2010), ma che

all’epoca del Nuovo Testamento stava per una pergamena o un papiro

lungo arrotolato;

–                   parole che identificano particolarità culturali, per esempio

khomer (unità di capacità), eyfah (unità di misura), kerubìm

per citarne soltanto alcuni presenti nella Bibbia.

 

Solitamente il primo gruppo non presenta problemi. Il secondo può causare equivoci. Il traduttore deve decidere se usare un altra parola che rifletta la forma dell’originale, ma che non ha la stessa funzione, o se usare una parola che identifichi la stessa funzione a discapito dell’identità formale. Traducendo le parole del terzo gruppo è difficile evitare “associazioni strane”. La traduzione che cerca di colmare un vuoto culturale molto ampio non può sperare di eliminare tutte le tracce della struttura lessicale originaria. Per esempio per quanto riguarda la traduzione della Bibbia è praticamente impossibile non parlare di farisei, sadducei, tempio di Salomone, città rifugio o di temi biblici come unzione, procreazione adultera, sacrificio di esseri viventi e agnello di Dio, poiché queste espressioni sono insite nella struttura di pensiero del prototesto.

È inevitabile anche che, quando le due culture sono molto diverse, ci siano molti temi fondamentali che non possono essere “naturalizzati” dal processo traduttivo. Per esempio, gli indiani Jívaro dell’Ecuador di sicuro non possono capire Corinzi 11,14 «La natura stessa non vi insegna che è un disonore per l’uomo portare la chioma? Se invece la donna porta la chioma, ciò è per lei un onore, poiché la chioma le è stata data per copertura» (La Nuova Diodati), perché gli uomini Jívaro si lasciano crescere i capelli, mentre le donne adulte se li rasano. Similmente in molte zone dell’Africa Occidentale è considerato riprovevole il comportamento dei discepoli che accolgono Gesù a Gerusalemme lanciando sul suo cammino foglie e rami. Secondo le usanze dell’Africa Occidentale, il sentiero percorso da un capo a piedi o su una cavalcatura deve essere completamente pulito e chiunque vi getti anche solo un ramo, commette una grave mancanza di rispetto (Nida 1964:168). Ciononostante, queste discrepanze culturali sono meno difficili da superare di quanto si pensi, specialmente se le note sono usate per mettere in luce la diversità culturale.

La naturalezza dell’espressione nella cultura ricevente è un problema di  co-adeguatezza a vari livelli, dei quali i più importanti sono:

–       classi di parole: se non esiste un sostantivo per «amore» bisogna dire «Dio ama» invece di «Dio è amore».

–      categorie grammaticali: in alcune lingue il numero

grammaticale dei predicati nominali deve concordare con

quello del soggetto. In questo caso non si potrà dire «The two

shall be one», ma bisognerà dire «The two persons shall act

as though they are one person».

–                       classi semantiche: è possibile che in una lingua le  imprecazioni si basino

su storpiature volgari del nome della divinità, ma che in altre lingue si

faccia più ricorso a scatologia e parti anatomiche.

–                       tipi di discorso: alcune lingue necessitano di citazioni dirette e

altre no.

–       contesti culturali: in alcune società la pratica tipica del Nuovo Testamento di sedersi per insegnare sembra strana, se non sconveniente.

 

Oltre a essere appropriata per la lingua e la cultura ricevente, la traduzione naturale deve essere in armonia con il contesto del messaggio. I problemi quindi non si limitano a caratteristiche grammaticali e lessicali, ma possono anche sconfinare in dettagli come l’intonazione e il ritmo della frase (Pound 1954: 298). Il problema è che « se rimane invischiato solo nelle parole, il traduttore perde lo spirito originale dell’autore» (Manchester 1951: 68).

Per certi versi la traduzione naturale può essere descritta più facilmente parlando di ciò che omette anziché di ciò che dice. Sono le gravi anomalie, eliminate in una buona traduzione, che fanno sentire il lettore totalmente estraneo al contesto. Per esempio delle volgarità in un testo che ci si aspetta sia serio sono inappropriate e di sicuro non suonano naturali. Ma le volgarità rappresentano un problema meno spinoso rispetto allo slang o ai colloquialismi.

Alcuni traduttori riescono a evitare le volgarità e lo slang, ma non l’errore di far sembrare un complicato documento legale quello che in realtà era un messaggio relativamente chiaro nella cultura emittente, nel tentativo di essere il meno ambigui possibile. In queste traduzioni rimane ben poco della naturalezza dell’originale.

Gli anacronismi sono un altro modo di violare la co-adeguatezza del messaggio e del contesto. Per esempio una traduzione che usa «ossido di ferro» invece di «ruggine» sarebbe corretta dal punto di vista tecnico, ma sicuramente anacronistica. D’altro canto traducendo «i cieli e la terra» con «universo» in Genesi 1,1 non ci si allontana così tanto quanto ci si aspetterebbe, dal momento che le popolazioni antiche avevano un’idea molto avanzata di un sistema organizzato che comprendeva «i cieli e la terra» (Nida). Gli anacronismi comportano due tipi di errori:

–     l’uso di parole della contemporaneità che falsificano la vita

in un periodo storico diverso, per esempio tradurre

«posseduto dal demonio» con «mentalmente deviato»;

–       l’uso di una lingua obsoleta nella cultura ricevente e quindi

dare un’impressione di irrealtà.

 

L’appropriatezza del messaggio all’interno del contesto non è un mero problema di contenuto referenziale delle parole. L’impressione complessiva di un messaggio non è data solo da oggetti, eventi, astrazioni e rapporti simboleggiati dalle parole, ma anche dalla contestualizzazione stilistica. Inoltre gli standard di accettabilità stilistica per vari tipi di discorso cambiano radicalmente da una lingua all’altra.

È essenziale non solo che una traduzione eviti alcuni errori ovvi nell’adattamento del messaggio al contesto, ma anche che incorpori alcuni elementi positivi dello stile che forniscano il tono emotivo appropriato al discorso. Questo tono emotivo deve riflettere con precisione il punto di vista dell’autore. Quindi elementi come sarcasmo e ironia devono essere resi accuratamente nella traduzione dinamica.

Un altro elemento caratterizzante della naturalezza della traduzione dinamica è quanto il messaggio si addice al lettore della cultura ricevente. L’appropriatezza va giudicata sulla base del suo livello di esperienza e della capacità di decodificazione. D’altro canto non si ha sempre la certezza di come abbia reagito o avrebbe dovuto reagire il lettore della cultura emittente. Per esempio i traduttori della Bibbia hanno dato molta importanza al fatto che la lingua del Nuovo Testamento era la koiné, la lingua dell’uomo comune, e quindi una traduzione dovrebbe essere rivolta all’uomo comune. La verità è che il primo destinatario di molti messaggi del Nuovo Testamento non era l’uomo comune, ma l’uomo appartenente a una comunità religiosa. Per questo motivo espressioni come “Aba, padre” e “battezzato in Cristo”, possono essere usate e ci si aspetta che vengano capite.

Una traduzione dinamica inevitabilmente richiede un certo numero di adattamenti formali, che coinvolgono tre aree principali:

–                  Forme letterarie particolari;

–                  Espressioni semanticamente esocentriche (Nida 1964: 170);

–                  Sensi culturospecifici (Nida 1964: 170).

La traduzione della poesia ovviamente richiede più adattamenti rispetto alla prosa, dal momento che le forme ritmiche differiscono nella forma e di conseguenza nel risultato estetico. Nella traduzione della Bibbia, la procedura comune è mirare a dare una certa dignità alla prosa dove l’originale utilizzava la poesia, perché in generale il contenuto dei libri sacri è considerato molto più importante rispetto alla sua forma.

Quando periodi semanticamente esocentrici nella lingua emittente sono senza senso o fuorvianti se tradotti alla lettera, si è obbligati ad apportare degli adattamenti alla traduzione dinamica. Per esempio, il modo di dire semitico «cingere i lombi della mente» (Pietro 1,13) può significare, se tradotto alla lettera,  nient’altro che «mettere una cintura attorno ai fianchi dei pensieri». In questo caso bisogna passare da un tipo di espressione esocentrica a una endocentrica per esempio «predisporre la mente all’azione». Inoltre un modo di dire non solo potrebbe essere senza senso, ma potrebbe addirittura distorcere il senso. In questo caso dev’essere modificato. Spesso una metafora può essere sostituita con una similitudine, per esempio «sons of thunder» (come erano chiamati Giacomo e Giovanni) può diventare «men like thunder» (Nida 1964).

I sensi culturospecifici sono quelli che più perdono nel processo traduttivo, dato che dipendono moltissimo dal contesto culturale della lingua in cui sono usati e quindi non sono direttamente trasferibili ad altri contesti linguistico-culturali. Nel Nuovo Testamento la parola tapeinos, di solito tradotta con «humble» o «lowly» in inglese, aveva connotazioni emotive ben definite nel mondo greco, dove aveva il significato peggiorativo di «low», «humiliated», «degraded», «mean» o «base» (Nida 1964: 171). I cristiani facevano parte della classe sociale più bassa e adottarono questa parola come simbolo di un’importante virtù cristiana. Le traduzioni del Nuovo Testamento in inglese non possono pensare di poter rendere tutti i significati emotivi latenti nella parola greca. Allo stesso modo traduzioni come «unto», «messia» e «cristo» non rendono pienamente giustizia al greco Christos, che aveva associazioni intimamente collegate alle speranze e alle aspirazioni della prima comunità giudaico-cristiana. Questi elementi emotivi di senso non sono collegati soltanto a termini teologici, ma vanno applicati a tutti i livelli di vocabolario.


1.2 Erri De Luca

 

Il desiderio che muove Erri De Luca è di «prendere alla lettera  ̶  e dunque ridare il posto principale a  ̶  quel formato iniziale della rivelazione che è l’ebraico antico». Non mira certo a dare una traduzione gradevole da leggere, anzi per primo ammette: «Le mie traduzioni sono un po’ ingessate nella lingua d’arrivo».

De Luca s’avvicina all’ebraico negli anni Ottanta, quando fa l’operaio. Durante il lavoro ripete canti che trova nelle scritture per scandire le martellate, per darsi un ritmo e far passare la giornata al cantiere. Inizia a studiarlo lentamente, «semplicemente per curiosità e per compagnia». Di mattina, tra le cinque e le sei e mezza legge una pagina della Bibbia. Si definisce «un frequentatore di quelle scritture, un lettore assiduo, quotidiano» e non rivendica alcuna forma di autorità sull’ebraico antico, se non la sua continua intimità con questa lingua.

Iod. De Luca traduce il tetragramma sacro, che gli ebrei non pronunciano, con «Iod», la sua lettera iniziale. Le Bibbie cristiane traducono con «Dio», dal greco theòs, che è un nome comune a tutte le divinità e viene scritto con la lettera minuscola. In ebraico l’unità di dio, l’Ehad (Uno), è talmente assoluta da non poter essere nominata.

Una delle differenze più evidenti tra la traduzione di De Luca e le altre è che il primo tende a modellare l’italiano sulla sintassi ebraica. In ebraico biblico il soggetto solitamente segue il verbo, non viene fatta un’eccezione nemmeno se il soggetto è Iod. Come sostiene l’autore, «in quella rivelazione il verbo è più importante del soggetto. Il dire e il fare hanno la precedenza» .

Per De Luca l’ebraico ha, tra le altre caratteristiche, una grande fisicità. Le traduzioni italiane usano «spirito» e «anima» dove l’ebraico usa «vento», «soffio» e «fiato». Nel famoso discorso della montagna Gesù dice «Beati i poveri di spirito», l’ebraico «shfal rùah», che riprende da Isaia 57,15 («In luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi»). De Luca traduce «shfal rùah» con «abbassàti di vento», resa decisamente poco consueta per il lettore italiano. Afferma che «poveri di spirito» è meno  forte della sua versione, che rende invece l’idea di persone oppresse al punto tale da «avere il collo piegato, il fiato rivolto a terra, trascinato al suolo». Traducendo «ruàh» con «vento» invece che con «spirito», il senso dell’umiltà è forse più concreto: gli uomini non possiedono nemmeno il respiro. È un vento esterno che entra in ciascuno, esce e prosegue oltre.

De Luca parte dal principio che, nella sua traduzione della Bibbia, l’italiano è una lingua di servizio. Quella di De Luca è quasi sempre una traduzione interlineare: mette le parole italiane sotto quelle ebraiche e «se la frase intera suona storta è quasi certo che almeno in origine è dritta nella sua lingua» ebraica.

Erri De Luca è preciso: se l’ebraico usa un solo verbo per il «fare» di Dio, ossia «asà», nella sua traduzione ci sarà solo quel verbo. Si dichiara «estremista» della «fedeltà» e dell’«obbedienza» al testo ebraico, intendendo che è favorevole a un approccio estremamente filologico. Eccone un esempio.

De Luca traduce il comandamento dell’amare il prossimo come sé stessi con «e amerai il tuo compagno come a te» (Levitico 19,18), mentre la Bibbia CEI nell’edizione del 1974 traduce con «amerai il tuo prossimo come te stesso». De Luca spiega che il verbo amare è costruito con l’ebraico «le», simile alla preposizione «a» italiana, dunque in forma dativa. «L’amore non carnale è spesso meravigliosamente dativo, quello fisico è spesso accusativo, caso di un complemento oggetto». [non so se mettere questo esempio qui o più su, quando dico che modella la sintassi italiana su quella ebraica[o.b.1] ]

Traduce Kohèlet 4,1 con «E sono tornato io e ho visto tutti gli oppressi che sono fatti sotto il sole. E ecco lacrima degli oppressi» a differenza, per esempio, della Bibbia CEI nell’edizione del 1974 che traduce «Ho poi considerato tutte le oppressioni che commettono sotto il sole. Ecco il pianto degli oppressi», sostenendo che la parola «haashukìm» è la stessa che compare poco oltre nel verso e che viene tradotta con «gli oppressi».

Spesso nelle introduzioni e nelle note alle sue traduzioni De Luca sostiene di non voler correggere altre traduzioni e nemmeno di pensare che le sue scelte siano esatte e definitive, non perfezionabili. Dichiara solo di seguire altre piste, meno battute. Per esempio l’autore della Vulgata, San Girolamo, il «nonno dei traduttori» come lo chiama lui, ha tradotto «Hèvel» con «vanitas», da cui l’italiano «vanità» («Vanità delle vanità, dice Qoelet, vanità delle vanità, tutto è vanità». Ecclesiaste 1,2). De Luca non vuole correggere San Girolamo, ma tentare un’altra strada, ossia quella della coincidenza di Hèvel con Abele. Sostiene che i traduttori non abbiano dato importanza all’uguaglianza di Abele con Hèvel e lui vuole «credere che in quella lingua e in quei libri nessuna parola è libera, tutte sono serve di un pensiero sacro: che vuole essere interrogato almeno secondo la lettera». Di solito dei nomi dei personaggi dell’antico testamento viene detta la parola da cui derivano, mentre di Abele no. Succede il contrario, che da Abele si arrivi a una parola. Per De Luca questa parola è «spreco»: «Spreco di sprechi ha detto Kohèlet, spreco di sprechi il tutto è spreco». Trova la sua spiegazione in parte nel verso successivo «Cosa è di avanzo per l’Adam». Per indicare l’uomo, Kohèlet potrebbe usare «ish», più frequente in lingua sacra, invece usa «Adàm», padre di tutti gli uomini e nello specifico padre di Abele. L’autore fa notare come queste coincidenze di nomi propri siano evidenti in ebraico e quasi totalmente perse in traduzione. «Hèvel è il frutto doloroso di Adàm». Per De Luca lo spreco si riferisce alla morte prematura di Abele.

Un’altra affermazione molto chiara di De Luca è la volontà di affrontare il testo così come la storia gliel’ha lasciato, in alcune parti corrotto o con errori, perché «anche il guasto appartiene alla provvidenza che accompagna un testo sacro». Un esempio si trova in Kohèlet 5,9, che la versione CEI del 1974 traduce «Chi ama il denaro mai si sazia di denaro e chi ama la ricchezza non ne trae profitto», mentre De Luca traduce «Chi ama argento non si sazierà di argento e chi ama in abbondanza niente raccolto». Il problema di questo passo è che il verbo «amare» in lingua sacra non viene mai costruito come qui, con la preposizione «be», che significa «in». I grammatici sostengono che si tratti di una dittografia, un errore di raddoppio della consonante finale della parola precedente. De Luca non vuole cambiare il testo ebraico, ma mantenere la difficoltà, l’«amare in». Per lui significa «chi è avido di abbondanze non si sazierà di un buon raccolto».

In alcuni passi De Luca si sposta con decisione dalle altre traduzioni perché nell’ebraico vede qualcosa di totalmente diverso da quello che hanno visto e vedono altri traduttori. La traduzione di Ecclesiaste 3,14 è in molte Bibbie «gli uomini avranno timore davanti a Elohìm». Per De Luca è l’esatto contrario e traduce «E Elohìm ha fatto che avranno timore via dal suo volto», dunque se si allontaneranno da lui.

Un altro esempio è la traduzione di Ecclesiaste 2,8. La Nuova Diodati presenta «mi procurai dei cantanti e delle cantanti, le delizie dei figli degli uomini e strumenti musicali di ogni genere», la versione CEI del 1974 «mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con le delizie dei figli dell’uomo». De Luca traduce «Shiddà vershiddòt» con «favorita» (e quindi «ho fatto per me cantori e cantatrici e soavità dei figli dell’Adàm, una favorita e delle favorite») sostenendo che nell’elenco delle piacevolezze non dovrebbe mancare questo intrattenimento, ma soprattutto che «shad» in ebraico è mammella.

Quando gli viene chiesto che vocabolario usa, la risposta è sempre la stessa: «nessuno». Erri De Luca si serve della concordanza ebraica, in cui di ogni parola è segnato il passo della Bibbia in cui compare. È lui stesso a dire «La coincidenza insegna che ogni parola uscita sta in una corrente, ha un verso e non ritorna indietro». La coincidenza in lingua sacra non è mai infeconda, porta sempre quantomeno a una riflessione sui sensi possibili, alternativi o paralleli a quelli attualizzati nelle altre traduzioni. Spesso le sue note che riportano una coincidenza hanno l’aspetto della seguente «”Ahàv”, amare: suolo, straniero, saggezza, conoscenza, violenza, vino, olio, giorni, correzione, lite, regalo, focacce, salvezza, nome, ricco, giudizio».

De Luca, partendo dalla certezza grammaticale che tutti i comandamenti sono rivolti a un tu maschile, si chiede chi fosse questo tu. Forse Mosè? Si risponde di no, che Mosè aveva solo il compito di trasmettere il decalogo. Si fa aiutare dalla coincidenza: «z*kh*r» in ebraico è sia «maschio» che forma del verbo «ricordare». Ne conclude che al maschio è affidato il compito di ricordare, alla femmina di generare. Il maschio è «ostruito» per natura e la lingua ancora una volta aiuta l’autore, che ci dice che la circoncisione è la cerimonia di un’apertura. Infatti i non circoncisi erano chiamati «i chiusi».

Quello che emerge dalle note di Erri De Luca è una sorta di biografia della parola, dell’«utensile divino».

 

2. Traduzione con testo a fronte

2.1 Translating the Bible

“So great is the force of established usage that even acknowledged corruptions please the greater part, for they prefer to have their copies pretty rather than accurate.” Jerome

Among our present studies the translation of the Bible holds an important, indeed a unique, position. There are two chief reasons for this.
The first and most fundamental in that the subject matter of the Bible, and especially of the Old Testament, touched the man’s very existence; it tell him about his origin, his purpose and his destination. For countless generations men have been advised to seek the reason for their lives in the pages of the Bible, and to drawn from the same source the rules by which these rules ought to be governed; they have absorbed this instruction at impressionable ages, so that many of them have grown up with the doctrines of the Bible woven into their emotional constitutions. The Bible has become in a real sense different from all other books, and with this it has been untouchable. Men have sought in its pages comfort, or inspirations, or strength, and have found these blessings emotionally rather than logically offered them. this is what they have preferred, so that their religious attitude rests on an unshakable faith, in which they permit no alteration. The cold logic of any thinker who, in fact, may seek to do no more than underline the difference between beliefs that are based on emotion and tenets that are demonstrable facts is likely to be received, and has often been received, with a storm of opposition and abuse unjustified as it is unjustifiable.

The second reason for the unique position for the Bible text among translations is of course the unapproachable quality of the text of the Authorized Version. This has been praised so often, so universally, and for so long that there in no need, at this point, to do more than recall the fact.

 

2.1 Translating the Bible

“So great is the force of established usage that even acknowledged corruptions please the greater part, for they prefer to have their copies pretty rather than accurate.” Jerome

Tra i nostri studi attuali, la traduzione della Bibbia occupa una posizione importante, se non addirittura unica. I motivi principali sono due. Il primo e basilare è che l’argomento della Bibbia, e specialmente dell’Antico Testamento, tocca proprio l’esistenza dell’uomo; gli racconta la sua origine, il suo scopo e la sua meta. Per generazioni e generazioni agli uomini è stato raccomandato di cercare il motivo della loro vita nelle pagine della Bibbia e dalla stessa fonte trarre le regole che la disciplinino. Hanno assorbito questo insegnamento in età influenzabili tanto che molti di loro sono cresciuti con la dottrina della Bibbia radicata nella costituzione emotiva. La Bibbia è diventata effettivamente diversa dagli altri libri e per questo è intoccabile. Tra le sue pagine le persone hanno cercato conforto, ispirazione, forza e hanno sentito che queste benedizioni erano loro offerte irrazionalmente più che logicamente. È quello che hanno preferito e questo ha fatto sì che la loro attitudine religiosa poggi su una fede salda e che non ne permettano alcuna alterazione . La fredda logica di un qualsiasi pensatore che, in effetti, voglia solo evidenziare la differenza tra credenze basate su emozioni e princìpi invece dimostrabili coi fatti probabilmente verrebbe recepita, e spesso così è stato, con una tempesta di ostilità e insulti tanto ingiustificata quanto ingiustificabile.

Il secondo motivo della posizione unica che occupa la Bibbia fra le traduzioni è di certo la qualità inavvicinabile del testo della Authorized Version. Quest’ultima è stata lodata così spesso, così universalmente e così a lungo, che non si può fare altro, a questo punto, che prenderne atto.

 

 

Yet from this there follows the consequence that the English-speaking peoples, having grown up with it, are inclined, normally and naturally, if like most people they are normal an natural and not rational, to resent  any suggestion of change in its matchless words and phrases. No other translators have to face this position: that there already exists a magnificent example of the very work to which they have set their hands, a version so beloved, so enshrined in the hearts of their readers, that they can hope to improve it, here and there, only in matters of editorial detail.

From the point of view of the student of translation the Bible is peculiar in that it has for long been known as a translation. The earliest manuscripts have either perished or have not yet been discovered. There is evidence that an established Hebrew text of the Old Testament was in use at the end of the first century A. D., and that from it were derived both the Greek version known as the Septuagint, the earliest part of which may date back to the third century, and, in the fourth century, the Latin version known as the Vulgate.

The Vulgate was the work of Eusebium Hieronymus, more usually known as St Jerome, the finest scholar of his age and the first to make a translation of the whole Bible into Latin. His aim was to keep to the wording of his predecessors whenever this seemed to him to be accurate, and to introduce changes only when corruption of the text was apparent. His translation has long been regarded as one of three supreme versions, fit to be compared with Luther’s German Bible and our own King James’s Version. It continued in general use in Britain until the time of the Reformation. A very large number of English translations of the Bible have been made in last six hundred years, and they may be considered in three ways: as fragments of historical bibliography; as part of the development of theological doctrine; and as a series of examples of translational practice.

 

Eppure la conseguenza è che le persone anglofone, essendo cresciute con l’Authorized Version, sono naturalmente e normalmente inclini, se come la maggior parte delle persone sono normali e naturali piuttosto che razionali, a rifiutare qualsiasi proposta che cambi le sue parole e frasi impareggiabili. Nessun altro traduttore si trova a dover affrontare questa situazione: proprio del lavoro al quale hanno apposto la loro firma c’è già un esempio perfetto, una versione così amata, così racchiusa come un gioiello nel cuore dei lettori, che possono sperare di migliorarla, qua e là, solo in qualche dettaglio editoriale.

Dal punto di vista degli studiosi di traduzione, la Bibbia è particolare per il fatto che per moltissimo tempo è stata conosciuta solo in traduzione. I manoscritti più antichi sono andati distrutti o non sono stati ancora scoperti. Ci sono prove del fatto che un testo ebraico ufficiale era in uso alla fine del primo secolo d.C. e che da esso derivanosia la versione greca nota come Septuaginta, le prime parti della quale potrebbero risalire al III secolo, e nel IV secolo la versione latina, conosciuta come Vulgata.

La Vulgata è opera di Eusebius Hieronimus, più comunemente noto come San Girolamo, il più raffinato studioso del suo tempo e il primo a fare una  traduzione dell’intera Bibbia in latino. Il suo intento era di attenersi alla formulazione dei suoi predecessori quando questa fosse accurata e di introdurre dei cambiamenti solo laddove il testo fosse palesemente corrotto. La sua traduzione è stata a lungo considerata  una delle tre versioni supreme, paragonabile alla Bibbia tedesca di Lutero e alla King James. Ha continuato a essere comunemente usata in Gran Bretagna fino alla Riforma. Negli ultimi seicento anni sono state fatte moltissime traduzioni inglesi della Bibbia e possono essere considerate in tre modi: frammenti di bibliografia storica; parte dello sviluppo della dottrina teologica e infine una serie di esempi di pratica traduttiva.


Each of these has its place in the growth of literary scholarship: in this chapter the translating must be given emphasis over the other aspects.

As a preliminary point, attention should be called to the fact, peculiar to Bible translating, that over the years there have been changes in our knowledge of the original texts, changes in our knowledge of the Hebrew and ancient Greek languages, and changes in our use of our own language.

Translators of other books do not expect to have to meet the first two of these vital characteristics of Bible translation.

The first English version was due to the conviction of John Wyclif (? 1320- 82), Master of Balliol and Canon Lincoln, that men could be expected to order their lives in accordance with the precepts of the Bible only if they were able to read the book itself. He was probably not the actual translator; the work, based on the Vulgate, was done by his friends. There were two versions: he earlier is believed to have been made largely by Nicholas of Hereford in 1382, and the second, a revision, was edited by John Purvey, who had been Wyclif’s secretary, in 1390.

The first translation, following Wyclif’s advice, was a very literal translation; it often preserved the word order and the Latin constructions of the Vulgate, even when the consequence was not good English. Purvey, however, is believed to have compared several Latin manuscripts, and, defending his method, produced a more natural text.

At this time the Bible, like very other book, was written by hand and so could be reproduced only by the laborious process of copying. The scribes who undertook this task were always liable to make mistakes, a form of human frailty which has been responsible for countless uncertainties in all the earliest manuscripts.

 

 

Ognuno di questi ha il proprio posto nell’evoluzione dello studio del testo.

Per prima cosa, l’attenzione va posta sul fatto, tipico della traduzione della Bibbia, che negli anni sono avvenuti cambiamenti nella nostra conoscenza degli originali, in quella della lingua ebraica e del greco antico e nell’uso della nostra lingua madre. I traduttori di altri libri non incontrano le prime due di queste essenziali caratteristiche della traduzione della Bibbia.

La prima versione inglese si deve alla convinzione di John Wyclif (?1320 – 1382), preside al Balliol college e canonico al Lincoln, che ci si poteva aspettare dagli uomini che disciplinassero la loro vita secondo i precetti della Bibbia solo se fossero stati in grado di leggerla. È probabile che non fosse lui il vero traduttore, ma che il lavoro, basato sulla Vulgata, sia stato svolto dai suoi collaboratori. Ne esistevano due versioni: la prima, del 1382, si crede sia opera in gran parte di Nicholas di Hereford e la seconda, una revisione, fu curata nel 1390 da John Purvey, segretario di Wyclif.

La prima traduzione, sotto suggerimento di Wyclif, era molto letterale. Spesso conservava l’ordine delle parole e delle costruzioni latine della Vulgata, anche quando ciò produceva un inglese non gradevole. Tuttavia si crede che Purvey abbia messo a confronto molti manoscritti latini e, difendendo il suo metodo, abbia realizzato un testo più naturale.

In questo periodo la Bibbia, come ogni altro libro, era scritta a mano e perciò poteva essere riprodotta solo col laborioso processo di copiatura. Gli scribi che si assumevano questo compito a volte facevano errori, fragilità umana che è  responsabile di innumerevoli dubbi in tutti i manoscritti più antichi.

 

The first printed Bible was the work of William Tyndale (? 1484 – 1536), and was not made from the Vulgate but from the Greek of Erasmus- Tyndale believed that the quality of the English was of greater importance than literal faithfulness. He began to make his translation about 1523, when he was living in London, but found it advisable to move to Germany. Here, first at Cologne and later at Worms, he completed the printing of the New Testament in 1526. This was followed in 1530 buy the Pentateuch, translated from the Hebrew.

Tyndale had not finished the Old Testament at the time of his martyrdom, and in 1535 the first complete printed English Bible was produced at Cologne by Miles Coverdale (1488 – 1569). He used German and Latin texts since he knew neither Greek nor Hebrew, and he often followed Tyndale closely.

Tyndale had left a quantity of manuscript translations of parts of the Old Testament, and these were taken by one of his followers, John Rogers, added to the existing Tyndale version, and a composite work completed by using the necessary parts of Coverdale. The whole was produced at Antwerp under the pseudonymous editorship of Thomas Matthew  in 1537. two years later it was re-edited by Richard Taverner.

In 1538 Cromwell ordered that every church should contain Bible for general use, and to meet the demand a revision of the Matthew Bible was made by Coverdale. It was known as the Great Bible and is most familiar to us today because it contained the Psalms as they still appear in our Book of Common Prayer. It is sometimes called Cranmer’s Bible because he wrote a preface to the edition of 1540.

The famous Geneva Bible appeared in 1560. it was the work of William Whittingham, John Knox, and others who were determined to further the doctrine of Protestantism. This was the Bible of Shakespeare, and it was a great and popular success.

 

La prima Bibbia stampata fu opera di William Tyndale (?1484-1536) e non era una traduzione della Vulgata, ma della versione greca di Erasmo. Tyndale credeva che la qualità dell’inglese fosse di maggiore importanza rispetto alla fedeltà letterale. Iniziò questa traduzione nel 1523 circa, quando viveva a Londra, ma ritenne meglio trasferirsi in Germania. Qui, prima a Colonia e poi a Worms, completò la stampa del Nuovo Testamento nel 1526, a cui seguì il Pentateuco, tradotto dall’ebraico.

Tyndale non aveva finito l’Antico Testamento quando subì il martirio e nel 1535 a Colonia fu stampata da Miles Coverdale (1488-1560) la prima Bibbia inglese completa. Si servì di testi latini e tedeschi, dal momento che non conosceva né il greco né l’ebraico e spesso aderì strettamente a Tyndale.

Tyndale lasciò molte traduzioni manoscritte di parti dell’Antico Testamento che vennero raccolte da uno dei suoi seguaci, John Rogers, aggiunte alla versione esistente di Tyndale e fu realizzata un’opera composita usando le parti di Coverdale necessarie. Fece stampare il tutto ad Anversa sotto lo pseudonimo di Thomas Matthew nel 1537. Due anni dopo ci fu la versione di Richard Taverner.

Nel 1538 Cromwell ordinò che ogni chiesa avesse una Bibbia che potesse essere consultata da tutti e per andare incontro a questa richiesta Coverdale realizzò una revisione della Bibbia di Matthew. Si chiamava Great Bible ed è molto familiare a noi oggi perché contiene i Salmi così come appaiono ora nel Book of Common Prayer.  A volte viene chiamata «Bibbia di Cranmer» perché questi scrisse una prefazione all’edizione del 1540.

La famosa Bibbia di Ginevra fa la sua comparsa nel 1560. Era opera di William Whittingham, John Knox e altri, determinati a promuovere la dottrina del Protestantesimo. Questa fu la Bibbia di Shakespeare, un successo enorme e popolare.
Its rendering of Genesis iii, 7, ‘and they sowed fig-tree leaves together and made themselves breeches’, has caused it to be affectionately known as the Breeches Bible.

The reception, favourable or antagonistic, given to all these Bibles from Tyndale’s onwards, was determined not by their literary standards but by the doctrinal character of the included ‘Notes’. It was because  Archbishop Parker disapproved of the Puritan notes to the Geneva Bible, that he caused a panel of bishops to edit another version. This, appropriately known as the Bishops’ Bible, appeared in 1568. It was not so much a new translation as a re-writing of the Geneva Bible, and it remained the authoritative Bible of the Church in Britain for forty-three years.

At about the same time members of the Roman Catholic Church felt the need to produce a Bible of their own. Translations of the New Testament, published in 1582, and of the Old Testament in 1609 were the work of professor Gregory Martin of the English College of Douai and (temporarily) of Rheims. They were based on the Vulgate and contain a proportion of Latinisms which do not tend towards easy reading. A typical feature, interesting from the point of view of translation, is its version of the Psalms.  The Psalms in the Vulgate were based on a Gallican psalter from the Greek Septuagint: hence  the Douai psalter is a translation of a translation of a translation. We have met this phenomenon before. Although the Douai-Rheims Bible more than once received editorial attention, it was due for a complete revision by the eighteenth century, and this was undertaken by Bishop Richard Challoner. He produced several successive revisions of his own work which finally took the form of the Douai Bible as in use, with minor emendations, today.

On 14th January, 1603, King James I summoned the bishops and other clergy to a conference at Hampton Court.

 

La sua resa di  Genesi III, 7 «and they sowed fig-tree leaves together and made themselves breeches»  le ha dato il soprannome di «Breeches Bible».

La ricezione, favorevole o contraria, di tutte queste bibbie, da quella di Tyndale in poi, fu determinata non dal loro standard letterario, ma dal carattere dottrinale delle «Note» aggiunte. La disapprovazione dell’arcivescovo Parker per le note puritane alla Bibbia di Ginevra e l’insoddisfazione per la Great Bible favorirono la formazione di un gruppo di vescovi incaricati di curarne un’altra versione. Questa, giustamente conosciuta come Bishops’ Bible, apparve nel 1568. Era più una riscrittura della Bibbia di Ginevra che un nuova traduzione e rimase la Bibbia di riferimento della Chiesa in Gran Bretagna per quarantatré anni.

All’incirca nello stesso periodo i cattolici romani sentirono la necessità di realizzare una propria Bibbia. Traduzioni del Nuovo Testamento, pubblicate nel 1582, e dell’Antico Testamento nel 1609, furono opera del professor Gregory Martin del Collegium anglorum duacense e (temporaneamente) di Rheims. Le sue traduzioni erano basate sulla Vulgata e contengono molti di latinismi che non facilitano la lettura. Una caratteristica tipica, interessante dal punto di vista traduttivo, è la sua versione dei Salmi. I Salmi della Vulgata si basano su un salterio gallicano della Septuaginta: quindi il libro dei Salmi di Douai è una traduzione di una traduzione di una traduzione. Abbiamo già incontrato questo fenomeno in passato. Nonostante la Bibbia di Douai-Rheims più di una volta avesse ricevuto attenzione editoriale, fu sottoposta a una revisione completa nel Settecento, intrapresa dal vescovo Richard Challoner. Fece molte revisioni del suo stesso lavoro, che infine prese la forma della Bibbia di Douai che, con modifiche secondarie, è in uso oggi.

Il 14 gennaio 1603 Re Giacomo I radunò i vescovi e altri esponenti del clero in una conferenza alla Hampton Court.
On the following day Dr John Reynolds, President of Corpus Christi, Oxford, and Dean of Lincoln, put forward this plea: ‘May your Majesty be pleased that the Bible be new translated, such as are extant not answering the original?’ To this the King agreed, saying, ‘ I confess I could never yet see a Bible well translated in English; but I think that of all, that of Geneva is the worst’. Here and thus was the birth of the Authorized Version.

In July of the following year the forty-seven learned men were appointed, and three years later began their work, which was published by the King’s Printer in 1611. the Bishops’ Bible  was the foundation, and reference was freely made to other translations mentioned above as well as to Greek and Hebrew texts. King James had supplied a set of rules which were to be observed, and the translators adopted the principle of giving their readers the spirit and meaning of their ‘originals’ in preference to a closer translation. They were especially careful of the rhythm and euphony of their work, and in this their success has never been approached.

As a literally achievement the Authorized Version is unlikely to be superseded by any other as long as the English language is spoken or read, a claim that can hardly be made for any other translation in the literature of the world.

Like all its predecessors, the Authorized Version received its share of criticism. Where the critics found fault with its scholarship the deserved attention, and although new translations of several books were made during the next two centuries it was not until 1870 that the Bishop of Winchester, addressing the Upper House of Convocation, suggested the Upper House of Convocation, suggested the  appointment of a committee to produce what is now known as the Revised Version. The New Testament was published in 1881, the Old Testament in 1884 and the Apocrypha in 1895. Praise for the Revised Version has always been couched in guarded terms.

 

Il giorno seguente, il dottor John Reynolds, presidente del Corpus Christi College di Oxford e decano del Lincoln, avanzò questa proposta: «Potrebbe Sua Maestà gradire che la Bibbia fosse nuovamente tradotta poiché quelle esistenti non sono rispondenti all’originale?». Il re acconsentì dicendo: «Confesso di non essere mai riuscito a vedere una Bibbia ben tradotta in inglese; tuttavia penso che, tra tutte, quella di Ginevra sia la peggiore». Qui e così è nata la Authorized version.

Nel luglio dell’anno seguente vennero designati quarantasette eruditi e tre anni più tardi cominciarono l’opera che fu pubblicata dal Kings Printer nel 1611. La Bishops’ Bible ne era la matrice e c’erano riferimenti liberi ad altre traduzioni menzionate in precedenza, così come ai testi greco ed ebraico. Il re Giacomo aveva fornito regole da osservare e il principio adottato dai traduttori fu quello di dare al lettore lo spirito e il significato degli «originali», preferendoli a una traduzione più letterale. Prestarono particolare attenzione al ritmo e all’eufonia e in questo il loro successo rimane ineguagliato.

 

Come successo letterario è improbabile che la Authorized Version verrà sostituita da qualche altra versione finché l’inglese verrà parlato o scritto, affermazione che difficilmente può essere fatta per qualsiasi altra traduzione a livello mondiale.

Come tutte le Bibbie precedenti, anche l’Authorized Version ricevette la sua parte di critiche. Non avevano torto i critici che trovarono difetti interpretativi e anche se durante i due secoli successivi furono ritradotti diversi libri, non fu prima del 1870 che il vescovo di Winchester, rivolgendosi alla Upper House of Convocation, propose la nomina di una commissione per realizzare quella oggi conosciuta come Revised Version. Il Nuovo Testamento fu pubblicato nel 1881, il Vecchio Testamento nel 1884 e i Vangeli Apocrifi nel 1895. Le lodi alla Revised Version sono sempre state avanzate in modo cauto.

 

It was, as it was meant to be, an improved rendering of the Greek text, for which reason it has been widely approved in colleges and used by students, because its textual accuracy outweighs other features. It cannot be read with the same sensuous pleasure: put shortly, it is an example of what has already been described as ‘translator’s English’.

An edition of the Revised Version with modifications more acceptable to American opinion was published in 1901 and was known as the American Standard Version. It was protected by copying which was acquired in 1928 by the International Council of Religious Education, and in due course this body determined on a revision. A committee of thirty-two scholars began work in 1937; they did not attempt a new translation, but a new version based on its predecessors of 1611, 1881 and 1901, with due consideration given to most recent opinions. The New Testament was published in 1946 and the two Testaments together in 1952 – the Standard Revised Version.

Its welcome was surprising and was deserved. English readers on both sides of the Atlantic appreciated the fact that here was the Bible in good literary English, unspoilt by Americanisms and free from such  obsolescent words as ‘saith’ and ‘thou’. It was really the first of the twentieth-century Bibles which seemed to promise ‘to do for today and tomorrow what we Authorized Version did for the seventeenth and following centuries’. Criticism was nearly all based on doctrinal points, and an actual test conducted on 1,358 children in Ohio proved that it was more readily and accurately understood than was the Authorized Version. A translator unconcerned with doctrine could wish for nothing better.

Many readers will be surprised to learn that between 1902 and 1966 at least twenty-eight versions of the Bible, or at any rate of considerable parts of it, were produced in the English language.

 

Era, così come era stata concepita, una resa migliorata del testo greco e per questo motivo fu ampiamente approvata nei college e usata dagli studenti, perché la sua accuratezza testuale controbilancia altre caratteristiche. Non può essere letta con lo stesso piacere dei sensi: in breve, è un esempio di ciò che è già stato descritto come «traduttese».

Un’edizione della Revised Version con modifiche più accettabili per la cultura americana fu pubblicata nel 1901 ed è conosciuta come la American Standard Version. Era protetta da copyright, che nel 1928 fu acquisito dall’International Council of Religious Education e a un certo punto quest’organo decise che era necessaria una revisione. Una commissione di trentadue studiosi si mise al lavoro nel 1937. Non si cimentarono in una nuova traduzione, ma in una nuova versione basata sulle precedenti del 1611, 1881 e 1901, dando il dovuto peso alle opinioni più recenti. Il Nuovo Testamento fu pubblicato nel 1945 e i due Testamenti insieme nel 1952: la Standard Revised Version.

Fu accolta in modo sorprendente e meritato. I lettori inglesi da entrambi le parti dell’Atlantico apprezzarono il fatto che fosse una Bibbia in un buon inglese letterario, non contaminata da americanismi e libera da parole obsolete come «saith» e «thou». Fu davvero la prima delle Bibbie del Novecento che sembrava promettere «di fare per oggi e per domani, quello che l’Authorized Version ha fatto per il Seicento e i secoli successivi». Le critiche erano quasi tutte fondate su questioni dottrinali e un vero test condotto su 1358 bambini del’Ohio dimostrò che era più leggibile e comprensibile rispetto all’Authorized Version. Un traduttore che non si preoccupa della dottrina non potrebbe volere di meglio. Molti lettori saranno sorpresi di apprendere che tra il 1902 e il 1966 furono realizzate in inglese almeno ventotto versioni della Bibbia, o comunque di parti considerevoli.

 

 

Why did this happen? No translator of the Bible can hope to produce a greater literally masterpiece than the Authorized Version, and it consequence there is reason for an examination of the hopes and ideals of modern translators.

One cannot begin such an examination without recalling the universal, fundamental and wholly natural tendency among all peoples to prefer the language in which they read Holy Writ to be slightly archaic, old-fashioned if it please you, slightly different from the language of the market-place or even of the study, slightly mysterious in phrase and in image. All such people will read ‘And the veil of the Temple was rent in twain’ with far greater satisfaction than its modern paraphrase: ‘And the curtain in the Temple was torn in half’.

Obviously the Authorized Version satisfies these desires. Equally obviously there are many who sincerely believe that the message of the Bible can only be understood, appreciated, and in the literal sense assimilated into the reader’s character if it is put before him in the plain speech of modern times. Translators who share this opinion do not hope to do more than to produce a version in acceptable English, fit to be considered as a reasonable alternative to the Authorized Version. their belief must be that they are making the Bible easier to read, and that they are thereby increasing the number of its readers, a wholly laudable object.

Others are evidently working under the inspiration of scholarship.

Learning and scholarship continuously improve our knowledge of the earliest sources of the Bible text and also of the languages in which it was written, so that we are becoming increasingly aware that in the traditional versions there are mistakes which can be corrected, obscure passages that need no longer remain difficult, and preferable readings to passages which at one time seemed to offer alternatives.

 

Perché? Nessun traduttore della Bibbia può sperare di creare un capolavoro letterario migliore della Authorized Version e di conseguenza vale la pena di esaminare le speranze e gli ideali del traduttori moderni.

Non si può cominciare un’analisi di questo tipo senza ricordare la tendenza universale, fondamentale e totalmente naturale in tutti i popoli a preferire, per le Sacre Scritture, una lingua piuttosto arcaica, fuori moda se preferite, un po’ diversa dalla lingua del mercato o anche dello studio, con frasi e immagini misteriose. Queste persone leggevano «and the veil of the Temple was rent in twain» con maggior soddisfazione rispetto alla parafrasi moderna «and the curtain in the Temple was torn in half».

È chiaro che l’Authorized Version soddisfa questi desideri. È ugualmente chiaro che ci sono molti che credono sinceramente che il messaggio della Bibbia possa essere capito, apprezzato e assimilato nel suo senso letterale solo nella lingua semplice dei tempi moderni. I traduttori che condividono questo pensiero non sperano di fare altro che produrre una versione in un inglese accettabile, che possa essere considerata un’alternativa alla Authorized Version. Il loro credo deve essere di realizzare una Bibbia più facilmente leggibile e quindi di aumentare il numero di lettori: scopo senz’altro lodevole.

Altri stanno evidentemente lavorando ispirati all’accademia. Lo studio e l’accademia migliorano continuamente la nostra conoscenza delle più antiche fonti del testo della Bibbia e anche le lingue in cui è stato scritto e così siamo sempre più consapevoli del fatto che nelle versioni tradizionali ci sono errori che possono essere corretti, passi oscuri che non è necessario rimangano difficili e letture preferibili a passi che un tempo sembravano offrire alternative.

 

 

These defects, and others, scholarship is now prepared to remove or reduce, to present us with a version of the Bible which is written in modern English and is accurate because it tells us, as nearly as is possible, what the original authors really meant us to read.

In an attempt to estimate fairly the results of revision, the principle of reader-analysis, used elsewhere, may helpfully be repeated, asking question, Why does anyone read the Bible? The readers may be divided into the following groups:

1)    The clergy and the theological students, who must always maintain a professional concern of the Bible, which fills the place of their fundamental textbook.

2)    The devout men and women who lead Christian lives, and who read the Bible regularly in the course of their devotions.

3)    Less regular readers who are, however, likely at any time to read a few verses, a page, or a chapter, solely for their own satisfaction.

4)    All the members of the congregations in churches and chapels, to whom the Bible is read aloud in public worship.

 

The first group hardly enters the present discussion, for professors are expected to know as much as possible of their subject, and like all scholars must keep abreast of its progress. But the facts remain that, first, a striving after scholarly accuracy is largely discounted by the absence of any indisputably accurate original Hebrew or Greek versions. The available sources are not ‘original’, they are copies, or copies of copies of copies, and all of them different and inaccurate and puzzling in various degrees.

 

 

L’accademia ora è pronta a rimuovere o ridurre questi e altri difetti, per darci una versione della Bibbia scritta in inglese moderno e che sia accurata perché ci dice il più possibile quello che gli autori originali davvero volevano che leggessimo.

Nel tentativo di valutare con equità i risultati della revisione, il principio dell’analisi dei lettori, usato altrove, potrebbe essere utilmente ripetuto domandandosi «perché una persona legge la Bibbia?» I lettori possono essere divisi nei seguenti gruppi:

1)    Il clero e gli studiosi di teologia che devono sempre mantenere un interesse professionale per la Bibbia, che rappresenta il loro libro di testo fondamentale.

2)    Le donne e gli uomini devoti che conducono vite cristiane e che leggono la Bibbia regolarmente nel corso delle loro preghiere.

3)    I lettori meno regolari, che comunque è possibile leggano qualche verso, pagina o capitolo semplicemente per piacere personale.

4)    Tutti i membri delle congregazioni nelle chiese e nelle cappelle, ai quali la Bibbia viene letta ad alta voce durante le funzioni religiose.

 

Il primo gruppo difficilmente rientra in questo dibattito, dal momento che ci si aspetta che i professori sappiano il più possibile della loro materia e che come tutti gli studiosi si tengano aggiornati. Ma il punto rimane che, prima di tutto, il dibattito sull’accuratezza accademica è ampiamente inficiato dalla mancanza di una versione originale greca o ebraica incontestabile. Le fonti disponibili non sono “originali”, ma copie, o copie di copie di copie e sono tutte diverse, non accurate e enigmatiche a vario titolo.
The maker of a really new  translation has to choose between a number of imperfect sources, and in places of divergence he has to choose the one he prefers, or condemn them all and make his own emendation.

The second question asks how great is the appeal of pure scholarship in the world of today; what is its place, if any, in the Welfare State? One has nor heard the bishops and archbishops loudly proclaiming from the Episcopal pulpits the virtues of the latest translations, nor asking for their general use in their dioceses. And yet, since bishops may not illogically be supposed to represent in general the scholarly element in what is essentially a learned vocation, their doing so would be a justification of the scholars’ views, and would support the idea that scholarly accuracy in the text of the scriptures was of overwhelming importance.

The fourth group does not ask for much space, for its members have little opportunity to express their opinions on what is read to them, or to state their wishes as to what should be read. This leaves the second and third groups, which are much the largest, and therefore the most important for the translator who wishes to reach the hearts and minds of his readers. The fundamental fact about both the devout and the casual reader is that nearly all of them learned to know and to love the Authorized Version during the impressionable years of childhood. This is of overwhelming importance; all that is contained and implied in the phrase ‘at their mother’s knee’ colours the whole of their Bible reading.

The conservatism of children is well known; and it is a characteristic of all human minds that they resent and oppose change. That their opposition may be illogical, their resentment indefensible, and their whole attitude obstructionist, is of no significance, for their attitude is universal and constitutes a real factor in human progress in every sort of human activity.

 

Chi si appresta a realizzare una traduzione davvero nuova della Bibbia deve scegliere tra molte fonti imperfette e in caso di discrepanze deve optare per quella che preferisce o bocciarle tutte per fare la sua correzione personale.

La seconda domanda è «quanto interessa l’accademia pura nel mondo di oggi? Quale il suo posto, se ne ha uno, nel welfare state?» Nessuno ha mai sentito i vescovi e gli arcivescovi annunciare a gran voce dal pulpito le traduzioni appena uscite e neanche  chiedere che vengano usate nella diocesi. Tuttavia, dal momento che i vescovi dovrebbero rappresentare, non senza motivo, l’elemento accademico di quella che essenzialmente è una vocazione colta, il loro agire in questo modo sarebbe una giustificazione delle opinioni degli studiosi e confermerebbe l’idea che l’accuratezza accademica del testo delle scritture è di enorme importanza.

Il quarto gruppo non richiede un’ampia trattazione, dal momento che i credenti hanno poche possibilità di esprimere le loro opinioni su quello che viene loro letto. Rimangono il secondo e il terzo gruppo, che sono i più numerosi e quindi i più importanti per il traduttore che voglia raggiungere il cuore e la mente dei lettori. Il punto fondamentale sia per il lettore devoto sia per quello occasionale è che più o meno tutti hanno imparato a conoscere e ad amare l’Authorized Version da piccoli, quando si è più impressionabili. Questo è di importanza estrema; tutto ciò che è contenuto e sottinteso nella frase “at their mother’s knee” colora l’intera lettura della Bibbia. È noto che i bambini sono conservatori. È inoltre una caratteristica della mente umana rifiutare o ostacolare i cambiamenti. È irrilevante che la loro opposizione possa essere illogica, il loro risentimento indifendibile e la loro modo di pensare ostruzionistico, poiché il loro atteggiamento è universale e costituisce un vero fattore del progresso umano in ogni tipo di attività umana.

 

But there are others, and their name is legion, who form indeed the greater part of the rising generation. When Sir Arthur Quiller-Couch spoke of the prose of the Authorized Version, he said ‘It is in everything we see, hear, feel, because it is us, in our blood’.

These words occur at the end of a lecture which gave in May 1913. read today, more than half a century later, they might easily evoke the comment ‘It sure is not’. And this is true. The generation that learned of the Bible at their mother’s knees has been replaced by another; mothers have been more variously employed and their knees have found different functions. Their children have changed accordingly. At one time it was said that we do less than justice to the newer translations if we conclude that they have improved those parts of the Bible that nobody wants to read and have failed to leave those parts that everybody reads in the form in which all will continue to do so; but opinions also change, and the Bibles of the present century deserve a sympathetic consideration.

A survey of all these Bibles shows the uniform intention of making the book more freely read by the multitude. The example was set by Dr Weymuth, whose New Testament in modern speech in 1903 was the first undoubtedly successful attempt to present the gospels and epistles in the language of contemporary Englishmen. Other versions at about the same time were not so popular, and this may have been in part due to Weymouth’s scholarly yet balanced point of view.  He said that ‘without a tinge of antiquity it is scarcely possible that there should be that dignity of style that befits the sacred themes’. Clearly, the operative word is ‘tinge’, implying that the antiquity must not be obtrusive; and this opinion survives to the present day, for we have been told by Dr Alexander Jones of Liverpool that in forfeiting ‘biblical language’ we lose something that is ‘very precious’.

 

Ma ci sono anche altri, e potremmo dire che il loro nome è legione, che di fatto costituiscono la maggior parte della nuova generazione. Quando Sir Arthur Quiller-Couch parlò della prosa dell’Authorized Version disse «È in tutto ciò che vediamo, sentiamo, proviamo, perché è dentro di noi, nel nostro sangue».

Queste furono le sue parole alla fine di una conferenza che tenne nel marzo del 1913. Letta oggi, più di mezzo secolo più tardi, potrebbe facilmente suscitare il commento «non è di sicuro così». E questo è vero. Questa generazione che ha conosciuto la Bibbia sulle ginocchia della madre è stata sostituita da un’altra; la madre ha avuto un impiego più eterogeneo e le sue ginocchia hanno svolto altre funzioni. I loro figli sono cambiati di conseguenza. Una volta si diceva che non rendiamo affatto giustizia alle traduzioni più recenti se ci limitiamo a dire che hanno migliorato le parti della Bibbia che nessuno vuole leggere e invece hanno lasciato invariate le parti che tutti leggono nella forma in cui tutti continueranno a leggerle. Ma anche le opinioni cambiano e le Bibbie di questo secolo meritano una considerazione positiva.

Uno sguardo generale su tutte queste Bibbie mostra l’intenzione uniforme di rendere il libro più facilmente leggibile da un vasto pubblico. L’esempio viene dal dottor J. Weymouth, il cui New Testament in Modern Speech del 1903 fu il primo e indiscutibilmente riuscito tentativo di presentare i Vangeli e le Epistole nella lingua degli inglesi moderni. Altre versioni pubblicate nello stesso periodo non furono così popolari e questo forse fu dovuto in parte al punto di vista accademico, anche se bilanciato, di Weymouth. Quest’ultimo affermò che  «senza un tocco di antico è poco probabile  che ci sia quella dignità stilistica che si addice ai temi sacri». È evidente che la parola chiave è «tocco» e ciò implica che l’antico non deve essere prominente. Questa opinione sopravvive ancor oggi, perché come dice il professor Alexander Jones di Liverpool, rinunciando alla «lingua biblica» perdiamo qualcosa di «molto prezioso».

 

There are detectable three distinct genera of twentieth-century Bibles. The most primitive are the simple paraphrases that have aimed at nothing more than plain, modern English, with little or no concern for textual accuracy. The most daring fall into the category of pseudo-translation, discussed in Chapter XIII, and in reading them one wonders what their successors will be like in a hundred years’ time. The temptation is irresistible to prophesy that our descendants may open the first chapter of Genesis and read: ‘Well, to start with, God made the earth and the sky; the earth was misshapen and empty and dark everywhere…and he said “Let’s have a light here”… “Ah, that’s good.”’

 

The second genus, which is commendably the largest contains real new translations make by real scholars, driven by devotion and enthusiasm. Many of these reach a surprisingly large number of readers, and their translators are deservedly rewarded. There is always great interest in noting and comparing the short expositions of their translators have included in their prefaces. And these differ. Dr James Moffatt, for example, whose New Testament was published in 1913 and Old Testament in 1924, wished to ‘present the books of the Old and the New Testaments in effective, intelligible English’. Monsignor Ronald Knox, whose translation has been received by the Roman Catholic Church as a worthy companion, or perhaps a successor, to the Douai Bible, aimed at a ‘timeless, acceptable’ English; and the Reverend J. B. Phillips, whose successes in this sphere have been the most spectacular, set himself the seemingly impossible task of ‘forgetting’ the Autohrized Version and the translating the Greek Testament ‘s if it were new’.

 

Si possono individuare tre generi distinti di bibbie del Novecento. Le più primitive sono le semplici parafrasi che miravano a nient’altro che a un inglese semplice e moderno, con un’accuratezza testuale minima, se non inesistente. Le più ardite costituiscono la categoria delle pseudotraduzioni, discusse nel capitolo XIII, la cui lettura ci fa domandare come saranno le traduzioni che verranno fra centinaia di anni. È irresistibile la tentazione di predire che i nostri successori potrebbero aprire il primo capitolo della Genesi e leggere «Bene, per cominciare Dio creò la terra e il cielo; la terra era deforme e vuota e tutta buia…e disse “Facciamo un po’ di luce qui”… ”Oh, così va bene”».

Il secondo tipo, che lodevolmente è il più numeroso, contiene traduzioni sicuramente nuove, fatte da veri studiosi, guidati da entusiasmo e devozione. Molte di queste versioni raggiungono una quantità sorprendente di lettori e i loro traduttori sono meritatamente ricompensati. È sempre grande l’interesse nell’annotare e confrontare le brevi esposizioni dei loro princìpi, che i traduttori espongono nelle prefazioni. E queste differiscono l’una dall’altra. Per esempio il professor James Moffatt, il cui Nuovo Testamento venne pubblicato nel 1913 e il Vecchio nel 1924, desiderava «presentare i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento in un inglese efficace e comprensibile». Il monsignor Ronald Knox, la cui traduzione è stata accolta dalla chiesa cattolica come degna compagna, o forse erede, della Bibbia di Douai, mirava a un «inglese senza tempo e accettabile». Il reverendo J. B. Phillips, i cui successi in questo campo furono i più spettacolari, si prefisse quello che sembrava l’impossibile obiettivo di «dimenticare» l’Authorized Version e di tradurre il Testamento greco «come se fosse nuovo».

 

Obviously, there is nothing to prevent anyone from reopening the familiar Greek Testament, with which in years gone by he gained admission to Oxford or Cambridge, and setting about the same task, and, in fact, a number of men have done so. The most significant differences are to be found between the theologians, whose practical knowledge of Greek is almost limited to the New Testament, and those who have a classical scholar’s wider familiarity with the literature of ancient Greece.

The thirds and the most sophisticated genus contain the new translations made by committees of scholars, made slowly and with the greatest possible care, with reference to and comparisons of the most trustworthy of the ancient scripts. In our generations nothing has approached the New English Bible and the Jerusalem Bible.

A suggestion that a completely new translation of the Bible should be undertaken was made at the General Assembly of the Church of Scotland in 1946. the idea met with general approval, a committee was formed in the following year, and, meeting in Westminster Abbey under Bishop Hunkin of Truro, appointed three panels of translators and a fourth panel of literary advisers. General director of the whole enterprise was Professor C. H. Dodd of Cambridge.

The panels worked slowly, with constant interchange of drafts, corrections and opinions; and the version of the New Testament was approved in March 1960, representing thirteen years’ work.

 

È ovvio che non c’è niente che vieti di riaprire il solito Testamento greco, con il quale anni prima ci si è guadagnati l’ammissione a Oxford e Cambridge e prefiggersi lo stesso obiettivo e, infatti, in molti l’hanno fatto. Le differenze più significative vanno ricercate fra i teologi, la cui conoscenza pratica del greco è limitata quasi esclusivamente al Nuovo Testamento e coloro che invece hanno una dimestichezza più ampia e di stampo classico con la letteratura dell’antica Grecia.

Il terzo e più sofisticato tipo contiene le nuove traduzioni fatte da commissioni di accademici, lentamente e con la maggior cura possibile, con riferimenti a e paragoni con i testi antichi più attendibili. Nella nostra generazione niente ha eguagliato la New English Bible e la Jerusalem Bible.

La proposta di intraprendere una traduzione completamente nuova della Bibbia fu avanzata all’Assemblea Generale della Church of Scotland nel 1946. L’idea raccolse il consenso generale e negli anni successivi venne creato un comitato che, riunitosi nell’Abbazia di Westminster sotto la guida del vescovo Hunking di Truro, designò tre panel di traduttori e un quarto di consulenti letterari. Il direttore generale del progetto era il professor C. H. Dodd di Cambridge.

I panel lavoravano lentamente, con uno scambio continuo di bozze, correzioni e opzioni. La versione del Nuovo Testamento fu approvata nel marzo del 1960, dopo tredici anni di lavoro.

 

Professor Dodd has told us of the principles and ideals that the translators had set before themselves. They wished to produce a Bible which should be an accurate transcription of the best authenticated texts, which should be scholarly with no trace of pedantry, which above all should be couched in modern English idiom with a preference for short and simple sentences; and which should be equally suitable for reading aloud or for private study. If this were accomplished, the hope that the New English Bible would be universally accepted as an authoritative translation, and one which would encourage many to become more familiar with the words and doctrines of the scriptures.

Immediately on its publication the New English Bible received the widespread examination that was only to be expected, and Dr D. Nineham has done valuable service by editing a large collection of these reviews. They show, inevitably, a large number of individual comments on isolated words and phrases, most of which are negligible since there is no reason to suppose that the critics were better scholars than the translators. As a work of translation the New English Bible has received more care from competent scholars than had any of its predecessors: it is undoubtedly more easily read by the ‘ordinary man’ who does not know the Authorized Version particularly well, and is therefore likely to achieve its aim of producing a better and more widespread appreciation of the fundamentals of Christianity. The theologians have been more generous in their early assessments than have the purely literary critics; the have praised its faithfulness to the original Greek, and have especially commented the way in which  it succeeds in bringing out the differences between the styles  of the different books. This is an uncommon virtue in Bible translations: there is a tendency to translate as if all four gospels had been written in faultless, literary Greek of their time, whereas they were written in more colloquial styles, and with different feelings and purposes.

 

 

Il professor Dodd ci ha esposto i princìpi e gli ideali che i traduttori si erano imposti. Volevano creare una Bibbia che fosse un’accurata trascrizione dei migliori testi autenticati che, dal punto di vista accademico, non fosse per nulla pedante e che soprattutto fosse scritta nell’inglese moderno con una preferenza per le frasi semplici e corte. Inoltre volevano che fosse ugualmente adatta alla lettura pubblica e allo studio privato. Il raggiungimento di questi obiettivi avrebbe fatto sperare in un’accettazione universale come traduzione autorevole che avrebbe incoraggiato molti a prendere più confidenza con le parole e la dottrina delle scritture.

Immediatamente dopo la sua pubblicazione, come ci si aspettava, la New English Bible è stata ampiamente esaminata e il professor D. Nineham ha dato un prezioso contributo curando una vasta raccolta di recensioni. Queste inevitabilmente contengono molti commenti personali riguardo a parole e frasi isolate, la maggior parte delle quali sono trascurabili, dal momento che non c’è motivo di credere che i critici siano esperti più capaci dei traduttori. Come opera di traduzione la New English Bible ha ricevuto da studiosi competenti più  attenzione delle versioni precedenti: è indubbiamente più facile da leggere per «l’uomo comune» che non conosce particolarmente bene la Authorized Version; ha quindi probabilmente raggiunto il suo obiettivo di far apprezzare meglio e di più i fondamenti della Cristianità. I teologi sono stati più generosi nelle loro prime valutazioni di quanto non lo siano stati i critici puramente letterari. Hanno lodato la sua fedeltà all’originale greco e hanno elogiato in particolar modo come riesce a far emergere la differenza tra gli stili dei vari libri. Questa è una virtù poco comune nelle traduzioni della Bibbia: c’è una tendenza a tradurre come se i quattro Vangeli fossero stati scritti nel greco impeccabile e letterario del loro tempo, nonostante fossero scritti con stili più colloquiali e con sentimenti e scopi diversi.

 

The New English Bible is a welcome expression of contemporary opinion among theologians, and as such it is of the greatest value to students. Laymen have freely found fault with it, largely because it lacks the lilt and rhythm of the Authorized Version. Yet they have applauded its approach to ‘the current speech of our time’ and the abandonment of any foredoomed attempt to design a ‘timeless’ English, when there can be no such language.

 

The book is reported to have sold six millions copies in its first four years, proof, if proof were needed, that it is a really great achievement in an age in which neither Christianity nor scholarship is even moderately conspicuous. It is therefore worth recording the creation of a by-product of the translator’s labours in the form of revised text of the Greek New Testament, edited by Dr. R. V. G. Tasker.

 

While we are awaiting the Old Testament of the New English Bible the gap  is filled by  the publication of the Old Testament if the Jerusalem Bible in 1966. This very large volume takes its name from the School of Biblical Studies, where some years ago a group of Dominican scholars undertook a translation of the Hebrew and Greek texts into French. La Bible de Jérusalem was an unqualified success all over France and in other Roman Catholic countries.

The English version was also a new translation, made by English Catholics from the same sources and continuously compared with its French counterpart, a method of production that has had no precedent in translating. Readers and reviewers alike have praised the style of the translation with a surprising consistency, and there can be no doubt that this version appears in delightful and lucid English. Moreover, it reflects more than might be expected of the poetry of the poetical books and passages.

A final appraisal of so many translations covering so long a period of time is as nearly impossible as can be imagined, yet a few thoughts seem to be clear.

 

La New English Bible è un’apprezzabile espressione dell’opinione contemporanea tra i teologi e come tale è di grandissimo valore per gli studenti. I laici l’hanno abbondantemente criticata, principalmente perché le mancano la cadenza melodiosa e il ritmo dell’Authorized Version. Tuttavia hanno lodato il suo approccio al «discorso parlato del nostro tempo e l’abbandono del tentativo utopistico di creare un inglese “senza tempo”», dove non può esistere una lingua di questo tipo.

Secondo i dati, il libro avrebbe venduto sei milioni di copie nei primi quattro anni, prova, se fosse necessario, che è davvero un grande successo in un’epoca in cui né cristianesimo né accademia sono anche solo moderatamente importanti. È quindi degna di nota la creazione di un prodotto collaterale delle fatiche del traduttore nella forma di un testo revisionato del Nuovo Testamento greco, curato dal dottor R. V. G. Tasker.

Mentre aspettiamo l’Antico Testamento della New English Bible, il vuoto è colmato dalla pubblicazione dell’Antico Testamento della Jerusalem Bible nel 1966. Questo grandissimo volume prende il nome dalla School of Biblical Studies, dove qualche anno fa un gruppo di studiosi domenicani ha intrapreso in francese una traduzione dei testi ebraici e greci. La Bible de Jérusalem è stata un successo senza pari in tutta la Francia e negli altri paesi cattolici romani.

La versione inglese era una versione nuova fatta da cattolici inglesi, confrontandola continuamente con la controparte francese e basata sulle stesse fonti, metodo produttivo che non aveva precedenti nella traduzione. I lettori e i recensori hanno lodato lo stile della traduzione con una coerenza sorprendente e senza dubbio questa versione è scritta in un inglese gradevole e chiara. Inoltre riflette più di quello che ci si aspetterebbe la poesia dei libri e dei passi poetici.

Un valutazione finale di così tante traduzioni che coprono un periodo così lungo è, come si può ben immaginare, quasi impossibile; tuttavia alcune riflessioni sembrano assodate.

 

The whole period from 1382 to 1966 has been one of almost continuous correction and revision, and there is no reason to suppose that this correction and revision will ever cease. Changes in our knowledge of the ancient languages occur and modify belief as to the nearest equivalents of various words and phrases. More rapidly our own language changes, both in the associations of words and the effects of idioms, so that what was once a good translation may become an incongruous one a decade or two later. Moreover, the readers differ. The historically minded may find satisfaction in the books of the Old Testament; the lovers of poetry, even though it be translated poetry, may share this satisfaction in the poetical books, and while the devout will want little beyond the gospels, the mystics may turn to the Revelation and the academic students to the sometimes involved words of St Paul. To make an ideal all-purposes Bible is probably as difficult or as impossible as to find a universally satisfying ideal in any other facet of human activity.

 

L’intero periodo che va dal 1382 al 1966 è stato caratterizzato da un’opera continua di correzione e revisione e non c’è motivo di credere che queste correzioni e revisioni cesseranno. Cambiamenti nella nostra conoscenza delle lingue antiche modificano le opinioni circa i traducenti più prossimi di parole e frasi varie. La nostra lingua cambia ancora più rapidamente, sia per quanto riguarda le associazioni di parole, sia negli effetti dei modi di dire, così che quella che una volta era una buona traduzione potrebbe diventare dieci o vent’anni più tardi disarmonica. Inoltre anche il lettore cambia. Quello interessato agli aspetti storici può trovare soddisfazione leggendo i libri dell’Antico Testamento; gli amanti della poesia, anche se tradotta, possono condividere questa soddisfazione per i libri poetici e mentre il devoto vorrà qualcosa di più dei Vangeli, i mistici potrebbero rivolgersi alla Rivelazione[1] e gli accademici alle parole a volte difficili di San Paolo. Realizzare una Bibbia ideale per tutti gli scopi è probabilmente difficile o impossibile quanto trovare un ideale in ogni altro aspetto dell’attività umana, che sia universalmente soddisfacente.


Riferimenti bibliografici

Belloc H. 1931. On Translation. Oxford: Clarendon Press.

CEI 1998. La prima Bibbia. Per la famiglia, la catechesi e la scuola. Cinisello Balsamo: San Paolo.

Conferenza Episcopale Italiana 1974. La sacra Bibbia. Roma: CEI.

De Luca E. 2002. Vita di Sansone. Dal libro Giudici/Shoftim. Capitoli 13, 14, 15, 16. Traduzione e cura di Erri De Luca. In appendice: testo ebraico. Milano: Feltrinelli.

De Luca E. 2004. Kohèlet/Ecclesiaste. Traduzione e cura di Erri De Luca. Milano: Feltrinelli.

De Luca E. 2004. Vita di Noe/Noah. Il salvagente. Dal libro Genesi/Bereshit. Traduzione e cura di Erri De Luca. Milano: Feltrinelli.

De Luca E. e Martino G. 2007. Sottosopra. Alture dell’Antico e del Nuovo Testamento. Milano: Mondadori.

Frere J. H. 1820 «Review on Mitchell’s Aristophanes». Quart. Rev. 46. 474-505.

Manchester P. T. 1951. «Verse Translation as an Interpretative Art». Hispania 34. 68-73.

Nida E. A. 1964. Toward a Science of Translating. With Special Reference To Principles And Procedures Involved In Bible Translating. Leiden: E. J. Brill.

Oxford King James Bible 1769 Authorized Version. Disponibile in internet all’indirizzo www.kingjamesbible.org consultato nel novembre 2010.

Popovič A. 2006. La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva. A cura di Bruno Osimo. Milano: Hoepli. Titolo originale: Teória umeleckého prekladu. Bratislava: Tatran 1975.

Pound E. 1954. Literary Essays of Ezra Pound. (a cura e con introduzione di T. S. Eliot). London: Faber & Faber. 298.

Revisione 1991/2003 La Sacra Bibbia.Antico e Nuovo Testamento. La nuova Diodati. Svizzera: Wollerau: La buona novella, 2008 (Lavis : L.E.G.O.).

Rieu E. V. 1953. «Translation». In Cassell’s Encyclopedia of Literature. London: Cassell & Company. 1: 554-559.

Rieu E. V. e Phillips J. B. 1954. «Translating the Gospels». Concordia Theol. Monthly 25. 754-765.

Savory H. T. 1957. The Art of Translation. London: Cape. 105-120.

Vocabolario Treccani Online. Disponibile in internet all’indirizzo www.treccani.it consultato nel novembre 2010.

Wilt T. 2003. Bible Translation. Frames of Reference. Manchester: St Jerome.

 

 

 



[1] Solitamente tradotta come «Apocalisse».

Hell-O Gavrilov Analisi comparativa prototesto-metatesto

Hell-O Gavrilov

Analisi comparativa prototesto-metatesto

LORENA PIROTTA

Fondazione Milano

Milano Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18 20151 Milano

Relatore: Bruno OSIMO

Diploma in Mediazione linguistica

Luglio 2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Lorena Pirotta 2013


Hell-o Gavrilov: analisi comparativa prototesto-metatesto

 

Abstract in italiano

Il lavoro si propone di compiere un’analisi comparativa di due versioni (statunitense e russa) di una stessa puntata tratta dalla serie televisiva Glee. L’analisi è stata compiuta attraverso l’ausilio della tabella di valutazione usata dai docenti di traduzione del Dipartimento di Lingue di Fondazione Milano. La versione russa è caratterizzata da un particolare tipo di doppiaggio, il voice-over. Il testo si divide in tre parti. La prima è un capitolo che definisce e spiega in cosa consiste il voice-over; la seconda è l’analisi con testo a fronte di prototesto e metatesto, compiuta a seconda delle categorie presenti nella tabella, e la terza è la conclusione, cioè l’“analisi dell’analisi”.

 

English abstract

The purpose of the study is to analyze and compare two versions (U.S. and Russian) of the same episode from the TV serial Glee. The comparative analysis was made thanks to the evaluation grid used by Fondazione Milano’s Dipartimento Lingue translation teachers. The Russian version is characterised by a peculiar kind of dubbing, voice-over. The text is divided into three parts. The first one is a chapter defining and explaining what voice-over is all about; the second part is the analysis of parallel texts and that was made according to the categories contained in the grid, and the third one is the conclusion, i.e. the “analysis of the analysis”.

 

Резюме на русском языке

Целью этой диссертации является произведение сравнительного анализа двух вариантов того самого эпизода сериала Glee (Хор/Лузеры). Анализ произведён благодаря oценочной таблице, употребляемой преподавателями из школы для переводчиков Fondazione Milano. Русский вариант характеризован особенным видом дублирования, voiceover. Диссертация поделена на три части. Первая ― глава, определяющая и объясняющая, что voiceover такое; вторая часть ― анализ двух параллельных текстов, проиведён согласно категориям таблицы, а третья является заключением, т.е. “анализ анализа”.

 


 

Sommario

  1. Prefazione_________________________________________________________________ 3
  2. Voice-over­­­­­­­­­­­­­­_________________________________________________________________ 9

2.1.  Origine e definizione del termine___________________________________________ 9

2.2.  Voice-over translation___________________________________________________ 11

  1. Analisi___________________________________________________________________ 12

3.1.  Scena 1 (00:32)________________________________________________________ 12

3.2.  Scena 2 (03:49)________________________________________________________ 13

3.3.  Scena 3 (05:40)________________________________________________________ 15

3.4.  Scena 4 (06:39)________________________________________________________ 17

3.5.  Scena 5 (11:50)________________________________________________________ 19

3.6.  Scena 6 (14:21)________________________________________________________ 20

3.7.  Scena 7 (17:40)________________________________________________________ 22

3.8.  Scena 8 (21:46)________________________________________________________ 24

3.9.  Scena 9 (25:55)________________________________________________________ 26

3.10.               Scena 10 (42:07)_____________________________________________________ 28

  1. Conclusioni_______________________________________________________________ 30
  2. Riferimenti bibliografici_____________________________________________________ 34

 

  1. 1.  Prefazione

La traduzione è un processo che si compone di tre fasi:

  1. lettura e analisi del prototesto[1] al fine di individuarne la dominante e le possibili dominanti del metatesto[2];
  2. stesura del metatesto;
  3. critica della traduzione, cioè l’analisi comparativa di due testi (prototesto e metatesto).

È proprio sul terzo punto che si concentra questa tesi: l’elaborato presenta l’analisi delle differenze tra la puntata Hell-O della serie televisiva americana Glee (prima stagione, episodio 14) e la versione russa della stessa, il cui titolo è Привет (serie Хор, anche conosciuta come Лузеры). L’originale in inglese (o inglese americano) è, ovviamente, il prototesto, mentre la puntata tradotta, il metatesto. Particolarità interessante del metatesto preso in considerazione è il voice-over: l’episodio, diversamente da quanto ci si possa aspettare, non è doppiato, ma è tradotto tramite questa tecnica, a cui è dedicato l’intero capitolo 2 (più precisamente, la sezione 2.2.).

L’analisi è stata svolta con l’ausilio della tabella di valutazione che i docenti del Dipartimento di Lingue di Fondazione Milano usano per correggere i compiti di traduzione degli studenti. Questa tabella, tratta da Valutrad: un modello per la qualità della traduzione [Formato Kindle] di Bruno Osimo, è l’evoluzione di quella pubblicata in Traduzione e qualità. La valutazione in ambito accademico e professionale e, nel caso specifico di questa tesi, non è stata usata con l’obiettivo di valutare il metatesto, bensì di catalogare le differenze che questi presenta rispetto al prototesto.

 

Di seguito la tabella di riferimento, composta da quattro parti, che riguardano rispettivamente senso, forma, rapporti tra le culture e competenza del traduttore:

Sigla

Spiegazione della sigla

Cambiamento/ricadute sulla ricezione

Esempi

Categorie che riguardano il senso

A

Aggiunte

Una singola parola è aggiunta.

Il gatto↠il gatto bianco

CS

Calchi Semantici e  Sintattici

Calco di parola che determina senso diverso e incomprensibile.

Il tuo comportamento è morbido.

M

Cambiamento radicale di senso riguardante una parola (Word) o più, Mistranslation

L’errore è tale da compromettere il senso generale della frase.

The triumph of spirit over  circumstance↠il trionfo della spiritualità sul caso

MOD

MODulazione: specificazione-generalizzazione, parole-termini, ambiguazione-disambiguazione

Una parola è resa più specifica o più generica. Un termine è diventato parola comune o viceversa. Ridondanza semantica. Modifica del livello di ambiguità di un’espressione in entrambi i sensi.

Non mi dà fastidio, lo sopporto.

OM

OMissioni

Una singola parola è omessa.

Il gatto bianco↠il gatto

 

 

 

Sigla

Spiegazione della sigla

Cambiamento/ricadute sulla ricezione

Esempi

Categorie che riguardano la forma

C

Cadenza, punteggiatura, rima, metrica, capoversi

È stato alterato uno di questi elementi, modificando il ritmo del testo.

Il capoverso dell’originale scompare nella traduzione o viceversa ne compare uno prima inesistente.

CAC

CACofonia

Allitterazioni, assonanze involontarie.

Le ostiche ostriche

ENF

ENFasi, ordine delle parole

Dislocazioni, frase scisse, ordine anomalo delle parole che determina diversa accentuazione della frase.

È te che volevo ↠ Io volevo te

P

Presentazione – forma grafica – layout – impaginazione

Migliore/peggiore riproduzione degli aspetti grafici rispetto alle norme suggerite dal committente.

Per esempio, uso di virgolette alte/basse in modo difforme dalla stylesheet del committente.

R

Registro, tipo di testo

Uso di parole di registro uguale a/diverso da quello desiderato. Migliore/peggiore.

Parmi d’udire un botto ↠ Cos’è ‘sto casino?

S

Stile complessivo dell’autore

Migliore/peggiore rendimento dello stile.

Per esempio sostituzione di congiunzioni alle virgole in un autore che ha la ripetizione della virgola come tratto poetico.

U

Uso: locuzioni, collocazioni, calchi non semanticamente sbagliati, resa inefficace

Una singola parola, sebbene non semanticamente sbagliata, è collocata in modo involontariamente marcato.

L’ho mandato in quella città (anziché “a quel paese”).

È supposto saperlo.

 

Sigla

Spiegazione della sigla

Cambiamento/ricadute sulla ricezione

Esempi

Categorie che riguardano i rapporti tra le culture

INTRA

Uso di SINonimi, ripetizioni, rimandi intratestuali

Sinonimizzazione e desinonimizzazione. Coglimento di rimandi interni da un capo all’altro del testo. Ridondanza lessicale.

Eliminazione (volontaria o involontaria) delle ripetizioni volutamente disseminate in parti diverse del testo per creare rimandi interni da una parte all’altra del testo.

DT

Destinatario – Dominante del Testo- leggibilità

Migliore/peggiore coglimento del lettore modello e della dominante del testo.

Un testo volutamente complesso, con ricerca di forme peculiari, viene standardizzato anche se non è rivolto a un lettore modello standard.

D

Deittici, rimandi interpersonali, punto di vista

Migliore/peggiore riproduzione del punto di vista del narratore o del personaggio, ideologia personale.

Questo/quello

Ora/allora

Qui/là

I

Rimandi Intertestuali, realia

Migliore/peggiore coglimento dei rimandi esterni ad altri testi o altre culture.

Eliminazione (volontaria o involontaria) dei rimandi interculturali o intertestuali volutamente disseminati in parti diverse del testo per creare rimandi esterni dal testo ad altri testi/culture.

 

sSigla

Spiegazione della sigla

Cambiamento/ricadute sulla ricezione

Esempi

Categorie che riguardano la competenza del traduttore

O

Ortografia

Errori d’ortografia nella cultura ricevente.

Un pò, qual’è, ti dò

G-S

Errori Grammaticali e Sintattici

Errori di grammatica o sintassi nella cultura ricevente.

Sebbene è,

inerente il,

in stazione.

E

Enciclopedia – precisione fattuale – conoscenza del mondo

La dotazione enciclopedica della traduttrice è insufficiente a colmare l’implicito culturale.

Blue helmets ↠ elmetti celesti

L

Logica

La logica della traduttrice è insufficiente a colmare l’implicito culturale.

Sapeva che non sarebbe sopravvissuta alla propria morte.

 

 

Siccome la tesi analizza materiale audiovisivo, categorie come P, O e G-S, a parer mio, non verranno prese in considerazione. La mia ipotesi è che anche altre categorie, come E, INTRA, U, S, DT e CAC, non compariranno nell’analisi delle dieci scene scelte, in quanto non penso sia possibile riscontrare differenze o “errori” in ambito enciclopedico, o ridondanze lessicali; dubito che vi siano collocazioni inesatte; non credo sia possibile parlare di “stile dell’autore” né tanto meno di dominante del testo e, a parer mio, il metatesto non presenta alcuna cacofonia. Al contrario, ritengo che le altre categorie, come ENF e MOD saranno molto ricorrenti, trattandosi di un episodio tradotto con la tecnica del voice-over, tipicamente inespressiva.

La scelta di questa puntata è dovuta alla presenza di continui giochi di parole legati al titolo della stessa e ai testi delle canzoni in cui i personaggi si esibiscono durante tutta la durata dell’episodio (si tratta, infatti, di una serie televisiva musicale). È però probabile che nel metatesto questi giochi vadano perduti o diano luogo a differenze di categoria L, come è riscontrabile già a partire dal titolo dell’episodio (Hell-O tradotto in Привет).

Il titolo della tesi stessa si propone come un “gioco di parole”: Hell-O Gavrilov sta a indicare che l’elaborato è l’analisi comparativa prototesto-metatesto della cosiddetta “traduzione Gavrilov” nella puntata Hell-O.

 

  1. 2.  Voice-over

Il voice-over è una tecnica di traduzione audiovisiva, diversa dal doppiaggio, in cui le voci degli attori sono registrate sopra l’originale, udibile in sottofondo. Si tratta di un metodo molto usato in documentari o interviste, mentre in alcuni paesi (soprattutto dell’Europa orientale) è impiegato per tradurre tutti i tipi di film. Generalmente con questa tecnica di traduzione si ha una sola voce maschile che parla a ritmo lento e segue l’originale di circa due secondi. Gli speaker cercano di sembrare quanto più trasparenti possibile per il pubblico; ecco perché non mostrano la minima emozione e mantengono sempre la stessa intonazione. Questo sistema differisce dal doppiaggio per la mancata sincronizzazione e per il fatto che molti suoni esterni ai dialoghi non hanno bisogno di essere riprodotti perché direttamente udibili dallo spettatore dalla colonna sonora originale. Altra differenza è la mancata pretesa di sostituirsi all’originale: presentando il film come qualcosa di non originale, il voice-over permette una resa metatestuale.

 

2.1.         Origine e definizione del termine

L’origine del voice-over è da ricercarsi nella figura del commentatore del cinema muto: il compito del commentatore era quello di spiegare le scene proiettate per una maggiore comprensione della pellicola da parte degli spettatori, o di leggere didascalie. Con l’avvento del suono nel 1927, registrare le voci degli attori risultò molto difficile, data la mole e il peso delle telecamere dotate di microfono. Fu così che nacque il post-shooting voice-over (dopo le riprese): le voci degli attori venivano registrate dopo le riprese e integrate con il video, risolvendo i problemi della registrazione poco funzionale e sostituendo definitivamente la figura del commentatore del cinema muto.

Per meglio comprendere il significato del termine voice-over di seguito sono riportate alcune definizioni:

  • Harrington, nel suo glossario di termini cinematografici descive il voice-over come “any spoken language not seeming to come from images on the screen” (1973:165), cioè come una qualsiasi lingua parlata che non sembra provenire dalle immagini sullo schermo.
  • Il Shorter Oxford English Dictionary definisce il voice-over “narration spoken by an unseen narrator in a film or a TV programme; the unseen person providing the voice” [narrazione di un narratore invisibile in un film o programma televisivo; persona non visibile che parla].
  • Secondo il Merriam Webster online, voice-over è “1a: the voice of an unseen narrator speaking (as in a motion picture or television commercial); 1b: the voice of a visible character (as in a motion picture) expressing unspoken thoughts”[3]. Secondo la prima definizione, quindi, per voice-over si intende la voce di un narratore non visibile (come in un film o in una pubblicità televisiva), mentre per la seconda, il voice-over è la voce di un personaggio visibile (come in un film) che esprime i propri pensieri.
  •  L’enciclopedia online Wikipedia definisce il voice-over come segue:

Voice-over (also known as off-camera or off-stage commentary) is a production technique where a voice—that is not part of the narrative (non-diegetic)—is used in a radio, television production, filmmaking, theatre, or other presentations. The voice-over may be spoken by someone who appears elsewhere in the production or by a specialist voice actor. It is pre-recorded and placed over the top of a film or video and commonly used in documentaries or news reports to explain information[4].

Secondo questa definizione, il voice-over è una tecnica usata in radio, televisione, cinematografia, teatro e altro. Generalmente la voce non è parte della narrazione, ma può appartenere a un personaggio che appare in altri momenti nella produzione o di un attore specializzato. È registrata separatamente e sovrapposta a un film o a un video, di solito usata in documentari o interviste.

2.2.         Voice-over translation

Come metodo di traduzione, il voice-over non è da intendersi come voce narrante sovrapposta alle immagini, ma come traduzione sovrapposta al discorso originale. Il voice-over per la traduzione audiovisiva di film nell’Est europeo, e più precisamente in Russia, è detto traduzione Gavrilov (перевод Гаврилова), dal nome di uno dei suoi più importanti interpreti, Andrej Gavrilov. Definita anche traduzione a una sola voce (одноголосый перевод), questa tecnica era, fin dagli inizi, molto diffusa nel campo della cinematografia pirata. Durante il governo Brežnev, come piena applicazione della dottrina della sovranità limitata, il Goskino (Commissione di stato sovietica per il cinema, Госкино, Государственный комитет по кинематографии СССР) non permetteva la distribuzione di film occidentali al pubblico. Le pellicole erano fruibili solo a una ristretta élite (di politici, funzionari dello Stato e altri personaggi eminenti) che si avvaleva di interpreti che traducevano in simultanea per permettere la piena comprensione del film. Il sopracitato Andrej Gavrilov, insieme con Aleksej Mihalev e Leonid Volodarskij, era uno di questi privilegiati interpreti. La distribuzione illegale era l’unico modo per poter vedere film occidentali, così gli stessi interpreti al servizio del governo cominciarono a tradurre anche per un pubblico più ampio. La maggior parte dei film veniva tradotta in simultanea a causa del bisogno di avere la registrazione pronta nel minor tempo possibile, vista la concorrenza tra i distributori; spesso, però, la traduzione veniva registrata dopo che gli interpreti avevano preso nota dei punti più ostici. Le voci erano conosciute e ogni interprete aveva il suo genere preferito da tradurre: per esempio, Gavrilov si cimentava in rese di film d’azione (famosa la sua performance in Die hard), Mihalev prediligeva commedie e film drammatici (Il silenzio degli innocenti), mentre Volodarskij non aveva un genere fisso (lo si ricorda però per la celebre traduzione di Guerre stellari). Dopo la perestrojka, nell’ambito della traduzione Gavrilov si diffusero doppiaggi a più voci di film e serie tv, ma il grande schermo e la distribuzione pirata continuarono a preferire il metodo del voice-over. Nel corso del tempo è però cambiata la resa del registro osceno (мат), magistralmente evitata da Gavrilov e colleghi tramite abili perifrasi.

 

  1. 3.  Analisi

 

3.1.         SCENA 1 (00:32)

 

– Hey babe, looking good! – Привет детка, классно выглядишь.

– Feeling good, Mercedes. – И чувствую себя классно, Мерседес.

– This is amazing. – Невероятно.

Ever since Glee club won sectionals, С тех пор как хор выиграл на отборочные,

Everybody looks at us differently. Все смотрят на нас иначе.

– I want to be with you, Rachel. – Рейчел, я хочу быть с тобой.

– We’re glitterati. – Мы знаменитые.

I feel like Lady Gaga. Чувствую себя Леди Гагой.

– Get used to it, guys. – Привыкайте.

We’re stars now. Теперь мы звезды.

On par with all the jocks and popular kids.  

OM

Oh, it’s the dawn of a new era here at Mc Kinley, Это начало новой эры в МакКинли.

And we are gonna rule this school! Мы будем править этой школы!

  Вот увидите.

A

– Ooh-hoo, welcome to loser town. – Добро пожаловать в город неудачников.

– Population: you. – Ваш город.

D

 

 

3.2.         SCENA 2 (03:49)

 

– There. – Вот так.

You no longer confuse me with your she-male looks. Теперь ты не cбиваешь меня с толку своим женоподобном видом.

I’m going to donate this to the victims of hurricane Katrina. Я передам это жертвам урогана Катрина.

They can use it to plug the holes in their trailers. Этим они заткнут дыры в своих трейлерах.

– Sue. – Сью.

Please tell me how you managed to pull off getting reinstated. Скажи пожалуйста, как ты умyдрилась добиться восстановления.

– Well, William, – Уильям.

OM

I realized back in my condo in Boca that I had indeed behaved poorly. Ещё у себя в квартирe в Бока, я поняла действительно плохо себе вела.

Riddled with remorse, Терзаясь угрызениями совести,

I arranged a dinner so Figgins and I could have a little professional sit-down. я устроила ужин, чтобы пообщаться с Фиггинсом, на профессиональной темы.

ENF

– Sue, there’s no way I’m letting you back into that school. – Сью, я не за что, не позволю тебе вернуться в школу.

D

– Mind flagging down that waiter? – Ты не позовёшь официанта?

– We had a very frank and healing discussion. – У нас был очень откровенный разговор.

OM

And you know what, Will? И знаешь что, Уилл?

It was like he was seeing me and my moral integrity for the very first time. Былo тaкоe ощущение, что меня и мою душевную чистоту oн видел впервые в жизни.

M

– So here’s what’s going to happen.  

OM

As of right now, I am reinstated. -Если ты не востановишь меня в должности,

ENF

Or I will tell your wife and the entire congregation of the cornerstone bible way church of our sexual congress. я расскажу твой жене и всей пастве из церкви краеугольного камня о нашем общении.

OM

It’s your choice. Тебе выграть. Решай.

A

Smile. Улыбочку.

– God! – Боже!

– Okay, look, Sue, if you’re back, let’s bury the hatchet. – Раз, что ты вернулась, давай зароем топор войны.

– I won’t be burying any hatchets, William, unless I happen to get a clear shot to your groin. – На это я не пойду раз и, что удастся засадить ты между ног.

D

You humiliated me. Ты унизил меня.

– You did this to yourself, Sue. – Ты сама в этой винавата.

OM

All I did was enjoy watching it happen. Я всего ли с удовольствием наблюдал за происходящей.

– Yeah, well, enjoy this, William. – Ну слажно с этим.

D

Now that I am back and my position is secured, Теперь, я вернулась и моя должность мне гарантированна,

I will not stop until you are fired, and your little glee club is annihilated into oblivion. Я не остановлюсь до тех пор, пока тебя не уничтожен.

OM

OM

– Bring it. – Начинай.

R

– Oh, I will bring it, William. – И начну!

R

You know what else I’m gonna bring? Знаешь что я сделаю?

I’m going to bring some Asian cookery Я притащу китайской еды,

MOD

to rub your head with, чтобы втереть тебе в волосы,

‘cause right now you got enough product in your hair потому что в твоей голове столько всякой дряни,

MOD

to season a wok. что только супa не хватает.

M

 

 

3.3.         SCENA 3 (05:40)

 

– Hello. – Привет.

Hello? Привет?

– Hello! – Привет!

– What do you guys say when you answer the phone? – Что вы говорите, когда поднимаете трубку?

– What up? – Чё надо?

– Who this be? – Кто это?

R

– No, she’s dead. This is her son. – Нет, она мертва. Это её сын.

– O-kay… – Ладно…

Alexander Graham Bell, inventor of the telephone, Александр Грэхем Белл, изобретатель телефона,

Liked to say “ahoy, ahoy” when he answered the phone. Говорил “Эй, эй, эй”.

MOD

It was Edison who decided that “hello” was a more appropriate greeting. Но потом решил, что слово “привет” подходит болше.

OM

INTRA

Look, I am really proud of what you guys did at sectionals, Я очень горжусь с тем, что вы сделали на отборочных,

ENF

but as most of you have realized by now, it hasn’t made a bit of difference in your day-to-day at school. но, как вы уже понили, это мало, что изменил в вашей школьной жизни.

ENF

  K сожaлению, должен это сказать.

A

– I have a slushie-stained training bra to prove it. – Заляпанный гaзировкой лифчик тому доказательство.

OM

– The fact is, we’re gonna have to be better, even more spectacular,at regionals. – Дело в том, на конкурсе нам прийдёт выступить ещё лучше, ещё завершившие,

MOD

It’s time for some reinvention, some new New Directions. пообновиться новыми и новыми горизонтами.

M

We need a new… Hello. Нам нужно новое приветствие.

ENF

Here’s your assignment for the week. Вот ваше задание на неделю.

Come up with a fresh number, but it has to have “hello” in the song title. Придумайте новый номер, но в названии песня должно быть слово “привет”.

INTRA

All right? Договорились?

 

 

3.4.         SCENA 4 (06:39)

 

– Hi. – Привет.

– Hi. – Привет.

– This is kind of weird, isn’t it? – Странно, да?

MOD

– Yes. – Да.

– I mean, here we are. We’ve been in this exact situation a hundred times. – Здесь мы были в токой же ситуации сотни раз.

OM

ENF

Only this time, I could just lean over and kiss you if I want to. Только на этот раз, я мог бы наклониться и поцеловать  тебя, если бы захотел.

And I want to. А я хочу. Очень хочу.

A

– No, hold on. Hold on. Hold on. – Нет, погоди, стой. Стой.

INTRA

– I’m sorry. – Прости.

– I just need to clean up first, so I’ll be right back. – Мне нужно сначала привести себя в порядок, так что я сейчас вернусь.

Just hold on. Дождись минутку.

– No, no, no, no. – Нет, нет, нет.

Hey, Emma, Эмма,

I don’t care. мне плевать.

R

We’ve kissed before. Мы уже целовались.

– Yeah, but you caught me by surprise sneak attack that time. – Да, но в тот раз ты застал меня врасплох.

It was like a… A pearly white harbor. Это было как поцелуй Перл Харбор.

M

I’m sorry, this is a completely unattractive quality. Прости, это так некрасиво.

MOD

– You are adorable. – Ты прелесть.

You’re right, too. Но ты права.

M

We need to clean up a little before we charge forward. Мы должны привести себя в порядок перед тем, как двигаться дальше.

Get the monkeys off our backs. Разобраться с нашими проблемами.

R

Let’s do this right. Давай сделаем всё правильно.

We should go on a date. Нужно пойти на свидание.

– Okay. – Хорошо.

– Get to know each other as these… -Узнать друг друга, получше…

New people, как новые люди,

not tied down by anyone. которыx никто не сдерживает.

My place. У меня.

I’ll cook. Готовить буду я.

– I didn’t know you could cook. – Я не знала, что ты готовишь.

– There are so many things you don’t know about me. – Ты обо мне столько не знаешь,

And I can’t wait to introduce them all to you. и жду с терпение когда ты всё это узнаешь.

I’ll see you later. До скорого.

 

 

3.5.         SCENA 5 (11:50)

 

– And that, fellow Glee clubbers, is how we say hello. – Вот так, дорогие, мы здоровимся, привет.

Mr. Schuester, I’d like to run some of my “hello” ideas by you. Мистер Шустер, хотелась бы кое-что с вами соглосовать.

OM

INTRA

– You’re a really good dancer. – Ты так классно танцуешь.

– Thanks, but my feet weren’t really moving. – Спасибо, но я вообше нe двигал ногами.

– That was the best part. – Это и было самым лучшим.

– Oh.  

OM

– Brit and I were wondering if you wanted to go out. – Мы с Брит подумали может быть ты хочешь куда-нибудь сходить.

– On a… Date? – На…свидание?

With which one of you? С кем из вас?

– With both of us. – С нами обееми.

– With both of us. – С нами обееми.

– Breadstix, eight o’clock. – Бредстикс, восемь ноль ноль.

R

Table for three? Столик на троих?

– Cool. – Класс.

– What did they want? – Что они хотели?

– Oh, nothing. Just the time. – Ничего, время спрашивали.

 

 

3.6.         SCENA 6 (14:21)

 

– Well, obviously, hawaiian pizza’s the best because it’s got ham and pineapple on it, right? – Гавайская пицца самая лучшая, потому что в ней есть ветчина и ананас.

OM

ENF

– True. Mm-hmm. – Точно.

– So, it’s better than most pizzas because it has… – Она лучше других пицц…

– All right, guys, you got to get moving on those “hello” numbers. – Ребята, нужно скорить работу над нумерами со словом “привет”.

INTRA

Who has got something to show us? Кому есть что показать?

Volunteers?  

OM

– Mr. Schuester, – Мистер Шустер,

I think I found a song я нашла песню,

that sums up my feelings perfectly. которая идеально выражает мои чувства.

– Fantastic, Rachel. – Чудесно, Рейчел.

Show us what you got. Показыбай что у тебя.

– Guys, guys, guys. – Стоп, стоп ребята.

INTRA

I don’t want to be a buzz-kill, не хочу портить вам настроение,

R

but the assignment was “hello” но задание было слово “привет”.

INTRA

– I’m sorry. I was just focusing on the first syllable. – Простите. Я сосредоточилась на первом слоге.

L

CS

– You know what? – Знаете что?

I don’t think you guys understand the seriousness of what we’re up against. По моему вы не доцениваете серьёзность нашых проблем.

R

While we were busy winning our sectionals, Пока мы выгрывали наши отборочные,

MOD

Vocal Adrenaline was busy winning theirs. Вокальный Адреналин выигрывал свои.

MOD

They’re last year’s national champions. Они прошлогодние национальные чемпионы.

They haven’t lost a competition in three years. Они три года не проигрывали состязание.

This is the big leagues, guys. Ребята, это высшая лига.

MOD

If we don’t place at regionals, Glee club is over. Если мы не займем призовое место на конкурсе, клубу конец.

MOD

I

 

 

3.7.         SCENA 7 (17:40)

 

– Lionel Richie, huh? – Лайонел Ричи?

ENF

One of my favorites. Я его тоже люблю.

MOD

– Oh, my god, – Боже,

you’re Jessie St. James. ты Джесси Сент-Джеймс

You’re in Vocal Adrenaline. из Вокального Адреналина.

P

– And you’re Rachel Berry. – А ты Рэйчел Берри.

I saw you perform at sectionals. Я видел твое выступление на отборочных.

Your rendition of Don’t Rain On My Parade was flawed. Твоя исполнение песни Не порти мне праздник была с грехами.

I

You totally lacked Barbra’s emotional depth. Тебя не хватала емоциональности Барбры.

MOD

But you’re talented. Но ты талантливая.

This is one of my favorite haunts. Я часто сюда прихожу.

OM

M

I like to come and flip through the celebrity biographies. Мне нравится листать биографии знаменитостей.

Pick up some lifestyle tips. У них есть чему поучиться.

MOD

I’m a senior now, so this year’s kind of my victory lap. Я в выпускном классе, так что этот год для меня вроде кругa почёта.

R

Snagging a fourth consecutive national championship Стать чемпионом страны четвёртый раз поряд

would just be gravy. было бы просто чудесном.

I’m getting out of Ohio soon. Скоро я уеду от-сюда.

D

I’ve got a full ride to a little school called the University of California Los Angeles. У меня стипендия в Калифорнийском Университете.

MOD

I

Maybe you’ve heard of it. It’s in Los Angeles. Это в Лос-Анджелесе.

OM

M

What do you say, we take it for a spin? Может, споём? Как ты? Давай, споём!

INTRA

R

– Here? – Здесь?

Oh, no, I-I-I’m kind of nervous. нет,  я стесняюсь.

ENF

– I remember when I used to get nervous. – Я тоже, когда ты стеснялся, но?

L

Come on. I do this all the time. Давай. Я частенько это делаю.

I like to give impromptu concerts for the homeless. Так импровизирую концерты для бездомных.

OM

It’s so important to give back. Так важно, добрые дела.

– We should do this more often. – Можно делать это почаще.

How’s Friday night? как насчёт пятницы?

OM

 

 

3.8.         SCENA 8 (21:46)

 

– Excuse me. – Извините.

We’d like to send these back. Мы хотим этo вернуть.

– But you ate all of it. – Но вы всё съели.

– Look, I’m pretty sure you have to do what we say. – Я уверена, что вы должны нас слушаться.

ENF

MOD

And this food was not satisfactory. И эта еда не была неудовлетворительной.

– There was a mouse in mine. – В моей была мышь.

– So, we’d like more, please. – Так что, будьте добры, замените.

All right, hottest guys in the school. И так, самый симпатичныe парни в школе.

R

Go. Начинай.

– Okay, um, Puck’s super-fine. – Ладно, Пак супер классный.

Finn’s cute, too. Финн тоже симпатичный.

– Yeah, but he’s not hot, though. – Да, но он не сексуальный.

R

– He really isn’t. – Пожалуй.

– And you know what, Brit?  

OM

I think that dwarf girlfriend of his is dragging down his rep. – Но его репутации вредит его уродливая подрушка.

R

M

I mean, if he were dating, say, popular pretty girls like us, Если он, на пример, встречался с такими популярными красотками, как мы,

he would go from dumpy to smokin’. oн бы из никого стал клёвым.

U

– Hello? Hey, I’m right here. – Эй, я ещё здесь.

OM

INTRA

Would you guys mind, like, including me in your conversations? Девчонки, можете принять меня в свои разговоры?

– I’ll just give you an introduction into the way that we work. – Давай, я тебе расскажу как мы работаем.

You buy us dinner Ты нас угощаешь ужином,

and we make out in front of you. и мы целуемся у тебя на глазах.

R

It’s like the best deal ever. Лучше не придумаешь.

– Did you see what Rachel was wearing today? – Ты видела, в чём была сегодня Рэйчел?

– I know. She looked like Pippi Longstocking, but, like, Israeli. – Да она была похожа на израильскую Пеппи ДлинныйЧулок.

R

ENF

– Those sweaters make her look homeschooled. – B этих свитерax у неё такой домашний вид.

M

– Hey, guys, come on. Don’t make fun of Rachel. – Эй, девчонки, хватит издеваться над Рэйчел.

MOD

She’s… She’s kind of cool. Она… Классная.

ENF

R

– Finn, that’s mean. – Финн, это грубо.

– You know what, actually? – А вообще знаешь что?

Would you mind waiting in the car? Можешь подождать в машине?

And leave your credit card. И оставь свою кредитку.

– Did you know that dolphins are just gay sharks? – Ты в курсе, что дельфины – это акулы-гей?

Yeah… Да…

 

 

3.9.         SCENA 9 (25:55)

 

– Hey, Rach, can we talk? – Рэйчел, мы можем поговорить?

R

Look, I want to apologize. Я хочу извиниться.

ENF

I realized I don’t want to date other girls. Я понил, что не хочу встречаться с другими девушками.

Only you. Только с тобой.

You do talk too much, and usually you’re just talking about yourself. Ты слишком много болтаешься, обычно и только о себе.

But at least I don’t feel alone when I’m with you. Но с тобой я не чувствую себя одиноким.

– I’m glad you’ve come to that realization, – Я рада, что ты это oсознал,

MOD

but you’re too late. но ты опоздал.

I’ve met someone else, Я познакомила с другим парним,

a boy who’s finally worthy of my talent and love. который наконец достоин моего таланта и любви.

– Whoa, whoa, wait. – Стой, погоди.

INTRA

Do I know him? Я его знаю?

Is he, is he bigger than me? Он выше меня? Да?

INTRA

– Oh, he doesn’t go to this school, – Он учится в другой школе,

ENF

and he’s a senior. и он в выпускном классе.

R

His name is Jessie, and he’s the male lead in Vocal Adrenaline. Его зовут Джесси, и он главный солист в Вокалном Адреналине.

We’re both aware that our Romeo-and-Juliet romance will be a challenge, Мы оба знаем, что наш запретный роман будет не простым,

I

but our deep respect for each other’s talent will carry us through. но мы всё преодолеем.

OM

– Rachel, don’t you think that’s kind of suspicious? – Рэйчел, а тебе не кажется это подозрительным?

R

We make it to Regionals  

OM

and suddenly the top guy in our main competition picks you up? Что тебя внезапно подцепил солист нашего главного соперника?

– I know it’s hard to believe – Сложно поверить в то,

OM

that anyone would like me что кто-то может увлечься мной

without an ulterior motive, без каких-либо причин,

but you have to respect that our love is real. но ты должен уважать наши чувства.

MOD

Move on, Finn. Забыть о прошлом, Финн.

I finally have. Я уже забыла.

– Mr. Shue… We have a problem. – Мистер Шу. У нас проблема.

 

 

3.10.      SCENA 10 (42:07)

 

– Hey. – Привет.

I ended it with Jessie. Я порвала с Джесси.

You can spread the word. Можешь сказать остальным.

I know you know how to do that. Знаю это умеешь.

– Look, I’m sorry, uh… – Прости.

OM

Look, I know this really sucks for you, Знаю, тебе сейчас фигово,

but I think it’s for the best. но думаю, это к лучшему.

– Taking one for the team. – Жертво ради команды.

I get it. Я понимаю.

– No, not just for the team. – Не просто ради команды.

For us. Ради нас.

You and me. Нас с тобой.

I’ve been thinking a lot lately. Я в последнее время много думал.

I feel like I have all these problems, you know, У меня такое ощущение, что на меня свaлился токой ворох проблем, понимаешь,

MOD

with Quinn and-and basketball and girls and stuff, с Квинн, с баскетболом, девушками и всякое такое,

and I’ve been so overwhelmed trying to figure them all out. я сильно заглажу попытками все исключить.

Then I realized the only thing I needed to fix was us. А потом понял, что исправлять нужно было только наше отношение.

R

I want us to be together, Rachel. Рэйчел, я хочу, чтобы мы были вместе.

A real couple. Настоящий парой.

Look, I even circled some dates on your crazy calendar. Смотри, даже обвёл некоторые даты в твоём дурацком календаре.

Is you not being able to talk right now А то, что ты молчишь

a good thing or a bad thing? это хорошо или плохо?

– I can’t. – Я не могу.

– Can’t what? – Что не можешь?

– I-I can’t be a couple with you. – Не могу быть твоей девушкой.

ENF

MOD

It’s the team. Из-за команды.

We-we can’t have any, um, drama right now. Нам сейчас не нужно драмы.

ENF

You know, we need… We need to focus on Regionals. Мы должны сосредоточиться на конкурсе.

ENF

MOD

And I appreciate your offer. Спасибо за предложение.

S

But in the spirit of being a team player, Но я как командный игрок

I have to decline. вынуждена отказаться.

– Hey, whoa. I’m not just some guy that you met at the music store, – Я не просто какой-то парень, с котором ты познакомилась в музыкальном магазине,

S

that you can just blow off. и которого можно отшить.

I don’t give up that easy. Я так просто не сдаюсь.

See you at rehearsal. Увидимся на репетиции.

 

 

  1. 4.  Conclusione

Come mostrato dall’analisi delle dieci scene, ci sono categorie più ricorrenti di altre e categorie che non compaiono. Le prime sono sicuramente MOD, OM, R, INTRA ed ENF, mentre C, CAC, DT, O, E e G-S sono quelle che non sono state prese in considerazione. Più precisamente, queste categorie non appaiono nell’analisi perché, come già ipotizzato precedentemente, la dominante del testo non ha subìto alcuna variazione e non sono presenti cambiamenti enciclopedici, grammaticali, ritmici od ortografici. Più che di «cambiamenti», sarebbe meglio parlare di «differenze». I due testi, infatti, differiscono l’uno dall’altro per generalizzazioni o specificazioni, per omissioni o aggiunte, per cambiamenti radicali di senso, per ripetizioni o rimandi intertestuali, per punti di vista e, in un paio di casi, anche per logica.

Prendiamo ora in considerazione le categorie di cui ci siamo avvalsi per quest’analisi:

– MOD: come già detto, si tratta di una delle categorie più ricorrenti. La versione russa tende a generalizzare quanto detto nell’originale, ma è da notare la presenza di specificazioni, anche se più rare. La maggior parte delle differenze di tipo MOD riguarda parole singole, come «Regionals» tradotto con «конкурсе», oppure espressioni come «Glee club», divenuto semplicemente «клуб» (quest’ultima differenza è catalogabile anche come I, se prendiamo in considerazione il fatto che il Glee club fa parte dei realia).

– OM: questa è, con ogni probabilità, la categoria più ricorrente. La sua alta frequenza è dovuta al fatto che il voice-over russo, generalmente di ritmo poco sostenuto per permettere agli spettatori una migliore comprensione, deve stare al passo con l’originale inglese, indubbiamente più veloce. Questo porta all’omissione sia di singole parole, sia di frasi intere, come nel caso della battuta «On par with all the jocks and popular kids» presente nella prima scena analizzata. Nonostante la categoria si presenti molte volte, il senso del prototesto non viene in alcun modo compromesso; la resa risulta più “concentrata”, ma certamente comprensibile.

– A: pur se non frequenti come le omissioni, le aggiunte sono presenti. Sebbene si tratti di singole parole o frasi intere, come nel caso della categoria OM, il senso del metatesto non si allontana troppo da quello del prototesto.

– R: le differenze di registro sono assai frequenti in questa analisi e la loro presenza è sicuramente dovuta al fatto che i protagonisti della serie televisiva sono al 90% adolescenti; risulta pertanto difficile rendere dei termini gergali o colloquiali senza rischiare di fare un “cambiamento” di tipo R.

– INTRA: contrariamente a quanto inizialmente ipotizzato, cioè che questa categoria avrebbe fatto parte del gruppo di quelle non analizzate, le differenze di tipo INTRA sono molto ricorrenti e riguardano la parola «hello», su cui è incentrato l’intero episodio, tradotta con «привет». Si tratta sicuramente di una traduzione corretta, in quanto entrambe le parole significano «ciao», ma dal momento che, come precisato nella prefazione, la puntata è basata sul gioco di parole “hello-hell”, in particolare la sesta scena analizzata, questa traduzione risulta poco efficace. Non è molto funzionale anche dal punto di vista della relazione che intercorre tra le battute degli attori e le canzoni, che, nel caso specifico di questo episodio, girano tutte intorno alla parola «hello». La categoria INTRA è, però, usata anche in un altro senso: riguarda le ripetizioni dell’originale (per esempio, «Guys, guys, guys») che non vengono riprodotte nella versione russa («Стоп, стоп ребята»).

– ENF: anche questa è una delle categorie più frequenti perché, trattandosi di voice-over, per definizione senza emozione alcuna, la resa dell’enfasi inglese in russo è inefficace. Le frasi che sono state catalogate come ENF sono molte, anche se, in realtà, questa categoria sarebbe attribuibile a tutto il testo perché l’enfasi suggerita dall’originale manca completamente nella versione russa.

– D: meno frequente delle precedenti, ma pur sempre presente, la categoria dei deittici riguarda la differenza di punti di vista, soprattutto spaziali («I’m getting out of Ohio soon» reso «Скоро я уеду от-сюда»).

– M: si tratta di una categoria non molto ricorrente, ma comunque presente; differenze di tipo M generalmente compromettono il senso del testo, ma nell’analisi svolta, in alcuni casi, il messaggio passa indenne. Alcune M riguardano semplicemente parole singole («moral integrity» tradotta con «душевную чистоту»), altre, come nel caso di tante altre categorie, sono applicabili a intere frasi.

– CS: nell’analisi svolta, questa categoria appare solo una volta, accompagnata dalla categoria relativa alla logica (L). La battuta presa in considerazione è: «I’m sorry. I was just focusing on the first syllable», in russo: «Простите. Я сосредоточилась на первом слоге». Estrapolata dal contesto (il personaggio canta la canzone Gives You Hell, non attenendosi di proposito al compito, cioè quello di cantare canzoni i cui titoli contengano la parola «hello»), sembra che la battuta sia stata tradotta egregiamente, ma in realtà si tratta di un calco che, oltre a compromettere il senso delle battute, dà origine a un problema di logica: la prima sillaba di «привет» in russo non vuol certo dire «inferno».

– L: oltre alla scena citata, questa categoria appare in un’altra battuta: «I remember when I used to get nervous», in russo tradotta con «Я тоже, когда ты стеснялся, но?». Con questa traduzione, considerabile anche M, la logica dell’originale manca totalmente. Prendendo in considerazione la battuta in inglese, capiamo che il personaggio, dandosi delle arie, risponde alla sua interlocutrice con un tono quasi di scherno, dicendo di ricordarsi i tempi, presumibilmente lontani, in cui anche lui si vergognava a esibirsi. Nella frase russa, il messaggio che passa non è certo questo, anzi, sembra una battuta senza alcuna logica.

– I: questa categoria è stata citata in uno degli esempi della categoria MOD, ma è presente anche in altre battute, come «Your rendition of Don’t Rain On My Parade was flawed», in cui, nella versione russa, il rimando interculturale creato dal titolo della canzone non è reso, visto che questi viene tradotto: «Твоя исполнение песни Не порти мне праздник была с грехами». Altro esempio di differenza di categoria I è la battuta «I’ve got a full ride to a little school called the University of California Los Angeles», la cui traduzione («У меня стипендия в Калифорнийском Университете») non fa comprendere allo spettatore russo di quale università il personaggio stia parlando.

– P: contrariamente a ogni aspettativa, questa categoria è stata utilizzata in quest’analisi, sebbene in un solo caso. Pur trattandosi della trascrizione di un discorso orale, è presente una differenza nella riproduzione degli aspetti grafici rispetto all’originale, e più precisamente nella battuta «Oh, my god, you’re Jessie St. James. You’re in Vocal Adrenaline», in russo resa «Боже, ты Джесси Сент-Джеймс из Вокального Адреналина». Nella versione inglese, la battuta è composta da due frasi (non considerando l’esclamazione iniziale) divise da un punto fermo, mentre quella russa è una frase sola. La mia scelta di trascrizione potrebbe essere discutibile, ma difendo questa mia decisione dicendo che non c’era altro modo per scrivere questa battuta, se non rendendola una frase sola.

– U: anche questa è una categoria che appare solo una volta nell’analisi e avevo pensato non fosse rilevante. «… He would go from dumpy to smokin’» è una cosiddetta collocation, che in russo viene tradotta in un modo che, pur facendo arrivare messaggio e senso a destinazione, non presenta una collocation equivalente («… Oн бы из никого стал клёвым»).

– S: è una categoria che ho trattato solo nelle ultime battute dell’ultima scena analizzata, anche se, analogamente alla categoria ENF, si potrebbe attribuire a tutto il testo. Nella prefazione ho espresso la mia idea secondo cui, per questo testo, non è possibile parlare di “stile dell’autore”. Magari è così, ma è sicuramente presente lo “stile dell’attore(o del personaggio?”. Come esempio consideriamo i due protagonisti: Finn, in genere comincia le proprie battute con qualche esclamazione del tipo «Hey, whoa!» che in russo non viene assolutamente tradotta; Rachel, invece, tende a esordire con congiunzioni, stile che nella traduzione russa viene evitato, dando quindi origine a differenze stilistiche.

Come si può vedere da questa “analisi dell’analisi”, alcune delle ipotesi iniziali proposte nella prefazione sono state confermate, mentre altre sono state smentite. Nessuna traduzione è identica, altrimenti sarebbe copia. A parer mio, il testo preso in considerazione è un’interessante fonte di differenze traduttive, dovute soprattutto alla tecnica del voice-over.

 

  1. 5.  Riferimenti bibliografici

– Osimo B[bo1] . 2000-4 Doppiaggio, in Corso di traduzione 4:17, Modena, Logos, disponibile in internet all’indirizzo: http://courses.logos.it/IT/4_17.html consultato nel mese di febbraio 2013.

Qui devi ripetere tutto … http://courses.logos.it/IT/4_18.html

Qui devi ripetere tutto … http://courses.logos.it/IT/4_19.html

Qui devi ripetere tutto … http://courses.logos.it/IT/4_20.html

– Harrington, John 1973 The rethoric of film New York: Holt, Rinehart and Winston.

– Franco, Eliana/ Matamala, Anna/ Orero, Pilar 2010 Voice-over Translation: An Overview Bern, Berlin, Bruxelles, Frankfurt am Mein, New York, Oxford, Wien: Peter Lang.

Qui devi ripetere tutto – http://en.wikipedia.org/wiki/Voice-over_translation consultato nel mese di febbraio 2013.

– Osimo, Bruno 2004 Traduzione e qualità: la valutazione in ambito accademico e professionale Milano: Hoepli.

– Osimo, Bruno 2010 Propedeutica della traduzione: corso introduttivo con tabelle sinottiche Milano: Hoepli.

– Osimo, Bruno 2013 Valutrad: un modello per la qualità della traduzione Milano: Bruno Osimo Editore [Formato Kindle].

– Falchuck, Brad Hell-O tratto da Glee USA Ian Brennan 2009.



[1] Prototesto: testo dell’originale, testo della cultura emittente, da cui si avvia il processo traduttivo. (Osimo:2010)

[2] Metatesto: testo della traduzione, testo della cultura ricevente, a cui si giunge mediante il processo traduttivo. (Osimo:2010)

 

Kalevi Kull: A sign is not alive – a text is. (Kalevi Kull: A sign is not alive – a text is)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Kalevi Kull: A sign is not alive – a text is.

(Kalevi Kull: A sign is not alive – a text is)

 

Abstract in italiano

La biosemiotica è un sottoinsieme della scienza dei segni applicata al mondo biologico. Il suo obbiettivo è colmare la distanza tra mondo umano e non umano, dal punto di vista della comunicazione. La vita è comunicazione. Sulla base della traduzione di «A sign is not alive – a text is» di Kalevi Kull viene analizzato il rapporto tra  biosemiotica e processo traduttivo. La traduzione non è confinabile al campo della linguistica; il suo raggio d’azione si estende a tutto il mondo dei segni.

 

English abstract

 

Biosemiotics is a subset of the  sign science  applied  to the biological world. Its purpose is to bridge the gap between the human world and the non-human world. Life is communication. On the basis of the translation of “A sign is not alive – a text is” by Kalevi Kull the connection between biosemiotics and the translation process was analyzed. Translation cannot be confined to the linguistics field; its sphere of activity extends over the whole world of signs.

 

Résumé en français

 

La biosémiotique est un sous-ensemble de la science des signes appliquée au monde biologique. Son but est  de combler la distance entre le monde humain et le monde non-humain, sur le plan de la communication. La vie est communication. Sur la base de la traduction de l’article «A sign is not alive – a text is» écrit par Kalevi Kull, on a analysée la relation entre la biosémiotique et le processus traductif. La traduction ne peut pas être confinée au domaine de la linguistique ; son rayon d’action s’étend à tout le monde des signes.

 

 

 

 

 

Sommario

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. 1. Prefazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.1 Introduzione alla biosemiotica

Letteralmente la biosemiotica è la sintesi tra biologia e semiotica. Non si tratta di una nuova disciplina ma di un ramo della semiotica, ovvero della scienza dei segni, che racchiude in sé la biologia, le scienze del linguaggio e le scienze della comunicazione. Una delle definizioni migliori di biosemiotica è data, a mio avviso, da Kalevi Kull nell’introduzione di Information, codes and signs in living systems di Marcello Barbieri: «La biosemiotica può essere definita come la scienza dei segni nei sistemi viventi» (Kull 2007:2). Senza giri di parole, sintetica e diretta. È ovvio che è solo una prima definizione, ma riesce brevemente a riassumere in modo chiaro gli  aspetti principali di questa disciplina. «La scienza dei segni deve sviluppare il linguaggio con cui parlare dei segni e deve essere in grado di riferire sia ai segni degli animali, sia ai segni degli uomini» (Morris 1946:9). In realtà, volendo essere più precisi, si dovrebbe parlare di segni degli animali umani e non umani. Tuttavia «non si tratta semplicemente di riprendere una terminologia usata nell’osservazione del comportamento animale per applicarla al comportamento umano; in tal caso, la prospettiva da cui si guarda ai segni comprende l’intero mondo animale, umano e non umano. Questa prospettiva è chiaramente biosemiotica» (Petrilli 2000). Uno degli obbiettivi di questa branca è descrivere l’essere vivente in termini di processo comunicativo e di decodificare la semantica e la grammatica dell’essere vivente, definendone i simboli, le regole e i sensi impiegati nel processo comunicativo. È importante ricordare che il senso di un segnale può dipendere dal contesto. Ad esempio, l’adrenalina facilita la fuga quando sono presenti ansia e stress oppure favorisce la digestione, quando ci si sente rilassati e sereni. Ciò dimostra che il simbolo dell’adrenalina non è univoco e che il contesto gioca un ruolo fondamentale. A questo proposito la biosemiotica ha il pregio di prendere in considerazione l’intero spettro dell’essere vivente, partendo dai batteri, passando per le piante e arrivando fino all’uomo. Per esempio, possiamo paragonare i sistemi di difesa vegetali a quelli animali; se una pianta viene attaccata da un agente nocivo, è in grado di difendersi rilasciando delle sostanze volatili repellenti per allontanare il suddetto o perfino attraenti  per attirare i parassiti del parassita. Parallelamente, esistono altri organismi, non necessariamente di tipo vegetale, in grado di fare la stessa cosa, impiegando dei mezzi di comunicazione analoghi.

La biosemiotica si occupa anche della ricerca della natura biologica  dei segni e della base semiotica della biologia. L’evoluzione del senso è caratterizzata dalla sua estensione al di là del tempo e dello spazio e dalla classificazione della sua struttura. Tale processo ha gradualmente fatto sì che i sistemi prebiologici si evolvessero fino all’uomo.

 

1.2 Il processo traduttivo

«Normalmente, quando si parla di traduzione, si ha in mente una sottospecie molto particolare di questo processo, ossia la riespressione di un testo in una lingua (codice naturale) diversa da quella in cui il testo è stato originariamente concepito e scritto» (Osimo 2001:3). Se quest’affermazione non venisse approfondita, si potrebbe pensare che la traduzione riguarda solo i testi verbali nel loro rapporto tra più lingue. Tuttavia, il processo traduttivo si occupa anche del rapporto che intercorre tra linguaggi diversi di una stessa lingua, «avendo ogni lingua un plurilinguismo interno più o meno sviluppato» (Petrilli 2000:5). A questo punto, non possiamo confinare la traduzione esclusivamente nel campo della linguistica; occorre ampliare il suo raggio d’azione poiché coinvolge la semiotica, comprendendo quindi i linguaggi non verbali,oltre a quelli verbali. Da questo punto di vista, «la traduzione è un’operazione segnica, nel senso che avviene tra segni  e non è riducibile al linguistico-verbale» (Petrilli 2000). È necessario ora fare una distinzione tra lingua e linguaggio, dato che ne abbiamo parlato fin’ora, e per farlo riprenderò le parole di Ferdinand de Saussure: «Per noi, una lingua si confonde col linguaggio; essa ne è semplicemente una determinata parte, seppur essenziale. La lingua è al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui. Il linguaggio appartiene a diversi campi e anche al dominio individuale e al dominio sociale e non si lascia classificare in nessuna categoria di fatti umani. Al contrario,la lingua è in sé una totalità e un principio di classificazione» (Saussure 1971:126). In breve, la lingua è il modo concreto in cui si manifesta la capacità del linguaggio umano, dal quale però si distingue.

Nel momento in cui incontriamo un processo semiosico o un segno allora assistiamo anche al processo traduttivo. Qui, la traduzione esula dalla «semiosfera» di Jurij M. Lotman, ovvero da quell’ambito della semiosi in cui i processi del segno operano nel gruppo di mondi circostanti interconnessi, gli Umwelt. Allora il processo traduttivo «potrebbe estendersi all’intero mondo organico, ossia ovunque ci siano segno e semiosi e spaziando per l’intera «biosfera» o «semiobiosfera», come la biosemiotica» (Petrilli 2000).

Riprendendo le parole che Susan Petrilli scrive nel suo libro La traduzione,  possiamo ora dare una nuova definizione di processo traduttivo:

La traduzione è un’operazione semiosica ritrovabile ovunque ci sia segno, cioè in qualsiasi espressione di vita, ma è principalmente un’operazione semiotica che presuppone la presa di coscienza, la riflessione e cioè un uso mediato dai segni.

 

1.3 I tipi di traduzione

Se si vuole che il processo traduttivo abbia successo, la strategia comunicativa dovrà essere completa e tenere in considerazione che esistono vari tipi di traduzione, che comprendono gli aspetti linguistici, ma anche quelli culturali; ecco qui di seguito l’elenco dei tipi di traduzione che conosciamo:

 

  •  Traduzione intralinguistica
  •  Traduzione intersemiotica
  •  Traduzione intertestuale
  •  Traduzione metatestuale
  •  Traduzione culturale
  •  Traduzione mentale

 

Quella che, per eccellenza, rientra nell’ambito biosemiotico è la traduzione di tipo intersemiotico, ovvero quella che avviene tra diversi linguaggi non verbali e anche al di fuori dei linguaggi umani fino ad arrivare a traduzioni «di ordine specificamente biologico».

«La traduzione non riguarda solo il mondo umano, ossia l’antroposemiosi, ma è una modalità costitutiva dell’intero mondo vivente, della biosemiosi, della biosfera» (Petrilli 2000:9). Ecco lo schema della ripartizione dei tipi di processo traduttivo, dal punto di vista biosemiotico:

Semiobiosfera

|

Traduzione intersemiosica

(tra sistemi segnici)

|

Traduzione endosemiosica

(in un sistema segnico)

|

Antroposemiosi

|

Traduzione antroposemiosica

|

Traduzione intersemiotica

(in cui compare un linguaggio)

|

Traduzione interlinguistica

(tra linguaggi)

|

Traduzione endolinguisica

(in un solo linguaggio)

|

Traduzione endoverbale

(nel linguaggio verbale)

 

 

 

 

 

 

 

  • – Diglossica  tra lingua standard e dialetto
  • – Diafasica  tra registri diversi
  • – Diamesica tra scritto e orale

 

1.4 La semiobiosfera

Abbiamo già visto la definizione che Jurij M. Lotman dà del termine «semiosfera». Thomas A. Sebeok ne riprende il concetto e lo amplia dato che, secondo Jurij M. Lotman, «la semiosfera è l’oggetto della semiotica globale o semiotica della vita ed è circoscritto alla sfera della cultura umana» (Ponzio 2002:325). Infatti, stando alla semiotica globale, semiosi e vita coincidono ed è per questa ragione che possiamo chiamarla «semiotica della vita». Così intesa, la semiosfera si identifica con la biosfera e sintetizzando i due concetti, possiamo utilizzare il termine comune «semiobiosfera». In poche parole, la biosfera è quella parte del nostro pianeta che comprende i segni vitali, si tratta ovvero del luogo in cui viviamo e di ciò che siamo. Al contrario, la semiosfera ingloba tutto ciò che riguarda le varie culture e, come ho accennato in precedenza, ha un’estensione limitata, almeno rispetto al concetto di biosfera.

Al di fuori della semiosfera possono esistere sia comunicazione sia linguaggio, nonostante Lotman escludesse totalmente «il mondo della prodigiosa terra di nessuno popolata da molteplici creature senza parola ma persino l’uomo stesso nella sua inalienabile costituzione animale» (Ponzio 2002:12). Sebeok addirittura definisce quest’asserzione sconcertante ed effettivamente Lotman non tiene conto del fatto che l’antroposemiosi è impiantata nella zoosemiosi e che la semiosi umana si svolge prevalentemente in maniera extraverbale. La zoosemiotica è un ramo della biosemiotica particolarmente prolifico, dato che gli animali sono dei mediatori semiosici, da un certo punto di vista. Essi possono essere considerati «agenti di trasformazione» a metà strada fra le piante, organismi che mettono in moto gli interpretanti e i funghi, che decompongono gli interpretanti (Sebeok 1988:65). Nel ruolo di mediatori, gli animali elaborano i segni che abbracciano l’intero spettro sensorio, ciascuno secondo la sua specifica gamma di organi sensori, ma anche semplicemente in proporzione ad essa. Anche se può sembrare che l’ambiente inanimato non assuma nessuna funzione semiosica, esso può agire come una sorta di fonte di messaggi. La traduzione può essere ritenuta come implicita nel concetto di segno; infatti, un segno senza interpretante, ovvero senza un altro segno che ne comunichi il significato, non può essere compreso. Il significato di un segno non può essere circoscritto entro dei limiti. In teoria, ogni volta che qualcosa ha significato, non c’è tipo di segno che non possa essere coinvolto e fornire così interpretanti del segno. È questo che fa del significato e della traduzione un fatto semiotico anche quando la traduzione e l’interpretazione avvengono nell’ambito del verbale, tra linguaggi della stessa lingua (traduzione endolinguistica) o tra lingue diverse (traduzione interlinguistica). All’interno del processo traduttivo, la difficoltà non riguarda la traducibilità, che una condizione della vita stessa del segno; le problematiche sono legate alla restrizione dell’interpretante al campo verbale.

La comunicazione è un fenomeno comune a tutti gli organismi viventi; per esempio, è comunicazione il messaggio genetico che si trasmette di padre in figlio, marcare il territorio (come fanno i cani), il dolore che ci avverte di una qualunque disfunzione all’interno del nostro organismo. La comunicazione sicuramente non è univoca; può essere verbale, mimica, gestuale o cinesica e infine prossemica, ovvero implicita nei vari atteggiamenti degli esseri umani.

 

1.5 Un esempio pratico di traduzione intersemiotica tra un animale umano e un animale non umano

Finora, sul piano teorico, abbiamo parlato di come tutti gli organismi viventi riescano a comunicare e a trasmettere messaggi anche se non sono dotati dell’uso della parola; dal punto di vista pratico, se un animale umano, ovvero una persona, volesse capire il linguaggio di un animale non umano, ad esempio di un cane, si troverebbe davanti ad una traduzione intersemiotica. Il cane, infatti, comunica utilizzando il linguaggio del proprio corpo e sta all’uomo capire quello che “Fido” sta cercando di dirgli, immagazzinando i suoi movimenti e le sue posture e traducendoli in un messaggio che abbia un senso per l’uomo, quindi verbale. Si tratta di una vera e propria traduzione; infatti, per sapere come interpretare il linguaggio corporeo del cane, l’uomo deve documentarsi, imparare a conoscerlo standoci a contatto, studiarne il comportamento sul campo, parlare con etologi, comportamentisti e persone competenti. Le stesse cose che si fanno per prepararsi adeguatamente a tradurre un testo scritto.

È importante ricordare che il cane “parla” completamente un’altra lingua rispetto a noi e che quindi anche noi comunichiamo con il cane attraverso gesti e movimenti. Ad esempio, per noi, il contatto visivo è estremamente importante; difficilmente quando parliamo con un’altra persona non la guardiamo negli occhi e se lo facciamo, è considerato un segno di maleducazione. Quando ci avviciniamo ad un cane che non conosciamo guardandolo negli occhi, il messaggio che il cane recepisce è di sfida e si comporterà di conseguenza. Viceversa, possiamo essere noi a fraintendere un messaggio del cane; normalmente siamo portati a pensare che il cane agita la coda solo per fare le feste o quando è contento. In realtà, ad ogni suo stato d’animo, corrisponde un movimento diverso della coda; se Fido è tranquillo agiterà la coda abbastanza velocemente, se impaurito la terrà tra le zampe posteriori, se in collera terrà la coda alta e la agiterà velocemente. È ovvio che se sta per attaccarci e noi capiamo che vuole farci le feste, il problema non è di poco conto. Fortunatamente per noi, il cane non utilizza mai un solo “movimento” per trasmettere il proprio stato d’animo o le proprie intenzioni. Agitare la coda è solo uno dei segnali di cui il cane si avvale per comunicare l’imminente attacco. Se portasse tutto il peso sulle zampe anteriori, rizzasse il pelo del dorso, non distogliesse lo sguardo, mostrasse i denti e ringhiasse, allora avreste motivo di preoccuparvi seriamente.

Ho voluto fare un esempio pratico di quello che ho scritto nella prefazione di modo che si avesse la possibilità di capire concretamente cos’è la traduzione del linguaggio degli organismi viventi, al di fuori del campo verbale.

 

 

 

 

 

 

 

 

1.6 Riferimenti bibliografici     

 

BARBIERI, MARCELLO. 2007 Biosemiotics: Infos, codes and signs in living systems  Nova Science Publishers.

 

BARBIERI, MARCELLO. 2008 Introduction to biosemiotics: the new biological synthesis  Springer.

 

ECO, UMBERTO. 1997  Semiotica e filosofia del linguaggio  Torino: Einaudi.

 

ECO, UMBERTO. 2003 Dire quasi la stessa cosa: esperienze di traduzione Milano: Bompiani.

 

HOFFMEYER, JESPER. 1996 Signs of meaning in the universe Bloomington: Indiana University Press.

 

HOFFMEYER JESPER, FAVAREAU DONALD.2009 Biosemiotics: an examination into the signs of life and the life of signs University of Scranton Press.

 

MORRIS, CHARLES. 1946 Signs, language and behavior Prentice-Hall

 

MOUNIN, GEORGES. 1971 De Saussure: la vita, il pensiero, i testi esemplari Firenze: Sansoni.

 

OSIMO, BRUNO. 2004 La traduzione totale: Spunti per lo sviluppo della scienza della traduzione Milano:Hoepli.

 

OSIMO B. 2001 Propedeutica della traduzione Milano:Hoepli.

 

PETRILLI, SUSAN. 2001 Lo stesso altro Roma: Meltemi.

 

PETRILLI, SUSAN. 1999/2000 La traduzione Roma: Meltemi.

 

PETRILLI SUSAN, PONZIO AUGUSTO. 1999 Fuori campo:i segni del corpo fra rappresentazione ed eccedenza Mimesis.

 

PONZIO, AUGUSTO. 2002 Vita Roma: Meltemi.

 

ROTHSCHILD, FRIEDRICH SALOMON. 1994 Creation and evolution: a biosemiotic approach Universal and Berne.

 

SEBEOK, THOMAS ALBERT. 2001 Global Semiotics Bloomington: Indiana University Press.

 

SEBEOK, THOMAS ALBERT. 1998 Come comunicano gli animali che non parlano Edizioni dal Sud.

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Traduzione con testo a fronte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A sign is not alive – a text is

 

Kalevi Kull

Department of Semiotics, University of Tartu

Tiigi Str. 78, Tartu, Estonia

 

 

e-mail: kalevi@zbi.ee

 

 

 

Abstract. The article deals with the relationships between the concepts of life process and sign process, arguing against the simplified equation of these concepts. Assuming that organism (and its particular case – cell) is the carrier of what is called ‘life’, we attempt to find a correspondent  notion in semiotics that can be equaled to the feature of being alive. A candidate for this is the textual process as a multiple sign action. Considering that biological texts are generally non-linguistic, the concept of biotext should be used instead of ‘text’ in biology.

 

.

 

 

 

 

 

In this note I would like to pay attention to the importance of non-oversemplification in applications of semiotic concepts in biology. This infers from the threshold of the type of diversity ( the categorized

La staticità del segno, la vitalità del testo

 

Kalevi Kull

Dipartimento di semiotica, Università di Tartu

Tiigi Str. 78, Tartu, Estonia

e-mail: kalevi@zbi.ee

 

Abstract –  L’articolo tratta del rapporto fra il concetto di «processo della vita»

e il concetto di «processo segnico» e mette in discussione l’equazione semplificata di tali idee. Ponendo che l’organismo – e la particella che lo compone, ovvero la cellula – sono portatori di ciò che è noto come « vita », dobbiamo cercare di reperire un concetto corrispondente nell’ambito della semiotica che possa essere equiparato all’essere in vita. Tale concetto può essere quello di «processo testuale» in quanto azioni segniche multiple. Tenendo in considerazione che i testi di tipo biologico sono generalmente non linguistici, in biologia dovremmo servirci del concetto di biotesto al posto di quello di testo».

 

 

If we put together many branches and great

quantity of leaves, we still cannot understand

the forest. But if we know how to walk

through the forest of culture with our eyes

open, confidently following the numerous

paths which criss-cross it, not only shall we

be able to understand better the vastness

and complexity of the forest, but we shall

also be able to discover the nature of the

leaves and branches of every single tree.

U. Eco (1990: xiii)

 

 

 

Vorrei qui porre l’accento sul fatto che è importante non fare semplificazioni eccessive dei concetti semiotici in biologia. Lo possiamo inferire dalle soglie del tipo di diversità (la diversità

 

 

diversity) that  the contemporary biology describes as characteristic to all living systems.

There is not only Floyd Merrell, who has written about “ the life ~ Signs equation” (Merrell 1996:315n1). Particularly in that part of semiotics which is strongly influenced by Peircean ideas, the expressions like ‘living signs’ have become quite frequent in recent years. Another factor behind these claims is the influence of biosemiotic studies, including its basic assumption that semiosis and life are coextensive.  That the issue is not of secondary importance for semiotics, is evident from Thomas A. Sebeok’s statements:

 

I postulate that two cardinal and reciprocal axioms of semiotics – subject, as always, to falsification – are: (1a) The criteria mark of all life is semiosis; and (1b) Semiosis presupposes life. […] Further semiosic unfolding – such as the genesis of ordered oppositions like self/other, inside/outside, and so forth – derive from, or are corollaries of, the above pair of universal laws.

(Sebeok 2001:10-11)

 

The idea about the identity of life and semiosis, no doubt, has been a productive core hypothesis, considerably assisting in the attempts to find a correspondence between biology and semiotics. In a more detailed analysis, a question arises, whether biology itself can learn anything from these ideas; e.g., whether it may be possible to give a more profound description to the concept of life using its semiotic features.

The claims above can be easily interpreted as if a sign, being an element of life, is itself alive. Still, one has to keep in mind that the problem of elements in sign science is very different from the problem of elements in chemistry.

A discussion about the relationship between the concepts of ‘life’ and ‘sign’ is complicated due to the fuzziness of the ‘life’ concept altogether. A collection of life definitions provided by Barbieri (2001:235-242) perfectly demonstrates the diversity of these definitions. However, the problem is inescapable for biology, and I suggest that a semiotic approach will be very helpful in achieving a more clear understanding (if not a solution) of it. categorizzata) che la biologia contemporanea descrive come peculiarità di ogni sistema vivente. Floyd Merrel, autore di The Life Signs equation (Merrel, 1996: 315n1), non è stato l’unico. In particolare,in quel ramo della semiotica così fortemente influenzato dalle idee di Peirce, espressioni come «segni viventi» sono diventate piuttosto frequenti, recentemente. Esiste un altro fattore dietro queste affermazioni ed è l’influenza degli studi in materia di biosemiotica, che comprendono la sua congettura di base; secondo questa, semiosi e vita sarebbero coestensive. Grazie alle affermazioni di Thomas A. Sebeok, risulta evidente che la questione non è di secondaria importanza per la semiotica:

Sostengo che due assiomi della semiotica cardinali e reciproci – soggetti,come sempre, alla falsificazione – sono: (1 a) Il criterio distintivo di qualsiasi forma di vita è la semiosi;

(1 b) La semiosi presuppone la vita […] Ulteriori sviluppi semiosici come la genesi delle opposizioni – ad esempio proprio/altrui, interno/esterno e così via – derivano della suddetta coppia di leggi universali.

(Sebeok,2001:10-11)

L’idea a proposito dell’identità di vita e semiosi è stata indubbiamente un’ipotesi produttiva, che ha notevolmente sostenuto i tentativi di trovare una corrispondenza tra biologia e semiotica. Ad un’analisi più approfondita ci si chiede se la biologia stessa possa imparare qualcosa in più da tali idee; ad esempio, è possibile dare una definizione più dettagliata del concetto di vita, utilizzando le sue peculiarità semiotiche?

Le suddette affermazioni possono essere facilmente interpretate se poniamo che il segno, essendo un elemento di vita, è vivo. Eppure, occorre ricordare che il problema degli elementi, nella scienza dei segni, è molto diverso da quello degli elementi in chimica.

La complessità del dibattito a proposito della relazione tra i concetti di «vita» e «segno» è dovuta all’indefinibilità del concetto di ’vita‘ nel suo insieme. Barbieri ha fornito una serie di definizioni di «vita» (2001:235-242) che mostra perfettamente la diversità che intercorre tra queste definizioni. Tuttavia, nell’ambito della biologia, il problema è ineluttabile e ritengo che un approccio semiotico possa essere utile per raggiungere una più immediata comprensione del problema (se non una soluzione).

 

 

BIOTEXT

Sign, however an absolutely necessary element of any semiotic system, still cannot be taken as a fundamental semiotic unit, because sign cannot exist as a single sign – sign is always a part of a bigger system, sign is always accompanied by another sign(s). This is not because signs always just happen to be placed not far from each other and in multitude, but because it belongs to the very nature of sign to be ‘a part of’, to be a meron. At least in some traditions in semiotics, this bigger system can be called ‘text’.Comparing the above statement (that sign cannot exist as a single sign), by analogy, to a biological key idea that the minimal living unit is cell, one may conclude that the same should be applicable here – ‘cell cannot exists as a single cell’. However, this comparison is not exact, and not true. Because, the cell, on the one hand, being “the simplest entity to possess real semiotic competence” (Hoffmeyer 1997:940), on the other hand always includes a whole multitude of signs. This contradiction can be solved if to speak on ‘semiosis’ instead of ‘sign’ (as actually in the case in most biosemiotic writings): cell is a minimal semiosic unit.  Semiosis is – according to its common definition – the action of signs, the sign process. “According to Peirce, semiosis is a continuous process that is based on the interpretation of one sign through another. Jakobson described this process as translation” (Krampen et al 1987:244). Since semiosis is nota n action of just one sign, since semiosis involves always a multitude f signs, it is a textual process like translation is. In this way, it has to be concluded that semiosis is not an action of a sign, but an action of signs, and accordingly a more complex structure than that of a single sign has to be present in a simplest semiosic system. If to call this text, one should consider that

 

 

IL BIOTESTO:

Il segno, che rimane comunque un elemento indispensabile per qualunque sistema semiotico, continua a non essere considerato come un’unità semiotica fondamentale, poiché il segno non può esistere come elemento a sé stante – il segno fa sempre parte di un sistema più grande – il segno è sempre accompagnato da uno o da più segni. Questo non avviene perché i segni sono semplicemente sempre collocati in massa, vicini gli uni agli altri, ma perché il segno appartiene alla vera natura segnica al fine di essere ’una parte di‘, al fine di essere un merone. Almeno in qualche tradizione semiotica, questo sistema più grande è chiamato ’testo’. Se paragoniamo, per analogia, la frase “il segno non può esistere come elemento a sé stante” all’idea biologica chiave secondo la quale la  microscopica unità vivente è la cellula, qualcuno potrebbe concludere che la stessa frase può valere anche nel seguente caso: “la cellula non può esistere come elemento a sé stante”. Tuttavia, quest’affermazione non è né precisa né vera. Questo perché,da un lato, la cellula è “la più semplice entità avente reale competenza semiotica” (Hoffmeyer 1997:940); dall’altro lato, la cellula comprende un’intera moltitudine segnica. Possiamo risolvere questa contraddizione se parliamo di semiosi invece che di «segno» (come accade nella maggior parte degli scritti biosemiotici): la cellula è una microscopica unità semiosica. Per definizione, la semiosi è l’azione dei segni, ovvero il processo segnico. “Secondo Peirce, la semiosi è un processo continuo che si basa sull’interpretazione di un segno attraverso un altro segno. Jackobson ha definito questo processo con il termine «traduzione» (Krampen et al. 1987:244). Dato che la semiosi non riguarda l’azione di un solo segno ma coinvolge sempre una moltitudine di segni, possiamo dire che la semiosi è un processo testuale come allo stesso

 

 

it may be a non-linguistic text, and therefore it is more proper to call it a biotext.

If so, then the following conclusion becomes necessary – the basic semiosic unit biotext. Each text is a composition of signs, however, signs are nothing more than functional parts of text that cannot exist without or outside a text.

This can be seen as a reference to a contradiction between the Peircean (or American) and Saussurean (or French, or European) traditions in the development of semiotics throughout the last century. This is a contradiction between ‘sign semiotics’ and ‘text semiotics’ (M. Lotman, 2002).

Whether ‘text’ is a proper term in this status, is of course discussable, because a common interpretation of this term assigns to text the stability, linearity, and fixity. However, e.g., J. Lotman’s usage of the term is much more general when he writes, for instance, about “iconic (spatial, non-discrete) texts” (Lotman 1990:77).

Sign becomes a meaningful entity only due to its relationship to a sign process, semiosis. Accordingly and analogously, text can be seen as a semiotic entity only if a textual process is considered – a text interpretation, a translation in any of these forms.

Thus, in analogy with the term “semiosis” for sign process, we seem to require a term for text process. On the one hand, this may be a false conclusion, because semiosis always assumes the participation of number of signs, semiosis already is textual (s.l.) process. If single signs can be distinguished, then, in contrary, semiosis never concerns only a single sign. Therefore, it seems that there is no need for an additional term. On the other hand, it is possible to distinguish between semiosis that occurs in particular parts of a text, and the semiosis of the whole text. This is the process in which the whole text, including its multiple codes and levels, in toto, interprets itself. The whole text process, or total interpretation (or perhaps total translation, according to Torop 1995), is what also occurs, for instance, when a  new organism is born. ‘Giving birth’ means that a complete set of conditions and patterns is created (“transferred”) that guarantees the independent life for a new organism. This is the same as in case of

 

 

modo è la traduzione. A questo proposito, possiamo concludere che la semiosi non è l’azione di un segno, ma è l’azione di più segni, e di conseguenza una struttura più complessa della suddetta deve far parte in un sistema semiosico più semplice. Se lo chiamiamo testo, dobbiamo tenere in considerazione che potrebbe un testo non linguistico,indi per cui sarebbe più appropriato chiamarlo biotesto. In questo caso, si rende necessaria la seguente conclusione: l’unità semiosica di base è il biotesto. Ogni testo è una composizione di segni ma i segni sono semplicemente parti funzionali del testo che non possono esistere senza un testo o al di fuori di esso.

Ciò potrebbe fare riferimento alla contraddizione esistente fra la tradizione nello sviluppo della semiotica di Peirce (o americana) e la tradizione nello sviluppo della semiotica di Saussure ( francese o europea) che ha interessato tutto il secolo scorso.

Si tratta di una contraddizione fra «la semiotica dei segni» e «la semiotica del testo». (M. Lotman, 2002)

Naturalmente occorre verificare se «testo» è il termine che più si addice a questo status, poiché l’interpretazione comune di questo termine attribuisce al testo stabilità, linearità e fissità. Tuttavia, l’impiego che J. Lotman fa del termine è molto più generico quando scrive, per esempio, di «testi iconici (spaziali – non discreti». (Lotman 1990: 77). Il segno diventa un’entità significativa grazie al suo rapporto con il processo segnico, la semiosi. Quindi, il testo può essere analogamente considerato un’entità semiotica esclusivamente se teniamo in considerazione il processo testuale  – l’interpretazione di un testo, una traduzione in qualunque sua forma.

Perciò, analogamente al termine «semiosi» nel processo segnico, sembra che occorra un termine anche per il processo testuale. Da una parte, potremmo essere arrivati ad una falsa conclusione, perché la semiosi suppone sempre la partecipazione di un certo numero di segni, la semiosi è già un processo testuale, in senso lato.  Anche se possiamo distinguere i singoli segni, la semiosi non riguarda mai solo un singolo segno. Quindi, sembra che non sia necessario un termine supplementare. D’altra parte, è possibile distinguere tra la semiosi che si verifica in tratti particolari del testo e la semiosi di tutto il testo. Attraverso questo processo, l’intero testo, compresi i suoi molteplici codici e livelli, in toto, interpreta sé stesso.

L’intero processo testuale, o interpretazione totale (o forse traduzione totale, conformemente a Torop, 1995), è ciò che si verifica,

total translation, when the life of a text can be transferred into the life of a new text. Quite often, the term semiosis has been used in so general meaning that the total text interpretation has also been termed with it. However, it seems to be reasonable – in order to leave less place for misunderstandings – to distinguish between semiosis as an ‘organ process’, and ‘something else’ as an ‘organism’ process. This ‘something else’ being equal to – life.

A comparison between the concepts of biological function an sign action (Emmeche 2002) demonstrates that the functional differentiation within a self-referencial system is equivalent to the appearance of signs. This is because the functional differentiation means the existence of other-reference. Moreover, “it is stable integration of self-reference and other-reference which establishes the minimum requirement for an umwelt and thereby sets living systems apart from all their non-living predecessors” (Hoffmeyer 1999:156). Without functional differentiation there is no signs (like Lotman expresses it – in case of identical partners, there is nothing to communicate about). Therefore it is reasonable to say that an organism is always a biotext.

Speaking in this way on semiosis of biotexts, it leads to at least an interesting research program to apply the concepts and tools of holistic biology in text analysis. Several notions, like e.g., archetype, homology, analogy, etc., are already in use in both areas.

 

Organism as a self-interpreting biotext

In case of single (simple) tokens, their recognition is based primarily on the existing categories an interpreting system possesses for signs. Therefore, a token is recognized as a representative of a category, and accordingly, its individuality becomes lost in transmission. Categori-sation is a phenomenon that is always accompanying sign processes; it is a precondition of the existence of codes.

 

 

ad esempio, quando nasce un organismo. «Dare alla luce» significa creare («trasferire») una serie completa di condizioni e schemi  che garantiscano ad un nuovo organismo una vita indipendente. È lo stesso nel caso della traduzione totale, quando la vita di un testo può essere trasferita nella vita di un nuovo testo. Il termine «semiosi» è stato impiegato piuttosto spesso con un’accezione così generica che anche l’interpretazione totale del testo è stata  definita con tale termine. Comunque, sembra sensato – per lasciare meno spazio ai fraintendimenti –  fare una distinzione tra la semiosi in quanto

« processo organico » e « qualcos’altro » in quanto «processo dell’organismo». Questo « qualcos’altro » equivale alla vita.

Se paragoniamo i concetti di « funzione biologica » e « azione segnica » (Emmeche 2002) dimostriamo che la differenziazione funzionale all’interno di un sistema autoreferenziale è equivalente all’aspetto dei segni. Ciò avviene perché la differenziazione funzionale implica l’esistenza eteroreferenziale.

Inoltre, «è l’integrazione stabile di autoreferenza ed eteroreferenza a stabilire il requisito minimo per l’umwelt e pertanto separa i sistemi viventi, da tutti i loro predecessori non viventi» (Hoffmeyer 1999:156). Senza la differenziazione funzionale, i segni non esisterebbero ( come afferma Lotman – nel caso di partner identici, non c’è nulla da comunicare).

Quindi, è sensato asserire che un organismo è sempre un biotesto.

Parlare così della semiosi dei biotesti conduce se non altro ad un interessante programma di ricerca con lo scopo di applicare i concetti e  impiegare gli strumenti della biologia olistica, nell’analisi del testo. Numerosi concetti, come ad esempio « archetipo », « omologia », «analogia» ecc., sono già in uso in entrambe le aree.

 

 

L’Organismo come biotesto auto interpretante

 

L’identificazione dei segni singoli (semplici) è basata principalmente sulle categorie esistenti che il sistema d’interpretazione possiede per i segni.

Quindi, un segno viene identificato come il rappresentante di una categoria e di conseguenza la sua individualità viene persa durante il

 

In case of compound tokens, their recognition is also a compound process. The particular combination of the element signs in the compound token may be unique, therefore the recognition process can also leave a unique trace.

Since compound token is not the same as a set of signs, one has to ask what turns it into one sign. Another aspect of the nature of the compound signs is that there is more than simply a recognition that occurs in the compound sign interpretation.

A remarkable idea of Jakob von Uexküll concerns the distinction between the two kinds of signs – Merkzeichen and Wirkzeichen. The forms ones are related to perceptual categories, whereas for the latter ones the operational (effectual), or motor categorization takes place. A code between perceptual and operational categories makes it possible for a compound sign to become one whole sign. This occurs if several perceptual categories converge in one operational category. A similar idea has been proposed by Gerald Edelman by his concepts of senso-motor categorization. Mechanism like this means that a principal difference is achieved from just an automatic response to certain factor in environment – this is an ability to recognize individuality. It is a process of interpretation, which, as we saw, requires more than a single sign process – it deals with the text (Kull 1998).

Operational categories are the categories of behavioral acts, of body movements, etc. In case of humans, the operational categories can be those of spoken words.

Due to the complex inner structure of organism, consisting in a large number of cells and many tissues, all begin in a communicative relationship, there can be the perception-operation cycles that are entirely embedded in the body.  This means, inside the body a sequence of perception-operation-perception-operation may include several sequential systems of communication. Accordingly, several levels of categories and categorization can be developed between the

 

 

passaggio. La   « categorizzazione » è un fenomeno che accompagna sempre il processo segnico; si tratta di una precondizione dell’esistenza dei codici.

Anche l’identificazione dei segni composti è un processo composto. La combinazione particolare dei segni dell’elemento, per quanto riguarda il segno composto, può essere unica e per questo anche il processo d’identificazione può lasciare una traccia unica.

Dato che il segno composto non è uguale ad un insieme di segni, ci si deve chiedere cosa lo trasforma in un segno. Un altro aspetto della natura dei segni composti riguarda il fatto che ciò che si verifica nell’interpretazione del segno  composto è più di una semplice individuazione.

Un’idea rilevante di Jakob von Uexküll riguarda la distinzione fra i due tipi di segni – Merkzeichen e Wirkzeichen. I primi si riferiscono alle categorie percettive, mentre per i secondi ha luogo la categorizzazione operativa (efficace) o  moto-categorizzazione. Esiste un codice tra la categoria percettiva e la categoria operativa che permette al segno composto di diventare un segno completo. Questo si verifica se svariate categorie percettive convergono in una categoria operativa. Un’idea simile è stata proposta da Gerald Edelman secondo il suo concetto di categorizzazione senso-motoria. Un meccanismo come questo implica il raggiungimento della differenza principale da una semplice risposta automatica a un determinato fattore nell’ambiente – questa è un’abilità che permette di riconoscere l’individualità. Si tratta di un processo d’interpretazione, che, come abbiamo visto, richiede più di un processo per il singolo segno – riguarda il testo ( Kull 1998).

Le categorie operative sono categorie di atti comportamentali, di movimenti del corpo, ecc. Nel caso degli umani, le categorie operative possono identificarsi con quelle delle « parole dette ».

Grazie alla struttura interna dell’organismo, che consiste nel gran numero di cellule e tessuti, tra i quali intercorre una relazione comunicativa, possono esistere i cicli percettivo – operativi, che sono totalmente insiti nel corpo. Ciò significa che all’interno del corpo la sequenza percezione – operazione – percezione – operazione potrebbe

perceptual and the effectual ones. Which means the development of internal texts, the models.

 

Biosemiotics means biology

 

It is appropriated to remind here few formulations by T. A. Sebeok.

 

The aim of biosemiotics is to extend the notions of general semiotics. To encompass the study of semiosis and modeling in all species. The premise which guides biosemiotics is, in fact, that the forms produced by a specific species are constrained by the modeling system(s) which has evolved from its anatomical constitution. The aim of biosemiotics is to study not only the species belonging to one of the five kingdoms, Monera, Protoctista, Animalia, Plantae, and Fungi, but also to their hierarchically developed component parts, beginning with the cell, the minimal semiosic unit […]. In a phase, the target of biosemiotics is the semiosic behavior of all living things. (Sebeok, Danesi 2000:15)

 

The basic claim of Sebeok, that the semiosic phenomena begin with the first cell, is certainly consistent with the view of many biologists that cell is the elementary unit of being alive – a fundamental statement in biology since mid 19th century. This also means that the simplest mechanism of sign can be found in a system which has at least the complexity of living cell.

The next statement above says that the sign relationship, which is constituted by a modeling system, evolves from the anatomical constitution of cellular life. I would state it more broadly, using the term morphology instead of anatomy – the morphological units of living systems are semiosic.

In order to understand the nature of organic forms, we need to consider that these forms are very weird if we would like to get them from the mixing of non-living particles. A key to decipher the diversity of organic forms both the inter-organismal and intra-organismal, is (according to a biosemiotic approach) to look at these

comprendere numerosi sistemi sequenziali di comunicazione. Analogamente, molti livelli delle categorie e della categorizzazione possono essere sviluppati tra le categorie percettive e quelle operative. Il che implica lo sviluppo dei testi interiori, ovvero i modelli.

 

Biosemiotica significa biologia

 

È giusto ricordare ora alcune formulazioni di T. A. Sebeok.

 

Lo scopo della biosemiotica è di estendere i concetti della semiotica generale al fine di comprendere lo studio della semiosi e della modellizzazione in tutte le specie. Secondo la premessa che accompagna la biosemiotica, in effetti, le forme prodotte da specie specifiche sono vincolate dal/i sistema/i di modellizzazione che si è/si sono evoluto/i dalla sua costituzione anatomica. Lo scopo della biosemiotica non è solo quello di studiare le specie appartenenti a uno dei cinque regni, Monera, Protoctista, Animalia, Plantae e Fungi, ma anche le loro componenti sviluppate in una gerarchia, a partire dalla cellula, l’unità semiosica minima […]

In poche parole, l’obbiettivo della biosemiotica è il comportamento semiosico di tutte le cose viventi. (Sebeok, Danesi 2000:15)

 

L’affermazione di base di Sebeok, secondo la quale i fenomeni semiosici  iniziano con la prima cellula, è senza dubbio coerente con l’opinione di molti biologi che considerano la cellula l’unità elementare dell’essere vivente – asserzione fondamentale in biologia dalla metà dell’800.

Ciò significa anche che il più semplice  meccanismo segnico può essere reperito in un sistema che sia almeno caratterizzato dalla complessità della cellula vivente. Quest’ultima affermazione di Sebeok dice che la relazione segnica, che è costituita da un sistema di modellizzazione, si evolve a partire dalla costituzione anatomica della vita cellulare. Lo direi in senso più generale usufruendo del termine «morfologia» anziché di «anatomia» – le unità morfologiche dei sistemi viventi sono semiosiche.

Al fine di capire la natura delle forme organiche, dobbiamo considerare che queste forme sono molto strane se vogliamo separarle dal mescolamento delle particelle non viventi. Una chiave per decifrare la diversità delle forme organiche, sia interorganismiche sia intraorganismiche, è quella (secondo un approccio biosemiotico) di considerare forme comunicative, come forme che derivano dalla

as communicative forms, as the forms which are a result of categorization of various types. Then, for instance, biological species appear as categories in inter-organismal semiosis, and tissues as categories of intercellular communication within a multicellular organism. These principal objects of biological research being semiosic in their nature, we have to occlude that whole biology unavoidably becomes influenced by the understanding of semiosis.

When looking at biology as a whole, we can recognize a metasemiosic process in it, as represented in Fig. 1 via two capacious triads. It shows morphology and biological systematic as dealing with main intra-organismic and inter-organismic communicative structures, or categories, respectively. Physiology and ecology represent the synchronic, developmental biology and evolutionary biology the diachronic dimensions. However, of course, these can be interpreted also as the three dimensions of sign in the Peircean sense. Or, as a great chain of semiosis with alternating endosemiotic and exosemiotic steps.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figure 1. A metasemiosic structure of biology, with endosemiotic (left) and exosemiotic (right) domains.

 

 

 

 

categorizzazione di svariati tipi. Poi, ad esempio, le specie biologiche si presentano come categorie nella semiosi interorganismica, mentre i tessuti come categorie della comunicazione intercellulare all’interno di un organismo multicellulare. Dato che questi oggetti principali della ricerca biologica sono semiosici di  natura, dobbiamo concludere che tutta la biologia è inevitabilmente influenzata dalla comprensione della semiosi.

Se osserviamo la biologia nel suo insieme, possiamo riconoscere un processo metasemiosico al suo interno, come mostrato nella figura 1attraverso due triadi completi. La figura mostra la morfologia e la sistematica biologica in relazione alle sue principali strutture comunicative o categorie rispettivamente intraorganismiche e interorganismiche.

La fisiologia e l’ecologia rappresentano la biologia evolutiva sincronica e diacronica. Tuttavia, è ovvio che queste possono essere interpretate anche come le tre dimensioni del segno, secondo l’idea di Peirce. O anche, come la grande catena della semiosi con fasi endosemiotiche che si alternano a fasi esosemiotiche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 1. Qui di sopra, una struttura biologica metasemiosica, con campi endosemiotici (sinistra) e campi esosemiotici (destra).

 

 

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Aspetti psicologici del processo traduttivo

Aspetti psicologici del

processo traduttivo

CHIARA ZAPPA

Fondazione Milano

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

 

 

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Ottobre 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Chiara Zappa per l’edizione italiana 2012

 

ABSTRACT IN ITALIANO

Il processo traduttivo si svolge per una parte molto consistente  nella mente del traduttore. Si esaminano gli aspetti psicologici del processo traduttivo per indagare le dinamiche mentali del discorso interno coinvolto nella percezione, elaborazione e produzione del testo.

 

ABSTRACT IN ENGLISH

A considerably consistent part of the translating process  occurs in the translator’s head. An analysis of the psychological aspects of this translating process and of the mental dynamics of the inner speech involved in the perception, the elaboration and the production of the text is investigated here.

 

RÉSUMÉ EN FRANÇAIS

Le processus de la traduction se développe surtout dans la tête du traducteur. On examinera l’aspect psychologique du processus de la traduction pour explorer  les dynamiques mentales du discours intérieur intéressé par la perception, l’élaboration et la production du texte.

 

Sommario:

Introduzione

Capitolo 1: La percezione

1.1 – Lev Semënovič Vygotskij

1.2 Bertrand Russell e Roman Jakobson

1.3 George Berkeley

1.4 Sigmund Freud

1.5 Conclusioni

 

Capitolo 2: La rielaborazione

2.1 – Peirce

2.2 – Saussure

2.3 – Lotman

2.4 – Agar

2.5 – Conclusioni

 

Capitolo 3: La resa

3.1 – Pópovič

3.2 – Shannon e Weaver

3.3 – Whorf

3.4 – Eco

3.5 – Conclusioni

 

 

 

Introduzione:

Spesso capita, specialmente ai lettori più accaniti e più aperti ad ogni genere, di recarsi in libreria ad acquistare un libro. Nonostante questo, quasi a nessuno capita di soffermarsi sulle prime pagine stampate di un libro, quelle con le note della casa editrice e, ovviamente nel caso si trattasse di un autore straniero, quella con il nome del traduttore. Io stessa prima di studiare mediazione saltavo a piè pari quelle pagine “inutili”. Questo avviene perché ad ognuno di noi viene naturale trattare ogni tipo di opera che ci è concesso leggere nella nostra lingua madre, come se fosse stata scritta nella stessa. È raro che i profani del campo si soffermino a pensare, leggendo, a quale potrebbe essere la versione originale del testo. Pensando al ruolo del traduttore in questo senso, mi è venuto da domandarmi cosa esattamente conferisca al lettore la sicurezza che si tratti di un testo filologico, oppure, come sia possibile distinguere lo stile dell’autore dall’influenza del traduttore. La mia tesi si focalizzerà proprio sui meccanismi per i quali avvengono queste modifiche del prototesto. Più in particolare sul ruolo che alcuni fattori psicologici, come lo stato d’animo del momento, possono giocare sulla resa finale di un testo. Per poter fare questo, occorre analizzare passo per passo le tre fasi principali del processo traduttivo.

 

Capitolo 1

 

LA PERCEZIONE

1.1 Il primo passo in assoluto che compie un traduttore è leggere il testo originale. Quindi partendo da questo possiamo definire quasi con certezza la lettura come primo processo traduttivo: quando un testo viene letto e assimilato nella mente, avviene un processo di traduzione da un codice di tipo verbale (testo scritto) al codice mentale che Vygotskij chiama linguaggio interno (nel quale viene scritto il testo mentale) (Osimo 2001:9).

« […] il discorso interno deve essere considerato non come un linguaggio meno il suono, ma come una funzione verbale del tutto particolare e originale per la sua struttura e le sue modalità di funzionamento, che proprio perché organizzata in modo del tutto diverso da quello del discorso esterno si trova con quest’ultimo in un’unità dinamica indissolubile nei passaggi da un piano all’altro» (Vygotskij 1990: 363).

Quindi la lettura viene vista come una “deverbalizzazione del testo scritto”. La lettura è già una prima interpretazione involontaria, poiché ciò che viene letto non cade su una tabula rasa, ma su un terreno in fermento, ricco di esperienze e di idee e di provvisori tentativi di capire. Un terreno molto individuale, che dà luogo a interpretazioni soggettive e solo parzialmente condivisibili.

Già questo comporta alcuni problemi per il lettore-traduttore. Per quanto un traduttore possa sforzarsi di leggere un testo con il desiderio di incarnare lo spirito del lettore più generico possibile, essendo un essere umano ha enormi limiti e resta, pur tuttavia, un individuo, dotato di gusti, idiosincrasie, preferenze, antipatie. Il traduttore non può pretendere di negare la propria personalità solo perché poi dovrà tradurre per altri lettori, anche perché questa negazione potrebbe rivelarsi pericolosa (Osimo 2000-2004).

È quindi inevitabile che il lettore, ma in questo caso, il traduttore interiorizzi il concetti e le parole secondo la propria cultura e il proprio bagaglio di conoscenze, oltre ovviamente ad altri fattori quali possono essere lo stato emotivo e l’esperienza. In questo caso, oltre ad una traduzione di tipo interlinguistico, ovvero il cambiamento del codice da una lingua all’altra, avviene una traduzione di tipo “intersemiotico”.

Perciò possiamo riassumere il tutto dicendo che un fattore molto importante nel processo traduttivo, è quello culturale. Lo scopo della traduzione è portare il prototesto che esiste in un cultura da trasformare nel metatesto di un’altra. Il problema è che a prescindere dalla differenza di lingua d’origine, ogni testo diventa un metatesto diverso per ognuno sulla base di gusti, preferenze, esperienze e molto altro.

 

1.2 Sulla percezione delle parole, sono state molte le teorie e le contestazioni, come ad esempio quella di Bertrand Russell, citato da Jakobson, secondo il quale «No one  can understand the word cheese unless he has a nonlinguistic acquaintance with cheese». Russell presuppone che nessuno possa riconoscere la parola se non è parte della propria cultura o della propria esperienza personale diretta. Jakobson contesta questa idea, secondo la teoria che un individuo che non conosca il formaggio, possa comunque comprendere di cosa si tratti semplicemente attraverso una conoscenza in un certo senso “grammaticale” della parola (in questo caso l’esempio è stato quello del latte cagliato). In questo contesto, non ha senso attribuire un significato (signatum) alla cosa in sé e non al segno: nessuno ha mai sentito l’odore né il sapore del significato di «cheese» o di «apple». Il signatum può esistere solo se esiste anche un signum.

« Noi distinguiamo tre modi di interpretazione di un segno linguistico, secondo che lo si traduca in altri segni della stessa lingua, in un’altra lingua, o in un sistema di simboli non linguistici. Queste tre forme di traduzione debbono essere designate in maniera diversa: 1) la traduzione endolinguistica o riformulazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di altri segni della stessa lingua; 2) la traduzione interlinguistica o traduzione propriamente detta consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di un’altra lingua; 3) la traduzione intersemiotica o trasmutazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici» (Jakobson, 1966).

Tornando quindi a parlare di lettura, questa può essere scomposta in varie sottofasi: il segno viene percepito dal soggetto; viene riconosciuto come tale e successivamente viene compreso ed entra a fare parte della cultura del soggetto sotto forma di testo mentale. Utilizzando il concetto lotmaniano di semiosfera (che vedremo in seguito), per cui le singole culture interagiscono l’una coll’altra arricchendosi attraverso lo scambio tra la propria cultura e quella altrui, si può considerare la lettura, al termine del processo, un arricchimento della cultura del soggetto leggente (Osimo 2001:13). La fase di comprensione del segno letto, la semiosi, riguarda quindi l’interazione con la cultura del soggetto, e quindi un aspetto soggettivo e personale. Non si può pensare che esso sia un processo meramente automatico e non interpretativo, conseguentemente identico per qualsiasi sia il soggetto.

 

1.3 George Berkeley è stato un vescovo della chiesa anglicana del 700. Anch’egli ha analizzato il contenuto della nostra “coscienza” ovvero di ciò che fino ad ora, abbiamo chiamato fattori personali e esperienze, e che influiscono sulla nostra percezione del prototesto che dobbiamo tradurre.

La filosofia di Berkeley assume, come punto di partenza, l’empirismo lockiano, nei suoi due elementi fondamentali: il problema critico e la necessità di partire da ciò che immediatamente sperimentiamo. Nonostante Berkeley nutra profonda stima nei confronti di Locke, si distacca dalla suo approccio secondo lui, troppo attaccato alle idee materiali.

Berkeley distingue il percepito e il percipiente, dove il primo è un’idea come oggetto presente nella coscienza e il secondo la mente. Infatti secondo la sua teoria, le idee non hanno niente da aggiungere alla coscienza già esistente, quindi esiste una sola esperienza, quella interiore: sperimentare vuol dire percepire le idee che sono nella nostra mente. L’idea non è che la cosa stessa presente nella mente, con gli stessi caratteri di singolarità e di determinatezza (Lamendola 2007).

Quindi anche secondo Berkeley è da definirsi impossibile avere un’idea che potrebbe considerarsi oggettiva, poiché qualunque carattere diamo all’oggetto del nostro pensiero, proviene forzatamente dalla nostra coscienza interna.

Proprio perché non esiste niente che non sia coscienza interna, Berkeley sostiene che non è possibile comprendere per intero, neanche un discorso che ci viene fatto nella nostra madrelingua. Spesso, per utilizzare una metafora matematica, vi sono delle incognite, ovvero il “residuo” di ciò che si sta dicendo, inserite dal parlante che il ricevente trascina fino alla fine del discorso, nella speranza di riuscire a risolverle una volta giunti al termine.  Molto spesso capita di riuscire a “tappare i buchi” tramite varie congetture o conoscenze proprie, mentre altre volte magari anche per incapacità di esprimersi del parlante stesso, capita di ritrovarsi con delle lacune che rendono il messaggio pressoché incomprensibile.

 

1.4 A livello psicologico è possibile apportare come esempio l’analisi psicoanalitica di Freud. Egli paragona la psiche ad un territorio diviso in regioni, vi sono cioè certe “parti” della mente che si trovano in relazione tra di loro e sono l’inconscio, il preconscio e il conscio (Bernardi, Condolf 2006:81).

La metafora più efficace è quella dall’iceberg in cui l’inconscio sarebbe la parte sotto il libello del mare, il preconscio la zona di galleggiamento e il conscio, la parte in superficie. Essendo l’inconscio la parte nascosta e quindi, non visibile, è possibile che si vengano a creare degli “incidenti”. La psiche dei bambini è composta interamente da inconscio, poiché le altre due zone aumentano e prendono forma crescendo.

  • L’inconscio è il bagaglio di pulsioni di cui dispone ogni individuo e di pensieri e sentimenti inconsci e come tali sconosciuti e non immediatamente raggiungibili dalla coscienza.
  • Il preconscio è la linea di demarcazione che divide conscio da inconscio
  • Il conscio è sinonimo di quanto una persona è consapevole in un determinato momento. Coincide con pensieri, sentimenti, emozioni che sono presenti nell’individuo e sui quali egli può agire con volontà.

Freud ha puntualizzato costantemente che non esistono linee di confine nette tra queste aree, che sono tre aspetti del funzionamento mentale che interagiscono continuamente (Bernardi, Condolf 2006:82).

 

1.5 Conclusioni: Quindi grazie alle teorie finora analizzate possiamo affermare con cognizione di causa, che è impossibile leggere un testo scritto o attivare una qualsiasi percezione senza che già questo primo procedimento venga influenzato da ciò che siamo, che siamo stati o che speriamo di poter diventare. Due persone di due culture diverse, guardando una stessa cosa, vedranno cose diverse.

 

Capitolo 2

 

LA RIELABORAZIONE

Ci troviamo ora ad analizzare la seconda parte del processo traduttivo, che seppure risulti essere la parte più immediata nella mente di un traduttore, nel senso che la rielaborazione mentale di un testo avviene in pochissimi secondi, è comunque la più complessa.

Il traduttore è un lettore anomalo, poiché non è capace di leggere un potenziale prototesto senza pensare – in modo più o meno volontario – a come potrà proiettare questo testo sulla cultura e sulla lingua riceventi, quindi senza pensare ai metatesti possibili. Questo modo di leggere deforma l’atto interpretativo della lettura poiché, oltre a non essere una lettura ingenua, non è nemmeno una lettura critica “normale”. È una lettura in cui si presta molta attenzione alla dominante del prototesto, ci si interroga se possa coincidere o no con la dominante dell’eventuale metatesto, ci si interroga sul potenziale impatto del testo sulla cultura ricevente e si comincia a svolgere l’analisi traduttologica, un’analisi critica molto particolare. Una volta recepito il messaggio scritto, e fatto diventare messaggio non verbale, si arriva alla vera e propria interpretazione (Osimo 2000-2004).

 

2.1 «il solo pensiero che è possibile conoscere è, senza eccezione, il pensiero in segni. Perciò ogni pensiero deve necessariamente essere pensiero di segni» (Peirce. 5.260).

«qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcos’altro sotto certi aspetti o capacità»  (Peirce. 2.228).

Da queste due citazioni di Pierce si comprende quanto alla fine, tutti i teorici della semiotica concordino sul fatto che una volta estratto dalla carta, il significato di una parola diventi irrimediabilmente soggettivo. A sostegno di ciò, Peirce porta avanti la tesi della «semiosi illimitata» ovvero: qualsiasi segno è passibile di dare il via a una catena teoricamente infinita di interpretazioni e di traduzioni. Tale fuga degli interpretanti teoricamente infinita trova però il suo compimento (almeno transitorio) in un interpretante logico finale. Il processo di significazione di Peirce è un processo di tipo abduttivo, per cui si evince una regola dal risultato che si ottiene. Questo procedimento è analogo a quello che viene effettuato all’interno della mente del soggetto. Dal segno che viene percepito la mente forma un interpretante che cerca di individuare le regole che definiscono il segno e i sistemi di segni che vengono percepiti. Dato che all’interno di un testo vi sarà sempre una parte che rimarrà implicita e che non viene rivelata apertamente dall’autore, si innesca un meccanismo di abduzione (Osimo 2001: 34-37-39).

Questo significa che una volta trasformato il linguaggio scritto in linguaggio interno, il traduttore deve necessariamente reinterpretare tramite abduzione ciò che ha letto per trovare il primo residuo traduttivo di un prototesto, ovvero ciò che è andato perso quando l’autore stesso è passato da linguaggio interno a linguaggio verbale scritto.

Il linguaggio interno è caratterizzato da una sintassi non lineare (linguaggio frammentato) quindi diversa da quella verbale e più simile a quella di un ipertesto con collegamenti multidirezionali e velocissimi (Osimo 2011: 142).

Triade di Peirce:

Nella triade di Peirce:

A

segno

Qualsiasi cosa
percettibile: parola,
sintomo, segnale,
sogno, lettera, frase.
Il segno sta per
l’oggetto, rimanda
all’oggetto. Senza, è
impossibile
conoscere l’oggetto

B

oggetto

Ciò a cui rimanda il
segno. Può essere
percepibile o
immaginabile.
Determina il segno.
Esiste a prescindere
dal segno.

C

interpretante

Segno, pensiero che
interpreta un segno
precedente. Ogni
nuovo interpretante
getta nuova luce
sull’oggetto.

 

Peirce sosteneva che il segno, che noi possiamo identificare come il prototesto, passi per l’interpretante si trova nella mente del traduttore, per poi diventare oggetto. L’interpretante si forma nella mente della persona, in questo caso del traduttore e può essere paragonato ad una palla stroboscopica. Il soggetto, percepisce gli innumerevoli riflessi luminosi e colorati, esattamente come in discoteca, che lo investono, lo sfiorano e perché no, lo abbagliano e corrispondono ai diversi punti di vista dai quali si osserva e alle molte sfumature che una parola può avere. Lo schema successivo evidenzia come una parola possa avere molteplici sensi.

 

Oggetto

O

 

 

Un’interpretazione simile è stata elaborata da Ogden e Richards (1949), ma nella loro versione un simbolo (le parole sono segni sibolici) non rimanda direttamente al referente (l’oggetto extralinguistico che si desidera significare): tale riferimento è mediato da un pensiero di chi codifica (o decodifica). Questo pensiero interpretante non è uguale per tutti, poiché è dettato dall’esperienza soggettive fatte dall’individuo con quel segno, con quell’oggetto e con i segni e gli oggetti a loro mentalmente assimilabili (Osimo 2011:27).

 

2.2 Ci sono molteplici teorie sull’interpretazione delle parole, Ferdinand De Saussure aveva teorizzato un rapporto esclusivamente biunivoco tra la parola e il suo significato.

In antitesi con la teoria “realistica” della lingua, Saussure spiega che il segno linguistico, unisce un “concetto” a una “immagine linguistica”. Su questo presupposto, Saussure distingue tra signifiant (significante) e signifié (significato): il significato è ciò che il segno esprime; il significante è il mezzo utilizzato per esprimere il significato, ovvero l’immagine. Ma il significato e il significante non sono separabili: secondo Saussure, sono come le due facce dello stesso foglio. Ma pur essendo inseparabili, il rapporto tra i due è arbitrario: ciò è dimostrato dal fatto che, per esprimere uno stesso significato (ad esempio, sorella), le diverse lingue usano significanti diversi (sorella in italiano, soeur in francese, e così via). Ma per Saussure “arbitrario” non vuol dire soggettivo e libero: ma piuttosto “immotivato”, cioè non necessario in rapporto al significato che viene espresso.

Si parla di arbitrarietà in quanto gli elementi del segno linguistico non sono naturalmente “motivati” ma dipendono da una tacita convenzione tra i parlanti di una lingua.

L’arbitrarietà si ha tanto sul piano dell’espressione (il significante) quanto su quello del contenuto (il significato), che peraltro sono indistinguibili all’atto pratico.

«Il legame che unisce il significante al significato è arbitrario, o ancora, poiché intendiamo con segno il totale risultante dall’associazione di un significante a un significato, possiamo dire più semplicemente: il segno linguistico è arbitrario […] La parola arbitrarietà richiede anche un’osservazione … non deve dare l’idea che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante … vogliamo dire che è immotivato, cioè arbitrario in rapporto al significato, con il quale non ha alcun aggancio naturale nella realtà» (De Saussure 1978: 85.87).

 

2.3 Un contributo prezioso alla traduttologia e alla delineazione del concetto di traducibilità da un punto di vista semiotico ci viene da Jurij Lotman, fondatore della scuola semiotica di Tartu. Per capire ciò che dice Lotman a proposito della traducibilità, è opportuno risalire alla più generale visione lotmaniana di cultura:

«[…] se per la sopravvivenza biologica di un singolo individuo è sufficiente che vengano soddisfatti determinati bisogni naturali, la vita di una collettività, quale che sia, non è possibile senza una cultura […] Tutti i bisogni dell’uomo si possono ripartire in due gruppi. Gli uni richiedono una soddisfazione immediata e non possono (o quasi) venire accumulati. […] I bisogni che possono essere soddisfatti mediante l’accumulazione di riserve formano un gruppo distinto. Essi sono la base oggettiva per l’acquisizione, da parte dell’organismo, di informazione extragenetica» (Lotman 1987: 26-27).

Nella dialettica natura/cultura, Lotman si inserisce attribuendo all’uomo, tra tutti gli esseri viventi, la possibilità di far parte di entrambi i sistemi:

«Così l’uomo nella lotta per la vita è inserito in due processi: nell’uno interviene come consumatore di valori materiali, di cose, nell’altro invece come accumulatore d’informazione. Ambedue sono necessari all’esistenza. Se all’uomo come creatura biologica è sufficiente il primo, la vita sociale presuppone ambedue» (Lotman 1987: 28).

Però secondo Lotman nel mondo semiotico non esistono soltanto lo spazio della cultura e della natura, ma anche lo spazio della non cultura, «quella sfera che funzionalmente appartiene alla Cultura, ma non ne adempie le regole». Quando Lotman parla di «Cultura», si riferisce all’insieme delle culture che costituiscono il mondo umano, e all’interno di ciascuna cultura ravvisa «un insieme di lingue», perciò ogni esponente di una data cultura è «una sorta di “poliglotta”» (Osimo 2000-2004).

La concezione lotmaniana di cultura riguarda da vicino gli studi sulla traduzione e sulla traducibilità.

«[…] la cultura è un fascio di sistemi semiotici (lingue) formatisi storicamente […] La traduzione dei medesimi testi in altri sistemi semiotici, l’assimilazione di testi diversi, lo spostamento dei confini fra i testi che appartengono alla cultura e quelli che si trovano oltre i suoi limiti costituiscono il meccanismo d’appropriazione culturale della realtà. Tradurre un certo settore della realtà in una delle lingue della cultura, trasformarlo in un testo, cioè in un’informazione codificata in un certo modo, introdurre questa informazione nella memoria collettiva: ecco la sfera dell’attività culturale quotidiana. Solo ciò che è stato tradotto in un sistema di segni può diventare patrimonio della memoria. La storia intellettuale dell’umanità si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi» (Lotman 1987: 31).

In scritti successivi, e in particolare nel saggio intitolato Della semiosfera, la concezione semiotica è sempre più basata sul concetto di traduzione.

«[..] tutto lo spazio semiotico può essere considerato un unico meccanismo (se non organismo). Allora fondamentale risulterà non quello o quell’altro mattoncino, ma il “sistema grande” denominato «semiosfera». La semiosfera è quello spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile l’esistenza stessa della semiosi» (Lotman 1992: 13).

La semiosfera confina con lo spazio circostante, che può essere extrasemiotico (uno spazio in cui non si verificano processi di significazione, come uno spazio naturale) oppure eterosemiotico (ossia appartenere a un altro sistema semiotico, come per esempio un testo musicale nei confronti di un testo pittorico). In particolare, tutti i meccanismi di traduzione rientrano nel concetto di semiosfera perché sta alla base della generazione del senso. Ciò che all’interno di un sistema è (un fatto, un fenomeno, un evento), finché resta ciò che è senza venire descritto è al di fuori della semiosfera, resta nel mondo extrasemiotico (Osimo 2000:2004).

«L’eterogeneità strutturale dello spazio semiotico forma riserve di processi dinamici ed è uno dei meccanismi di elaborazione di nuova informazione all’interno della sfera» (Lotman 1992:16).

Quindi secondo Lotman la differenza tra sistemi non è più il problema per eccellenza del traduttore. Il residuo traduttivo non è più un ingombrante fardello la cui gestione crea problemi al traduttore. Il fatto che non sia possibile mai tradurre tutto è una garanzia per la conservazione delle differenze, così come è una garanzia per la conservazione della vita culturale (Osimo 2000:2004).

 

2.4 Si analizza che una proporzione molto cospicua di un messaggio completo, è costituita da ciò che viene dato per scontato, da ciò che è considerato implicito. Ma ciò che è implicito in un contesto culturale non coincide mai con ciò che è considerato implicito in un altro contesto culturale. Il traduttore ha sempre bisogno di tenere conto di questo aspetto. Il suo compito consiste nella mediazione culturale (di cui quella linguistica è uno dei tanti aspetti) tra la cultura dell’emittente e quella del ricevente (Osimo 2011:36).

Lotman non è stato il solo ad analizzare la cultura come elemento di cruciale importanza durante il processo traduttivo. Infatti anche Michael Agar, un famoso antropologo americano, ha utilizzato il concetto di traduzione per spiegare agli antropologi cos’è la cultura. La sua conclusione è stata mettere in evidenza un nuovo concetto, la Languaculture (linguacultura), per sottolineare che non ha senso che la lingua e la cultura vengano trattate separatamente. La descrizione di una cultura diversa dalla propria è complessa e labile poiché dipende dai punti di vista. Con queste basi, la cultura non è altro che una traduzione di “cos’è la cultura x da un punto di vista y”.

«Using a language involves all manners of background knowledge and local information on addition to grammar and vocabulary» (Agar 2006:2).

Agar nota anche che nella descrizione di una cultura diversa dalla nostra, fatta a persone della nostra stessa cultura, quando si trova qualcosa che non si può descrivere nella propria lingua, si è costretti ad usare il “nome”, quindi un termine utilizzato nella lingua d’origine e per riuscire a spiegare al meglio l’”oggetto” in questione, si è costretti ad utilizzare molte più parole. Questi fenomeni sono chiamati rich point e corrispondono a quei momenti di vero e proprio arricchimento della lingua poiché la comunicazione va in crisi (quindi anche la traduzione) e occorre forzatamente una perifrasi.

 

2.5 Conclusioni: Per quanto detto, anche la semiofera entra a far parte di tutto ciò che il traduttore “si porta dietro”, o in questo caso sarebbe meglio dire “nel quale si trova immerso”, durante il processo traduttivo. Come in precedenza, anche in questo capitolo, abbiamo evidenziato l’importanza del background personale e la sua imprescindibile influenza anche sulla seconda parte del processo traduttivo, senza contare che si è forse rafforzata la convinzione che non  sia assolutamente possibile creare un metatesto uguale al prototesto ma in una lingua differente.

 

Capitolo 3

LA RESA

Finora abbiamo analizzato le prime due fasi del processo traduttivo, ovvero tutti i vari processi mentali che hanno pertinenza con la lettura, la comprensione, l’interpretazione e la rielaborazione di un testo, o per la precisione di un prototesto. Tutte queste sfaccettature del processo traduttivo rimangono comunque qualcosa di intangibile, che nessuno a parte il traduttore stesso può conoscere. Il passo successivo è riuscire a far diventare il discorso interno, creato dal testo letto e “assorbito”, un metatesto che comprenda dentro si sé una parte del suo senso originale, trasposto in un’altra lingua e soprattutto cultura.

Anche il processo di scrittura è uno di quei procedimenti traduttivi quotidiani di cui molto spesso non ci rendiamo conto. Quando ci si accinge a produrre un testo, raramente si è consapevoli del fatto che in realtà quello che stiamo compiendo è un processo di traduzione, e nella fattispecie una traduzione intersemiotica. Durante la scrittura si verifica un cambiamento di codice: si passa da un testo mentale a un testo verbale scritto. La scrittura è inoltre una traduzione verbalizzante in quanto traduce un testo non verbale in un testo verbale (Osimo 2001:11).

 

3.1 Secondo il famoso semiotico cecoslovacco Anton Pópovič, padre dei termini prototesto e metatesto che abbiamo utilizzato fin’ora, il processo traduttivo è qualunque cosa contenga per l’appunto, un prototesto e un metatesto ove una parte del prototesto non viene resa e prende il nome di residuo traduttivo, una parte rimane invariata (nei limiti del possibile, in base a quanto detto prima) e viene chiamata invariante ed esiste una parte aggiunta.

 

Il problema che si pone effettivamente quando ci si dedica alla decodifica di un messaggio è proprio la presenza dei due altri elementi oltre all’invariante. Come abbiamo visto non è possibile tranne in casi di testi chiusi, quindi tecnici trovare il traducente perfetto per una parola, tantomeno per un concetto. Quindi si viene a creare un residuo traduttivo che per quanto ci si sforzi non si riesce proprio a fare rientrare nel corpo principale del metatesto. Quindi accorrono in nostro aiuto le aggiunte, ovvero è possibile completare l’informazione lasciata incompleta dalla parola, o insieme di parole, scelte per tradurre, per l’appunto aggiungendo qualcosa. Questo qualcosa può essere una spiegazione di servizio sapientemente amalgamata nel metatesto principale che prende il nome di circonlocuzione, oppure può essere inserita sottoforma di metatesto secondario, quindi un apparato di spiegazione, come ad esempio le note del traduttore a piè di pagina.

Anche la scelta di come integrare queste aggiunte fa parte di un’influenza del traduttore che deve scegliere se interrompere la linearità della lettura con una nota, facendo quindi notare la sua presenza e distaccandosi dal testo, oppure cercare di rendersi invisibile e scrivere in maniera più naturale possibile, seppure all’inseguimento dell’espressione perfetta per un concetto non suo. Questo rappresenta la prima prova conscia, oltre al contorno psicologico e quindi semi-inconscio, dell’influenza del traduttore sul metatesto.

 

3.2 Claude Shannon e Warren Weaver, due ingegneri americani, si sono a loro volta occupati del problema della trasmissione del messaggio, cercando di dare all’argomento, un’impronta matematica. Secondo la loro analisi, il processo comunicativo è rappresentato come il passaggio di un segnale (il messaggio) da una fonte (il soggetto emittente) attraverso un trasmettitore (il mezzo concretamente utilizzato) lungo un canale ad un ricevente (il soggetto destinatario) grazie ad un recettore. Il trasmettitore e il recettore sono indispensabili per realizzare due passaggi cruciali: la codifica e la decodifica.

In questo schema è rappresentato il processo di ricezione del messaggio e il traduttore è qui rappresentato come canale attraverso il quale deve passare un prototesto per diventare metatesto in un’altra cultura. Come abbiamo visto il traduttore è allo stesso tempo vittima e fautore involontario delle interferenze nella comunicazione del messaggio.

La teoria matematica della comunicazione di Shannon e Weaver nasce dalla ricerca di una risoluzione per un preciso problema tecnico: studiare le condizioni per migliorare l’efficienza della trasmissione di segnali attraverso apparati tecnici di trasmissione. In realtà, l’influenza delle loro ricerche è andata oltre il problema specifico per cui era nata. Il loro schema ha l’obiettivo di individuare quegli elementi che devono essere presenti ogni qual volta si verifichi un trasferimento di informazione. Lo schema di Shannon e Weaver, è quindi stato applicato alla comunicazione linguistica. Come lo stesso Weaver ha specificato, quando si parla con un’altra persona il cervello è la codificazione dell’informazione, l’apparato vocale il trasmettitore, le vibrazioni sonore il canale della comunicazione, l’orecchio dell’interlocutore il ricettore ed il suo cervello il decodificatore del messaggio (Guidotti 2011).

Anche con questo tipo di approccio per lo più orale, si va ad affrontare il problema delle interferenze che fanno del messaggio decodificato dal ricevente un metatesto più o meno, ma in ogni caso, differente rispetto al prototesto. È stato Jakobson a inserire il modello di Shannon e Weaver in un contesto più linguistico.

 

3.3 Benjamin Lee Whorf ha studiato varie lingue che non fanno parte del gruppo indoeuropeo, e che non rientrano nemmeno tra le poche lingue non indoeuropee con cui la civiltà occidentale entra a contatto relativamente spesso, come il turco o il finlandese o l’estone o l’ungherese. Questi studi gli hanno dato modo di capire che l’espressione linguistica, ma anche il contenuto stesso, dei pensieri sono fortemente influenzati dalla lingua in cui vengono espressi, che non esiste un pensiero psichico a priori, unico e universale, che può trovare espressioni diverse nelle varie lingue e nei diversi individui. Una delle lingue studiate da Whorf è il hopi, lingua amerindia del territorio attualmente occupato dall’Arizona. A noi sembra che la suddivisione del mondo in concetti e l’attribuzione di parole ai concetti sia “naturale”, anzi spesso non ci poniamo il problema se lo sia (Osimo 2000 2004).

«Noi spezzettiamo la natura, la organizziamo in concetti e attribuiamo significati nel modo in cui lo facciamo perlopiù perché abbiamo sottoscritto un contratto in cui c’impegniamo a organizzarla in questo modo, contratto che vale in tutta la nostra comunità linguistica ed è codificato negli schemi della nostra lingua. Il contratto, naturalmente, è implicito e non è dichiarato, ma le sue condizioni sono assolutamente obbligatorie.» (Whorf 1967:213-214.)

Whorf sosteneva che ognuno di noi nel momento della propria nascita, abbia firmato senza saperlo un contratto. Si tratterebbe dell’influenza non solo del luogo dove si nasce: continente, Stato, regione, città e via via andando a scalare, ma anche della famiglia nella quale si nasce. Tutto ciò che ci circonda, ci insegna a classificare la realtà in categorie secondo i suoi canoni “tipici”. È come se ognuno di noi fosse “portatore sano” della propria cultura pur non rendendosene conto. Proprio questa incoscienza, nel momento della traduzione, può comportare il rischio di infettare il messaggio a causa di elementi culturali altrui che ci sembrano sbagliati.

Oltre a quello evidenziato da Pópovič, c’è anche un altro elemento di difficoltà più “pratico”, se così vogliamo chiamarlo, per un traduttore, ovvero il passaggio da una cultura con una diversa struttura grammaticale, sintattica e/o lessicale rispetto a quella ricevente. Anche stavolta l’influenza del traduttore sul metatesto diventa conscia seppure non evitabile, poiché dover conformare il “modo di esprimersi” in una lingua, in un’altra comporta necessariamente una modifica del prototesto tramite aggiunte o residui.

Facendo una riflessione un po’ più pratica si evidenzia che: nella lingua di tutti i giorni sopravviviamo con circa 2000 parole, viviamo con circa 5000 parole, ne usiamo raramente altre 2000 circa, mentre il totale di quello che chiamiamo il lessico comune, cioè tutte le parole usate, anche solo sporadicamente, nella comunicazione quotidiana ammonta a qualche decina di migliaia di unità (De Mauro 1999-2000,1:VII-XLII, VI: 1163-83).

Un normale dizionario di lingua di circa 100.000 – 140.000 lemmi contiene quindi in larga parte parole non conosciute o non usate dalla maggioranza dei parlanti. Tra queste ci sono parole di basso uso, parole di livello colto, parole obsolete, parole letterarie e poetiche, rare, varianti, e poi un’infinità di parole riconducibili a un qualche lessico specialistico. Tuttavia anche questa non è che la punta di un iceberg. Infatti, l’insieme delle parole e locuzioni possibili, utilizzate da qualche parlante o qualche comunità di parlanti è di molte volte superiore, nell’ordine dei milioni di unità. Il totale dei termini utilizzati nei diversi linguaggi speciali assomma quindi a decine di milioni, senza contare i nomi dei prodotti: altri milioni e milioni (Riediger 2010).

 

La struttura del lessico secondo Tullio De Mauro

 

Vocabolario di base (VDB) = 6522

o Lessico fondamentale (F)= 2.049

o Lessico di alto uso (AU)= 2.576

o Lessico di alta disponibilità (AD)= 1897

o Lessico comune (CO) = 47.060

VDB + CO = 45-50.000 unità lessicali come per i dizionari delle altre lingue

 

 

Lessico tecnico-scientifico (TS) = 107.194

Lessico solo letterario (LE) = 5.208

Lessico regionale (RE) = 5.407

Lessico dialettale (DI) = 338

Esotismi (ES) = 6.938

Basso uso (BU) = 22.550

Obsoleti (OB) = 13.554

 

Una lingua possiede, come abbiamo visto, moltissime parole che in ogni cultura possono venire usate per rappresentare “concetti” diversi.

Quindi potremmo supporre che bastasse rendere il senso di un testo, anche se con parole diverse da quelle scelte dell’autore, per riuscire a essere dei buoni traduttori. Perché il senso è identificabile come contesto, ovvero conseguenza dell’atto locutorio, invece il significato è semplicemente la definizione del vocabolario. In una lingua una certa combinazione di parole può fornire un senso, ma può anche essere la manifestazione dello stile dell’autore. Lo stile può essere lo scostamento dall’uso dei vocaboli rispetto al dizionario, quindi inevitabilmente s’intreccia con quello del traduttore.

 

3.4 Un altro elemento importante per un traduttore è la differenza tra un testo aperto e un testo chiuso. Il testo aperto è quello che abbiamo preso in esame fino a ora. Interessante è il testo chiuso, qualcosa con una struttura rigida che se vogliamo potrebbe essere idealizzato come più facile da trattare e quindi tradurre. Il testo chiuso può essere per esempio un elenco del telefono oppure una tabella degli orari dell’autobus, che sono composti per lo più da termini specifici e numeri. Ricordiamo che il bello del termine, per quanto il contesto in cui si trova possa essere complesso, è che possiede una traduzione tecnica “universale” ed è libero da fraintendimenti o altre interpretazioni.

Proprio su questo ultimo punto si è focalizzato il semiotico e scrittore Umberto Eco. In contrasto con la disputa della scuola lacaniana degli anni Settanta, dove si cominciava a pensare di poter interpretare liberamente ogni genere di testo, Eco bolla tutte le interpretazioni differenti dallo scopo per cui il testo chiuso era stato creato come decodifiche aberranti. L’autore di un testo chiuso non prevede interpretazioni diverse da quella canonica, perciò anche e soprattutto la libertà d’azione del traduttore è limitata, ad esempio dall’ISO (Organizzazione Internazionale per la Normazione), un organo che si occupa di standardizzare un termine e i suoi significati in tutte le lingue.

Ma se il traduttore è vincolato e indirizzato verso una certa interpretazione, il lettore può facilmente sfuggire a quest’obbligo.

«Possiamo usare una carte geografica per imaginare viaggi e avventure straordinarie, ma in tal caso, la carta è diventato puro stimolo e il lettore si è trasformato in narratore. Quando mi chiedono quale libro porterei con e su un’isola deserta rispondo “L’elenco telefonico; con tutti quei personaggi, potrei inventare storie infinite”» (Eco 1994:75).

 

3.5 Conclusioni: Specialmente in questo capitolo, è chiaro come vi siano alcune scelte che il traduttore compie consciamente. Per quanto queste non rientrino nella psicologia che sta dietro ad un’interpretazione del testo piuttosto che a un’altra, sono scelte che vengono fatte anche stavolta, in base alle proprie preferenze personali. Scegliere un sinonimo, a seconda della sfumatura che si coglie, un tempo verbale anziché un altro o un certo tipo di sintassi in base anche alla cultura del lettore a cui ci si indirizza, sono problemi esistenziali noti a qualunque traduttore che cerchi effettivamente di trasportare un messaggio da una lingua all’altra. Perciò la traduzione si situa in un limbo tra la filologia rispetto al prototesto e la pertinenza con il metatesto, e di conseguenza con la cultura ricevente.

 

Conclusione

In conclusione, per quanto detto finora, possiamo considerare ognuno di noi un traduttore “inconscio” perché seppure non a livello intralinguistico, capita a tutti nel proprio quotidiano di attivare un qualche processo traduttivo.

Con questa tesi volevo sottolineare quanto due persone della stessa nazionalità, cultura, città e addirittura famiglia, con le medesime conoscenze linguistiche, la medesima età e sesso e se vogliamo estremizzare, persino con lo stesso DNA, trovandosi davanti a uno stesso prototesto producono due metatesti differenti. Questo non significa che uno sia necessariamente più corretto dell’altro.

 

Riferimenti bibliografici:

Bernardi M., Condolf A. (2006), Psicologia per il tecnico dei servizi sociali, Roma, Clitt.

De Mauro T. (a cura di), Grande dizionario italiano dell’uso, GRADIT, UTET, 1999-2000.

Guidotti M (2011), I modelli della comunicazione sociale, consultabile al sito: http://www.galenotech.org/comunicazione.htm

Jakobson R. (1959), On linguistic aspects of translation, consultabile al sito: http://www.stanford.edu/~eckert/PDF/jakobson.pdf.

Lamendola F. (2007), Introduzione alla filosofia di George Berkeley, ariannaeditrice, consultabile al sito: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=10965

Osimo B. (2000-2004), Corso di traduzione Logos, Modena: consultabile al sito: http://courses.logos.it/IT/index.html.

Osimo B. (2001), Propedeutica della traduzione: corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano: Hoepli.

Osimo B. (2002), On psychological aspects of translation, Tartu.

Osimo B. (2011), Manuale del traduttore: guida pratica con glossario terza edizione, Milano: Hoepli.

Ratiu Kloss K. (2012), Freud: Zur Psychopathologie des Alltagslebens: atti mancati verbali e loro conseguenze in traduzione, Milano.

Riediger H (2010), Cos’è la terminologia e come si fa un glossario, 2012.

Saussure F. (1916), Corso di linguistica generale, Bari: Laterza, 1978.

Vygotskij L (1982), Myšlеniе i rеč´, in Sоbraniе sоčinеnij v šеsti tоmah, 2. Traduzione italiana Pensiero e linguaggio, di L. Mecacci, Bari, Laterza, 1990.

Zuzana Jettmarová: Czech and Slovak Translation Theories

 

Zuzana Jettmarová: Czech and Slovak Translation Theories

JENNIFER PERLETTI

Fondazione Milano

Milano Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Mediazione Linguistica

Dicembre 2010

 

 

© Zuzana Jettmarová

© Jennifer Perletti per l’edizione italiana 2010

 

Zuzana Jettmarová: Teorie Traduttive ceche e slovacche

(Zuzana Jettmarová: Czech and Slovak Translation Theories)

 

Abstract in italiano

In questa tesi è presentata un’analisi dei problemi traduttivi riscontrati in un capitolo preso da un lavoro di Zuzana Jettmarová riguardante le teorie traduttive ceche e slovacche. La tradizione ceca e slovacca è poco conosciuta e spesso malinterpretata. Vengono analizzati i problemi traduttivi riguardanti la traducibilità culturale, la traduzione di termini settoriali e non. Sono stati presi ad esempio alcuni termini per ogni categoria; per ogni termine è stata data la definizione e la motivazione che ha portato alla scelta di un determinato traducente e all’esclusione di altri.

 

English abstract

This thesis shows an analysis of the translation problems that have been found in a chapter of Zuzana Jettmarová’s book about the Czech and Slovak translation theories. The Czech and Slovak tradition is little known and often misinterpreted. The translation problems analysed in this thesis concern cultural translatability and the translation of technical terms and common words.  for each category some examples are provided; there is a definition for each term that has been analysed and the reason why a given translatant has been chosen instead of others.

 

Zusammenfassung

Diese Abschlussarbeit befasst sich mit Problemen der Übersetzung eines Kapitels aus dem Buch von Zuzana Jettmarová über Aspekte der tschechischen und slowakischen Übersetzungstheorie, deren Tradition nur wenig bekannt ist und oft falsch interpretiert wird. Im Mittelpunkt stehen Fragen der Übersetzbarkeit von Kulturen sowie der Übersetzung von Fach- und Standardsprache anhand einer Reihe von Beispielen. Für jedes Wort werden eine Definition und die Begründung angegeben, die zur entsprechenden Übersetzungsentscheidung geführt hat.

 

Sommario

 

1. Prefazione  3

1.1 Introduzione  4

1.2 Traducibilità Culturale  6

1.3 Traducibilità Settoriale  10

1.4 Traducibilità non Settoriale  13

2. Traduzione  18

3. Riferimenti bibliografici della prefazione  121

 

 

 

1. Prefazione


1.1 Introduzione

«For us structuralism automatically means our structuralism, but for the rest of the world it means the French one, and so the jolly misunderstanding keeps going on» (Volek 2005:135; transl. Z. J.)

Questa frase può essere considerata riassuntiva del testo da me tradotto per la tesi:

un testo teorico sullo strutturalismo. Qui però lo strutturalismo viene visto da un diverso punto di vista. Mentre tutti associano lo strutturalismo praghese a Jakobson e quindi al formalismo russo, in questo testo viene espressa una teoria diversa: viene analizzata la nascita dello strutturalismo praghese, che non ha nulla a che fare con il formalismo russo. Si analizzano le cause che hanno relegato lo strutturalismo praghese dietro una cortina di ferro impedendogli di diffondersi. È bene quindi dare una definizione delle diverse scuole.

• Strutturalismo praghese: nasce negli anni Venti a Praga, ed è il risultato di numerose assimilazioni: la tradizione ceca dell’estetica e della linguistica, il formalismo russo, la linguistica di Saussure, il modello del sistema epistemologico di Bühler, la fenomenologia di Husserl, la sociologia di Durkheim, la logica di Carnap ecc. Il campo della poetica strutturale praghese si concentra sulla dimensione del testo sia come artefatto sia come opera d’arte integrata nel suo contesto storico della recezione e con i suoi effetti contestuali; da qui l’origine di concetti dinamici della scuola di Praga come «norme» e «valori».

• Strutturalismo francese: nasce tra gli anni Sessanta e Settanta dagli studi di Ferdinand De Saussure, che intese la lingua come un sistema autonomo e unitario di segni, occupandosi dei valori e delle funzioni determinate dalle relazioni reciproche dei singoli elementi linguistici, considerati come parti di un ordinamento strutturale in continua interdipendenza e interazione. Secondo lo strutturalismo, la storia è un’insieme discontinuo di processi eterogenei retti da un sistema impersonale di strutture psico-antropologiche, culturali, economiche, ecc. Parallelamente, contro l’interpretazione della realtà in termini di divenire e progresso lo strutturalismo difende il primato di una considerazione volta a studiare la realtà come un insieme relativamente costante e uniforme di relazioni. Da qui la tendenza a privilegiare il punto di vista sincronico rispetto a quello diacronico.

• formalismo russo: la scuola formalista si è sviluppata in Russia negli anni Venti, i suoi maggiori esponenti sono stati: Viktor Šklovskij, Ûrij Tynânov, Boris Èjhenbaum, Roman Jakobson, Grigorij Vinokur. Il formalismo si è poi suddiviso in due distinti movimenti: l’OPOJÂZ (Obscestvo Izučeniâ Poetičeskogo Âzyka – La Società per lo studio del linguaggio poetico) a San Pietroburgo e il Circolo linguistico a Mosca. I formalisti più estremisti ritenevano che la forma avesse un valore preponderante rispetto al contenuto semantico, e che quindi il testo andasse analizzato esclusivamente nei suoi aspetti formali. In questo modo viene rovesciato il concetto stesso di «contenuto».

La traduzione di un testo così fortemente teorico, riguardante un argomento poco diffuso, mi ha portato ad avere diverse difficoltà nella sua traduzione, ho quindi deciso di effettuare un’analisi traduttologica, in cui descriverò i problemi riscontrati nella traduzione.

Qui di seguito verranno quindi suddivisi in punti e trattati i problemi da me affrontati. La suddivisione non rispecchia l’ordine in cui sono apparsi i problemi, ma è volta ad racchiudere in categorie le problematiche riscontrate.

1.2 Traducibilità Culturale

«People sometimes forget that an interpreter must translate not just from language to another but from one culture to another. Sometimes, the equivalent idea simply does not exist in both cultures» (Jurga Zilinskiene, titolare dell’agenzia Today Translations)

La differenza culturale ha infatti un’importanza estremamente rilevante ai fini della traduzione. È bene sottolineare infatti che Zuzana Jettmarová non è di madrelingua inglese. La scelta di scrivere in lingua inglese deriva dal desiderio di riuscire a diffondere le teorie dello strutturalismo ceco e slovacco fino ad ora relegate all’interno di un ambiente poco conosciuto, la cui lingua ne ha impedito la diffusione. Questo comporta che l’autrice in prima persona abbia dovuto trasformare il proprio concetto mentale in un testo scritto, non nella sua lingua madre, ma in inglese. Zuzana Jettmarová quindi non è solo autrice di questo testo, ma anche traduttrice. Il processo traduttivo lascia dietro di sé dei residui ai quali si aggiunge una differenza culturale tra la lingua del testo mentale e quella del testo scritto. La cultura è:

un complesso di idee, di simboli, di azioni e di disposizioni storicamente tramandati, acquisiti, selezionati e largamente condivisi da un certo numero di individui, mediante i quali questi ultimi si accostano al mondo in senso pratico e intellettuale (Fabietti 2004: 12).

Come si può ben capire da questa affermazione la cultura è un elemento di fondamentale importanza nella stesura di un testo, e ancora più importante nella sua traduzione. Ciò che per l’autore e per la sua cultura risulta scontato, può non esserlo per la cultura ricevente. Nel testo da me tradotto vi sono esempi, in cui si nota l’influenza culturale dell’autrice nel momento in cui ha dovuto stendere il testo, quindi nel passaggio dal ceco all’inglese, in quanto alcuni concetti/termini dati quasi per scontati, in realtà non lo sono per il lettore modello pensato dall’autrice. Il significato dei termini in questione sono infatti noti a quella fascia di lettori con un’istruzione semiotica alle spalle, ma per il lettore occidentale tali termini sono pressoché sconosciuti. Vi sono anche esempi in cui un determinato termine presenta un traducente diverso da quello inteso dall’autrice, proprio per le diverse influenze culturali dell’autore e del lettore.

Parlando concretamente analizzerò due esempi in particolare: il termine translativity e il concetto di literary translation, ovvero la differenza tra la traduzione artistica e la traduzione letteraria.

Inizialmente il termine «translativity» è stato da me erroneamente tradotto con il termine «traducibilità», mentre in realtà la traduzione corretta del termine è «traduzionalità». Il traducente inglese per «traducibilità»è  «translatability»: con questa parola si intende «la possibilità di sostituzione strutturale e culturale o funzionale e semantica, oltre che espressiva, degli elementi linguistici del prototesto con quelli del metatesto. La sostituzione funzionale è ottenuta nel metatesto mediante cambiamenti stilistici». (Popovič  2006:174)

La traduzionalità invece è la relazione comunicativa nella catena di comunicazione tra l’autore del prototesto e il ricevente del metatesto; a seconda del grado di traduzionalità di un testo, il lettore si rende più o meno facilmente conto che si tratta di un testo tradotto. La traduzionalità si realizza nel testo come aspettativa del lettore riflessa dalle opposizioni dialettiche versus metatesto, attualizzazione versus esotizzazione, storicizzazione versus modernizzazione. La traduzionalità si riflette nello stile deltesto e ha carattere semiotico di modellizzazione (Popovič  2006:174)

Quello che mi ha portato in errore nella traduzione del termine translativity è il fatto che culturalmente parlando, il termine è quasi praticamente sconosciuto, mentre può essere considerato parte integrante del vocabolario di uno studioso slavo con alle spalle degli studi linguistici. L’argomento della traduzionalità infatti, viene trattato all’interno del testo da me tradotto, senza alcuna spiegazione a riguardo, è dato quindi per scontato che il lettore sappia di cosa si sta parlando, mentre per quanto mi riguarda è stato necessario un approfondimento per coglierne il significato. Anton Popovič e Jiři Levý invece nelle loro pubblicazioni affrontano ampiamente il tema.

Passando ora al secondo esempio, in inglese parlando di literary translation ci si riferisce alla: translation of literary works (novel, short stories, plays, poems, etc). If the translation of non-literary works is regarded as a skill, the translation of fiction and poetry is much more of an art. (WordIQ Dictionary).

Quando Zuzana Jettmarová utilizza questo termine si riferisce alla «traduzione artistica» mentre noi ci riferiamo alla «traduzione letteraria». Nonostante questa differenza concettuale ho deciso di mantenere come traduzione  il termine «traduzione artistica». Ora cercherò di spiegare le differenze concettuali dello stesso termine (literary translation) nella mia cultura e in quella dell’autrice, in modo da poter esporre la mia scelta traduttiva difronte a questo problema.

Nella concezione italiana la traduzione artistica è un aspetto della traduzione letteraria, un approccio traduttivo al genere letterario in cui si presta particolare attenzione al mantenimento di espressioni e figure retoriche, nonché l’inconfondibile traccia personale del traduttore. Ma come già detto è semplicemente un aspetto della traduzione letteraria ed è quindi legato ad essa, questo non  significa che sia l’unico modo per tradurre un testo letterario, in quanto ad esempio in un testo poetico, si può decidere di applicare una traduzione artistica, rimanendo fedele alle rime e alla metrica e alle figure retoriche, modificando però in modo consistente il significato originale, oppure si può optare per una tipo traduzione in cui si tralascia questa fedeltà per una nei confronti del significato originale del testo.

Con il termine «traduzione letteraria» invece si identificano tutte quelle traduzioni fatte nell’ambito editoriale e non settoriale specialistico.

Per quanto riguarda la cultura dell’autrice si potrebbe dire che il concetto sia pressoché l’opposto. Inizialmente vi erano due tipi di testo: i testi artistici e i testi non-artistici (ossia i testi riguardanti la letteratura specialistica scientifica). Verso gli anni Cinquanta alcuni specialisti della seconda tipo hanno cominciato a considerare la traduzione solo dal punto di vista linguistico, ritenendo che il comune denominatore dei testi artistici e non fosse proprio la loro natura linguistica. In questo modo la traduzione dei testi artistici viene trattata come un caso particolare del concetto di «traduzione» e quindi analizzata come campo specifico. Questa concezione non ha però incontrato l’appoggio della maggior parte dei traduttori di testi artistici, i quali ritenevano che «sottolineando la natura linguistica del processo traduttivo, gli autori citati ignoravano la sua natura creativa e si sono impegnati nel ridar vita, sulla base della traduzione adeguata, all’antica concezione estetica della traduzione del testo artistico.» (Lûdskanov 2008:18) Hanno sviluppato così una concezione diversa di traduzione chiamata «concezione teorico-letterario».

Si può così notare che il concetto di «traduzione artistica» per l’autrice viene generalizzato nell’inglese perdendo così il carico di significato culturale inteso dall’autrice e nel cercare di riportare il testo in italiano ho quindi avuto un ulteriore ostacolo culturale e ho deciso di tradurre il termine literary translation con «traduzione artistica», proprio per rimanere fedele all’autrice e per mettere in risalto la differenza culturale, donando così nuovamente il carico di significato culturale andato perso nell’inglese.

1.3 Traducibilità Settoriale

Dopo una prima lettura, mi sono resa conto che la mia inesperienza riguardo alla traduzione di questo tipo di testi mi avrebbe portato ad avere difficoltà nell’uso di una terminologia corretta. All’interno del testo ho trovato molti termini settoriali di cui non conoscevo il significato. Alcuni dei termini che più mi hanno creato problemi sono stati:

• genre

• markedness

• trasduction

Qui di seguitò darò una definizione dei termini appena citati, per poi spiegare cosa mi ha causato dei problemi e come li ho risolti.

GENRE: Il termine «genre» deriva dal francese. È un termine ampiamente utilizzato nella retorica, teoria del testo e in tempi più recenti anche nella linguistica, per fare riferimento a un determinato genere di testo. Solitamente la definizione di «genre» si basa sul concetto che costituisca una convenzione particolare condivisa da un gruppo di testi riguardante il contenuto e/o la forma. È però difficile definire un particolare genere in termini di sufficienti proprietà testuali e necessità. Spesso accade infatti che mentre si identifica un determinato «genre» per la forma, questo sia diverso per il contenuto. È facile trovare  eccezioni ed è quindi altrettanto difficile, non essendoci regole fisse, riuscire a dare una definizione esatta del termine. Tradizionalmente, soprattutto nella letteratura si tende a considerare il «genre» come un insieme di forme fisse, ma allo stesso tempo la teoria enfatizza la dinamicità delle forme e delle funzioni. Persino l’ordine gerarchico è soggetto a continui cambiamenti. Vista quindi la sua dinamicità, anche la definizione stessa di «genere testuale» è relativa.

Per quanto riguarda la semiotica, il «genre» può essere considerato un codice condiviso, sotto forma di tacito contratto tra l’autore del testo e il lettore.

 

MARKEDNESS: Caratteristica che fa sì che una parte del testo risalti in confronto al contesto o al co-testo, si differenzi dall’enunciato nella forma in cui ce lo si potrebbe facilmente aspettare. Può essere lessicale (per esempio un salto di registro), sintattica (dislocazioni, frasi scisse) stilistica, grafica.

Il termine venne introdotto da  Roman Jakobson, che si occupò per primo dell’opposizione tra marcatezza e non-marcatezza nel 1921. Il suo obiettivo era quello di creare una teoria di significato generale, evidenziando le differenze principali tra il significato generale e contestuale nella morfologia e nella semantica. Il concetto di «marcatezza» è importante nella scienza della traduzione, perché mentre si traduce è necessario riconoscere la marcatezza delle caratteristiche del prototesto al fine di poterle mantenere nel metatesto.

 

SALIENCE:  is the state or condition of being prominent.

Nella semiotica il termine «salience» si riferisce alla relativa importanza o prominenza di un testo o di un segno. Quando si considera la «salience» relativa a un segno particolare in un contesto di altri segni, questa aiuta a classificare velocemente la grande quantità di informazioni in ordine di importanza e quindi a prestare attenzione a ciò che è più importante. Questo processo impedisce a un individuo di essere sovraccarico di informazioni.

In riferimento alla scienza della comunicazione la «salience» viene utilizzata come metro per valutare quanto una percezione prominente o rilevante coincida con la realtà.

 

Per quanto riguarda il termine «genre» ho pensato di tradurlo con il termine «genere», trovandolo però troppo generale, come si può ben notare dalla definizione sopra fornita, ho ritenuto necessario apportare un’aggiunta e ho quindi infine tradotto il termine con «genere testuale». In questo modo sono riuscita a essere più specifica agevolando il lettore nella comprensione del testo.

In riferimento al termine «markedness», una volta compreso il suo significato ho trovato un traducente settoriale adeguato così da poter infine tradurre il termine con «marcatezza».

Mi sono posta un problema relativo alla traduzione del termine «salience», in quanto tradurlo con importanza avrebbe potuto essere riduttivo e avrebbe persino potuto dare adito a fraintendimenti all’interno del testo, in quanto spesso nel testo, accanto al termine «salience» si trovava il termine «important», tradurre entrambi con «importanza» e «importante» avrebbe provocato confusione nel lettore e sarebbe stato più difficile comprendere il testo. Queste ragioni mi hanno portato a scegliere il traducente «prominenza» per tradurre il termine «salience».

1.4 Traducibilità non Settoriale

In questo capitolo mi occuperò invece dei problemi traduttivi riscontrati nei termini non settoriali. Alcuni termini, non sono linguistici, bensì termini settoriali di un altro/i settore/i, che vengono “presi in prestito” dal settore linguistico per poter meglio spiegare alcuni concetti. Questo vale per i termini «modelling» e «transduction».

Il termine «transduction» da me tradotto con trasduzione è solitamente usato nel campo della genetica e della biofisica. In campo genetico, la trasduzione è il processo attraverso il quale il DNA viene trasferito da un batterio a un altro tramite un virus.  Si riferisce inoltre a un processo per mezzo del quale un DNA estraneo può essere introdotto in un altra cellula tramite un virus che funge da vettore. È un mezzo comune usato dai biologi molecolari per inserire stabilmente un gene estraneo nel genoma di una cellula ospitante. Quando i batteriofagi (i virus che infettano i batteri) infettano una cellula batterica, il loro normale metodo di riproduzione prevede di sfruttalre il sistema di replicazione, trascrizione e traslocazione della cellula batterica ospitante per creare numerosi virioni, o completare particelle virali.mentre in biofisica la trasduzione è il processo per mezzo del quale un trasduttore accetta energia sotto una determinata forma e la restituisce energia correlata in una forma diversa, come la trasduzione onde acustiche sottoforma di voltaggio del microfono.

Entrambi gli usi di questo termine si riferiscono a una sorta di passaggio da un determinato elemento a un altro. Ed è proprio uno spostamento quello che intende  Doležel quando parla di «trasduzione» nel tempo e nello spazio: la percezione che si ha dello stesso messaggio viene influenzata  dalla distanza di tempo e da un differente spazio cosicché il messaggio viene percepito in modo diverso.

Questa relazione mi ha portato a usare il termine «trasduzione» sebbene non appartenesse a questo settore.

Per quanto riguarda il termine «modelling» invece, la sua definizione inglese è molto generica e il suo uso è comunque applicato ad altri settori:

modelling:

1. (Fine Arts & Visual Arts / Art Terms) (Non-sporting Hobbies / Modelmaking & Model Railways) the act or an instance of making a model

2. (Clothing & Fashion) the practice or occupation of a person who models clothes

3. (Psychiatry) a technique in psychotherapy in which the therapist encourages the patient to model his behaviour on his own

 

Mi è stato quindi difficile capire come tradurre il termine. Inizialmente lo avevo tradotto con «modellatura». La definizione di questo termine però non era appropriata, in quanto significa: conferimento o assunzione di una determinata forma.

Nel testo invece si parla ad esempio di

«modelling of hierarchically more complex structures (processes and products) yields models readily applicable to less complex structures.»

Quindi il termine «modellatura» non era adatto.

Il termine corretto da usare è «modellizzazione». Con tale termine si intende quel processo cognitivo che porta alla costruzione di un modello di un sistema fisico o processo reale attraverso l’applicazione dei principi basilari di una teoria.

La modellizzazione di un sistema fisico non è un’attività puramente mentale in quanto prevede l’interazione con oggetti reali nelle attività di osservazione e sperimentazione.

Newton, pur senza utilizzare i termini «modello» e «modellizzazione», è stato il primo che ha seguito tale approccio, chiamato modellizzazione Newtoniana.

Il termine «modellizzazione» viene utilizzato anche in campo matematico, rappresenta il processo che  consente di selezionare particolari aspetti di una  realtà (un fenomeno fisico, una situazione in campo  economico, un fenomeno naturale), di rappresentarli con i linguaggi della logica, stabilendo delle relazioni di tipo matematico.

Da queste definizioni si può notare che «modellizzazione» è il termine che più corrisponde a ciò che vine detto nel testo da me tradotto.

Vi sono altri termini invece dove non settoriali, appartenenti al linguaggio comune che mi hanno però creato problemi nella traduzione, in quanto un solo termine inglese può presentare più traducenti italiani, ed è opportuno individuare il traducente corretto a seconda del contesto. In questo caso, il termine che mi ha creato maggiori problemi è stato il termine «language» i cui traducenti possono  essere sia «lingua» che «linguaggio». Mi pare opportuno quindi dare la definizione del termine «language» per poi spiegare le differenze tra «lingua» e «linguaggio».

Secondo il Cambridge learner’s Dictionary (second edition) il termine «language» ha 4 significati:

1. COMMUNICATION [U] communication between people, usually using words.

2. ENGLISH/SPANISH/JAPANESE ETC [C] a type of communication used by the people of a particular country

3. TYPE OF WORDS [U] words of a particular type, especially the words used by people in a particular job

4. COMPUTERS [C,U] a system of instructions that is used to write computer programs

 

Secondo il dizionario Garzanti le definizioni di «lingua» e «linguaggio» sono:

LINGUA: sistema fonematico, grammaticale e lessicale per mezzo del quali gli appartenenti a una comunità comunicano tra loro.

LINGUAGGIO: facoltà degli esseri umani di comunicare tra loro per mezzo della lingua; la facoltà di esprimersi usando un qualsiasi sitema; l’insieme dei mezzi espressivi e stilistici propri di una determinta arte.

 

Si può quindi dedurre che per la lingua inglese il termine «language» comprende entrambi i traducenti italiani, ossia in questo caso la lingua inglese è generalizzante rispetto a quella italiana, che «offe la possibilità di distinguere senza specificazioni ulteriori la distinzione tra il termine più specifico «lingua» (con cui di norma s’intendono le lingue naturali) e il più generico «linguaggio», con cui s’intendono tutti i linguaggi, anche artificiali ed extratestuali, nel cui novero figurano anche quelli naturali, o lingue» (Bruno Osimo: Manuale del traduttore  2008:209).

Una citazione di Saussure a parer mio definisce bene la differenza tra «lingua» e «linguaggio»:

Ma che cos’è la lingua? Per noi, essa non si confonde con linguaggio; essa non ne è che una determinata parte, quantunque, è vero, essenziale. Essa è al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui. Preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale; non si lascia classificare in alcuna categoria di fatti umani, poiché non si sa come enucleare la sua unità. […]Separando la lingua dalla parole, si separa a un sol tempo: 1. ciò che è sociale da ciò che è individuale; 2. ciò che è essenziale da ciò che è più o meno accidentale. […]Il legame che unisce il significante al significato è arbitrario o ancora, poiché intendiamo con segno il totale risultante dall’associazione di un significante a un significato, possiamo dire più semplicemente: il segno linguistico è arbitrario.[…]

(F. de Saussure 1967: 19, 23-24, 83-93).

Una volta colta la differenza tra i due termini sono stata in grado di capire quando tradurre «language» con «lingua» e quando con «linguaggio».

 

 

2. Traduzione

 

 

Czech and Slovak Structuralism – Past and Present

When Jiří Levý published his České theorie překladu (Czech Theories of Translation) in 1957 and his pioneering Umění překladu (The Art of Translation) in 19631, he had a fully-fledged theoretical and methodological framework at his disposal – Prague Structuralism as it haddeveloped during its Classical period (mid 20s – late 40s) and after, as well as the Czech tradition of informed thinking about and discussions of translation functions and methods during the period between the late 19th and early 20th century. Outside his country, isolated behind the ‘iron curtain’, Prague Structuralism continued to be widely misinterpreted, being equated with Russian Formalism and so doomed to oblivion with the advent of post-structuralism. However, the reality was different. While in the 30s and in the post-WWII period Prague influenced not only European linguistic structuralism but also modern linguistics generally, misunderstandings may have arisen from the following two facts: (1) the incorrect assumption that the Russian formalist Roman Jakobson, an important figure in the Czech Classical period, represented once and for all the entirety of what is called Prague Structuralism2; and (2) the wrong assumption that Prague structuralism had been linked with French structuralism, and so both were discarded by post-structuralism in the mid 70s.

This is why one may encounter the surprising claim that “Many of the theoretical ideas and methods of analysis advanced in the post-structuralist period were introduced in the structuralist thought of the Prague School.” (Doležel 2000b: 634)

Identifying post-structuralism with a period in Western intellectual history rather than with a particular ontological or epistemological stance,

 

 

Lo strutturalismo ceco e slovacco – passato e presente.

Quando Jiří Levý pubblicò České theorie překladu (Teorie ceche della traduzione) nel 1957 e il pionieristico Umění překladu (L’arte della traduzione) nel 19631 aveva a disposizione un sistema teorico e metodologico completo: lo strutturalismo praghese così come si era sviluppato durante il periodo classico (metà degli anni Venti fino alla fine degli anni Quaranta) e successivamente, così come la tradizione ceca di una riflessione dotta sulle funzioni e i metodi della traduzione tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

Al di fuori del suo paese, isolato dietro una cortina di ferro, lo strutturalismo praghese continuava ad essere ampiamente mal interpretato, poiché veniva equiparato al formalismo russo e pertanto condannato all’oblio con l’avvento del post-strutturalismo. Tuttavia la realtà era diversa. Sebbene negli anni Trenta e nel secondo periodo post-bellico Praga non influenzasse soltanto lo strutturalismo della linguistica europea, ma anche la linguistica moderna in generale, le incomprensioni possono essere sorte a causa di due fattori: (1) la supposizione inesatta secondo la quale il formalista russo Roman Jakobson, una figura importante all’interno del periodo classico ceco, rappresentasse una volta per tutte l’insieme di ciò che veniva chiamato strutturalismo praghese2; (2) la supposizione errata secondo la quale lo strutturalismo  praghese fosse collegato a quello francese e così vennero entrambi messi da parte dal post strutturalismo alla metà degli anni Settanta.

Ecco perché qualcuno può imbattersi nella sorprendente affermazione «molte delle idee teoretiche e dei metodi di analisi avanzati nel periodo post-strutturalista sono stati introdotti nella corrente di pensiero strutturalista della scuola di Praga» (Doležel 2000b: 634).

Identificando il post-strutturalismo con un periodo della storia intellettuale occidentale piuttosto che con un particolare posizione ontologico o epistemologico,

Doležel (2000b: 634) points out that there is no historical continuity between Prague and French structuralism:

In the minds of many Western theorists, structuralism is associated with French structuralism; therefore, post-structuralism is commonly understood as a theoretical challenge to French structuralism. But the identification of structuralism with its French manifestation is a distortion of an aspect of twentieth century intellectual history. The term structuralism was coined when the concept of structuralism was formulated in Prague in the late twenties. French structuralism ignored this legacy.

This means that there was one road leading from Russia to the pre-war Prague centre ofstructuralist linguistics, aesthetics and poetics, and another one leading to post-war Paris. This also explains, as Doležel (2000b: 635) remarks, that Jakobson, considered a hero of French structuralism, was also considered as a direct link between Russian Formalism and French structuralism. Consequently, the resulting Prague and Paris paradigms were different from each other in spite of having had the ‘Jakobsonian Connection’, but at different times and in different circumstances.

Volek (2005: 296) notes that while French structuralist poetics concentrated on the code and also, in the early 60s, on the text as a carrier of potential meanings, the domain of Prague structuralist poetics was the dimension of text both as an artefact and as a work of art3 embedded in its historical context of reception and with its contextual effects; hence the origin of dynamic Prague concepts such as norms and values. Post-structuralism thus reacted to French structuralism only, while on the other hand French structuralism itself regarded Czech structuralism as a pre-structuralist phenomenon.4 This is also why the Derridean différence, based on the Saussurean linguistic systemic ‘value’,

 

 

Doležel (2000b: 634) evidenzia la mancanza di continuità storica tra lo strutturalismo praghese e quello francese:

nella mente di molti teorici occidentali, lo strutturalismo è associato allo strutturalismo francese; pertanto il post-strutturalismo viene comunemente inteso come una sfida teorica  allo strutturalismo francese. Ma identificare lo strutturalismo con la sua espressione francese è una distorsione di un aspetto della storia intellettuale del Novecento. Il termine strutturalismo è stato coniato quando il concetto di strutturalismo venne formulato a Praga verso la fine degli anni Venti. Lo strutturalismo francese ignora questo retaggio.

Questo significa che c’era solo una strada che prima della guerra conduceva dalla Russia al centro praghese della linguistica, estetica e poetica strutturali e un’altra che conduceva, dopo la guerra, a Parigi. Questo spiega anche, come fa notare Doležel, che jakobson, considerato un eroe dello strutturalismo francese, era anche considerato un collegamento diretto tra il formalismo russo e lo strutturalismo francese. Di conseguenza i paradigmi praghese e parigino che ne risultavano erano diversi l’uno dall’altro nonostante avessero avuto una “Jakobsonian Connection”, seppur in tempi e circostanze diversi.

Volek (2005:296) osserva che mentre la poetica dello strutturalismo francese si concentrava sul codice e anche, nei primi anni Sessanta, sul testo in quanto portatori dei significati potenziali, il campo della poetica strutturale praghese era la dimensione del testo sia come artefatto sia come opera d’arte3 integrata nel suo contesto storico della recezione e con i suoi effetti contestuali; scuola di Praga come «norme» e «valori». Il post-strutturalismo così fu una reazione soltanto allo strutturalismo francese, mentre dall’altro lato lo strutturalismo francese stesso considerava lo strutturalismo ceco come un fenomeno pre-strutturalista4. Questo è anche il motivo per cui la différence di Derrida, basata sul “valore” sistemico linguistico Saussureano,

 

based on the Saussurean linguistic systemic ‘value’, was miles away from the Czech concept of ‘meaning’ embedded in the context of communication.

It is true that the Classical period of Prague structuralism, also called semiotic or structural aesthetics as one of its branches represented the semiotics of art (the other branch was linguistic), was officially discontinued at the end of the 40s by the communist regime. The beginnings of this first period date back to the establishment of the Prague Linguistic Circle in 1926 and its Prague Theses presented in 1929 under the initiatives of such prominent figures as Vilém Mathesius, the Russian emigré Roman Jakobson, Bohuslav Havránek, Jan Mukařovský and many others. These four names are associated with the exceptional and forward-looking nature of Prague structuralism: Mathesius was a Czech linguist, conceiving his structuralist thoughts as early as in 1911, Jakobson was a Russian formalist – a linguist also involved in literary theory5, Havránek was a linguist involved in Slavic studies, and Mukařovský, perhaps the most important contributor to the development of Prague semiotics, was an outstanding personality in literary studies and aesthetics.

In the 1920s, Prague was also a meeting point for scholars from diverse disciplines and countries. This is why Prague structuralism is the result of numerous absorptions – the Czech aesthetic and linguistic tradition, Russian formalism, Saussurean linguistics, Bühler’s Organonmodel, Husserl’s phenomenology, Durkheim’s sociology, Carnap’s logic, etc.6 In 1939, with the advent of the Nazi regime and the German occupation of Czechoslovakia, Jakobson as a Jew fled to Sweden and then to the US where he continued his activities at

Harvard.

Although the Prague Circle was suspended and structuralism repressed from the early 50s as it was found incompatible with Marxist ideology, especially with its vulgarized version presented by Stalin, its development during the 50s was only slowed down, but not discontinued. Conditions were more relaxed for linguists (although they were required to follow the lines of Marxian linguistics) than for theoreticians of art:

era ben lontana dal concetto ceco di «significato» inglobato nel contesto della comunicazione.

È vero che il periodo classico dello strutturalismo praghese, conosciuto anche come estetica semiotica o strutturale in quanto uno dei suoi rami rappresentava la semiotica dell’arte (l’altro riguarda la linguistica), era stato ufficialmente interrotto alla fine degli anni Quaranta dal regime comunista. Gli inizi di questo primo periodo risalgono alla fondazione del Circolo linguistico di Praga nel 1926 e delle relative Tesi praghesi presentate nel 1929 su iniziativa di personaggi rilievo come Vilém Mathesius, l’esule russo Roman Jakobson, Bohuslav Havrànek, Jan Mukařovoský e molti altri. Questi quattro nomi sono associati all’eccezionale e progressista spirito d’avanguardia dello strutturalismo praghese: Mathesius era un linguista ceco, che aveva concepito i suoi pensieri strutturalisti già nel 1911, Jakobson era un formalista russo – un linguista impegnato anche nella teoria del testo5,  Havrànek era un linguista impegnato nella slavistica mentre  Mukařovoský, forse colui che ha dato il maggior contributo allo sviluppo della semiotica praghese, era una personalità prominente negli studi letterari e dell’estetica.

Negli anni Venti Praga rappresentava anche un punto di incontro per studiosi di varie discipline e paesi. È per questo motivo che lo strutturalismo praghese è il risultato di numerose assimilazioni: la tradizione ceca dell’estetica e della linguistica, il formalismo russo, la linguistica di Saussure, il modello del sistema epistemologico di Bühler, la fenomenologia di Husserl, la sociologia di Durkheim, la logica di Carnap ecc6. Nel 1939 con l’avvento del regime nazista e dell’occupazione tedesca della Cecoslovacchia, Jakobson, in quanto ebreo, fuggì in Svezia e successivamente negli Stati Uniti, dove continuò le sue attività alla Harvard.

Nonostante il circolo di Praga fosse stato sospeso e lo strutturalismo represso a partire dai primi anni Cinquanta, in quanto ritenuto incompatibile con l’ideologia marxista, specialmente nella versione volgarizzata propugnata da Stalin, il suo sviluppo durante gli anni Cinquanta fu soltanto rallentato, ma non interrotto.

 

Conditions were more relaxed for linguists (although they were required to follow the lines of Marxian linguistics) than for theoreticians of art:

art was to service the new Czechoslovak society in tune with the Soviet ideology, based on Marxism-Leninism and the method of socialist realism. Literature was seen as a prominent art form for mass conversion to Marxist ideology and the education of the masses. Now that domestic production was being aided by the influx of translations from Russia, this highlighted the need for the institutionalization of controlled and regulated translator practices and training, as well as for translation theory. And this is where Levý, the founder of Czechoslovak translation studies, came in.

Structuralism was revived in the 60s by the second generation, then suppressed in the 70s – 80s, and again revived in the early 90s by the third generation of Prague structuralists. All intermittent periods of suppression were accompanied by an exodus7 of Prague structuralists who continued their work at universities in the US, Canada, Germany, Switzerland and elsewhere. To make the picture more realistic – it was in fact only the first half of the 50s and the 70s that were tough periods for Prague semioticians – easier for their colleagues in linguistics.

Deconstruction, as a prominent poststructuralist trend, with its undermining poststructuralist metaphysical logocentrism, shares some common features with Prague school structuralism of the 40s thanks to its links with Russian formalism and the avantgarde (cf. e.g. Derrida’s deautomatization and Mukařovský’s deformation). But apart from the deconstructivist antilogocentric epistemology and its poetological practice, i.e. analysis, that does not fully comply with this epistemology, Doležel (2000b: 639) notes some other fundamental differences, e.g. that Prague posited a polyfunctional language adapted to the diverse communicative needs of society, while Derridean language was monofunctional and thus all social communication was to be conducted in poetic language.

 

arte significava servire la nuova società cecoslovacca conformemente all’ideologia sovietica, basata sul marxismo-leninismo e sul metodo del realismo socialista. La letteratura era vista come una forma d’arte importante per la conversione di massa all’ideologia marxista e all’istruzione delle masse. Ora che la produzione nazionale era stata favorita dall’afflusso di traduzioni dalla Russia, divenne evidente il bisogno di un’istituzionalizzazione della pratica e della formazione controllata e regolata del traduttore così come della teoria traduttiva. Ed è qui che entra in gioco Levý, il fondatore della scienza della traduzione cecoslovacca.

Lo strutturalismo venne riportato in auge negli anni Sessanta dalla seconda generazione, poi soppresso negli anni Settanta-Ottanta e riportato nuovamente in auge agli inizi degli anni Novanta dalla terza generazione degli strutturalisti praghesi. Tutti i periodi intermittenti di repressione furono accompagnati dall’esodo7 degli strutturalisti praghesi che continuarono il loro lavoro presso le università statunitensi, canadesi, tedesche, svizzere e altrove. Per rendere l’immagine più realistica, solo la prima metà degli anni Cinquanta e gli anni Settanta sono stati periodi duri per i semiotici praghesi, mentre sono stati più semplici per i loro colleghi linguisti.

La decostruzione, come importante tendenza post-strutturalista con il suo debilitante logocentrismo metafisico post-strutturalista, possiede alcune caratteristiche in comune con la scuola strutturalista praghese degli anni Quaranta grazie al suo collegamento con il formalismo russo e l’Avant-garde ( si veda per esempio la «de-automatization» di Derrida e «deformazione» di Mukařovoský).  Ma oltre all’epistemologia decostruttiva e anti-logocentrica e la sua pratica poetologica, ossia l’analisi, che non è completamente conforme con questa epistemologia, Doležel (2000b: 639) segnala altre differenze fondamentali, come per esempio che Praga postulava un linguaggio polifunzionale adattato alle varie esigenze di comunicazione della società, mentre il linguaggio Derridano era monofunzionale e quindi tutte le comunicazioni sociali vanno portate avanti nel linguaggio poetico.

 

Pragmatics is another poststructuralist trend, which, however, does not deny the logocentric basis of human cognition but strives to overcome the limitations of structuralism by linking signs to their socio-cultural, cognitive and other environments.

In making his comparison between Prague structuralism and pragmatics, Doležel (2000b: 639) categorizes pragmatics into three types: (1) indexical, (2) interactive and (3) ideological. Indexical pragmatics represents the classical type introduced by Bühler and Morris, with established relationships between messages and their users, between signs and their interpreters. The interactive type represents the relationship between communicative practices and humans in (inter)action (cf. theories of human/literary communication, speech-act theory etc.). The two types of pragmatics were inherent parts of Prague structuralism already in its Classical period. The official name for its semiotic literary branch was theory of literary communication; however, the general principle of Prague functionalism (including its purely linguistic branch) rested on the communicative function of elements in the message together with the hierarchy of communicative functions of the message as a whole, in a particular communicative use and context. This is where Levý’s theory and model of translation, as well as his analytical method, derive from. Levý’s approach was adopted by Popovič who pointed out its methodological advantages over the descriptive poetics of the time, in terms of bridging the gap between description and explanation (1975: 50):

 

What was missing was a view on translation as both text in communication and communication in text; this means a new dynamic view of literary activity in translating. The communication aspect casts light on new, unknown processes taking place during the course of the realization8 of an artistic text.

 

Doležel (2000b: 641) points out a striking difference: while during the western poststructuralist era, in isolated Czechoslovakia, scholars like Jiří Levý, Miroslav Procházka and members of the Nitra school (e.g. Anton Popovič and František Miko)

La pragmatica è un’altra tendenza post-strutturalista, che, tuttavia, non nega le basi logocentriche della cognizione umana ma si sforza di superare i limiti dello strutturalismo collegando i segni ai loro ambienti socio-culturali, cognitivo e altri. Paragonando lo strutturalismo praghese e la pragmatica,  Doležel (2000b: 639) classifica la pragmatica in tre tipi: (1) indicale, (2) interattiva e (3) ideologica. La pragmatica indicale rappresenta il tipo classico introdotto da Bühler e Morris, con relazioni stabilite tra i messaggi e i loro utenti, tra i segni e i loro interpreti. Il tipo interattivo rappresenta la relazione tra la pratica comunicativa e le (inter)azioni umane (vedi: teorie della comunicazione umana/letteraria, le teorie dell’atto discorsuale ecc.). I due tipi di pragmatica erano parti integranti dello strutturalismo praghese già nel periodo classico. Il nome ufficiale del il ramo della semiotica letteraria era teoria della comunicazione letteraria; tuttavia, il principio generale del funzionalismo praghese (incluso il ramo puramente linguistico) si basa sulla funzione comunicativa degli elementi nel messaggio insieme alla gerarchia delle funzioni comunicative del messaggio come insieme, in un particolare uso e contesto comunicativo. Da qui deriva la teoria e il modello di traduzione di Levý così come il suo metodo analitico. L’approccio di Levý è stato adottato da Popovič, il quale mette in evidenza i suoi vantaggi metodologici rispetto alla poetica descrittiva del tempo, per quanto riguarda il divario tra la descrizione e la spiegazione (1975: 50;  40 versione italiana):

Non erano presenti il concetto di «traduzione» come testo nella comunicazione e il concetto di comunicazione nel testo, e quindi mancava lo sguardo dinamico sul concetto di processo traduttivo. L’aspetto comunicativo mette in luce i processi che si verificano con la realizzazione8 del testo

Doležel (2000b: 641) evidenzia una differenza sorprendente: poiché durante l’era post-strutturalista occidentale, nell’isolata Cecoslovacchia, studiosi come Jiří Levý, Miroslav Procházka e i membri della scuola di Nitra (ad esempio: Anton Popovič e František Miko)

 

further advanced the literary communication theory on the Prague Classical foundations, and thus preserved its continuity, the conception of literary communication in western post-structuralism started with the wholesale rejection of the structuralist heritage.

Doležel explains this difference by pointing to the fact that Prague structuralism started with functional linguistics, transformed as early as the 30s – 40s into functional stylistics, which included both poetic and non-poetic types of language use. In other words, the Prague functional theory of communication, or language use, easily subsumed the study of literary poetics as well as the study of non-poetic discourses; this is why the specificity of literature could have been moved from language to language use. Sládek (2005: 160-161) sees another parallel dichotomy between structuralisms in the conception of structure; while poststructuralism, in its reaction to French structuralism, advocates open structures and instability of meaning, already in the 30s and 40s Mukařovský (1946, in 2000: 27) held to the concept of open structure, seeing it as a dynamic, energetic whole of dialectic contradictions; a structure was conceived of as a networked set of components, whose inner equilibrium is in turns constantly being disrupted and then re-established again, and therefore manifesting itself as a set of dialectic contradictions, i.e. while the identity of a structure is what survives over time, its internal hierarchical composition and the interrelationships of its components are in constant change due to reception processes. The structure as a whole is accessible to an observer only through its manifestations and functions.

This also means that readers/receivers themselves are an open, changing system, and so is the meaning of a message when it is undergoing the process of semiosis during reception, i.e. when becoming established as a semantic structure in the reader’s mind. But in contrast with extreme subjectivism and existential scepticism, Mukařovský and Prague structuralists seek objectivity on the level of supra-individuality, that is in collectivity or intersubjectivity, on which any communication is based.

 

hanno ulteriormente avanzato la teoria della comunicazione letteraria sulla base del periodo classico praghese e perciò preservato la sua continuità; la concezione della comunicazione letteraria nel post-strutturalismo occidentale è iniziata con il totale rifiuto dell’eredità strutturalista.

Doležel spiega questa differenza riferendosi al fatto che lo strutturalismo praghese è iniziato con la linguistica funzionale, trasformatasi già negli anni Trenta-Quaranta in stilistica funzionale, che include sia i tipi poetici e non dell’uso della lingua. In altre parole la teoria della comunicazione, o uso della lingua, funzionale praghese contemplava facilmente sia lo studio della poetica letteraria sia lo studio dei discorsi non-poetici; ecco perché la specificità della letteratura poteva essere spostata dalla lingua all’uso della lingua. Sládek (2005: 160-161) vede un’altra dicotomia parallela tra gli strutturalismi nella concezione di «struttura»; mentre il post-strutturalismo, nella sua reazione allo strutturalismo francese, è a favore della struttura aperta e dell’instabilità del significato, già negli anni Trenta e Quaranta  Mukařovoský (1946, in 2000: 27) rimaneva fedele al concetto di struttura aperta, come insieme dinamico ed energetico di contraddizioni dialettiche; la struttura era concepita come una serie di componenti collegate, il cui equilibrio interno viene costantemente infranto e ristabilito a fasi alterne e perciò si manifesta come una serie di contraddizioni dialettiche, ossia mentre l’identità di una struttura è ciò che sopravvive nel corso del tempo, la sua composizione gerarchica interna e le interrelazioni delle sue componenti sono in constante cambiamento a causa dei processi di ricezione. La struttura come insieme è accessibile a un osservatore soltanto attraverso le sue manifestazioni e funzioni. Questo significa che anche i lettori/riceventi stessi sono un sistema aperto, mutevole e così è il significato del messaggio quando subisce il processo di semiosi durante la ricezione, ossia quando viene riconosciuto come struttura semantica nella mente del lettore. Ma in contrasto con l’estremo soggettivismo e scetticismo esistenziale, Mukařovoský e gli strutturalisti praghesi cercano oggettività ad un livello di sovra-individualità, cioè nella sua collettività o intersoggettività, sul quale si basa ogni comunicazione.

 

 

And here is where contextually bound norms and cultural codes as intersubjective entities on the one hand, as well as the producer’s and receiver’s idiolects as (individual or group) subjective entities on the other, come in. Thus an artefact/text as a material object may have a number of different meanings, functions and values.

However, (the inherently deterministic) ideological pragmatics and Prague structuralism have been in opposition since the 30s. Doležel (2000b: 640), explaining why ideological interpretation of a literary work is a tautological trick and sharply distancing it from the Prague school of aesthetics and poetics as inherently empirical theories9, points out that the criticism of pragmatic determinism of art and literature by the Prague scholars was actually the reason why these scholars were silenced by the totalitarian Marxist/Stalinist ideology and its communist regime. More precisely, Prague structuralists believed in a trichotomy of: (a) immanent development of literary structures over time seen as a chronological series of sets of generic models with their centres and peripheries, (b) the author’s individual agency in producing a work of art based on deviations from contemporary models, and (c) contextual social factors. This is also why Prague semiotics respected the sociological dimension as an integral part of its theoretical and analytical modelling and, at the same time, could not be accused of immanentism10. Talking about the role of an individual in art, Mukařovský (1966: 223) conceptualized dialectical individual agency as an antagonistic external force reperesenting a contingency that is the carrier of social and ideological influences accidentally inflicted on the immanence of artistic structure.

The post-modern way of treating concepts, preferably metaphorical, is also something alien to Prague structuralism where Mukařovský, emphasizing the procedures of rigorous concept formation and systematization went even so far as to identify these procedures with structuralism; for him, a concept was defined by the position it occupied in the conceptual system network rather than by the itemization of its contents (Doležel 2000b: 644).

E qui si inizia a parlare di norme legate al contesto e codici culturali come entità intersoggettive da un lato e di idioletti dell’emittente e del ricevente  come entità soggettive (individuale o gruppo) dall’altro. In questo modo un artefatto/testo in quanto testo materiale può avere diversi significati, funzioni e valori.

Tuttavia, la pragmatica ideologica (intrinsecamente deterministica) e lo strutturalismo praghese sono in contrasto sin dagli anni Trenta. Doležel (2000b: 640), spiegando perché l’interpretazione ideologica di un opera letteraria è un tranello tautologico e distanziandola aspramente dalla scuola di estetica e poetica di Praga in quanto teoria intrinsecamente empirica9, evidenzia che la critica del determinismo pragmatico dell’arte e della letteratura da parte degli studiosi praghesi era in realtà la ragione per cui questi studiosi erano stati messi a tacere dall’ideologia totalitaria marxista/leninista e dal regime comunista. Più precisamente gli strutturalisti praghesi credevano in una tricotomia di: (a) lo sviluppo immanente delle strutture letterarie nel corso del tempo visto come una serie cronologica di un complesso di modelli generici con i loro centri e le loro periferie, (b) il ruolo individuale dell’autore nel produrre un’opera d’arte basata sulle deviazioni dai modelli contemporanei e  (c) dei fattori sociali contestuali. Anche per questo motivo la semiotica praghese rispettava la dimensione sociologica in quanto parte integrante della sua modellizzazione teorica e analitica e allo stesso tempo non poteva essere accusata di immanentismo10. Parlando del ruolo di un individuo nell’arte, Mukařovoský (1966: 223) concettualizzava il ruolo individuale dialettico come una forza antagonista esterna che rappresenta una contingenza, ossia il portatore di influenze sociali e ideologiche accidentalmente inflitte all’immanenza della struttura artistica.

La via post-moderna del trattamento dei concetti, preferibilmente metaforici, e anche qualcosa di alieno allo strutturalismo praghese dove Mukařovoský, enfatizzando le procedure di una rigorosa formazione e sistematizzazione dei concetti si è spinto fino a identificare queste procedure con lo strutturalismo; per lui, un concetto è definito dalla posizione che esso occupa nella rete del sistema concettuale piuttosto che dalla specificazione del suo contenuto (Doležel 2000b: 644).

Poststructuralist hermeneutics as represented by Ricoeur has structural analysis incorporated as one stage of interpretation: “And since a text is a quasi-individual, the validation of an interpretation applied to it may be said to give a scientific knowledge of the text.” (Ricoeur, quoted in Doležel 2000b: 645) – this is an example of the way Ricoeur approaches the distinction between natural sciences striving for regularities and laws on the one hand, and humanities concerned with individualized phenomena to understand them in their uniqueness. Doležel (2000b: 646) remarks that Prague structuralist poetics was both theoretical (universalist) – designing universal concepts, models and methods, and analytical (particularist) – testing these universal tools in the analysis of particular phenomena, thus at the same time enhancing the development of theoretical categories and stimulating new discoveries. Alternation, that is combining functional analysis with theoretical reflection, the procedure called the ‘zig-zag’ method, was typical of Prague structuralists, including Levý, and later the Slovaks Miko and Popovič.11

Back in the 20s, Mukařovský demonstrated this method himself by first constructing an abstract systemic theory (theoretical poetics), then applying it as a tool in textual analysis (analytical poetics) and through its application advancing the theory further; his analysis focused on narratological and stylistic structures of Czech poetry and prose, aiming to discover the author’s individuality and uniqueness against the background of established textual regularities. At the same time he discovered the correlation between the semantic structure and texture of a work of art – the fact that his semiotic analyses were not limited to linguistic style only resulted in another theoretical advancement; i.e. the form has thus become an integral part of semantics.

In the 40s and 60s, the same method was applied e.g. by Felix Vodička in literary historiography – in his attempt to reconstruct history in parallel with the construction of theory. Similarly, Levý’s history of translation published in 1957 preceded his theory of translation published in 1963. While working on his history Levý discovered that history was basically a series of translation methods related to translation functions in particular historical contexts.

L’ermeneutica post-strutturalista come rappresentata da Ricoeur incorpora l’analisi strutturale come uno stadio dell’interpretazione:«E dato che un testo è quasi-individuo, si può dire che la convalida dell’interpretazione ad esso applicata dia una conoscenza scientifica del testo» (Ricoeur, citato in Doležel 2000b: 645). Questo è un esempio del percorso con cui Ricoeur affronta la distinzione tra la scienza naturale che lotta per la regolarità e la legge da un lato e l’umanità che si interessa di fenomeni personali per capirli nella loro unicità. Doležel (2000b: 646) ribadisce che la poetica strutturalista praghese era sia teorica (universalista), ideando concetti, modelli e metodi universali, che analitica (particolarista), mettendo alla prova questi strumenti universali nell’analisi dei fenomeni particolari, incrementando così lo sviluppo delle categorie teoriche e stimolando nuove scoperte. L’alternanza, che unisce l’analisi funzionale e la riflessione teorica, la procedura chiamata metodo a “zig-zag”, era tipica degli strutturalisti praghesi, incluso Levý e successivamente gli slovacchi Miko e Popovič 11.

Tornando agli anni Venti, Mukařovoský dimostrò da solo questo metodo formulando innanzitutto una teoria sistemica astratta (poetica teorica), poi applicandola come strumento nell’analisi testuale (poetica analitica) e avanzando ulteriori teorie attraverso la sua applicazione;  le sue analisi si concentravano sulle strutture narratologiche e stilistiche della poesia e della prosa ceca, mirando a scoprire l’individualità e l’unicità dell’autore sullo sfondo di regolarità testuali consolidate. Allo stesso tempo egli scoprì la correlazione tra la struttura semantica e la tessitura di un’opera d’arte – il fatto che le sue analisi semiotiche non erano limitate allo stile linguistico che determinò un altro avanzamento teorico; ossia la forma è quindi diventata parte integrante della semantica. Negli anni Quaranta e Sessanta lo stesso metodo fu applicato per esempio da Felix Vodička nella storiografia letteraria, nel suo tentativo di ricorstruire la storia in parallelo con la formulazione della teoria. In modo simile, la storia della traduzione di Levý pubblicata nel 1957 ha preceduto la sua teoria della traduzione pubblicata nel 1963. Mentre lavorava sulla sua storia Levý ha scoperto che la storia era sostanzialmente una serie di metodi di traduzione collegati alle funzioni traduttive in particolari contesti storici.

Hand in hand with this method goes another important methodological aspect; while the positivist deterministic causality with its savoir pour prévoir had been put under scrutiny, Prague structuralism aimed at the anti-positivist savoir pour construire – re/constructing the object in its environment (both as an act and product of communication, as a category of social interaction in the culture), with a number of more or less active or relevant factors. More precisely, functionalism aimed not at establishing the causes of phenomena but at establishing the position of the latter within a higher-order whole. The advantage of the functional approach, as Levý (1971: 102) notes, is that it focuses on the internal structure of the system and not only on its relationships with the environment.12 Combined with the open systems theory, this approach has one methodological advantage: the researcher does not feel limited by any existing theoretical and conceptual networks but is free to search for, discover and extend them by any new factors or entities that may have been or have been found relevant in the origination (i.e. generation), make-up (i.e. structure) and functioning (i.e. position and value) of the object under study, on any level of the systemic hierarchy.

For Doležel (2000b), Prague in its epistemology anticipated Ricoeur’s ‘science of the individual’ as well as the underlying problem humanities face today – that is the need to treat both – lawlike universals and unique specifics. With the idea of ‘possible worlds’ restored to epistemological prominence today, Doležel believes that humanities can either opt for rational argument, systematic method, conceptual precision and empirical evidence, or for antirationality, random insight, conceptual sloppiness and ideological dogma.

Brief reference to Slovak structuralism will show that while between 1918 and 1993 the Czechs and Slovaks lived in one country, Czechoslovakia, they developed slightly different versions of structuralism. Matejov and Zajac (2005: 8-19) mapping the Slovak history, point out the following aspects: Slovak structuralism (with origins dating back to the 40s)

Un altro importante aspetto metodologico va di pari passo con questo metodo; mentre la causalità deterministica positivista con il suo savoir pour prévoir era stata messa sotto osservazione, lo strutturalismo praghese mirava all’anti-positivista savoir pour construire, ri/costruire l’oggetto nel suo ambiente (sia come atto e prodotto della comunicazione, sia come categoria di interazione sociale nella cultura), con alcuni fattori più o meno attivi o rilevanti. Più precisamente l’obiettivo del funzionalismo non era quello di stabilire le cause dei fenomeni ma quello di stabilire la posizione di questi ultimi all’interno di un insieme di ordine superiore. L’approccio funzionale, come osserva Levý (1971: 102), ha il vantaggio di concentrarsi sulla struttura interna del sistema e non soltanto sulle sue relazioni con l’ambiente12. Combinato con la teoria dei sistemi aperti, questo approccio ha un vantaggio metodologico: il ricercatore non si sente limitato da  reti teoriche e concettuali, ma è libero di ricercarle, scoprirle ed estenderle con ogni nuovo fattore o entità che può essere o è stato ritenuto rilevante nella creazione (la generazione), nella composizione (la struttura) e nel funzionamento (posizione e valore) dell’oggetto in esame, a qualsiasi livello di gerarchia sistemica.

Secondo Doležel (2000b), l’epistemologia della scuola di Praga ha anticipato la “scienza dell’individuo” di Ricoeur così come il problema implicito che le scienze umane si trovano a dover affrontare oggi: ossia il bisogno di affrontare sia gli universali dotati di regolarità sia gli specifici unici. Dato che nell’epistemologia attuale l’idea dei “mondi possibili” è di nuovo in primo piano, Doležel crede che le scienze umane possano optare o per la tesi razionale, il metodo sistematico, la precisione concettuale e l’evidenza empirica, o per anti-razionalismo, l’intuizione casuale, la sciatteria concettuale e il dogma ideologico.

Un breve riferimento allo strutturalismo slovacco mostrerà che tra il 1918 e il 1993 mentre cechi e slovacchi vivevano in un unico paese, la Cecoslovacchia, hanno sviluppato versioni leggermente diverse dello strutturalismo. Mappando la storia slovacca Matejov e Zajac (2005: 8-19) hanno evidenziato i seguenti aspetti: lo strutturalismo slovacco (le cui origini risalgono agli anni Quaranta)

 

was rooted in Czech structuralism, Russian formalism and scientism of the neo-positivist Vienna school. It was especially the influence of Vienna that markedly distanced the Slovaks from the Czechs, who adhered to Husserl’s phenomenology.

This resulted in two different orientations: while Mukařovský was developing his semiotic aesthetics, the Slovaks took to literary poetics (and from there to historical poetics in the 60s). František Miko, drawing on Bühler and semiotics, developed his general theory of style that was to be integrated in translation theory by Anton Popovič in the late 60s and was soon to become a fundamental underpinning of research conducted by the Nitra Center of Literary Communication, a research unit established at the University of Nitra in 1967.

Under the influence of Lotman’s semiotics13 and Polish literary structuralism14, Nitra was gradually developing its (socio)semiotics15 of literary communication, a broadly conceived project covering both theory and empirical research, by using the same zig-zag method as their Czech colleagues. The project encompassed a number of aspects, including metacommunication, translation (Anton Popovič) and interliterary communication (esp. Dionýz Ďurišin).

From the 50s to the 90s, Slovak structuralism underwent fluctuations like its Czech counterpart. Popovič and others, producing research and publishing results during the 70s and early 80s, must have somehow conceded and reconciled their scientism and rationalistic structuralism with Marxist methodology, which at the time was fortunately very different from the vulgarized Stalinist version that hit the Prague structuralists in the early 50s.

The result of the critical revision of structuralism in Slovakia that took place during the 90s is, in Matejov and Zajac’s (2005: 19) words,

 

 

era radicato nello strutturalismo ceco, nel formalismo russo e nello scientismo della Scuola neo-positivista di Vienna. Fu soprattutto l’influenza di Vienna che distanziò in modo considerevole gli slovacchi dai cechi, che aderivano alla fenomenologia di Husserl.

Questo ebbe come risultato due orientamenti diversi: mentre Mukařovský stava sviluppando la sua estetica semiotica, gli slovacchi si dedicavano alla poetica letteraria (e da lì alla poetica storica negli anni Sessanta). Františec Miko, basandosi su Bühler e sulla semiotica, sviluppò la sua teoria generale dello stile che doveva essere integrata nella teoria della traduzione di Anton Popovič verso la fine degli anni Sessanta e che presto sarebbe diventata un sostegno fondamentale della ricerca condotta dal Centro della Comunicazione Letteraria di Nitra, un’unità di ricerca istituita all’università di Nitra nel 1967.

Sotto l’influenza della semiotica di Lotman13 e dello strutturalismo letterario polacco14, Nitra stava gradualmente sviluppando la sua (socio)semiotica15 della comunicazione letteraria, un progetto di ampio respiro che ricopriva sia la teoria che la ricerca empirica utilizzando lo stesso metodo a zig-zag dei loro colleghi cechi. Il progetto comprendeva molti aspetti, tra cui la meta-comunicazione, la traduzione (Anton Popovič) e la comunicazione interletteraria (specialmente Dionýz Ďurišin).

Dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, lo strutturalismo slovacco subì delle fluttuazioni così come il suo omologo ceco. Popovič e gli altri, facendo ricerche e pubblicandone i risultati durante gli anni Settanta e nei primi Ottanta, devono aver in qualche modo ceduto e riconciliato il loro scientismo e il loro strutturalismo razionalistico con la metodologia marxista, che al tempo fortunatamente era molto diversa dalla versione volgarizzata Staliniana che si abbatté lo strutturalismo praghese agli inizi degli anni Cinquanta.

Secondo Matejov e Zajac (2005: 19), il risultato della revisione critica dello strutturalismo in Slovacchia che ebbe luogo durante gli anni Novanta,

that although structuralism has become a tradition, the latter has in turn become part and parcel of analytical tools in Slovak literary studies.

In a discussion of the prospects for structuralism by the end of the 60s, Mukařovský stated that the term itself (i.e. structuralism) was not so important; what was crucial was that the principles of the structuralist approach should become part and parcel of research as he believed that it was a generally valid method for analysis and explanation of social and other phenomena (Grygar 2005: 206).

Ongoing Czech discussions since the early 90s, revising and confronting structuralism with parallel isms seem to suggest that Mukařovský’s anticipation was correct, although admitting that some Classical theoretical concepts might need revision and/or further elaboration (cf. e.g. Sládek 2005, Macura – Schmidt 1999). However, they need it not as the result of unavoidable confrontations between structuralism and ‘anti-structuralism’, as Doležel (2005: 14-15) calls the influential and popular poststructuralist branch of criticism (based on substantial ignorance of Czech structuralism as a result of slavica non legitur)16, but rather for their own sake against the background of the general rising tide of epistemological scepticism today.

Taking it from here, we shall now look at the development and make-up of the Czech and Slovak communication models as later applied to the field of translation in general, and translation of works of art in particular (i.e. the model of intercultural literary communication). It is pertinent to note that while it is true that today the social relevance and volume of translated fiction (prose, poetry, drama) may be significantly lower than before, the relevance of the model has not diminished, for two reasons: (1) fiction also includes such prolific genres as films and computer games, folklore – now in relation to interest in oral cultures, etc., (2) modelling of hierarchically more complex structures (processes and products) yields models readily applicable to less complex structures.                                                                                                                                                              
è che sebbene lo strutturalismo sia diventato una tradizione, quest’ultima a sua volta è diventata parte integrante degli strumenti di analisi della scienza del testo slovacca.

In un dibattito sulle prospettive dello strutturalismo alla fine degli anni Sessanta, Mukařovský affermò che il termine in sé (strutturalismo) non era così importante; quello che era essenziale era che i principi dell’approccio strutturalista diventassero parte integrante della ricerca poiché egli credeva fosse un metodo generalmente valido per l’analisi e la spiegazione dei fenomeni sociali e non (Grygar 2005: 206).

Dalle discussioni in corso in Cechia dai primi anni Novanta, dalla revisione e dal confronto dello strutturalismo con gli “ismi” paralleli, si direbbe che l’anticipazione di Mukařovský era corretta, nonostante si debba ammettere che alcuni concetti teorici classici abbiano bisogno di una revisione e/o di un’ulteriore elaborazione (Sládek 2005, Macura – Schmidt 1999).Tuttavia, ne hanno bisogno non in quanto risultato di un confronto inevitabile tra lo strutturalismo e l’«anti-strutturalismo», come Doležel chiama il ramo della critica post-strutturalista influente e diffusa (basato sulla sostanziale ignoranza dello strutturalismo ceco in conseguenza della regola slavica non legitur),16 ma piuttosto per una presa di posizione sullo sfondo di un’odierna marea generale di scetticismo epistemologico crescente.

Riprendendo da qui, guarderemo lo sviluppo e la composizione dei modelli di comunicazione cechi e slovacchi in quanto successivamente applicati al campo della traduzione in generale e alla traduzione delle opere d’arte in particolare (ossia il modello di comunicazione letteraria interculturale). È pertinente notare che mentre è vero che oggi l’importanza sociale e il volume della letteratura artistica tradotta (prosa, poesia, commedia) possono essere significativamente minori rispetto a prima, l’importanza del modello non è diminuita per due ragioni: (1) la letteratura artistica include anche alcuni generi testuali prolifici come i film e i giochi per i computer, il folklore, ora in relazione all’interesse per la cultura orale ecc., (2) la modellizzazione di strutture gerarchicamente più complesse (processi e prodotti) produce modelli prontamente applicabili a strutture meno complesse.

 

While a theoretical model may never be complete as it is a generalized and simplified representation of its object in all its diversified modalities, its analytical counterpart as a tool for empirical research may be (1) extended or modified as a result of new empirical findings heuristically discovered, and/or (2) streamlined in tune with a particular research focus of a particular researcher.

On its general level, the communication model was conceived to cover any human communication/interaction, then specifically in art through artistic signs, i.e. artefacts/texts

(objective structures) and their messages as works of art. In 1948 Mukařovský, having adopted Bühler’s three-function model relating language functions to participants in communication, extended the model by inserting the fourth, aesthetic function pertaining to the message itself:

 

 

Referential/Objects and Situations           

 

 

Aesthetic/Sign

 

 

Expressive/Sender                                   Appeal/Listener

 

Fig. 1. Mukařovský’s funtions in communication


Sebbene il modello teorico non possa essere mai completo in quanto è una rappresentazione generalizzata e semplificata del suo oggetto in tutte le sue modalità diversificate, il suo omologo analitico in quanto strumento per la ricerca empirica può (1) essere esteso o modificato in conseguenza di nuove scoperte empiriche in campo euristico  e/o (2) ottimizzato in accordo con un particolare focus di ricerca di un particolare ricercatore.

Al suo livello generale, il modello di comunicazione era concepito per coprire ogni comunicazione/interazione umana, a quel tempo specialmente nell’arte attraverso i segni artistici, ossia gli artefatti/testi (struttura oggettiva) e i loro messaggi come opere d’arte.

Nel 1948 Mukařovský, dopo aver adottato il modello a tre funzioni di Bühler che mette in relazione le funzioni della lingua con i partecipanti alla comunicazione, ha esteso il modello inserendo la quarta funzione, quella estetica riferita al messaggio stesso:

 

 

     Referenziale/Oggetti e Situazioni           

 

 

Estetica/Segno

 

 

Espressivo/Emittente                         Appello/Ascoltatore

 

Fig. 1. Le funzioni di Mukařovský nella comunicazione.

At a conference in Bloomington in 1958, Jakobson (1960) presented his six functions corresponding to six factors in verbal communication:

    

         Factors                                                                     Functions

 

                Context                                                            Referential/Cognitive

  Sender   Message  Addressee                       Emotive  Poetic  Conative

         Contact                                                            Phatic17

         Code                                                                 Metalinguistic18

 

Fig. 2. Jakobson’s functions in communication

In Mukařovský’s and Jakobson’s terms, a verbal message, produced, transmitted and perceived in the process of communication, and embedded in its socio-cultural context, always carries a dominating function (the dominant19); other functions may be present as accessory or ancillary. The dynamic aspect of function, pointing to the historicity, or sociohistorical embeddedness of verbal messages, implies that one and the same text may acquire different (especially. dominant) functions at different times and in different cultures. This important aspect, thoroughly treated by Mukařovský in his Aesthetic Norm, Function and Value as Social Facts (Czech version 1936/1966), is one of the cornerstone concepts underlying Prague functional dynamism, and sharply distancing it from other, static and ahistoric functionalisms. Mukařovský, concerned with the aesthetic function, explained how one and the same aesthetic object may lose its dominant, i.e. aesthetic, function over time and acquire another dominant function20.


Alla conferenza a Bloomington nel 1958, Jakobson (1960) ha presentato le sue sei funzioni corrispondenti ai sei fattori della comunicazione verbale:

 

Fattori                                                              Funzioni

 

                     Contesto                                                           Referenziale/Cognitiva

  Emittente  Messaggio  Ricevente                    Emotiva  Poetica  Conativa

           Contatto                                                            Fatica17

           Codice                                                               Metalinguistica18

 

Fig. 2. Le funzioni di Jakobson nella comunicazione

Secondo Mukařovský e Jakobson, un messaggio verbale, prodotto, trasmesso e percepito nel processo di comunicazione e racchiuso nel suo contesto socio-culturale, ha sempre una funzione dominante (la dominante19); altre funzioni possono essere presenti come accessorie o ausiliarie. L’aspetto dinamico di Funzione, in riferimento alla storicità o all’integrazione socio-storica del messaggio verbale, implica che il medesimo testo può assumere funzioni differenti (specialmente dominanti) in tempi e culture diverse. Questo aspetto importante, discusso a fondo da Mukařovský nella sua La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali (versione ceca 1936/1966), è uno dei concetti fondamentali alla base del dinamismo funzionale praghese e fortemente separato dagli altri funzionalismi statici e astorici. Mukařovský, in relazione alla funzione estetica, ha spiegato come lo stesso oggetto estetico possa perdere la sua funzione dominante, cioè l’estetica, nel tempo e assumere un’altra funzione dominante20.

 

Applied to translation by Levý and Popovič, this pivotal dynamic concept has become one of the strongest descriptive and explanatory variables underlying the interrelationships between translation method, the product’s structure and its function/s, as well as its socio-cultural embedding.21

The dominant function (and other functions) of a verbal message as a whole, encoded in text structure, is gradually constituted from elements and their interrelationships in the receiver’s mind during the process of perception. On the completion of the reception process, understood as a combination of linear perception and interpretation22 based on the interaction of the sender’s and receiver’s sociolects and idiolects, shared world view, value systems, etc., functions (intended by the sender for the intended receiver), if perceived, turn into values for the receiver. The reception process itself is seen as an incremental operation normally completed when the reader perceives the last element of the text.

From the communicative aspect, the important feature of reception is that the reader is conceived as a ‘learning system’ – every new incremental textual unit perceived is interpreted against the background of the text perceived so far, and, at the same time, the perception and interpretation of the new unit modify the previously perceived part of the message in the reader’s cognition.23 To further bridge the part-and-whole ‘gap’, Mukařovský introduced the concept of the aperception frame; in the light of their (socio-cultural) experience with particular genres, readers, when exposed to a text identified or presented as belonging to a specific sub/genre, anticipate a certain frame of reference to the world, a specific textual/message structure, its typical ‘language’ or style and function, which are activated in memory at the point of encounter. Naturally, when receivers encounter textual structures as wholes or their parts that do not match their aperception frame, as e.g. in a translation – the perception process and its outcome (functions perceived as value)

 

Applicato alla traduzione da Levý e Popovič, questo concetto dinamico e importantissimo è diventato una delle più forti variabili descrittive ed esplicative che stanno alla base delle interrelazioni tra il metodo traduttivo, la struttura del prodotto e la/e sua/e funzione/i, così come la sua integrazione socio-culturale21. La funzione dominante (e le altre funzioni) di un messaggio verbale come insieme, codificato nella struttura testuale, è gradualmente costituita da elementi e dalle loro interrelazioni nella mente del ricevente durante il processo di percezione. Al completamento del processo di ricezione, inteso come una combinazione della percezione e dell’interpretazione lineare22 basata sull’interazione di socioletti e di idioletti del mittente e del ricevente, sulla visione del mondo, i sistemi di valori condivisi ecc. , le funzioni (progettate dall’emittente per il ricevente ipotizzato), se percepite, diventano valori per il ricevente. Il processo di ricezione stesso è visto come un’operazione incrementale completata normalmente quando il lettore percepisce l’ultimo elemento del testo.

Dall’aspetto comunicativo, la caratteristica importate della ricezione è che il lettore è concepito come un “sistema d’apprendimento”: ogni nuova unità testuale incrementale percepita è interpretata sullo sfondo del testo finora percepito e allo stesso tempo, la percezione e l’interpretazione della nuova unità modificano la precedente parte del messaggio percepita nella cognizione del lettore23. Per colmare ulteriormente il “divario” parziale e totale, Mukařovský ha introdotto il concetto di struttura appercettiva; alla luce della loro esperienza (socio-culturale) con particolari generi testuali, i lettori, quando vengono esposti a un testo identificato e presentato come appartenente a un sub/genere specifico, anticipano una certa struttura di riferimento al mondo, una specifica struttura testuale/di messaggio, il suo “linguaggio” o stile tipico e la funzione, che sono attivate nella memoria al momento dell’incontro. Naturalmente, quando i riceventi incontrano delle strutture testuali nel loro insieme o in parti che non corrispodono alla loro struttura appercettiva, come per esempio nella traduzione, il processo percettivo e il suo risultato (le funzioni percepite come valori)

 

are not habitual, but may later become so through further repeated encounters. This mechanism is the underpinning of Levý’s dynamic category of translativity with an explanatory force (cf. below).

Because one and the same artefact (text as objective material) may be perceived at a time (and/or in a culture) distanced from the time of its production, with all the ‘risks’ of different interpretation of the message (work of art), and hence its perceived functions and values, Doležel (2000a), inspired by Levý’s model of communication in translation, introduced the concept of transduction:

 

Author – Message – Receiver1      (transduction in time)

 

 

                           Receiver2    –    Receiver3  (transduction in time and space)

 

Fig.3. Doležel’s transduction in communication.

 

non sono abituali, ma possono successivamente diventare tali attraverso ulteriori incontri ripetuti. Questo meccanismo è il sostegno della categoria dinamica della traduzionalità con una forza esplicativa di Levý (riportato sotto).

Poiché lo stesso artefatto (testo come oggetto materiale) può essere percepito in un tempo (e/o in una cultura) distante dal tempo della sua produzione, con tutti i “rischi” di differenti interpretazioni dello stesso messaggio (opera d’arte) e da qui le sue funzioni e valori percepiti, Doležel (2000a) ispirato dal modello della comunicazione nella traduzione di Levý, ha introdotto il concetto di trasduzione:

 

Autore – Messaggio – Ricevente1    (trasduzione nel tempo)

                                                      

                            Ricevente2 – Ricevente3 (trasduzione nel tempo e nello spazio)

 

Fig. 3. la trasduzione nella comunicazione di Doležel

 

 

 

 


TRANSLATION THEORY

 

From Levý’s and Popovič’s perspective, translation as a message emerges as a result of threefold interpretation: (1) the interpretation of the world by the SLT author, (2) the translator’s interpretation of SLT’s message, and (3) the receiver’s interpretation of the message encoded in TLT. Differences in resulting interpretations, as well as misinterpretations, stem from objective socio-spatial distances conditioning both intersubjective and individual factors. To cater for such differences Popovič (1975) introduced the concept of experiential complex understood as the translator’s and the receiver’s set of internalized, individually acquired life-experience that is used as a background during production and reception processes.

In 1963, constructing the translation model on the lines of information theory, Levý (1963a, in 1971: 36-37) specifies the multiple communication chain as follows:

 

 Author                                        Translator24                                   Reader

Reality    –    Selection      –     Text25   –        Reading        –        Text      –       Reading

                    Stylization           (SLT)              Stylization              (TLT)              Concretization

 

Fig. 4. Levý’s communication chain in translation

Levý (1971: 48) points out that it is the translator’s/receiver’s passive idiolect that exerts influence on SLT interpretation, while, on the other hand, it is the translator’s active idiolect that leaves the imprint on the translated text.

 


Teoria della traduzione

 

Dalla prospettiva di Levý e Popovič, la traduzione come un messaggio emerge come un risultato di una triplice interpretazione: (1) l’interpretazione del mondo da parte dell’autore della cultura emittente, (2) l’interpretazione del traduttore del messaggio della cultura emittente e (3) l’interpretazione del ricevente del messaggio codificato nella cultura ricevente. Le differenze nelle interpretazioni che ne risultano, così come le interpretazioni errate, provengono dalle distanze socio-spaziali obiettive che condizionano sia i fattori intersoggettivi che quelli individuali. Per venire incontro a tali differenze Popovič (1975) ha introdotto il concetto di complesso esperienziale inteso come l’insieme delle esperienze di vita interiorizzate e acquisite individualmente del traduttore e del ricevente, che viene usato come sfondo durante il processo di produzione e ricezione.

Nel 1963, realizzando il modello di traduzione sulla base della teoria d’informazione, Levý (1963a, in 1971: 36-37) specifica la catena di comunicazione multipla come segue:

 

Autore                                        Traduttore24                                   Lettore

Realtà –  Selezione      –     Testo25   –         Lettura        –        Testo       –      Lettura

      Stilizzazione (cultura emittente) Stilizzazione  (cultura ricevente)  Concretizzazione

 

Fig. 4. la catena di comunicazione nella traduzione di Levý

 

Levý (1971: 48) fa notare che è l’idioletto passivo del traduttore/ricevente che esercita un’influenza sull’interpretazione della cultura emittente, mentre dall’altra parte è l’idioletto attivo del traduttore che lascia un’impronta sul testo tradotto.

 

Therefore translation can be viewed as a result of SLT values that were perceived by the translators’ passive idiolect, in combination with their active idiolect through which they articulated the values perceived from the SLT. At this point Levý, having carried out some experiments, formulates his hypotheses about translation universals (although he only speaks of assumed general tendencies) – those of stylistic levelling and generalization, as well as the translator’s tendency to overtranslation in terms of a tendency to highlight the SLT stylistic features assumed as being SLT- typical. In 1965 Levý (1971: 149n) observed explicitation in terms of additional surface syntactic structures, linking it with the psychological process of interpretation (SLT reception) and subsequent communication (TLT production). These tendencies were later incorporated into the conceptual category of shifts by Popovič (1975) and subcategorized (a) into constitutive, objectively or intersubjectively motivated shifts on the one hand, and individual, subjectively motivated shifts on the other; and (b) into resulting macrolevel and microlevel changes in expression.26

Obviously, the Czech understanding of translation equivalence was quite different from what was considered to have been the concept of the 60s – 70s in the West or in linguistic translation theories in the USSR and the GDR. But unfortunately, apart from Levý’s German version (1969) of his Art of Translation, the insight into the Czech theory of translation was confined to a mere handful of brief studies accessible in English, of which an even smaller number enjoyed wider circulation in TS. These include, first of all, Jakobson’s On Linguistic Aspects of Translation (1959) which, however, lacks the dynamic dimension and concentrates on the linguistic aspect of translatability from the functional perspective, hence the wrongly interpreted meme of ‘equivalence in difference’. The second well-known article is Jakobson’s Closing Statement presented at an interdisciplinary conference at the University of Indiana, Bloomington in 1958 and published under the title

 

 

Perciò la traduzione può essere vista come il risultato dei valori della cultura emittente che viene percepito dall’idioletto passivo dei traduttori, in combinazione con il loro idioletto attivo attraverso il quale hanno articolato i valori percepiti dalla cultura emittente. A questo punto Levý, dopo aver condotto alcuni esperimenti, formula le sue ipotesi sugli universali della traduzione (sebbene parli solo di presunte tendenze generali), quelle del livellamento stilistico e della generalizzazione, così come la tendenza del traduttore all’ipertraduzione in relazione alla tendenza di evidenziare le caratteristiche stilistiche della cultura emittente come se fossero tipiche della cultura emittente. Nel 1965 Levý (1971: 149n) ha osservato l’ esplicitazione in termini di strutture sintattiche superficiali aggiuntive, collegandolo con il processo psicologico di interpretazione (ricezione della cultura emittente) e con la conseguente comunicazione (produzione nella cultura ricevente). Queste tendenze sono state successivamente incorporate nella categoria concettuale dei cambiamenti traduttivi di Popovič (1975) e subacategorizzate (a) nei cambiamenti constitutivi, obiettivamente e intersoggettivamente motivate da un lato e individuali, soggettivamente motivate dall’altro; e (b) nei cambiamenti che determinano cambiamenti espressivi di macro livello e micro livello.26  

Ovviamente, la concezione ceca dell’equivalenza traduttiva era molto diversa da quello che si considera fosse il concetto degli anni Sessanta e Settanta in occidente o nelle teorie linguistiche della traduzione nell’Unione sovietica e nella Repubblica Democratica Tedesca. Ma sfortunatamente, eccezion fatta per la versione tedesca dell’arte della traduzione di Levý (1969) la comprensione della teoria ceca della traduzione era limitata a una mera manciata di brevi studi accessibili in inglese, di cui soltanto un numero ancora minore godeva di una più ampia circolazione nella scienza della traduzione. Si tratta prima di tutto di Gli aspetti linguistici della traduzione (1959) di Jakobson che tuttavia, non possiede la dimensione dinamica e si concentra sugli aspetti linguistici della traducibilità dalla prospettiva funzionale, da qui il meme erroneamente interpretato dell’“equivalenza nella differenza”. Il secondo articolo famoso è il Closing Statement di Jakobson presentato a una conferenza interdisciplinare alla Indiana University Bloomington nel 1958 e pubblicato con il titolo Linguistics and Poetics (1960), where he briefly presented his six communicative functions related to the communication model. Levý’s widely circulated Translation as a Decision Process (1967), presented at a 1966 conference in Moscow, and the less widely circulated Will Theory of Translation be of Use to Translators (1965) represent Levý as the author of the pragmatic minimax principle in translation, conceptualizing the translation decision process as a game – a series of interdependent cognitive processes under specific constraints, and empirically establishing the above mentioned procedural tendencies that later became known as translation universals.

In fact, what counts as equivalence is the reproduction in translation of the (communicatively relevant) functions of dominant SLT message elements (on different hierarchical structural levels, but understood semantically as meaning constituted by both form and content27) contributing to the realization of the intended dominant function of the TLT message as a whole. This can be achieved by substituting dominant SLT elements with TLT elements of a similar value (i.e. corresponding in function, and not necessarily in form and/or content) for the target receiver. Should the potential of the intended function of the whole message remain the same or rather similar, such a translation as a whole was considered to be an adequate translation. In other words, this meant that the semantic invariant core (Popovič 1975: 79n) of the original, now representing the intertextual invariant, was to a degree transferred through the functional substitution of the linguistic material on the textual level under specific socio-cultural conditions, while the remaining part of the translation’s semantics28  represented the variant conceived of as the result of translation shifts. While Levý (1969/1983: 23) outlined a structural taxonomy positing (a) elements that (should) remain invariable and (b) elements that are variable, i. e. substituted with TL equivalents, Popovič (1975) seeks an analytical-descriptive tool in Miko’s stylistic taxonomy in combination with shifts.

 

Linguistics and Poetics (1960), dove presenta brevemente le sei funzioni comunicative collegate al modello della comunicazione. L’opera di ampia circolazione di Levý La traduzione come processo decisionale (1967) presentato a una conferenza a Mosca nel 1966 e il meno conosciuto Will translation theories be of use to translators? (1965), rappresentano Levý come un autore del principio pragmatico minimax nella traduzione, concettualizzando il processo decisionale della traduzione come gioco: una serie di processi cognitivi interdipendenti sotto obblighi specifici, e istituendo empiricamente le tendenze procedurali sopracitate che successivamente saranno conosciute come gli universali della traduzione.

In effetti, ciò che conta come equivalenza è la riproduzione nella traduzione delle funzioni (comunicativamente rilevanti) degli elementi dominanti del messaggio della cultura emittente (a differenti livelli gerarchici strutturali, ma intesi semanticamente come significati costituiti sia dalla forma che dal contenuto)27 che contribuiscono alla realizzazione della funzione dominante voluta del messaggio della cultura ricevente nell’insieme. Questo può essere ottenuto sostituendo elementi della cultura emittente dominanti con elementi della cultura ricevente di un valore simile (ossia corrispondente nella funzione e non necessariamente nella forma e/o nel contenuto) per il destinatario della cultura ricevente. Se il potenziale della funzione voluta dell’intero messaggio dovesse rimanere uguale o, piuttosto, simile, questo tipo di traduzione come insieme veniva considerata una traduzione adeguata. In altre parole, questo significava che il nucleo invariante semantico (Popovič 1975: 79n) dell’originale, ora rappresentante l’invariante intertestuale, è stato spostato in una certa misura attraverso la sostituzione funzionale del materiale linguistico al livello testuale a specifiche condizioni socio-culturali, mentre la parte rimanente della traduzione semantica28 rappresentava la variante concepita come il risultato di cambiamenti traduttivi. Mentre Levý (1969/1983: 23) delineò una tassonomia strutturale ipotizzando (a) elementi che rimangono (dovrebbero rimanere) invariabili e (b) elementi variabili, ossia sostituiti con equivalenti della cultura ricevente, Popovič cerca uno strumento analitico-descrittivo nella tassonomia stilistica di Miko in combinazione con questi cambiamenti.

 

Consequently, Levý (1963/1983) and Popovič (1975) point out a series of other more or less dominant functions that translations may have and in fact had throughout history in the TLC, unlike the SLT in its culture (see below), including a complete change of the dominant function, and they point out that the position of translation within the receiving culture is different from the position of the original text/message in its culture. What is more, they point out that concepts such as translation and equivalence are socio-historical ones, dependent on world view, ideology and philosophy of a particular culture in a particular period29, which are reflected in a particular translation method and its underlying translation norm (cf. e.g. medieval vs. classicist vs. romanticist translation vs. modernist translation), and also derive from other interdependencies such as TLC aesthetics, literature, function of translation, the translator’s individuality, etc. as well as from heteronomous factors. They also posit the empirically derived fact that competing and different norms may coexist in the same period even for one and the same genre.

Therefore, especially important epistemological, dialectic categories for delimiting the concept and method of translation are those of noetic30 compatibility (Levý 1983), noetic subject/objectivism (Levý 1957/1996) and translativity (Levý 1963, Popovič 1975). They are both descriptive and explanatory categories whose introduction is intended to eliminate the static metaphors of faithful and free translation (i.e. a translation reading/not reading like an/the original, foreignizing or domesticating translation etc.), bringing in dynamic social and phenomenological, essentially anti-essentialistic aspects, while at the same time not conceding the validity of the extreme end of subject/individualism and extreme epistemological relativism.

Noetic compatibility brings in the distinction between illusionist31 and anti-illusionist translation/method/translator as two extreme poles on a scale; readers of illusionist translations, relying on an ‘agreement’ that the translation has preserved the SLT qualities and perceiving no traces of the mediator, believe they are reading e.g. Madame Bovary.

Di conseguenza Levý (1963/1983) e Popovič (1975) mostrano una serie di altre funzioni più o meno dominanti che la traduzione può avere e che in effetti ha avuto da sempre nella storia della cultura ricevente, diversamente dalla cultura emittente (vedi di seguito), tra cui un cambiamento completo della funzione dominante, e mostrano che la posizione della traduzione all’interno della cultura ricevente è diversa dalla posizione del testo/messaggio originale nella sua cultura. Per di più mostrano che concetti come traduzione ed equivalenza sono concetti socio-storici, che dipendono dalla visione del mondo, dall’ideologia e dalla filosofia di una particolare cultura in un particolare periodo,29 che vengono riflessi in un particolare metodo traduttivo e le sue norme di traduzione implicite (ad esempio traduzione medievale versus classicista versus romantica versus modernista) e inoltre derivano da altre interdipendenze quali l’estetica della cultura ricevente, la letteratura, la funzione della traduzione, l’individualità del traduttore ecc. così come da fattori eteronomi. Inoltre postulano il fatto derivato empiricamente che norme differenti e non compatibili possono coesistere nello stesso periodo anche per lo stesso genere testuale.

Perciò categorie epistemologiche e dialettiche particolarmente importanti per delimitare il concetto e il metodo traduttivo sono quelle della compatibilità noetica30 (Levý 1983) del soggettivismo/oggettivismo noetico (Levý 1957/1996) e della traduzionalità (Levý 1963, Popovič 1975). Sono categorie sia descrittive che esplicative la cui introduzione serve a eliminare le metafore statiche della traduzione fedele e libera (ossia una traduzione che sembra/non sembra un/l’originale, una traduzione addomesticante o estraniante ecc.), introducendo aspetti dinamici sociali e fenomenologici, essenzialmente anti-essenzialistici mentre allo stesso tempo non viene concessa la validità dell’estrema fine del soggettivismo/individualismo e l’estremo relativismo epistemologico.

La compatibilità noetica porta alla distinzione tra traduzione/metodo/traduttore illusionista31 e anti-illusionista come i due poli estremi su una scala; i lettori delle traduzioni illusioniste, facendo affidamento su un “accordo” secondo cui la traduzione ha preservato le qualità della cultura emittente e non percependo tracce del mediatore, credono di leggere per esempio Madame Bovary.
 Should the translator step out from behind the scene by an unintended stumble, by exoticization, notes etc., recognized by the receiver, the illusion is dispelled. This category, linking the translator with the receiver, co-relates with the remaining two categories.

Noetic subjectivism as an ideological basis makes cultures concentrate on the ‘self’, and their translations, paradoxically, tend to retain the SLT specific and individual, alien, features (producing the traditionally termed ‘faithful’ translation), while under ideological objectivism translations tend to generalize or suppress such foreign features, highlighting those shared by the two or more cultures, or even substituting foreign elements for domestic ones (‘free’ translation). Concrete positions on the general subject-objectivism scale historically depend on translation functions related to specific TLC needs, as Levý (1957, 1996: 235) observed in the development of Czech translation methods between the Middle Ages and the 1930s, concluding that in Czech culture translation played a more significant role in the development of domestic literature than in Western cultures, and, in addition, functioned as a tool in the struggle for national survival. It goes without saying that both functions and needs are epistemologically bound up with human activity, which is the conditio sine qua non.

The translativity scale as a dynamic socio-semiotic category was introduced by Levý and developed by Popovič. Translativity, linking the SLT author and the TLT receiver, represents the salience of translation with foreign (alien) elements in form and/or content as perceived by the receiver. This is very important for at least four reasons: first the salience depends directly not on the translator’s method but on the distance between the SLT author (deriving from the temporal and spatial distance between cultures and languages as projected in the artefact32) and the receiver’s experience, i.e. the latter’s experiential complex. Because repeatability or repeated exposition arouse expectations, non-markedness and assimilation at the receiver’s end, it is a fairly dynamic and inter/subjective category related to the receiver’s

 

Se il traduttore dovesse uscire da dietro le quinte con un errore involontario, con un esotismo, con una nota ecc. facendosi riconoscere dal ricevente, l’illusione verrebbe dissipata. Questa categoria, che collega il traduttore con il ricevente, è in correlazione con le due categorie rimanenti.

Il soggettivismo noetico in quanto base ideologica fa concentrare le culture sul ”sé” e le loro traduzioni, paradossalmente tendono a conservare le caratteristiche estranee, specifiche e individuali della cultura emittente (producendo la traduzione tradizionalmente chiamata “fedele”) mentre con l’oggettivismo ideologico, le traduzioni tendono a generalizzare o soffocare questo tipo di caratteristiche estranee evidenziando quelle condivise da una o più culture, o addirittura sostituendo elementi estranei con elementi appartenenti alla propria cultura (traduzione “libera”). La posizione concreta riguardo alla scala generale del soggettivismo-oggettivismo dipende storicamente dalle funzioni traduttive correlate a specifici bisogni della cultura ricevente, come ha osservato Levý (1957-1996: 235) nello sviluppo dei metodi traduttivi cechi tra il medioevo e gli anni Trenta, giungendo alla conclusione che nella cultura ceca la traduzione ha un ruolo più significativo nello sviluppo della letteratura nazionale rispetto alle culture occidentali e inoltre è servito come strumento nella lotta per la sopravvivenza nazionale. Non serve neanche dire che sia le funzioni che i bisogni sono epistemologicamente legati all’attività umana, che è la conditio sine qua non.

La scala di traduzionalità come categoria dinamica socio-semiotica è stata introdotta da Levý e sviluppata da Popovič. La traduzionalità, collegando l’autore della cultura emittente e il destinatario della cultura ricevente, rappresenta la prominenza della traduzione con elementi stranieri (estranei) nella forma e/o contenuto percepita dal ricevente. Questo è molto importante per almeno quattro ragioni: primo la prominenza non deriva direttamente dal metodo del traduttore, ma dalla distanza tra l’autore della cultura emittente  (derivante da una distanza temporale e spaziale tra le culture e le lingue proiettate nell’artefatto32) e l’esperienza del ricevente, ossia il complesso esperienziale di quest’ultimo. Dato che la ripetibilità o l’esposizione ripetuta suscitano aspettative, la non marcatezza e l’assimilazione dalla parte del ricevente,

 

experiential complex, explaining why for some receivers in the same receiving culture and even at the same time, the perceived salience of the foreign may be different.

Second, it explains the process of appropriation as well as the dynamics of anti/illusionism in terms of their relation to the intended group of individuals as intended readers of the translation. Third, the receiving culture (as a collective entity or some part of it) may ascribe different values to translativity: + (positive), 0 (irrelevant) or – (negative), due to the general position on the subject-objectivism scale, its relationship to the SLC, etc. If the value is positive, translativity33 tends to be more salient (i.e. the method of exoticizing or creolizing translation is prominent) and original works may tend to be presented as translations (i.e. pseudotranslations). If the value is negative, translations tend to look like and be presented as non-translations (i.e. the overall method ranges from neutralizing to naturalizing). Fourth, in relation to the subject/objective category it explains that some foreign elements in translation may go unnoticed and get lost because the reader will not recognize them, as e.g. some foreign metres in poetry or allusions, etc. However, the reader may become sensitized to some qualities after repeated exposure to them. Last but not least the salience with alien elements may (temporarily) enhance entropy of the message with its consequences for efficiency34. This brings us further to the translator’s strategies.

Levý (1965) assumes that real translation is based on the intuitive minimax strategy, linked with the nature of human behaviour and the translator’s memory retrieval, rather than on the strategy of producing an ideal or optimal translation. The translator’s ‘pivot’ is the potential receiver through which the message and its functions can be realized. Therefore during the translation process, understood as the generation of a new, SLT derived, message carried by a new textual structure executed in different language material, the translator takes such decisions in the selection

 

è una categoria piuttosto dinamica e inter/soggettiva collegata al complesso esperienziale del ricevente, il che spiega perché per alcuni riceventi  nella stessa cultura ricevente e persino nello stesso periodo di tempo, la prominenza percepita dell’elemento estraneo può essere diversa.

Secondo, spiega il processo di appropriazione così come le dinamiche dell’anti/illusionismo per quanto riguarda la loro relazione con il gruppo designato di individui intesi come lettori della traduzione. Terzo, la cultura ricevente (come entità collettiva o alcune parti di essa) può attribuire valori diversi alla traduzionalità: + (positivo), O (irrilevante), o – (negativo), a causa della posizione generale sulla scala del soggettivismo/oggettivismo, la sua relazione con la cultura emittente ecc. Se il valore è positivo, la traduzionalità33 tende ad essere più prominente (ossia il metodo di traduzione esotizzante o creolizzante è prominente) e le opere originali tendono ad essere presentate come traduzioni (ossia pseudo-traduzioni). Se il valore è negativo, le traduzioni tendono ad sembrare e ad essere presentate come non-traduzioni (cioè il metodo globale spazia dalla neutralizzazione alla naturalizzazione). Quarto, in relazione alla categoria soggettiva/oggettiva spiega che alcuni elementi estranei nella traduzione possono passare inosservati e andare persi perché il lettore non li riconosce, come per esempio alcuni metri sconosciuti nella poesia o alcune allusioni ecc. Tuttavia il lettore può sensibilizzarsi ad alcune qualità con un’esposizione ripetuta. Ultimo ma non meno importante, la prominenza con elementi estranei può (temporaneamente) accrescere l’entropia del messaggio con le sue conseguenze sull’efficienza.34 Questo ci porta ancora alle strategie del traduttore.

Levý (1965) ritiene che la traduzione reale sia basata sulla strategia minimax intuitiva, collegata con la natura del comportamento umano e al reperimento di ricordi nella memoria del traduttore, piuttosto che su una strategia di produzione di una traduzione ideale o ottimale. Il “perno” del traduttore è il ricevente potenziale attraverso il quale possono essere realizzati il messaggio e le sue funzioni. Perciò durante il processo traduttivo, inteso come la generazione di un nuovo messaggio, derivato dalla cultura emittente, che portato da una nuova struttura testuale eseguita in diversi materiali di linguaggio, il traduttore prende alcune decisioni nella selezione

process as account for the estimated potential reaction of the receivers in their historical context so that to grant functionality in terms of the receivers’ values (cf. Levý’s generative model in this volume).

Popovič (1975) takes a step in another direction in his sociology of translation (a subcategory of praxeology) by postulating a typology of translations35 that deviate from the theoretical, processual and resulting ideal due to various contextual reasons. For Levý and Popovič this is the pragmatic and axiological dimension of their socio-semiotic communication model.

The receiver is an entity uniting the social (or collective) and the individual, and it is precisely the social aspect of cognition that constitutes the common ground in communication based on intersubjectively shared cultural codes, experience and hence derived expectations. Codes are generated by and constituted via previous social practices as models based on norms; while serving as models for behaviour they undergo changes during the process of human activity due to intended and/or unintended agency. For Mukařovský and Levý, the literary code, interpreted in semiotic terms as literary language, was most susceptible to change since, in general terms, a work of art with socially attributed artistic value involves the innovation of the current code (i.e. a specific structural model for a specific sub/genre) in parole, which in turn is the result of individual, socialized and creative agency. One of several problems in translation that are solved by translators may therefore be a situation where SLT structure is derived from a code already obsolete in TLC while at the same time the translation’s dominant function is intended to remain aesthetic, that is to have the potential of producing some aesthetic effect. And, vice versa, the SLT’s code may be well ahead of that of TLC (Levý 1998: 111). A parallel problem, among others, is e.g. the transfer of individual style based on innovation, i.e. its differentiating value against the background of the domestic code.

 

del processo che rappresentino la reazione potenziale stimata dei riceventi nel loro contesto sociale così che sia garantita la funzionalità per quanto riguarda i valori dei riceventi (vedi il modello generativo di Levý in questo volume).

Popovič (1975) si sposta in un’altra direzione con la sua sociologia della traduzione (una subcategoria della prasseologia) postulando una tipologia di traduzione35 che devia dall’ideale teorico, processuale e risultante a causa di varie ragioni contestuali. Per Levý e Popovič questa è la dimensione pragmatica e assiologica per il loro modello di comunicazione socio-semiotica.

Il ricevente è un’entità che riunisce il sociale (o collettivo) e l’individuale, ed è precisamente l’aspetto sociale della cognizione che costituisce il terreno comune nella comunicazione basato su codici culturali intersoggettivamente condivisi, esperienze e da qui le aspettative che ne derivano. I codici sono generati e costituiti attraverso precedenti pratiche sociali come modelli basati sulle norme; mentre servono da modelli per il comportamento, subiscono dei cambiamenti durante il processo dell’attività umana a causa di un’azione intenzionale e/o non intenzionale. Per Mukařovský e Levý il codice letterario interpretato in termini semiotici come linguaggio letterario, era più incline al cambiamento poiché, in termini generali, un opera d’arte con valori artistici attribuiti socialmente implica l’innovazione del codice corrente (ossia uno specifico modello strutturale per un sotto/genere specifico) nel discorso, che a sua volta è il risultato di un’azione individuale, socializzata e creativa. Uno dei tanti problemi traduttivi che sono stati risolti dai traduttori può perciò essere una situazione in cui la struttura del testo emittente è derivata da un codice già obsoleto nella cultura ricevente mentre allo stesso tempo la funzione dominante della traduzione è fatta per rimanere estetica, ossia per avere il potenziale per produrre alcuni effetti estetici. E viceversa il codice del testo emittente può essere più avanzato rispetto a quello della cultura ricevente (Levý 1998: 111). Un problema parallelo, tra gli altri è per esempio il trasferimento dello stile individuale basato sull’innovazione, ossia il suo valore differenziante sullo sfondo di un codice nazionale.

 

This is the point to introduce Levý’s concept of norm in translation. In general Levý (1963 and 1971: 103n) conceives norms as a historical category, as hierarchically structured systems that consist of instructions for selection from the paradigm of alternatives during the decision process, i.e. of requirements or rules, proposing to call them normemes as elements of norms, be it language or content. These elements are either accepted, or refused, or they may not be present in the current norm36: it is the constellation of these normemes that constitutes a partial norm; partial norms, in turn, may combine into higher-order norms. Levý’s (1971: 105) conception is exemplified by aesthetic norms of Classicism and Romanticism, as well as by the development of aesthetic norms in translation and in theatre from the Middle Ages to the end of the 19th century (cf. Levý’s article in this volume). It is the historically and socially constituted norms, past and contemporary, that run behind translation methods, hand in hand with translations’ prospective functions, most prominently related to the past and contemporary domestic literary norms; in turn, literary norms relate to the higher-order aesthetic norm. Human collective or individual agency comes in as a factor aiming at the prospective function in terms of a receiver’s value/s, and on the other hand, depending on the author’s or translator’s abilities, poetics, motives, values and positions that are subject to change during their lifespan37. As in the case of some other Czech structuralist concepts, the familiar category of centre vs its periphery is also applied to norms. On the basis of his empirical data Levý assumes that valid translation norms do not change through their simple negation but rather through their relaxation (cf. Levý in this volume). And again, it is of course agents’ activities and their products through which changes in norms are effected, while at the same time modifying the agents, i.e. both producers and consumers. Thanks to the hierarchical, open-systems theory, norm development in general, making allowance for the efficacy of heteronomous factors and structural elements, is not relegated to immanentism.

 

Questo è il momento di introdurre il concetto di  Levý di «norma» nella traduzione. In generale Levý (1963 e 1971: 103n) concepisce le norme come categoria storica, un sistema strutturato gerarchicamente che consiste nell’istruzione per la selezione dal paradigma delle alternative durante il processo decisionale, ossia dei requisiti o delle regole che egli propone di chiamare normemi in quanto elementi di norme, che siano esse lingua o contenuto. Questi elementi sono o accettati o rifiutati, o possono non essere presenti nelle norme attuali36: è la gamma di questi normemi che costituisce una norma parziale; le norme parziali a loro volta possono unirsi formando norme di ordine superiore.  La concezione di Levý (1971: 105) è esemplificata dalle norme estetiche del classicismo e del romanticismo, così come dallo sviluppo delle norme estetiche nella traduzione e nel teatro dal medioevo alla fine dell’Ottocento (vedi l’articolo di Levý in questo volume). Sono le norme, passate e contemporanee, costituite storicamente e socialmente che inseguono i metodi traduttivi, mano nella mano con le potenziali funzioni della traduzione, collegate in modo molto prominente alle norme testuali nazionali passate e presenti; a loro volta le norme letterarie sono in collegamento con norme estetiche di ordine più elevato. L’azione collettiva o individuale umana interviene come fattore che mira alla funzione potenziale per quanto riguarda i/il valore/i del ricevente e dall’altro lato dipende dall’abilità, dalla poetica, dai motivi, dai valori e dalle posizioni dell’autore o traduttore, che sono soggette a cambiamento durante il corso della loro vita37. Come nel caso di alcuni altri concetti strutturalisti cechi, anche la categoria familiare del centro versus  periferia viene applicata alle norme. Sulla base dei suoi dati empirici, Levý suppone che norme traduttive valide non cambiano attraverso la loro semplice negazione ma piuttosto attraverso il loro rilassamento (vedi Levý in questo volume). E ancora, i cambiamenti delle norme vengono certamente determinati attraverso le attività degli agenti e i loro prodotti, e allo stesso tempo vengono modificati gli agenti, cioè sia i produttori che i consumatori. Grazie alla teoria gerarchica dei sistemi aperti, lo sviluppo delle norme in generale, tenendo conto dell’efficacia dei fattori eteronomi e degli elementi strutturali, non è relegato all’immanentismo.

 

Levý’s dual norm in translation is in itself deliberately normative in that it postulates an ideal and at the same time a historically-bound illusionist type of literary translation.

The aim of the ideal translator’s activity is to render or convey the original work of art, that is to reproduce it as a work of art through one’s own creative activity (Levý 1998: 84) for the ideal reader. Levý is here concerned with the articulation of norms – a tool that might be used in contemporary Czech translation criticism for establishing translation value, derived from the relationship between a translation and pertinent TLC artistic norm/s. Thus the translation process involves two norms: the reproduction norm (requirement of fidelity, likeness; semantic or noetic value) and the artistic norm (requirement of elegance; aesthetic value). In both cases the translator faces the problem of conflicting SLT and TLT norms, in combination with the author’s individual style. “Beauty and fidelity are often counterposed, as if they were mutually exclusive. They may be mutually exclusive only when beauty is understood as prettiness, and truthfulness as literalness.” (Levý 1998: 93; transl. Z.J.). This is how the original object is reproduced, re-created and modified in the process.

For Levý, the resulting translation is a hybrid entity (the content derives from SLC, the language belongs to TLC), where its quality is directly proportional to the translators’ in/ability to resolve or reconcile the above contradictions by consistently applying a certain pre/conception of the translation (if there is one), that is an overall, uniform approach to the particular SLT during the translation process, which is closely related to the translation norm, the translator’s ideology or policy, and the resultant translation method; these in turn relate to the prospective function/s of translation stemming from cultural needs at a particular time, aiming at the receiver’s reception.

However, this straightforward relationship fits precisely the category of an ideal ‘classical, normative translation’, that is a model translation that would be appropriate

 

La duplice norma della traduzione di Levý è deliberatamente normativa in quanto postula un tipo illusionistico di traduzione artistica che è allo stesso tempo ideale e storico. L’obiettivo dell’attività del traduttore ideale è quello di esprimere o trasmettere l’opera d’arte originale, ossia riprodurla come opera d’arte attraverso la propria attività creativa (Levý 1998: 84) per il lettore ideale. Qui Levý si è occupato dell’articolazione delle norme, uno strumento che potrebbe essere usato nella critica della traduzione ceca contemporanea per stabilire il valore della traduzione, derivato dalla relazione tra una traduzione e la/e norma/e artistiche pertinenti della cultura ricevente. In questo modo il processo traduttivo coinvolge due norme: la norma di riproduzione (requisito di fedeltà, somiglianza; valore semantico o noetico) e la norma artistica (requisito di eleganza; valore estetico). In entrambi i casi il traduttore affronta i problemi conflittuali tra le norme della cultura emittente e quelle della cultura ricevente, in combinazione con lo stile individuale dell’autore. “La bellezza e la fedeltà sono spesso contrapposte, come se una escludesse l’altra. Potrebbero essere reciprocamente esclusive solo se la bellezza fosse intesa come eleganza, e la  veridicità come letteralità” (Levý 1998: 93). In questo modo l’oggetto originale viene riprodotto, ricreato e modificato nel processo.

Per Levý la traduzione che ne risulta è un’entità ibrida (il contenuto appartiene alla cultura emittente mentre la lingua alla cultura ricevente), in cui le sue qualità sono direttamente proporzionali all’abilità/incapacità del traduttore di risolvere o conciliare le contraddizioni precedentemente espresse tramite l’applicazione di una certa pre/concezione della traduzione (se ve n’è una) che è un approccio complessivo e uniforme al particolare testo d’origine durante il processo traduttivo, che è strettamente collegato alla norma traduttiva, all’ideologia o alla politica del traduttore e al metodo traduttivo che ne risulta; queste a loro volta si collegano alla/e futura/e funzione/i traduttiva/e derivanti dalle necessità culturali in un particolare periodo di tempo e che puntano alla ricezione.

Tuttavia, questa relazione diretta si adatta precisamente alla categoria di una “traduzione classica e normativa” ideale, ossia il modello traduttivo che sarebbe

in code and interpretation for a particular period and culture (Levý 1998: 102-104). Although Levý derived the dual norm from the modern Czech translation method and although he and Popovič (1975) see the past and present reality of translations as an array of standard-tosubstandard translations, with standard or normal translations reciprocating more or less the period normative ideal, the category of dual norm in literary translation can serve as an analytical tool because it relates to both the intended functions of translation from the prospective aspect and the transferred message from the retrospective one. This is because translation involves languages, discourses (their interrelated form and content endowed with aesthetic function) and their resulting values, pertaining to people (Levý 1963: 24). It is also for this reason that in 1967 Levý (1983: 31) qualifies contemporary linguistic theories of translation as reductive, i.e. reducing the issue of translation to the contact of two languages, or text types in general at best, while ignoring the translator’s participant role in the translation process and in the resulting structure of the translated work of art, i.e. in the two fundamental aspects38 of (literary) translation theory.

The question remains whether the dual norm can be conceptualized on a general level. Probably yes, because reproduction is bound to the historically conceptualized translation while the translation’s aesthetics at the receiving end is relevant for the translation to be perceived and regarded as a literary text in its TLC; but these relationships are not so straightforward.

There were numerous functions translation was intended to perform or performed through history. Deriving two of them from the concept of the dual norm, Levý, besides the aesthetic function pertaining to literary translation, points out the representation of the SLT enhanced by a noetic added value – that is information about the SLT and its culture.

 

appropriato nel codice e nell’interpretazione di un particolare periodo e cultura (Levý 1998: 102-104). Sebbene Levý faccia derivare la duplice norma dal metodo moderno di traduzione ceca e sebbene lui e Popovič (1975) vedano la realtà passata e presente della traduzione come un assortimento di traduzioni che vanno dallo standard al substandard, in cui le traduzioni standard o normali ricambiano più o meno il periodo normativo ideale, la categoria della duplice norma nella traduzione artistica può servire da strumento analitico perché si riferisce sia alle funzioni traduttive intese dal punto di vista potenziale sia al messaggio trasferito dal punto di vista retrospettivo. Questo è perché la traduzione coinvolge lingue, discorsi (la loro forma interrelata e il loro contenuto dotato di funzioni estetiche) e i valori che ne risultano che si riferiscono alle persone (Levý 1963: 24). E’ anche per questa ragione che nel 1967 Levý (1983: 31) definisce riduttive le teorie traduttive della linguistica contemporanea, ossia riducono la questione della traduzione al contatto tra due lingue, o nel migliore dei casi a tipi due di testo in generale, ignorando il ruolo della partecipazione del traduttore all’interno del processo traduttivo e nella struttura dell’opera d’arte tradotta che ne risulta,  ossia nei due aspetti fondamentali38 della teoria della traduzione (artistica).

Resta il problema se la duplice norma può essere concettualizzata ad un livello generale. Probabilmente si, perché la riproduzione è legata alla traduzione concettualizzata storicamente mentre l’estetica della traduzione dal punto di vista della ricezione per la traduzione è importante essere percepita e considerata un testo letterario nella cultura ricevente; ma queste relazioni non sono dirette.

Nel corso della storia sono state numerose funzioni che la traduzione avrebbe dovuto eseguire o ha eseguito. Derivando due di queste funzioni dal concetto della duplice norma,  Levý, oltre alla funzione estetica di pertinenza della traduzione artistica, mette in evidenza la rappresentazione della cultura emittente incrementata dal valore noetico aggiunto – ossia le informazioni sul testo d’origine e la sua cultura.

 

Exoticizing translation (Popovič’s concept), conveying the local colour, may, under certain conditions, transform such information into a semiotic aesthetic value of translativity, but its salience in translation is not only norm dependent, as it also depends on the expected readers’ knowledge, their familiarity with the foreign culture and its artistic genres, i.e. on readers’ (literary) education and taste. Informative translation may also be perceived as a text with dominating aesthetic function thanks to the emotional component in an ideological translation conforming to the receiver’s ideology, social values and desires (Levý 1996: 50). This category of prototypical functions is normally called communicative function/s in functionalist theories. Levý and Popovič call it imminent communicative function/s or value/s to distinguish it from the following developmental ones, isolated from empirical research.

The second category of functions relates to the interaction between the domestic genresystem and the translated genre-system. Translated literature (or a part of it, even an individual author or a particular translation) in a particular period, may or may not un/intentionally influence the domestic system in either positive or negative ways; the effect may be temporary or lasting.

The third category of functions consists in the exchange of cultural assets in a wider sense: translation exerts a genre-differentiating function for domestic literature, and a unifying function in world literature.

Informative function usually increases with the growing distance of the two cultures in contact through translation, but again this is a category dependent on the reader’s presuppositions on the one hand, and on the other – whether the situation should or should not require the translator to un/intentionally contribute to the convergence or divergence of the two cultures in contact – which represents the fourth category of functions39.

Such a range of hierarchical functions had no counterpart in western conceptualizations of translation in Levý’s time.

 

Le traduzioni esotizzanti (il concetto di Popovič) comunicando il colorito locale, possono, stando a certe condizioni, trasformare tali informazioni nel valore estetico semiotico della traduzionalità, ma la prominenza nella traduzione non dipende soltanto dalle norme, in quanto dipende anche dalla conoscenza dei presunti lettori, la loro familiarità con la cultura straniera e i suoi generi artistici, ossia dall’istruzione (artistica) e dal gusto dei lettori. La traduzione informativa può anche essere percepita come un testo con una funzione estetica dominante grazie  alla componente emotiva di una traduzione ideologica che si conforma  all’ideologia, ai valori sociali e ai desideri del ricevente (Levý1996: 50). Questa categoria di funzioni prototipiche viene normalmente chiamata funzione/i comunicativa nelle teorie funzionaliste. Levý e Popovič la chiamano funzione/i o valore/i comunicativa imminente per distinguerla dalla successiva funzione evolutiva, isolata dalle ricerche empiriche.

La seconda categoria di funzioni si collega all’interazione tra il sistema di generi nazionali e il sistema di generi tradotti. La letteratura tradotta (o una parte di essa, persino un autore individuale o una particolare traduzione) in un particolare periodo può intenzionalmente o non influenzare il sistema nazionale sia in modi positivi che negativi; l’effetto può essere temporaneo o duraturo.

La terza categoria di funzioni consiste nello scambio di beni culturali in senso più ampio: la traduzione svolge una funzione di differenziazione dei generi per la letteratura nazionale e una funzione unificante per la letteratura mondiale.

La funzione informativa solitamente cresce con l’aumento della distanza delle due culture in contatto tramite la traduzione, ma di nuovo questa è una categoria dipendente dalle presupposizioni del lettore da un lato e dall’altro dal fatto – se la situazione dovesse o non dovesse richiedere al traduttore di contribuire intenzionalmente o non alla convergenza o alla divergenza delle due culture in contatto – che rappresenta la quarta categoria di funzioni.39

Una tale gamma di funzioni gerarchiche non ha avuto una controparte nelle concettualizzazioni della traduzione occidentale al tempo di Levý.

While the communicative function was incorporated in Nida, Catford, the Skopos and text-type theory suggested by Reiss and Vermeer, Newmark or by Hatim and Mason, cultural functions of translation were gradually discovered in the late 60s – early 70s by the Polysystem School40, and during the 70s – 80s by the Manipulation School. The fourth category of functions – that of the dynamics of cultures-in-contact, had to wait for its discovery until the post-modern 90s, reviving the old Romantic dichotomy of the self and the other41, however in rather a static way, and combined with ideologism, of quite a radical kind, at times.

 

THE THEORETICAL MODEL

The scheme of the procedural model, derived from the communication chain as an act of secondary communication, looks quite simple, containing a handful of basic categories. Although originally presented only for literary translation and having undergone some modifications, here it is presented in a generalized form:

Primary Communication                                    Secondary Communication (TLC)                                                    

                                                                             Tradition ( Social past)

Author – Text – Receiver1

                                                                    Rec.2/Translator – Translation – Receiver3

 

                                                                                                         Contemporary World

                                                                                                             ( Social reality)

                                                                                                                 Receiver4

Fig. 5. The communication scheme


Mentre la funzione comunicativa è stata accolta in Nida, in Catford, nella Skoposteoria e nella teoria dei tipi  testuali postulate da Reiss e Vermeer, Newmark o da Hatim e Mason, le funzioni culturali della traduzione sono state gradualmente scoperte nei tardi anni Sessanta e nei primi anni Settanta dalla scuola polisistemica40 e durante gli anni Settanta-Ottanta dalla Scuola della manipolazione. La quarta categoria di funzioni – quella delle dinamiche delle culture in contatto, ha dovuto attendere gli anni Novanta post-moderni per essere scoperta, rispolverando la vecchia dicotomia romantica del “proprio” e del “l’altrui”,41 tuttavia in un modo piuttosto statico e combinata con l’ideologismo, a volte di tipo fortemente radicale.

 

IL MODELLO TEORICO

Lo  schema del modello procedurale, derivato dalla catena della comunicazione come atto di comunicazione secondario, sembra molto semplice, poiché contiene un gruppetto di categorie di base. Sebbene sia stato originariamente presentato soltanto per la traduzione artistica e abbia subito alcune modifiche, viene presentato qui in una forma generalizzata:

Comunicazione primaria                                    comunicazione secondaria                                                            

                                                                             tradizione (passato sociale)

Autore – Testo – Ricevente1

                                                          Ric.2/Traduttore – Traduzione – Ricevente3

 

                                                                                          Mondo contemporaneo

                                                                                                  (realtà sociale)

                                                                                                      Ricevente4

Fig. 5. Lo schema della comunicazione

Horizontally, translation as process and product is linked with the translator and the receiver as agents and their qualities are projected in it. The vertical vector interconnects all the three horizontal entities with both the past (as surviving in the agents’ awareness) and present world thanks to their socially bound experience and education (transversal lines). Translation itself is bound to the tradition of (a) previous translations – their text structures and methods (i.e. norms) and (b) previous domestic textual production, especially in the same or related genres. Both can be seen as relatively autonomous open structured systems, with positively tested evidence of their mutual interference in terms of temporary or lasting influence or competition. As may become obvious from the scheme, such influences may only be effected through the human agents involved, and naturally also apply to the last entity – the contemporary world or socio-historical context – this is where in synchrony translation processes take place. However, the structuralist interrelatedness of synchrony and diachrony, or the widespread meme in DTS of synchrony in diachrony and vice versa, does not only mean the general assumption that, to put it lightly, any entity is the result of its past dis/continuous evolution influenced by autonomous and heteronomous factors. Historical evidence has it that the translator may, for some reasons, opt for a past translation method or a past domestic textual model rather than work with contemporary ones. Or, by contrast, translators may use a so-far non-existent method or face the task of transferring a text with no prototype in domestic or translated literature, be it literary or non-literary, oral or written. Should their option not match a similar prototype in TLC, thus positioning and accommodating the translation as a model in conformity with the expected receivers’ awareness and experience, the innovatory model is brought in through a stylistic calque.

Through the translator the secondary act is connected with the primary one. Translators are conceptualized as (specific) receivers of the SLT through whose cognition the SLT is transferred.

 

Orizzontalmente, la traduzione come processo e prodotto è collegata con il traduttore e il ricevente come agenti e le loro qualità sono proiettate in esso. Il vettore verticale interconnette tutte e tre le entità orizzontali sia con il mondo passato (in quanto sopravvive nella consapevolezza degli agenti) sia con il mondo presente grazie alla loro formazione ed esperienza socialmente collegate (linee trasversali). La traduzione a sua volta è collegata con la tradizione di (a) traduzioni precedenti – le loro strutture e metodi testuali (le norme) e (b) precedenti produzioni testuali nazionali, specialmente nello stesso genere o in uno correlato. Entrambi possono essere visti come sistemi strutturati autonomi e aperti, con un’evidenza testata in modo certo della loro interferenza reciproca in termini di influenza o competizione temporanea o duratura. Dallo schema risulta ovvio che questo tipo di influenze possono essere causate solo attraverso gli agenti umani coinvolti e naturalmente possono essere applicate all’ultima entità – il mondo contemporaneo e il contesto socio-storico – in cui si verificano i processi traduttivi nella sincronia. Tuttavia, l’interrelazione di sincronia e diacronia, o un meme diffuso nei Descriptive Translation Studies della sincronia nella diacronia e viceversa, non significa solo il generale presupposto secondo il quale, per farla semplice, ogni entità è il risultato di una dis/continua evoluzione passata influenzata da fattori autonomi ed eteronomi. L’evidenza storica sostiene che i traduttori possano, per alcune ragioni, optare per un metodo traduttivo passato o per un modello testuale nazionale passato piuttosto che un opera con metodi contemporanei. O invece i traduttori possono usare un metodo fino ad ora mai esistito o affrontare il compito di rendere un testo senza un prototipo nella letteratura nazionale o tradotta, sia esso letterario o no, orale o scritto. Se le loro scelte non dovessero combaciare con un prototipo simile nella cultura ricevente, conciliando la traduzione come un modello in conformità con la consapevolezza e l’esperienza del presunto ricevente, il modello innovatore verrebbe introdotto attraverso un calco stilistico.

Attraverso il traduttore l’atto secondario è connesso con quello primario. I traduttori sono concettualizzati come riceventi (specifici) del testo d’origine attraverso la cui cognizione viene trasferito il testo d’origine.

During the analytical and execution procedures in the translation process, the translator may take into account identical categories projected in the SLT.

The category of the contemporary world, namely the social one, is interrelated with all categories in the model. The agents are related to it through their experience, the text through contemporary norms and models, with the latter yielded by domestic or translatorial production as well as by receivers’ expectations based on their experience with them. Again, any conformation to or flouting of their expectations has a modifying effect on the receivers. In popular terms, the receivers may be favoured and the reception made the easiest for them, or they may get what they expect (the standard minimax effect), or they may be presented with an unexpectedly difficult reading. If the polar strategies become habitual, expectations are adjusted. The effect of the former is historically evidenced in popular reading for mass education and enlightment; the effect of the latter sensitizes the reader to foreign cultures, their discourses and aesthetics, gradually diminishing the salience of translativity.

From the scheme, it is also evident that a later receiver (Receiver4) perceives the translation against a different background (awareness of tradition, contemporary world). This accounts for the difference of meaning as well as for the aging of translation regarding the norms it was built on. In literary translation this is ascribed to the translators’ assumed tendency to respect the contemporary domestic repertoire and its aesthetic norms, as well as to the unavoidability of their presenting a TLT-bound and narrower interpretation of the SLT meaning. However, originals undergo the process of aging also due to the principle of abduction, although some may have such a potential interpretation range that, apart form their style, the core message ‘survives the ages’, as literary scholars would say;

 

Durante le procedure d’analisi  e d’esecuzione nel processo traduttivo, il traduttore può prendere in considerazione le stesse categorie progettate nel testo d’origine.

La categoria del mondo contemporaneo,  vale a dire quella sociale, è interrelata con tutte le categorie del modello. Gli agenti sono correlati ad essa attraverso la loro esperienza, il testo attraverso le norme e i modelli contemporanee, con quest’ultimi dati da una produzione nazionale o tradotta, così come le aspettative dei riceventi sono basate sulla loro esperienza con essi. Ancora, ogni conformazione o trasgressione delle loro aspettative ha un effetto modificante sui riceventi. In parole povere, i riceventi possono essere avvantaggiati e la ricezione resa più semplice per loro, o possono ottenere quello che si aspettano (un effetto standard minimax) o possono trovarsi di fronte ad una lettura inaspettatamente difficile. Se le strategie estreme diventano abituali, le aspettative vengono adattate. L’effetto della prima ipotesi è storicamente provato dalla lettura popolare per l’istruzione e l’educazione delle masse; l’effetto della seconda ipotesi sensibilizza il lettore nei confronti delle culture dei discorsi e dell’estetica stranieri, facendo diminuire a poco a poco la prominenza della traduzionalità.

È inoltre evidente dallo schema che un ricevente successivo (Ricevente4) percepisce la traduzione con uno sfondo diverso (consapevolezza della tradizione, mondo contemporaneo). Questa giustifica le differenze di significato così come l’invecchiamento della traduzione per quanto riguarda le norme su cui era stata costruita. Nella traduzione artistica questo è attribuito alla tendenza assunta dai traduttori a rispettare il repertorio contemporaneo nazionale e le sue norme estetiche, così come l’inevitabilità di presentare un testo tradotto che sia legato e più vicino all’interpretazione del significato del testo d’origine. Tuttavia, gli originali subiscono un processo di invecchiamento dovuto anche al principio dell’abduzione, nonostante alcuni possano avere una tale gamma di potenziali interpretazioni che, eccezion fatta per il loro stile, fa si che il cuore del messaggio “sopravviva all’età” come direbbe uno

 

such originals may be subjected to intralingual translation42 in terms of style and footnotes or glossaries.

External and internal translation processes are modelled as 2-in-1, but Levý proposed another, cognitive generative model based on this communication model (cf. Levý in this volume). What may not be evident from this account is that the category of the contemporary world, projected through actors’cognition, contains all kinds of social norms and repertories, social structures, institutions and practices, socially constructed values and beliefs, and even socially constructed concepts objectivized in structures and institutions, such as e.g. translation itself.

Nevertheless, Czech and Slovak structuralists kept their modelled autonomous structures and influences of heteronomous elements of other structures apart. To avoid misinterpretation it should be reiterated that such heteronomous influences are a systemic part and parcel of an open systems theory, except that they cannot be represented as conceptualized intra-systemic entities in a general model. This for example relates to such sociological factors as who selects texts for translation, concrete translation conditions, editorial policy and censorship, the translator’s individual dispositions and motives, etc. In other words, the theoretical model as an abstraction cannot reflect all concrete particularities. This is why we need analytical and critical models in combination with a suitable methodology. This strand has been amply demonstrated by research into the history of Czech and Slovak literary translation, though less so in literary translation criticism. But there is an interesting interconnection, relevant for current debates.

 

 

studioso di letteratura; tali originali possono essere soggetti a traduzioni intralinguistiche42 per quanto riguarda lo stile e le note a piè di pagina o i glossari.

I processi esterni ed interni di traduzione sono modellizzati nella forma due in uno, ma Levý ha proposto un altro modello cognitivo e generativo bastato su questo modello comunicativo (vedi Levý in questo volume). Quello che potrebbe risultare non evidente da questa descrizione è che la categoria del mondo contemporaneo, proiettata attraverso la cognizione degli autori, contiene tutti i tipi di norme sociali e i repertori, le strutture sociali, l’istituzione e la pratica, i valori costruiti socialmente e le credenze e persino i concetti costruiti socialmente che sono oggettivati nelle strutture e nelle istituzioni come per esempio la traduzione stessa.

Ciononostante, gli strutturalisti cechi e slovacchi hanno tenuto separate le strutture autonome e le influenze degli elementi eteronomi delle altre strutture modellizzate. Per impedire i malintesi è necessario ribadire che tali influenze eteronome sono parte integrante sistemica di una teoria di sistemi aperti, eccetto per il fatto che non possono essere rappresentate come entità intra-sistemiche concettualizzate in un modello generale. Questo per esempio riguarda fattori sociologici come chi seleziona i testi per le traduzioni, le concrete condizioni di traduzione, la politica editoriale e la censura, le disposizioni e le motivazioni individuali del traduttore, ecc. In altre parole, il modello teorico in quanto astrazione non può riflettere tutte le particolarità concrete. Ecco perché abbiamo bisogno di modelli analitici e critici in combinazione con una metodologia adeguata. Questa tendenza è stata ampiamente dimostrata da studi della storia della traduzione artistica ceca e slovacca, anche se la critica della traduzione artistica la recepisce di meno. Ma c’è un’interessante interconnessione, rilevante per i dibattiti attuali.

 

THE QUEST FOR A THEORY WITH AGENTS

AND IN SERVICE OF PRACTICE

 

The concepts of social and individual agencies in translation notably came in with the latest turn of TS to sociology. The social/collective and the individual as two integral antagonistic components of the dynamics of human entities, their activities and cultural codes have witnessed their comeback in humanities. For example, the recently debated neo-Marxist conceptual framework based on human agency as suggested by Bourdieu and his field model, however relevant it may be found in respect of the free market culture frame and contemporary western philosophy, has the disadvantage that it is neither methodologically nor theoretically worked out on hierarchically lower levels (especially in relation to the internal translation process and the product structure) for the pivotal focus on and analysis of our main object of study, as has been already pointed out elsewhere (e.g. Buzelin 2005, Chesterman 2006).

The currently debated utilitarian aspect of a theory, that is the idea of a theory in service of practice (possibly with research and researchers committed to improving the translator’s status or conditions43) has its precursors in western prescriptive or normative translation theories. They were criticized for well known reasons, especially from the positivistic standpoint. Holmes (1972, in Holmes 1988) saw the solution in the TS applied branch. In the 90s Chesterman (e.g. 1993, 1999) suggested a theory that would be built on the principle of from-is-to-ought to accommodate its axiological dimension. This is basically Levý’s design of his Art of Translation, a design of an original and coherent theory with an extension to the past and in particular to the contemporary ‘ought’.

 

ALLA RICERCA DI UNA TEORIA CON AGENTI

E AL SERVIZIO DELLA PRATICA

 

I concetti di «social agency» e «individual agency» nella traduzione come è noto sono stati introdotti con la svolta sociologica della scienza della traduzione. Il sociale/collettivo e l’individuale sono due componenti antagonisti necessari per le dinamiche delle entità umane, le loro attività e i loro codici culturali hanno testimoniato il loro ritorno tra le scienze umane. Per esempio, la struttura concettuale neo-marxista discussa recentemente, basata sulla agency umana come suggerito da Bourdieu e dal suo modello sul campo, per quanto importante per quanto riguarda la cultura del libero mercato e la filosofia occidentale contemporanea, ha lo svantaggio di non essere elaborato né metodologicamente né teoricamente nei livelli gerarchicamente più bassi (specialmente in relazione al processo traduttivo interno e alla struttura del prodotto) per l’importante punto focale e l’analisi del nostro oggetto di studio principale, come è stato già mostrato in precedenza. (Buzelin 2005, Chesterman 2006).

L’aspetto pratico di una teoria attualmente in discussione, cioè l’idea di una teoria al servizio della pratica (eventualmente con studi e ricercatori impegnati nel miglioramento della posizione e delle condizioni del traduttore43) ha il suo precursore nelle teorie traduttive prescrittive o normative. Sono state criticate per ragioni ben note, specialmente dalla prospettiva dei positivisti. Holmes (1972 in Holmes 1988) vedeva la soluzione nel ramo applicativo della scienza della traduzione. Negli anni Novanta Chesterman (1993, 1999) sosteneva una teoria che fosse costruita sul principio de “from-is-to-ought” per conciliare la dimensione assiologica. Questo è sostanzialmente il progetto di Levý per la sua Arte della traduzione, un progetto di una teoria originale e coerente con un’estensione verso il passato e in particolare al “ought” contemporaneo.

 

For pragmatic reasons in its time, the book was written with a dual purpose (scholarly knowledge and a tool for theoretical reflection of technical problems in literary translation, which might improve the quality of production) and for a dual audience (researchers and literary translators, respectively). However, as a meticulous scholar44 when it comes to theory and methodology, he was quite explicit about the difference between (a) a general theory and special theories built on empirical research, a verifiable theoretical model and hypotheses, (b) descriptive research based on an analytical model and methods and (c) translation criticism based on a critical model and methods (anchored in the concrete socio-cultural, historically established ‘ought’, i.e. translations vs. period conventions and the concept of an optimal, normative translation). This is how Levý’s book, aiming at a wider readership in a particular ideological atmosphere behind the ‘iron curtain’ should be interpreted.

Popovič (1971, 1975), Levý’s follower, designed the theory of translation as built from (a) general theory, (b) special theories (subcategorized into technical, journalistic and literary translation), (c) praxeology and (d) didactics.45 In his opinion, the subdiscipline of praxeology should complement the theoretical model of the translation process as the communicative functioning of translation because ‘real’ translations (i.e. processes and products) deviate from the ideal model due to concrete external social conditions46, hence his typological differentiation of translations. Praxeology, then, would explain the difference between the deductive theoretical model and reality, and come up with respective suggestions to improve translation practice, so that reality would get closer to the normative theoretical ideal, which, in consequence would improve practice with regard to the functioning and value of translation. Popovič’s praxeology, programmatically based on its own interdisciplinary research methodology and conceived as a subdiscipline concerned with translation practice with the aim of improving it through researchers’ proposals, represents almost a prototype ideal of the above mentioned endeavours and concerns in TS today

 

Per ragioni pragmatiche in  quel periodo il libro era stato scritto con un intento doppio (conoscenza erudita e uno strumento per la riflessione teorica su problemi tecnici nella traduzione artistica, il che poteva migliorare la qualità della produzione) e per un doppio pubblico (rispettivamente ricercatori e traduttori letterari). Tuttavia, in quanto studioso meticoloso44 quando si tratta di teoria e metodologia, era molto esplicito riguardo alla differenza tra (a) una teoria generale e teorie speciali costruite su ricerche empiriche, un modello teorico verificabile e ipotesi, (b) ricerca descrittiva basata su un modello d’analisi e metodi e (c)  critica della traduzione basata su un modello critico e metodi (ancorati nel “ought” socio-culturale concreto, stabilito storicamente, ossia la traduzione contro le convenzioni del periodo e il concetto di una traduzione normativa ottimale). Ecco come dovrebbe essere interpretato il libro di Levý, che mira ad un numero di lettori più ampio in una particolare atmosfera ideologica dietro “la cortina di ferro”.

Popovič (1971,1975), seguace di Levý, ha progettato la teoria della traduzione costituita da (a) teoria generale, (b) teorie speciali (sottocategorizzate in traduzione tecnica, traduzione giornalistica e traduzione artistica), (c) prasseologia e (d) didattica.45 Secondo lui, la subdisciplina della prasseologia doveva essere complementare al modello teorico del processo di traduzione come funzionamento comunicativo della traduzione perché la traduzione “reale” (cioè processi e prodotti) devia dal modello ideale a causa delle condizioni sociali concrete esterne46, da qui la sua differenziazione tipologica della traduzione. La prasseologia, allora, spiegherebbe la differenza tra il modello teorico deduttivo e la realtà, e trovare le rispettive proposte per migliorare la pratica della traduzione, così che la realtà si avvicini all’ideale teorico normativo, che, di conseguenza migliorerebbe la pratica con riguardo al funzionamento e al valore della traduzione. La prasseologia di Popovič, basata programmaticamente sulla propria metodologia di ricerca interdisciplinare e concepita come una sottodisciplina riguardante la pratica della traduzione con lo scopo di migliorarla attraverso le proposte dei ricercatori, rappresenta quasi un prototipo ideale degli interessi e degli impegni sopracitati nella scienza della traduzione odierna

 

– that is a theory, research and researchers acting in service of practice in order to help it or improve it.

Praxeology or theory of practice is also the denomination of Bourdieu’s sociology based on human action. Sociology of translation represented one of three branches in Popovič’s praxeology (1975), the other two being editorial practice of translation and methodology of translation criticism. Sociology was to be concerned with e.g. the selection of texts for translation (an ideological, political and economic issue) and the concrete social conditioning of the process and its product, also related to the status of translation practice and its professionalization, etc. Praxeological research has some coverage in both Slovak and Czech TS47, but it has to be carefully differentiated from what is known as the translator’s formulated poetics and other personal accounts which should themselves serve as objects of study.

 

OMNIPRESENT IDEOLOGY

 

For Czech and Slovak social semiotics it is in fact the receiver who determines the social functioning of an artistic work or its translation. Therefore ideology in the text cannot be reduced either to its inherent operativeness (i.e. the pragmatic dimension of ‘sign – user’) or to its thematic elements (‘meaning’) as it can also be carried by formal elements (their selection and syntax – i.e. on the paradigmatic and syntagmatic axes). This is also the case of literalist approaches to translation in earlier historical periods, making one wonder how such translations could have been functional, and yet, in one or more ways, they were .48

 

 

– cioè la teoria, ricerche e ricercatori agiscono al servizio della pratica al fine di aiutarla o migliorarla.

La prasseologia o la teoria della pratica è anche la denominazione della sociologia di Bourdieu basata sulle azioni umane. La sociologia della traduzione rappresentava uno dei tre rami della prasseologia di Popovič (1975), gli altri due erano la pratica editoriale della traduzione e la metodologia della critica traduttiva. La sociologia riguardava anche per esempio la selezione dei testi da tradurre (un problema ideologico, politico ed economico) e il concreto condizionamento sociale del processo e del suo prodotto, correlato anche allo stato della pratica traduttiva e alla sua professionalizzazione ecc. La ricerca prasseologica ha una certa copertura sia nella traduzione slovacca che ceca47, ma deve essere attentamente distinta da ciò che è conosciuto come la poetica formulata del traduttore e dagli altri resoconti personali che dovrebbero loro stessi essere oggetto di studio.

 

IDEOLOGIA ONNIPRESENTE

 

Per la semiotica sociale ceca e slovacca è in effetti il ricevente che determina il funzionamento sociale di un opera artistica o della sua traduzione. Perciò l’ideologia nel testo non può essere ridotta né alla sua operatività intrinseca (ossia la dimensione pragmatica di «segno – utente») né ai suoi elementi tematici («significato») in quanto possono essere portati da elementi formali (la loro selezione e la sintassi – ossia sull’asse pragmatico e sintagmatico). È anche il caso degli approcci letteralisti alla traduzione nei primi periodi storici, facendo sì che uno si chiedesse come tali traduzioni potessero essere funzionali, e tuttavia, in uno o più modi lo erano.48


Cultural ideology is inscribed in the text in its content or form in their interaction with the pragmatic dimension of the author/translator and receiver. The text contains sociosemes, which is a concept introduced in the late 70s (Pospíšil 2005: 207), i.e. elements of meaning (encoded in content or form), signs denoting in the particular sociocultural context and within the particular collective awareness some social meaning of facts experienced in life, including symbols constituted e.g. through encounters with art or with signs established in an artistic tradition. The sociosemes, mostly polyfunctional because they frequently relate to several aspects of world view, be it ethics and morals, politics, nationalism, religion etc., are conceived as dynamic structural units varying with the socio-historical context. This is why, paradoxically, the receiver may identify as sociosemes those sign units that had not been perceived as such by the author.

In respect of translation it is relevant to see what Levý (1971 in this volume) saw as pertinent and derived from Mukařovský, i.e. that the receiver’s reception is a combination of individual idiosyncracies as well as of collective internalized norms and social context – interpretations may result in the shift of the dominant function, in the reshuffling of intended functions carried by the elements in the structure, but also in perceiving as intended certain elements that the author may have never intended to function as such. Pospíšil (2005: 211), referring back to Mukařovský (1943, 1966) explains this intricacy by pointing out that for this structuralism the core theoretical assumption applies that the structure of functions of a work of art corresponds to the structure of needs of the individual or collective perceiver, hence the derived value of the work.

It is the predominant need or the social relevance in a particular society that determines the function and value of the text, and this is also why receivers in their particular culture and time perceive the functions as intentional on the production pole of the horizontal axis. As Mukařovský (1966: 64) points out, intentionality may be

 

L’ideologia culturale è inscritta nel testo nel suo contenuto o forma nella loro interazione con la dimensione pragmatica dell’autore/traduttore e il ricevente. Il testo contiene sociosemi, un concetto introdotto nei tardi anni Settanta (Pospíšil 2005: 207), ossia gli elementi del significato (codificati in contenuto o forma), segni che denotano nel particolare contesto socio-culturale e all’interno di una particolare consapevolezza collettiva alcuni significati sociali di fatti sperimentati nel corso della vita, inclusi i simboli costituiti per esempio attraverso gli incontri con l’arte o con i segni stabiliti in una tradizione artistica. I sociosemi, per la maggior parte polifunzionali poiché si relazionano frequentemente a numerosi aspetti della visione del mondo, che sia etica, morale,  politica, nazionalismo, religione ecc. , sono concepiti come unità dinamiche strutturali che variano con il contesto socio-storico. Ecco perché, paradossalmente, il ricevente può identificare come sociosemi quelle unità di segni che non sono state percepite così dall’autore.

Riguardo alla traduzione è importante vedere cosa Levý (1971 in questo volume) ha ritenuto pertinente e ha tratto da Mukařovský, ossia che la ricezione del ricevente è una combinazione di idiosincrasie individuali così come di norme collettive e contesti sociali interiorizzati – le interpretazioni possono determinare cambiamenti della funzione dominante, il rimescolamento di funzioni volute portate dagli elementi nella struttura, ma anche la percezione di certi elementi come voluti la cui funzione potrebbe non essere mai stata intesa in questo modo dall’autore. Pospíšil (2005: 211) riferendosi a Mukařovský (1943, 1966) spiega questa complessità evidenziando che per questo strutturalismo l’ipotesi teorica centrale richiede che la struttura delle funzioni di un’opera d’arte corrisponda alla struttura delle necessità del percettore individuale o collettivo, da qui i valori che provengono dall’opera.

È il bisogno predominante o la rilevanza sociale in una particolare società che determina la funzione e il valore del testo, e questa è anche la ragione per cui i riceventi nella loro particolare cultura e tempo percepiscono le funzioni come intenzionali nel polo della produzione sull’asse orizzontale. Come sottolinea Mukařovský (1966: 64), l’intenzionalità può essere afferrata solo se la guardiamo dal

grasped only if we look at it from the standpoint of the receiver whose anticipation of the author’s intention makes the receiver seek the semantic integral of the work; this in turn is generally bound to its genre affiliation. In the translation context this complex represents the standpoint of the translator, reader, editor and publisher, critic etc.

Ideological functions of translation are first and foremost laid bare by the very act of its ostension in certain contexts, in other contexts ostension may be concealed, intentions masked, but function/s can only ‘function’ at the receiver’s end, which certainly allows for un/intended manipulation as in any verbal interaction, be it direct or reported speech, be it non/fictional or semifictional discourse imaging worlds between the real and unreal in an artistic or non-artistic way. All such communication is subject to individual and contextual constraints as well as to the category of anti/illusionism. Translation, in addition, is constrained by the original as it is derived from it. This may be the point that makes the difference also, but not only, from the ideological perspective. However, there is no straightforward relationship between what the translator, under constraints, imports from the original and what is actually transferred into the TLC. This is because meanings and shifts in meaning are generated through the interaction of the internal context and the external context – even social meanings carried by signs are only realized through their perception in a concrete society. To make the picture more complicated – this social meaning may be imparted in the signs by the author, or by the translator, or it may be attributed to the signs by the receiver only.

This is nothing new – Mukařovský (1943, 1966: 93-94) points out that whatever the intentions of the author may have been, receivers may perceive them differently, depending on their individual and collective dispositions, which may even reshuffle the intended dominance and subordination of structural units.

 

punto di vista del ricevente la cui anticipazione dell’intenzione dell’autore gli fa ricercare la semantica integrale dell’opera; questo a sua volta è generalmente legato all’affiliazione a un genere testuale. Nel contesto traduttivo questo complesso rappresenta il punto di vista del traduttore, del lettore, dell’editor e dell’editore, del critico ecc.

Le funzioni ideologiche della traduzione sono rivelate prima di tutto dall’atto stesso della sua ostensione in certi contesti, in altri contesti l’ostensione può essere celata, le intenzioni mascherate, ma le funzioni/e può solo “funzionare” dalla parte del ricevente, che certamente tiene conto della manipolazione in/volontaria come in ogni interazione verbale,  sia essa un discorso diretto o riportato, un discorso finzionale/non finzionale o semifinzionale, immaginando mondi tra la realtà e l’irrealtà in un senso artistico o non artistico. Tutte queste comunicazioni sono oggetto delle limitazioni individuali e contestuali così come le categorie dell’illusionismo e dell’antillusionismo. La traduzione, in aggiunta, è limitata dall’originale poiché deriva da esso. Questo potrebbe essere il punto che fa la differenza anche, ma non soltanto, dalla prospettiva ideologica. Tuttavia, non ci sono relazioni dirette tra ciò che il traduttore, costretto, importa dall’originale e ciò che viene realmente trasferito nella cultura ricevente. Questa è anche la ragione per cui vengono generati i significati e i cambiamenti nei significati attraverso l’interazione di contesti interni ed esterni – anche i significati sociali portati dai segni sono realizzati soltanto attraverso la loro percezione in una società concreta. Per rendere il quadro più complicato – questo significato sociale può essere comunicato nei segni dall’autore, o dal traduttore, o può essere attribuito ai segni soltanto dal ricevente.

Questo non è niente di nuovo – Mukařovský (1943, 1966: 93-94), sottolinea che qualunque possano essere state le intenzioni dell’autore, i riceventi possono percepirle diversamente, dipende dalle loro disposizioni individuali e collettive, che possono persino rimescolare la dominanza voluta e subordinare le unità strutturali. Questo è il punto in cui l’intenzione di un autore interagisce con la ricezione, compresa quella del traduttore e conseguentemente quella del ricevente.

This is the point where an author’s intention interacts with reception, including that of the translator and consequently that of the receiver. So intentionality can only be fully understood if we look at it from the point of view of the receiver trying to identify the integral semantic unity of the artistic work against the background of the preconceived authorial intention in the particular genre, as Mukařovský (1943, 1966: 93-94) remarks.

In simple terms, the theoretical assumption, also valid for translation, is that the structure of a message corresponds to the receiver’s (individual or collective) structure of needs, and that this needs-related functioning constitutes its value. This is why a dominant need in a society at a particular time determines the function and value of a text, be it an original or a translation, and this is also why these two features are perceived as intentional. This may explain the ways texts are translated, perceived, and the criteria of their selection, but of course it is not an explanation of the origins of the receiver’s needs, nor of the needs of the receiver’s culture or their dynamism49.

However, this semiotic approach maintains the focus on its object of study – the sign as text and message, while the social context penetrates the sign through the author and receiver, whether we consider formal aspects, the content or the pragmatic aspect, as we hoped to demonstrate. To avoid losing the central object of translation studies, i.e. translation, for the sake of studying its external context, as may be the case when we borrow genuine sociological theories, it might be wiser to develop a sociological dimension in a theory that has such potential.

Limited space does not allow for a more detailed presentation and comparisons, thus potentially inviting some new misunderstandings. However, besides additional unavoidable risks involving her interpretation and some generalizations, it is the author’s hope that an interested reader will get some, albeit necessarily limited, access to a theory so far locked in other, less accessible, languages.

 

Così l’intenzionalità può essere interamente compresa soltanto se noi la guardiamo dal punto di vista del ricevente che prova ad identificare l’unità semantica integrale dell’opera d’arte sullo sfondo dell’intenzione precedentemente concepita dell’autore in un particolare genere testuale, come ribadisce Mukařovský (1943, 1966: 93-94).

In parole povere, l’ipotesi teorica, valida anche per la traduzione, è che la struttura del messaggio corrisponde alla struttura dei bisogni del ricevente (individuale o collettivo), e che questo funzionamento collegato ai bisogni costituisce il suo valore. Ecco perché un bisogno dominante in una società in un determinato momento determina la funzione e il valore di un testo, che sia un originale o una traduzione, e questo è anche il motivo per cui queste due caratteristiche sono percepite come intenzionali. Questo può spiegare i modi in cui i testi vengono tradotti, percepiti e i criteri della loro selezione, ma sicuramente non spiega le origini dei bisogni del ricevente, né i bisogni della cultura del ricevente o il loro dinamismo49.

Tuttavia, questo approccio semiotico mantiene l’attenzione sul suo oggetto di studio – il segno come testo e messaggio, mentre il contesto sociale penetra il segno attraverso l’autore e il ricevente, se consideriamo gli aspetti formali, l’aspetto del contenuto o quello pragmatico, come speravamo di dimostrare. Per evitare di perdere l’oggetto centrale della scienza della traduzione, ossia la traduzione, per studiarne il contesto esterno, come può essere il caso quando prendiamo in prestito teorie sociologiche vere e proprie, potrebbe essere più saggio sviluppare una dimensione sociologica in una teoria che ha tale potenziale.

Lo spazio limitato non permette una presentazione e una comparazione più dettagliate, perciò da adito potenzialmente a nuovi fraintendimenti. Tuttavia, accanto a inevitabili rischi aggiuntivi che coinvolgono la sua interpretazione e alcune generalizzazioni, l’autrice spera che il lettore interessato riuscirà ad avere più accesso, sebbene necessariamente limitato, a una teoria che fino ad ora è stata rinchiusa in altre lingue meno accessibili.

 

NOTES

 

  1. Its precursor was his habilitation thesis Základní otázky teorie prekladu (Fundamental Issues in Translation Theory) dated 1958; In 1958 he also published the textbook Úvod do teorie prekladu (Introduction to the Theory of Translation). The second version of The Art of Translation was completed by Levý in 1967 for the German translation published in 1969 as Die Literarische Übersetzung: Theorie einer Kunstgattung; its Russian translation was published in 1974 as Iskusstvo perevoda. His widely known article Translation as a Decision Process came out in 1967, the year of his premature death when he was only 40. Between the mid 50s and 1967 Levý wrote dozens of other articles and conference papers on translation and literature.
  2.  Volek (2005: 139) notes that the often cited works by Jakobson from the 50s and 60s are no longer representative of Prague structuralism .
  3. Czech structuralism, incl. Levý, distinguished between the artefact (text, sculpture, painting etc.) as a material object on the one hand, and its intersubjective existence as a work of art realized through the reception process, on the other. The artefact and the work of art represented two aspects of a sign.
  4. Doležel (2000b: 165) remarks that Czech structuralism is often criticized for its formalist and immanentist poetics, but perhaps it is more often the case that Prague poetics and aesthetics are simply eradicated from the map of 20th century poetics, i.e. totally ignored in “western” historical accounts and treatments of structuralism. On the other hand, Prague linguistics has been acknowledged as the post-Saussurean stage in the development of European structuralism.

 

NOTE

 

  1. Il suo precursore è stato la sua tesi di abilitazione Základní otázky teorie překladu (problemi fondamentali della teoria traduttiva) risalente al 1958; nel 1958 ha anche pubblicato un libro di testo Úvod do teorie překladu (introduzione alle teorie della traduzione). La seconda versione di Arte della traduzione è stata completata da Levý nel 1967 per la traduzione tedesca pubblicata nel 1969 con il titolo Die Literarische Übersetzung: Theorie einer Kunstgattung; la sua traduzione russa fu pubblicata nel 1974 col titolo Iskusstvo perevoda. Il suo famoso articolo Translation as a decisional process uscì nel 1967, l’anno della sua morte prematura quando aveva solo Quarant’anni. Tra la metà degli anni Cinquanta e il 1967  Levý scrisse decine di altri articoli e scritti per conferenze sulla traduzione e la letteratura.
  2. VOLEK (2005: 139) fa notare che spesso i lavori citati di Jakobson degli anni Cinquanta e Sessanta non sono più rappresentativi dello strutturalismo praghese.
  3. Lo strutturalismo ceco, incluso Levý, faceva distinzione tra l’artefatto (testo, scultura, dipinto ecc.) come oggetto materiale da un lato e la sua esistenza intersoggettiva come opera d’arte realizzata attraverso il processo di ricezione dall’altro. L’artefatto e l’opera d’arte rappresentavano i due aspetti di un segno.
  4. DOLEŽEL (2000B: 165) ribadisce che lo strutturalismo ceco è spesso criticato per la sua poetica formalista e immanentista, ma forse è più probabile che la poetica praghese e l’estetica siano state semplicemente sradicate dalla mappa della poetica del Novecento, ossia totalmente ignorate nei resoconti storici e nelle trattazioni dello strutturalismo “occidentali”. D’altro canto, la linguistica praghese è stata riconosciuta come fase post-saussureano nello sviluppo dello strutturalismo europeo.
    1. Jakobson was a professor at the university in the town of Brno; Levý worked there from 1964-1967.
    2. In 1936, Jakobson (quoted in Doležel 2000a: 164) said that Prague theory was the result of the symbiosis of Czech and Russian thinking, while at the same time it incorporated experience of West-European and American science. A critical account of the relationships between Russian formalism and Prague theory was published by Mukarovský in his review of the Czech translation of Shklovsky’s Teoriia prozy (Theory of prose) in 1934: among other he pointed out that Prague combined structural autonomy with the aspect of its conditioning sociocultural embeddedness.
    3. E.g. Lubomír Doležel (Canada), Kvetoslav Chvatík (Germany, Switzerland); Ladislav Matejka, Emil Volek and Peter Steiner (USA).
    4.  I.e. both its production and reception. Influenced by Lotman, the Slovaks use the term text for the combination of form and meaning.
    5. i.e. theories based on empirical study. The Czechs and Slovaks used the so called zig-zag method (which can be traced back to W. von Humboldt) – a dialectical interaction between empirical results and formulation/extension of a theory: Because of this principle, Levý and Popovic are considered descriptivists in Translation Studies. However, it is obvious that their descriptivism may not overlap with Toury’s DTS.
    6. Handling structures without people, or, as Bourdieu (1994) would have it – conceptualizing people as mere ‘epiphonemes’ of structures. The reason for this fundamental difference between French and Czech structuralism is that while the former drew more heavily on Saussurean systemic linguistic theory, the latter, i.e. Mukarovský’s functional approach, relied on Husserl’s phenomenology and Durkheim’s sociology.
    7. Jakobson è stato professore all’università della città di Brno; Levý ha lavorato lì dal 1964 al 1967.
    8. Nel 1936 Jakobson (citato in Doležel 2000a: 164) ha affermato che la teoria praghese era il risultato della simbiosi del pensiero ceco e di quello russo, mentre allo stesso tempo incorporava l’esperienza degli studi dell’Europa occidentale e dell’America. Un resoconto critico della relazione tra il formalismo russo e la teoria praghese fu pubblicato da Mukařovský nella sua recensione della traduzione ceca di Teoriia prozy (teoria della prosa) di Shklovskii nel 1934: tra l’altro evidenziò che Praga aveva combinato l’autonomia strutturale con l’aspetto della sua integrazione socio-culturale condizionante.
    9. Per esempio Lubomír Doležel (Canada), Květoslav Chvatík (Germania, Svizzera); Ladislav Matějka, Emil Volek e Peter Steiner (USA).
    10. Ossia sia la sua produzione che la sua ricezione. Influenzati da Lotman, gli slovacchi usano il termine text per la combinazione di forma e significato.
    11. Ossia le teorie basate sugli studi empirici. I cechi e gli slovacchi utilizzavano il metodo chiamato zig-zag (che può essere fatto risalire a W. Von Humboldt) – un’interazione dialettica tra i risultati empirici e la formulazione/estensione di una teoria: dato questo principio, Levý e Popovič sono considerati descrittivisti nella scienza della traduzione, tuttavia, il loro descrittivismo non può ovviamente coincidere con i Descriptive Translation Studies di Toury.
    12.  Occuparsi delle strutture senza le persone, o come sosterrebbe BOURDIEU (1994) – concettualizzare le persone come meri “epifonemi” delle strutture. La ragione di questa differenza fondamentale tra lo strutturalismo francese e ceco è che mentre il primo ricorreva più fortemente alla teoria linguistica sistemica Saussureana, il secondo, ossia l’approccio funzionale di Mukařovský, faceva affidamento sulla fenomenologia di Husserl  e sulla sociologia di Durkheim.
      1. Hence the difference between Popovic’s and Holmes’s TS paradigms: Popovic does not use the concepts of DTS and applied branches, and sees the development of the discipline as a dialectical movement between theory and analytical empiricism, while his praxeology as a pragmatic extension covers Holmes’s applied branch (Jettmarová 2005).
      2. Cf. Levý in this volume. Cf. also recent concerns over Bourdieu’s integration into TS.
      3. The Moscow-Tartu school was established by Lotman, Ivanov and Toporov in 1964.
      4. Especially the Warsaw Circle and E. Balcerzan.
      5. Czech structuralism was called sociosemiotics by Chvatík (1994: 55).
      6. E.g. the widely-known Literary Theory (1983) by Terry Eagleton presents structuralism as a bricolage of hackneyed half-truths and uninformed assumptions which make structuralism look like a list of deadly sins, e.g.linking Czech literary structuralism of the 60s directly and only with Saussure and Russian formalists, at the same time relegating it to the domain of philosophical idealism, and claiming that this structuralism eliminated the human subject and reduced it to the function of a non-personal structure, etc. (Doležel 2005: 123-124)
      7. Taken from B. Malinowski (1953).
      8. Adapted from A. Tarski (1933).
      9. The concept of the dominant was taken over from Russian Formalism (according to Jakobson 1935, published in Eagle 1971 and in Jakobson 1995: 37).

 

 

 

  1. Da qui la differenza tra i paradigmi traduttivi di Popovič e Holmes: Popovič non usa il concetto dei Descriptives Translation Studies e dei rami applicativi, e vede lo sviluppo della disciplina come un movimento dialettico tra la teoria e l’empirismo analitico, mentre la sua prasseologia, in quanto estensione pragmatica copre il ramo applicativo di Holmes (Jettmarová 2005).
  2.  Vedi Levý in questo volume. Vedi anche i recenti interessi a proposito dell’integrazione nella scienza della traduzione di Bourdieu.
  3.  La scuola di Mosca-Tartu fu istituita da Lotman, Ivanov e Toporov nel 1964.
  4.  Specialmente il circolo di Varsavia e E. Balcerzan.
  5.  Lo strutturalismo ceco venne chiamato sociosemiotica da Chvatík (1994: 55)
  6.  Per esempio la famosa Literary Thoery (1983) di Terry Eagleton presenta lo strutturalismo come un bricolage di mezze verità trite e ritrite e presupposti disinformati che fa sembrare lo strutturalismo una lista di peccati mortali, per esempio collegare lo strutturalismo letterario ceco degli anni Sessanta direttamente e solamente con Saussure e i formalisti russi, rilegandolo allo stesso tempo al campo dell’idealismo filosofico e sostenendo che questo strutturalismo abbia eliminato il soggetto umano riducendolo alla funzione di una struttura non-personale ecc. (DOLEŽEL 2005: 123-124).
  7.  Preso da B. MALINOWSKI (1953).
  8.  Adattato da A. TARSKI (1933).
  9. il concetto di «dominante»è stato preso dal formalismo russo (secondo Jakobson 1935, pubblicato su Eagle 1971 e in Jakobson 1995: 37).
    1. Function was understood as the (intended) aim or purpose of communication, which in turn was seen as a teleological activity, i.e. social interaction aimed at some goal. As a relational concept, function depends on the receiver. For Mukarovský (1936: 54), aesthetic value was found to be a process co-determined by both the immanent development of the artistic structure and the changes in the structure of “social cohabitation”.
    2. Cf. ‘text-type’ translation theories (e.g. Skopos, Newmark) that also highlight the main function but lack this dynamism as well as their explicit socio-historical embeddedness.
    3. The reader’s interpretation is alternatively called concretization (a modified concept adapted from Ingarden’s phenomenological theory) to designate the resulting mental image of the work of art, in contrast with proficient interpretations by literary scholars or critics (cf. Levý 1983: 47). Mutatis mutandis for translation.
    4. This model of the reception process anticipated the principles of reception aesthetics (the Konstanz school) as well as any attempts to integrate hermeneutics. Levý (1963 in Levý 1971: 49) is explicit about the hierarchic structure of such perception, adding that at certain point of semantic accumulation of information, a new information increment results in the transformation of a series of semantic units into an instruction of how to understand this semantic series. This is how the structure of an artistic message gradually emerges or comes into being during the process of concretization in dependence on the reader’s idiolect.
    5. La funzione era intesa come lo scopo o il proposito (intenzionale) di comunicazione, che a sua volta era visto come attività teleologica, ossia l’interazione sociale mirata ad alcuni obiettivi. Come concetto relazionale la funzione dipende dal ricevente. Per Mukařovský (1936: 54), il valore estetico è risultato essere un processo co-determinato sia dallo sviluppo immanente della struttura artistica sia dai cambiamenti nella struttura della coabitazione sociale.
    6. Vedi le teorie di traduzione “testo-tipo” (per esempio Skopos, Newmark) che evidenziano anche la funzione principale ma mancano di questo dinamismo così come il loro esplicito coinvolgimento socio-storico.
    7. L’interpretazione del lettore è chiamata in alternativa concretizzazione (un concetto modificato adattato dalla teoria fenomenologica di Ingarden) per indicare l’immagine mentale dell’opera d’arte risultante, in contrasto con le abili interpretazioni degli studiosi o dei critici letterari (Levý 1983: 47). Mutatis mutandis per la traduzione.
    8.  Questo modello del processo ricettivo ha anticipato i principi dell’estetica della ricezione (la scuola di Konstanz) così come ogni tentativo di integrare l’ermeneutica.  Levý (1963 in Levý 1971: 49) è esplicito a proposito della struttura gerarchica di tale percezione, aggiungendo che ad un certo punto di accumulazione semantica dell’informazione, un nuovo incremento informativo determina la trasformazione di una serie di unità semantiche in un’istruzione su come capire queste serie semantiche. È così che le strutture di un messaggio artistico emergono gradualmente o nascono durante il processo di concretizzazione a seconda dell’idioletto del lettore.

 

 

 

  1. A more specific version (Levý 1963b: 25n) of the hypothetical process, proposed as a weakly normative one, breaks down the reading phase into the stages of (a) understanding and (b) interpreting, the latter including the establishment of a pre/conception of the translation by the translator. ‘Re-stylization’ is the execution stage, involving three potential transfer procedures: translation (relevant for the general component), substitution (relevant for the specific component) and transcription (relevant for the unique/individual component).
  2. he referential aspect of a work of art should not be equated with imitation of reality as is common for the reductionist and simplistic concept of mimesis in Western culture today. Literary representation is a more complex issue.
  3. All his subcategories are conceptualized and further classified in taxonomies. Expression is understood as a unit combining linguistic style and content.
  4. The same form or content may have different meaning in the TL/TLT/TLC, thus to achieve the same function the translator should use forms and contents that are potential carriers of that function, which is identified through the translator’s understanding and interpretation of the SLT element’s function on its the structural level and in the SLT as a whole). However, some forms or content in translation may, unlike their SLT counterparts, acquire additional function/s in translation, e.g. adding local or historical colour, and thus become dominant elements. This depends on the prospective function of a translation and the translator’s pre/conception of it.
  5. Una versione più specifica (Levý 1963b: 25n) del processo ipotetico, proposta come versione debolmente normativa, divide la fase della lettura in stadi di (a) comprensione e (b) interpretazione, quest’ultimo include la formazione di una pre/concezione della traduzione da parte del traduttore. La “re-stilizzazione” è uno stadio esecutivo, che coinvolge tre potenziali procedure di trasferimento: traduzione (rilevante per la componente generale), sostituzione (rilevante per la componente specifica) e trascrizione (rilevante per la componente unica/individuale).
  6. L’aspetto referenziale di un’opera d’arte non dovrebbe essere fatto coincidere con l’imitazione della realtà, comune per il concetto reduzionista e semplicista della mimesi nella cultura occidentale odierna. La rappresentazione letteraria è una questione più complessa.
  7.  Tutte le sue sottocategorie sono concettualizzate e ulteriormente classificate in tassonomie. L’espressione è intesa come un’unità che combina lo stile linguistico e il contenuto.
  8. La stessa forma o contenuto può avere un significato differente nella traduzione/testo tradotto/cultura ricevente, perciò per ottenere la stessa funzione il traduttore dovrebbe usare forme e contenuti che sono portatori potenziali di quella funzione, che è identificata attraverso la comprensione e l’interpretazione della funzione degli elementi del testo emittente sul suo livello strutturale e del testo emittente nel suo insieme da parte del traduttore. Tuttavia, alcune forme e contenuti nella traduzione possono, a differenza delle loro controparti nel testo emittente, acquisire funzioni addizionali nella traduzione, per esempio ulteriore colore locale o storico, e perciò diventare elementi dominanti. Questo dipende dalla funzione prospettiva di una traduzione e della pre/concezione che ne ha il traduttore .
    1. i.e. meaning (whether cognitive or emotive) constituted by both form and content. Semiotically (Chvatík 2001: 128), although the meaning of a sign is constituted in the cognition of an individual interpreting the sign, the intersubjective validity of the meaning is constituted by the social structure on whose background it is concretized by the individual.
    2. From this point, current debates on the a/historicity or the westernized concept of translation (e.g. Tymoczko 2006) lose some of their relevance. As Popovic (1983) points out, there is no universal definition of translation because it is a historical relational concept that can either be empirically derived from the structure of translations (as a projected communication in the text), or determined through its position among other texts (especially derived texts, i.e. metatexts). Popovic (1975) opts for the latter option and integrates his metatext theory, positioning translation on the scale between token-token and token-type models. Translations may be used as prototexts with domestic texts derived from them – as is the case of translation’s developmental function.
    3.  i.e. epistemological.
    4. The concept, derived from illusio (ludus), was used in Czech semiotic aesthetics, especially in theatre studies, to denote the tendency to create images in such a way so that they would invoke in the receiver the illusion of their real existence. In other words, to create a model of an existing or non-existing prototype that would be accepted by the receiver as a prototype on the agreed principle of a play, i.e. ‘as if’. Pseudotranslations (i.e. texts only pretending to have been derived from their prototype originals) misuse this principle.

 

 

  1. Ossia il significato (sia esso cognitivo o emotivo) costituito sia dalla forma che dal contenuto. Semioticamente (Chvatík 2001: 128) sebbene il significato di un segno sia costituito nella cognizione di un’interpretazione individuale di un segno, la validità intersoggettiva del significato è costituita dalla struttura sociale sul cui sfondo è concretizzata dall’individuo.
  2. Da questo punto, gli attuali dibattiti sull’a/storicità o il concetto occidentalizzato di traduzione (per esempio Tymoczko 2006) hanno perso un po’ della loro importanza. Come fa notare Popovič (1983), non ci sono definizioni universali di traduzione perché è un concetto relazionale storico che può essere o derivato empiricamente dalle strutture delle traduzioni (come una comunicazione proiettata in un testo) o determinato attraverso la sua posizione tra gli altri testi (specialmente i testi derivati, ossia i metatesti). Popovič (1975) opta per l’ultima opzione e integra la sua teoria del metatesto, collocando la traduzione su una scala tra il modello token-token e quello token-type. Le traduzioni possono essere usate sia come prototesti con i testi nazionali derivati da essi – sia succede nel caso della funzione evolutiva della traduzione.
  3. Ossia epistemologico.
  4.  Il concetto, derivato dall’illusio (ludus), era usato nella semiotica estetica ceca, specialmente negli studi teatrali, per denotare la tendenza a creare immagini in modo tale da evocare nel ricevente l’illusione della loro reale esistenza. In altre parole, per creare un modello di un prototipo esistente o inesistente, che venga accettato dal ricevente come un prototipo sul principio convenuto della commedia, ossia “come se”. La pseudotraduzione (ossia i testi fingono solamente di essere stati derivati dai loro prototipi originali) fa cattivo uso di questo principio.
    1. Hence Popovic’s (1975) translativity dichotomies of here-and-now, here-and-then, there-and-now and there-and-then, defined in terms of the own, the other, the new and the old in their combination.
    2. Cf. Toury’s law of interference.
    3. This phenomenon was also hypothetized by Nida (1964), however without its dynamic dimension.
    4. Real translations and translators may deviate from the theoretical model in a number of aspects and for a variety of reasons. The general communication model cannot account for all concrete nuances and manifestations. Apart from autotranslation, intermediated translation, compiled translation, plagiarized translation, concealed translation, polemic or substandard translation, the translator may not respect, for various reasons, the current translation norm or some communication factors and relations in their proportions dictated by current norms, including the concept of translation and equivalence.
    5. The Czech concept of an open structure allows for non-systemic elements be present in the structure, and viceversa – for originally integrated elements to leave the structure via its periphery.
    6. Cf. e.g. Bourdieu’s habitus and trajectory.
    7. For Czech structuralism, the intended function at the production end and the resulting value at the reception end are inherent in both aspects, therefore translations are seen as hybrids. Value is then related to the translation’s social circulation (i.e. its functioning and positioning);

 

 

 

  1. Da qui le dicotomie della trazionalità di Popovič (1975): qui-e-ora, qui-e-allora, lì-e-ora, lì-e-allora; definite in termini di il proprio, l’altrui, il nuovo e il vecchio nella loro combinazione. Questi possono riflettere nello stile e/o nel contenuto della traduzione. Se le soluzioni del traduttore nel testo mostrano una fluttuazione tra le dicotomie, è segno di una mancanza di metodo e di pre/concezione.
  2. Vedi la legge dell’interferenza di Toury.
  3. Questo fenomeno era stato ipotizzato anche da Nida (1964), tuttavia senza la sua dimensione dinamica.
  4. Le traduzioni reali e i traduttori possono deviare dal modello teorico in numerosi aspetti e per svariate ragioni. Il modello generale di comunicazione non può rendere conto di tutte le sfumature e le manifestazioni concrete. Eccetto per l’autotraduzione, la traduzione intermedia, la traduzione redatta, la traduzione plagiata, la traduzione nascosta, la traduzione polemica o substandard, il traduttore può non rispettare, per molte ragioni, la norma della traduzione attuale o alcuni fattori comunicativi e le relazioni nelle loro proporzioni dettate dalle norme correnti, incluso il concetto di traduzione ed equivalenza.
  5.  Il concetto ceco di struttura aperta non tiene conto degli elementi non-sistemici presenti nella struttura e viceversa – degli elementi originariamente integrati per lasciare la struttura tramite la sua periferia.
  6.  Vedi esempio dell’habitus e della traiettoria di Bourdieu.
  7.  Per lo strutturalismo ceco, la funzione voluta dalla parte della produzione e il valore risultante dalla parte della ricezione sono intrinseci in entrambi gli aspetti, perciò le traduzioni sono considerate ibridi. Il valore è poi correlato alla circolazione sociale della traduzione (ossia al suo funzionamento e alla sua

 

this circulation, in turn, relates with heteronomous factors or structures in the social context.

  1. The period of the 19th century Revival in the Czech culture that had been surviving under the dominating German/Austrian rule is a perfect example of contradictory parallel norms and functions; while translations from German aided the distancing of the two cultures by applying the domesticating method, translations from Slavic languages/cultures sought cultural convergence, supporting the idea of Pan-Slavism.
  2. For intercultural relationships in TS see esp. Lambert in Delabastita et al. (2006: 37-62, 84-85, 111-116).
  3. The dichotomy of foreignization and domestication in translation was introduced by Schleiermacher and recently re-introduced by Venuti. Levý, in the early 1960s, ushered in the umbrella concept of translativity as a scale with the two poles and related it explicitly to the category of the receiver, thus turning it into a dynamic and historical concept with both descriptive and explanatory potential.
  4. Jakobson’s concept (1960) proposed next to his interlingual and intersemiotic translation.
  5. Similar to the ambitions of Bourdieu’s sociology and his researcher.
  6. In the 1960s, Levý established the Group for Exact Methods and Interdisciplinarity in Brno.
  7. For a comparison of Popovic’s and Holmes’s paradigms cf. Jettmarová (2005). In places Popovic subsumes didactics under praxeology.

 

 

 

collocazione); questa circolazione, a sua volta collega i fattori eteronomi o le strutture nel contesto sociale.

  1. Il periodo del Revival dell’Ottocento nella cultura ceca che è sopravvissuto alle regole della dominazione tedesca/austriaca è un perfetto esempio di norme e funzioni parallele contraddittorie; mentre le traduzioni dal tedesco miravano a distanziare le due culture applicando il metodo addomesticante, le traduzioni dalle lingue/culture slave ricercavano una convergenza culturale, supportando l’idea del panslavismo.
  2. Per le relazioni interculturali nella scienza della traduzione vedi  Lamberti in Delabastita et al. (2006: 37-72, 84-85, 111-116)
  3.  la dicotomia di estraniazione e addomesticamento nella traduzione sono state introdotte da Schleiermacher e recentemente re-introdotte da Venuti.  Levý, agli inizi degli anni Sessanta, ha introdotto nel vasto concetto della traduzionalità come una scala con due poli e lo ha collegato esplicitamente alla categoria del ricevente, trasformandolo così in un concetto dinamico e storico con un potenziale sia descrittivo che esplicativo.
  4.  Il concetto di Jakobson (1960) proposto accanto alla sua traduzione interlinguistica e intersemiotica.
  5.  Simile alle ambizioni della sociologia di Bourdieu e al suo ricercatore.
  6.  Negli anni Sessanta,  Levý ha fondato il gruppo per i metodi esatti e l’interdisciplinarità a Brno.
  7. Per un paragone tra i paradigmi di Popovič e Holmes vedi Jettmarová (2005). Popovič classifica a volte la didattica sotto la prasseologia.

 

 

  1. This may cast doubt on the strength of the descriptive and explanatory hypotheses of the communication theory and its model (specifically in Popovic). Modelling is treated e.g. by Levý (1971: 69-70). Normativity as a subdiscipline (deriving the ‘ought’ from general principles) was part of some semiotic theories, occupying a slot between the pure and descriptive semiotics (Osolsobe 2002: 162).
  2.  On the conceptual and theoretical levels elaborated e.g. by Ján Ferencík (1982).
  3. Whether they have or have not been functional can only be discerned from manifested receptions (e.g. reviews, polemics, etc.) and consequent effects, but also from the fact that these complied with the translation norm of the time. Cf. also Jettmarová on advertising (2003, 2004).
  4.  ‘Need’ has become a buzzword in Translation Studies and it can be conceptualized  from different disciplinary angles. For Czech and Slovak structuralism need is a contextually internalized part of the experiential complex in the individual, while culture needs may be said to derive from ideology of the culture-in-time and the status quo of the system in focus. Studies on history of translation and literature are explicit and specific about who or what is behind the constitution of needs. (cf. e.g. Levý 1957 and Vodicka 1969).

 

 

  1.  Questo può gettare dubbi sulla forza delle ipotesi descrittive ed esplicative della teoria comunicativa e del suo modello (specificamente in Popovič). La modellizzazione è trattata per esempio da Levý (1971: 69-70) la normatività come sottodisciplina (derivando il “ought” da principi generali) era una parte delle teorie semiotiche, che occupava un posto tra la semiotica pura e quella descrittiva (Osolsobě 2002: 162).
  2. Su livelli concettuali e teoretici elaborati per esempio da Ján Ferenčík (1982).
  3.  Sia che siano o meno funzionali possono soltanto essere distinti dalle ricezioni manifestate (per esempio la recensione, la polemica ecc.) e dagli effetti che ne derivano, ma anche dal fatto che questi hanno rispettato la norma traduttiva del tempo. Vedi anche Jettmarová sulla pubblicità (2003-2004).
  4.  La parola “bisogno” è diventata di moda nella scienza della traduzione e può essere concettualizzata da diversi angoli disciplinari. Per lo strutturalismo ceco e slovacco il bisogno è una parte interiorizzata contestualmente del complesso esperienziale dell’individuo, mentre si può dire che i bisogni della cultura derivino dall’ideologia della cultura-nel-tempo e dallo status quo del sistema in questione. Gli studi sulla storia della traduzione e della letteratura sono espliciti e specifici a proposito di chi o cosa c’è dietro la costituzione dei bisogni (vedi per esempio Levý 1957 e Vodička 1969).

 

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3. Riferimenti bibliografici della prefazione

 

 

 

 

 

 

 

 

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GREGORY RABASSA: JULIO CORTÁZAR

 GREGORY RABASSA: JULIO CORTÁZAR

ELENA INVERNIZZI

 

 

Scuole Civiche di Milano

Fondazione di partecipazione

Dipartimento Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

 

Relatore: Professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Luglio 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Elena Invernizzi per l’edizione italiana 2011

 

ABSTRACT

Tradurre è un’arte. Secondo Antonio Prete «tradurre ha a che vedere con l’ombra, più che con la trasparenza della luce»: è un’operazione che non ha il compito di ricalcare l’originale, non deve aspirare alla perfezione, ma che si colloca in una zona indefinita al confine fra cultura emittente e ricevente. Non sempre, però, la lingua del testo corrisponde a una lingua effettivamente in uso: un esempio lo si può trovare in Rayuela di Cortázar, che utilizza il glíglico per la comunicazione tra alcuni personaggi. Chi viene messo alla prova in questo processo è il traduttore, che si trova davanti a un implicito compito di creatività, dovendo egli stesso inventare una lingua che sia adeguata.

 

RESUMEN EN ESPAÑOL

Traducir es arte. Según Antonio Prete «traducir tiene que ver con la sombra más que con la transparencia de la luz»: es un proceso que no tiene que calcar el texto original, no tiene que ser perfecto, sino tiene que colocarse en una zona indefinida entre la cultura emisora y la de recepción. A veces el idioma del texto no corresponde a un idioma usado realmente: encontramos un ejemplo en Rayuela de Cortázar, quien utiliza el glíglico para la comunicación entre unos personajes. En este proceso, él quien se enfrenta con el problema es el traductor: él también necesita de creatividad para que pueda inventar un idioma adecuado.

 

ENGLISH ABSTRACT

Translating is art. Antonio Prete writes «translating is more similar to the shadow than to the transparence of light»: it’s a process that doesn’t have to copy the original, doesn’t have to aspire to perfection, but it places itself between the transmitter and the receiver culture. Not always the text language corresponds to a real language: we can find an example of this in Rayuela by Cortázar, that uses gliglish for the communication between some characters. In this process who has to deal with a tough nut to crack is the translator, who has himself to invent a new effective language.

PREFAZIONE

Julio Cortázar è uno scrittore argentino (1914-1984) i cui racconti sono di genere fantastico, misterioso e metafisico. Nato a Bruxell, si dividerà tra Argentina e Parigi.

Il suo capolavoro è Rayuela Il gioco del mondo, iperromanzo[1] in cui l’esperienza parigina e argentina si confrontano e completano a vicenda. Il libro è composto da oltre 300 paragrafi che devono essere letti nell’ordine specificato dall’autore all’inizio del romanzo o in ordine di comparizione.
Questa scelta soggettiva del lettore segna il punto di maggior originalità del romanzo che, al di là di questo aspetto, è caratterizzato da momenti di vita quotidiana intrecciati con un’analisi filosofica della vita.

Gregory Rabassa (9 Marzo 1922) è un celebre traduttore letterario dallo Spagnolo e dal Portoghese verso l’Inglese  che attualmente insegna al Queens College. Nato a New York, ha lavorato durante la Guerra come criptografo per la OSS e si è laureato alla Columbia University, dove ha insegnato per due anni prima di trasferirsi al Queens College.

Ha prodotto versioni in inglese dei lavori dei maggiori romanzieri latino americani come Julio Cortázar, Jorge Amado e Gabriel García Márquez. Su consiglio di Cortázar, Márquez ha aspettato tre anni per entrare negli impegni di Rabassa e fargli tradurre Cent’anni di solitudine. In seguito ha dichiarato che la traduzione di Rabassa era superiore alla sua versione originale spagnola.

In genere, Rabassa traduce senza leggere prima il libro, lavorando seguendo il suo istinto. Aveva un rapporto di lavoro particolarmente intenso e produttivo con Cortázar, con il quale condivideva la passione per il jazz e per i giochi di parole. Come scrive in If This Be Treason: Translation and Its Dyscontents, A Memoir, dove ricostruisce la sua esperienza come traduttore:

“(…) What drew me to the novel and to Julio were the variegated interests he and I had in common: jazz, humor, liberal politics, and inventive art and writing. As I have said, I read the complete novel only as I translated it. This strange and uncommon procedure somehow followed the nature of the book itself and I do not think it hurt the translation in any way. Indeed, it may have insured its success. (…)”

“(…) Ciò che mi ha portato verso il romanzo e verso Julio era la moltitudine di interessi che avevamo in comune: il jazz, ‘umorismo, il progressismo e l’arte e la scrittura inventiva. Come ho già detto, ho letto tutto il romanzo solo mentre lo traducevo. Questa strana e inusuale procedura in qualche modo seguiva la natura del libro stesso e penso non sia stata per niente nociva alla traduzione. Anzi, può averne assicurato il successo. (…)”

Il legame, quindi, tra Rabassa e Cortázar non era solamente a livello  mercenario-artista, si trattava di una sottile connessione tra le menti dello scrittore e del traduttore che ha contribuito all’ottima riuscita del loro lavoro insieme.

Per la sua versione del romanzo di Cortázar Hopscotch, Rabassa ha ricevuto il National Book Award per la Traduzione.

 

Sommario

 

Abstract p. 3

Prefazione p. 4

Traduzione p. 7

Analisi p. 21

Bibliografia p. 26

Ringraziamenti p. 27

If This Be Treason. Translation And Its Dyscontents. A Memoir.

Gregory Rabassa

Julio Cortázar

 

Hopscotch (Rayuela, 1963). New York: Pantheon, 1966.

62: A Model Kit (62: Modelo para armar, 1968). New York: Pantheon, 1972.

A Manual for Manuel (Libro de Manuel, 1973). New York: Pantheon, 1978.

A Change of Light and Other Stories (Octaedro, 1974; Alguien que anda por ahí, 1978). New York: Knopf, 1980.

We Love Glenda So Much and Other Tales (Queremos tanto a Glenda y otros relatos, 1981). New York: Knopf, 1983.

A Certain Lucas (Un tal Lucas, 1979). New York: Knopf, 1984.

 

Rayuela[2] (Il gioco del mondo) è stato il libro che mi ha iniziato alla traduzione, quello che mi ha fatto vincere il National Book Award e che mi ha portato a Cent’anni di solitudine. García Márquez voleva che facessi il suo libro ma in quel momento ero occupato con il ciclo bananero di Miguel Ángel Asturias. Cortázar ha detto a Gabo di aspettare e lui ha aspettato, con evidente soddisfazione di tutte le persone coinvolte. E così Rayuela è stato per me quello che nel cliché idrografico viene definito spartiacque, dato che la mia vita da quel momento in poi ha preso la direzione che da quel momento avrebbe sempre seguito. Non avevo letto il libro ma avevo sfogliato alcune pagine e tradotto due capito per prova, il primo e uno più avanti, non ricordo quale. All’editor Sara Blackburn e a Julio è piaciuta la mia versione e sono partito alla grande.

Ciò che mi ha portato verso il romanzo e verso Julio era la moltitudine di interessi che avevamo in comune: il jazz, ‘umorismo, il progressismo e l’arte e la scrittura inventiva. Come ho già detto, ho letto tutto il romanzo solo mentre lo traducevo. Questa strana e inusuale procedura in qualche modo seguiva la natura del libro stesso e penso non sia stata per niente nociva alla traduzione. Anzi, può averne assicurato il successo. Cortázar aveva diviso il libro in tre parti: “Dall’altra parte”, “Da questa parte” e “Da altre parti”, l’ultima sottotitolata “Capitoli di poco conto”. Cortázar da istruzioni su come leggere il romanzo, spiegando che consiste in molti libri, ma soprattutto due. Possiamo leggerlo tutto d’un fiato ma fermandoci alla fine della

If This Be Treason. Translation And Its Dyscontents. A Memoir.

Gregory Rabassa

Julio Cortázar

 

Hopscotch (Rayuela, 1963). New York: Pantheon, 1966.

62: A Model Kit (62: Modelo para armar, 1968). New York: Pantheon, 1972.

A Manual for Manuel (Libro de Manuel, 1973). New York: Pantheon, 1978.

A Change of Light and Other Stories (Octaedro, 1974; Alguien que anda por ahí, 1978). New York: Knopf, 1980.

We Love Glenda So Much and Other Tales (Queremos tanto a Glenda y otros relatos, 1981). New York: Knopf, 1983.

A Certain Lucas (Un tal Lucas, 1979). New York: Knopf, 1984.

 

Hopscotch was the book that got me started in translation, that won me that National Book Award, and also led me to do One Hundred Years of Solitude. García Márquez wanted me to do his book but at the moment I was tied up with Miguel Ángel Asturia’s “banana trilogy”. Cortázar told Gabo to wait, which he did, to the evident satisfaction of all concerned. So Hopscotch was for me what the hydrographic cliché calls a watershed moment as my life took the direction it was to follow from then on. I hadn’t read the book but I skimmed some pages and did two sample chapters, the first and one farther along. I can’t remember which. Editor Sara Blackburn and Julio both liked my version and I was off and away.

What drew me to the novel and to Julio were the variegated interests he and I had in common: jazz, humor, liberal politics, and inventive art and writing. As I have said, I read the complete novel only as I translated it. This strange and uncommon procedure somehow followed the nature of the book it­self and I do not think it hurt the translation in any way. In­deed, it may have insured its success. Cortázar had divided his book into three sections: “From the Other Side,” “From This Side,” and “From Diverse Sides,” the last subtitled “Expendable Chapters.” He gives instructions on how to read the novel, saying that it consists of many books, but two above all. We can read it straight through, but stopping at the end of the

contro cosa stavo lottando. Infatti, in alcuni casi mi ha dato suggerimenti che solo un traduttore poteva dare. Così, quando sono arrivato alla documentazione che aveva usato per arricchire il romanzo, mi sono ritrovato a fare ciò che lui aveva fatto seconda parte, senza leggere la terza. Poi ci stende una tabella per una seconda lettura dove i capitoli delle tre sezioni sono mischiati in ordine diverso. Alla fine di ogni capitolo è scritto quale capitolo va letto dopo. Comunque, l’ultimo capitolo, il 131, ti dice di andare al 58, che hai appena letto e ti aveva indirizzato al 131, così che con questo schema si crea un effetto di disco rotto, dove la puntina continua a saltare e la canzone non finisce mai. Leggendo in questo modo il romanzo non ha mai fine, mentre leggendolo nel primo modo apparentemente corretto finisce quando dice  “…lascialo andare, paff, fine”, da cui si può dedurre che Oliveira, il protagonista, si è suicidato gettandosi dalla finestra.

Un critico rigido si è indignato perché costretto a leggere due volte il romanzo. Julio mi ha scritto scuotendo figurativamente la testa per il fatto che questo povero scemo non sapeva che si stesse giocando con lui. Continuava dicendo che chiedere alle persone di leggere il suo romanzo una volta era già una cattiveria, figuriamoci due. Non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Una volta finita la traduzione mi sono tornate in mente le istruzioni iniziali e mi sono reso conto che avevo realizzato una terza lettura del romanzo semplicemente sfogliando dalla prima all’ultima pagina. Ciò che quel critico ottuso non aveva capito era che il gioco del mondo è davvero un gioco, di quelli veri. L’immagine che Julio aveva abbozzato sulla copertina del romanzo era evidentemente come si svolge il gioco in Argentina, partendo da un quadrato chiamato Terra e continuando su altri quadrati numerati fino a quello chiamato Paradiso. Era più che naturale che la sua vivacità intellettuale venisse notata da un suo connazionale, Jorge Luis Borges, il primo a pubblicare il lavoro di Julio. Peccato che il loro povero, tormentato e spesso solenne paese natale non abbia avuto una storia più simile alla loro. Cortázar sosteneva anche che la nostra specie è stata chiamata nel modo sbagliato e che avrebbe dovuto chiamarsi homo ludens (che non ha niente a che vedere con gay tossicchianti).

Traducendo Rayuela penso di essere stato indirizzato bene dal mio metodo istintivo di lasciarmi guidare dalle parole. Dico questo perché sono riuscito a cogliere il flusso di quello che dicevano i vari e variabili capitoli. Julio abbina sempre i personaggi a dialoghi e monologhi. Era piuttosto consapevole che l stessa persona potesse avere modi diversi di parlare quando si rivolgeva  a qualcuno o a se stesso. Alcune società primitive gestiscono queste discrepanze con desinenze diverse o usando un lessico completamente diverso. Con Cortázar bisogna stare ben attenti a questi piccoli e tortuosi trucchi di espressione che è solito fare. In un capitolo c’è Oliveira, narratore occasionale di Julio e alcuni sostengono suo alter ego, che da un’occhiata al libro che ha preso nella stanza di La Maga. La prima riga è stranamente estranea sia al periodo dell’azione sia allo stile del romanzo che si sta leggendo. Ma la seconda riga dice “e le cose che lei legge, un romanzo sgraziato…” e lì capiamo che Cortázar sta alternando, riga dopo riga, ciò che pensa Oliveira e ciò che sta leggendo nel romanzo di Benito Pérez Galdós. Mi sono dovuto incamminare con molta cautela in questa parte in modo da non lasciare che le parole di Oliveira influenzassero quelle di Galdós o viceversa.

second section without continuing into the third. Then he lays out a table for a second reading in which chapters from all three sections are co-mingled in a different order. Each chapter in this system has the number of the next chapter to be read at its end. The last chapter, however, 131, tells you to go to 58, which you have just read and were told to proceed to 131, so that by this scheme you end up with a broken-record effect, where the needle keeps jumping back and repeating and the song never ends. Read this way the novel never ends, while if read the first and seemingly proper way it does, saying “…let himself go, paff, the end,” implying that Oliveira, the protagonist, has defenestrated himself.

One stiff-necked critic was outraged that he should be called upon to read the novel twice. Julio wrote me and figu­ratively shook his head over the fact that the poor boob did not know that he was being toyed with. He went on to say that it was bad enough to ask people to read his novel once, let alone twice. He would never do such a thing. When I finished the translation I remembered the instructions at the beginning and realized that I had offered a third reading of the novel by simply barging through from the first page to the last. What that obtuse critic had not realized was that hopscotch is a game, something to be played. The version that Julio had sketched out on the cover of the novel was evidently the way the game is played in Argentina, starting on a square called Earth and following the numbers to a square called Heaven. It was only natural that his intellectual friskiness should have been noticed by his countryman, Jorge Luis Borges, who was the first to publish Julio’s work. Would that their poor, trou­bled and so often solemn birthplace had been more like them in its history. Cortázar also maintained that our species was misnamed and should have been called homo ludens (nothing to do with any coughing gays).

In translating Hopscotch I think I was well served by my in­stinctive way of letting the words lead me. I say this because I did manage to get the drift of what the various and varied chapters were saying. Julio always matched his characters with their dialogues and monologues. He was quite keen in his awareness that the same person is apt to have a different style of speaking when talking to someone else than when talking to himself. Some primitive societies manage such discrepancies by a variety of case endings if not completely different lexi­cons. With Cortázar one has to be quickly aware of these twisty little tricks of expression that he’s apt to pull. In one chapter Julio has Oliveira, his sometime narrator and some say his alter ego, glance at a book he has picked up in La Maga’s room. The first line is strangely alien to both the period of the action and the style of the novel we are reading. But the sec­ond line says, “And the things she reads, a clumsy novel . . . ,” and we realize that Cortázar is alternating, line by line, what Oliveira is thinking and what he is reading in her novel by Benito Pérez Galdós. I had to tread very carefully through this part so as not to let Oliveira’s words influence those of Galdós and vice-versa.

 

Questo miscuglio è spesso abbinato all’inclusione di elementi come documenti ufficiali dell’UNESCO, dove Cortázar aveva lavorato come traduttore. Quest’ultimo fatto, invece di farmi tremare dall’insicurezza di essere sotto il controllo di un esperto del campo, mi ha rilassato per la consapevolezza che Julio sapeva dalla sua esperienza per vivere: tradurre fedelmente i documenti e resistere alla tentazione di renderli più adeguati. In un solo caso non c’era bisogno di preoccuparsi. Aveva ideato un haiku composto da nomi di Birmani che doveva aver incontrato in questo documento o in quell’altro.

Dato che la prima parte di Rayuela e alcune parti del “Capitolo di poco conto” si svolgevano a Parigi, alcune parti della narrazione sono in francese. Potevo tradurlo, ma l’ho lasciato com’era. Se Julio avesse voluto che queste parti venissero tradotte in inglese le avrebbe prima tradotte in spagnolo. E non ho trovato nessun motivo per rendere il libro più semplificato per i lettori inglesi, implicitamente insultandoli. Ho anche lasciato nella lingua originale altrimenti si rischiano enormi e a volte esilaranti danni. Mi viene in mente mio padre amante dell’opera che sogghigna davanti all’assurdità della traduzione nell’opera, citando dei versi che aveva sentito in uno spettacolo cantato in inglese invece che in italiano che diceva: «Ecco la donna col latte». L’effetto è quello di cui ho parlato da qualche parte il giorno in cui Mr. Smith ha sostituito Mr. Bean alla Merrill Lynch, che potrebbe essere stata la ragione per cui James Merrill ha abbandonato il business di famiglia.

È già abbastanza difficile capire che fare con lingue che non sono né del’autore né del traduttore, ma cosa si può fare con una inventata? Cortázar ne usa una di questo tipo in Rayuela. E’ un linguaggio d’amore nel senso che descrive le attività amorose. Non c’è davvero bisogno di capire le parole. Il modo in cui si legno ci fa capire quello che sta succedendo. Anche il loro suono è alquanto d’aiuto. È come l’apparente poesia arcana di Góngora. Ho capito che sapere nel dettaglio di cosa parla implica l’esegesi e l morte della sua poesia. Una semplice lettura ad alta voce comunica un’impressione di ciò che sta dicendo, in modo molto simile al significato che estraiamo da un pezzo musicale senza sapere di che note si tratta. Possiamo leggere un poesia di Mallarmé o ascoltare un preludio di Debussy e l’effetto potrebbe essere lo stesso. Questo è come bisogna accostarsi al Glíglico di Julio. Ho dovuto comunque tradurlo, quindi ho usato il Gliglish al posto dell’inglese e penso di aver mantenuto abbastanza la sua sostanza per rendere felice anche Frost, ma il mio compito non era di far piacere a lui, solo ai miei lettori e forse a Joyce.

Sono stato aiutato in questa avventura dall’ascolto di ogni tipo di frase in una lingua chiamata Vermaciano, inventata da mia figlia Clara da piccola per parlare con il suo peluche di Snoopy. Era folle quel tanto che basta per corrispondere alla natura folle della quale lo aveva dotato. Come il Gliglish, ha una base inglese che potrebbe portare qualcuno a definirla dialetto. Snoopy direbbe semplicemente di se stesso che ha uno “speech defeck” (“defetto di pronuncia”), un termine che oggi non è molto accettabile, meglio se lasciato in Vermaciano. Per misteriose ragioni si avvicina allo Slavo nelle sue desinenze, con elementi che sembrano genitivi come Snoopev, Momev, Dadev. Il fenomeno non è stato spiegato da nessuno e ha richiesto la consulenza di uno psicolinguista. Clara aveva conosciuto Julio ed era rimasta impressionata dalla sua          This admixture is matched many times by the inclusion of such things as official documents from unesco, where Cortázar worked as a translator himself. This last fact, instead of making me quiver with insecurity under the scrutiny of a master of the trade, relaxed me instead with the knowledge that Julio knew from experience what I was up against. In­deed, in some cases he would make suggestions that only a translator could make. So when I came to the documentation that he used to spice up the novel I found myself doing what he was doing for a living, faithfully translating the reports and resisting the temptation to make them conform a little. In one case there was no need for concern; he had devised a haiku made up of a list of Burmese names that he must have come across in some report or other.
As the first part of Hopscotch and some of the “Expendable Chapters” take place in Paris, quite a bit of French is woven into the narration. This could have been translated, but I left it as it was. Had Julio wanted these spots in English he would have translated them into Spanish in the first place. I also saw no reason to dumb the book down for readers of English and insult them in that way. I also left the Spanish intact sometimes for other reasons. Like any song, tangos are better left in the original or great and sometimes hilarious damage is done. I remember my opera-loving father’s chuckling over the absurdity of translation in opera as he cited a recitative he had heard in a performance sung in English instead of Italian that went “Here comes the woman with the milk.” The effect is the same as the one I mentioned earlier when Mr. Smith replaced Mr. Bean at Merrill Lynch, which could have been the reason for James Merrill’s abandoning the family trade.
It’s hard enough to figure out what to do with languages other than the author’s or the translator’s, but what does one do with an invented one? Cortázar has one such tongue in Hopscotch. It’s a language of love in that it describes amorous activity. It really isn’t necessary to understand the words. The way they’re strung together tells us what’s going on. Their sound is suggestively helpful too. It is like Góngora’s seemingly arcane poetry. I have found that knowing in detail what he’s on about calls for exegesis and the death of his poetry. A sim­ple reading aloud renders a feeling of what he is saying, much like the meaning we extract from a piece of music without knowing which notes are what. We can read Mallarmé’s poem or listen to Debussy’s prelude and the effect should be the same. This is how we approach Julio’s glíglico. I had to translate it, however, so I put it into Gliglish rather than English and I think I kept enough of its substance to make even Mr. Frost happy, but I wasn’t out to please him, only my readers and per­haps Mr. Joyce.
I was aided in this venture by having listened to all manner of phrases from a language called Vermacian, put together by my daughter Clara at an early age to be spoken to her Snoopy doll. It was just foolish enough to match the foolish nature with which she had endowed him. Like Gliglish, it has an En­glish base, which would lead some to call it a dialect. Snoopy himself would simply say of himself that he had a “speech de­feck,” not such an acceptable term today, better left in Verma­cian. For some mysterious reason it veers toward the Slavic in its endings, with genitive-sounding things like Snoopev, Momev, and Dadev. This has defied explanation on everyone’s part and calls for the expertise of a psycho-linguist. Clara had met Julio and was impressed with his height, comparing him to President Lincoln and calling him “the six-foot-four man.” In his correspondence there would always be a

altezza, paragonandolo al Presidente Lincoln e chiamandolo “l’uomo di un metro e novanta”. Nelle lettere che mi mandava c’era sempre un

disegnino per lei. Come si può notare in alcune delle sue storie, ci sarà sempre una sorta di legame tra Cortázar e i bambini piccoli, un mutuo riconoscimento e una mutua comprensione indescrivibile. Per molti aspetti è stato un grandioso bambino, generoso e puro, e i bambini possono percepire quelli che sono loro pari, anche quando li guardano freddamente come un cane guarda un altro cane.

Come posso vedere da qui, Cortázar ha tessuto un gran parte del suo lavoro come se fosse la trama e l’ordito di una specie di arazzo. Questo pensiero emerge dopo tutto quello che è stato detto e fatto, se mai sia stato fatto. Ho potuto notare ciò nel secondo dei suoi romanzi che ho tradotto, 62: A Model Kit. Il mio titolo è abbastanza vicino al suo, 62: Modelo para armar, un modello che va assemblato. Quest’ultimo è troppo sgraziato e si limita a descrivere ciò che è comunemente chiamato kit di montaggio (ai miei tempi sarebbe stato un Erector Set o un meno realistico Tinker Toy). Il 62 del titolo si riferisce al capitolo 62 di Rayuela dove lo scrittore Morelli, l’alter ego del Pessoa di Julio, spiega come lui scriverebbe un romanzo. Morelli fornisce gli elementi e Cortázar li mette insieme per il suo romanzo. In un  certo senso questo romanzo si può definire una versione onirica di Rayuela, un sogno surrealista forse, ma in fondo tutti i sogni sono surrealisti e quindi fonte di realismo magico. Può essere definita una versione effimera del libro precedente così mi sono trovato a tradurre qualcosa che era già stato tradotto, anche se all’inferno di quelle misteriose dimensioni aggiuntive di cui parlano i fisici. L’eccentricità de Rayuela diventa qui vera e propria stravaganza.

La narrazione inizia in prima persona e poi passa alla terza nominando Juan come protagonista narrante. In altri momenti a questo protagonista/testimone fa riferimento come a mi paredro. Il meglio che sono riuscito  fare per risolvere questo è stato ricorrere al greco paredros, che è evidentemente l’ellenizzazione di qualche Doppelgänger dell’antico Egitto. Dovendo affrontare questo melange interculturale, ho optato per il greco invece di andare alla ricerca del rotolo di Thoth, perché il nome di quella divinità suona vero solo nella bocca di Boris Karloff. Possono sorgere problemi laddove lo spagnolo è accentato sulla seconda sillaba, parédro, mentre in anglo-greco cade sulla prima, páredros. Il lettore inglese, come quello spagnolo, viene spesso lasciato all’oscuro di questo, e ciò è nello spirito della storia.

Cortázar ha inventato due classici personaggi comici, Polanco e Calac, che improvvisano dialoghi in qualche strana lingua inventata da loro che a volte viene condivisa con altri. È molto simile al Gliglish di Rayuela e ho pensato che fosse opportuno  trattarla allo stesso modo, preservando le radici e anglicizzando le desinenze. Per esempio, Calac e Polanco si scambiano insulti di continuo, uno chiama l’altro petiforro e  di rimando viene chiamato cronco. Questi li ho resi con pettifor e cronk e sembrano mantenere il loro tono di denigrazione senza senso secondo lo spirito della prosa inglese. Può non aver senso per i principianti, ma  chi ha lavorato con Cortázar sia in inglese che in spagnolo non avrà grandi problemi a carpire il succo del discorso. E’ proprio in questo senso che cerco di capire la definizione di quelle persone che Julio chiama cronopio. Si può dare un’idea del significato di questa

 

sketch for her. As can be seen from some of his stories, there is some kind of bond between Cortázar and small children, a mutual recogni­tion and understanding that goes beyond notation. In many ways he was a great child, large and pure, and children can sense those who are their peers, even when they look them over coldly as one dog does another.

As I see it from here, Cortázar has threaded a great deal of his work into what could be the woof and warp of a kind of tapestry. This thought emerges after all has been said and done, if ever done it is. I can see this in the second of his novels that I translated, 62: A Model Kit. My title is quite close to his, 62: Modelo para amar, a model to be assembled. This last is much too awkward and all it does is describe what is commonly called a model kit (in my day it would have been an Erector Set or a less realistic Tinker Toy). The 62 in the title refers to Chapter 62 in Hopscotch where Julio’s Pessoa-like near heteronym, the writer Morelli, explains how we would write a novel. Morelli provides the elements and Cortázar fastens them together for his novel. In a certain way this novel could be called a dreams version of Hopscotch, a surrealist dream perhaps, but, then, all dreams are surrealist and hence the source of magic realism. It might be called an ephemeral version of the earlier book so I was faced with translating something that had already been translated, albeit inside one of those mysterious extra dimensions physicists talk about. The oddballs of Hopscotch here become true weirdlings.

The narration starts in the first person and then changes to the third and names the protagonist narrator as Juan. At other times this protagonist/witness is someone referred to as mi paredro. The best I could do in tracking this down was to come up with the Greek paredros, which is evidently the Hellenized version of some sort of ancient Egyptian Doppelgänger. Faced with this cross-cultural mélange, I opted for the Greek instead of searching out the scroll of Thoth because the name of that worthy sounds true only in the mouth of Boris Karloff. There can be a problem in the fact that the Spanish is stressed on the second syllable, paredro, while the Anglo-Greek comes on a paredros. The English reader, like his Spanish counterpart, is most likely left in the dark concerning all this, which is in the spirit of the story.

Cortázar has invented two classically ludicrous characters here, Polanco and Calac, who will burst into dialogue in some strange tongue of their own which at times is shared by others. It is much like the Gliglish of Hopscotch and I saw fit to handle it in the same way, preserving the root and Anglicizing the endings. For example, Calac and Polanco continually swap insults, the one calling the other a petiforro and being called a cronco in return. These I rendered as pettifor  and cronk and they seem to maintain their tone of meaningless denigration in the flow of the English prose. It may be meaningless to the uninitiated, but one who has worked on Cortázar in both English and Spanish will not have much of problem in extracting the juice of their intent.

It is along these lines that I try to feel out the definition of the person Julio calss a cronopio. The meaning of this really untranslatable designation can only be essayed by saying that

definizione davvero intraducibile solo dicendo che si chiamano così quelle persone dotate di quella ugualmente intraducibile qualità brasiliana chiamata jeito. E’ la persona che magari è l’unica in grado di aggiustare un’auto un giorno e dedicarsi al proverbiale sabotaggio il giorno dopo. Ho pensato a Cronos e alla cronologia e al tempo, ma Julio mi ha detto che non c’entravano niente. Ha detto che una persona sa di essere un cronopio semplicemente essendolo, non c’è bisogno di spiegazioni, il jeito o jeitinho è in azione. E’ stato un mio grande onore aver doppiato cronopio per Julio Cortázar e difendo il titolo con l’orgoglio di un cavaliere, compagno d’armi del Knight of the Woeful Countenance. L’idea del cronopio ha molto a che fare con come traduco i lavori di Julio. Ogni tanto penso che mentre facevo le sue cose io stesso ero il suo paredros, facendo quello che aveva fatto lui in tempo e luogo diversi. Mi piace pensare di esserlo ancora.

Ho lavorato su pochi altri libri di Julio, racconti, sketch e un altro romanzo. Quest’ultimo è particolarmente diverso da quelli che abbiamo considerato fin’ora. Cortázar l’ha scritto all’inizio della dittatura militare in Argentina, quando i generali di piombo hanno iniziato la loro guerra patologica contro i giovani e i disperati senza paura di alcuna opposizione dei carri armati o della fanteria specializzata (i Britannici gli insegneranno più avanti cos’è veramente la guerra). Loro guardano a lui come un non argentino come Julio ha guardato i suoi accusatori dalla zucca vuota (nati in Belgio, vissuti a Parigi), si sentiva più argentino di quelli di quel branco e, come Borges imputato di simili accuse, l’ha dimostrato con i suoi scritti. Per presentare un quadro dell’opposizione espatriata, Cortázar ha scritto Libro de Manuel (Manuel’s Book o Book of Manuel). I possibili titoli inglesi ci hanno creato problemi, troppo scialbi o troppo biblici. Ci siamo quindi decisi per un mio esitante suggerimento di usare A manual for Manuel. Mi chiedo ancora se non avessimo potuto fare una scelta migliore, forse in questo caso un titolo un po’ più lontano dall’originale. A Julio, sempre il cronopio, comunque, piaceva molto il gioco di parole, pur potendolo fare anche in spagnolo non l’aveva fatto. Per alcune ragioni collegate forse a tutto questo, Manual non sembra aver suscitato interesse come gli altri romanzi, anche se c’è una scena carina di un pinguino turchese che trotterella per le vie di Parigi diretto in Antartide. Forse perchè non ci sono Calac e Polanco a creare l’atmosfera adatta o forse perchè la dittatura che opprime tutto il libro di Julio non fa parte del suo humor. Nero sì, ma potrebbe non essere adatto a quella cupa realtà argentina così vicina al suo cuore. Garcìa Marquez e Demetrio Aguilera-Malta potrebbero essersi, diciamo, “divertiti” con dittatori brutali, ma Cortazar ha chiaramente un’inclinazione diversa. Forse è il bambino che c’è in lui.

Ho lavorato a un po’ di suoi racconti e ho scoperto che si adattano piuttosto bene all’inglese.  Quel vecchio e tedioso dibattito sul termine “realismo magico” viene ravvivato quando si prendono in considerazione i racconti di Cortázar. In veramente tanti casi avviene un’armoniosa metamorfosi di quello che reputiamo realtà in qualcosa che c’è davvero ma che non dovrebbe esserci secondo le nostre opinioni. A volte un atto o un oggetto inspiegabile è definito con una parola egualmente inspiegabile. Il mistero sta nel fatto che un oggetto può essere inspiegabile eppure esistere davanti ai nostri occhi. Possiamo entrare nel sogno come Suor Juana Inés de la Cruz che ha ricercato nella sua “teoria del tutto” oppure possiamo farlo entrare nella nostra esistenza dandogli un nome, una parola. E’ forse meno reale un oggetto

it stands for a person endowed with that equally untranslatable Brazilian quality called jeito. He is a person who may be the only one who can fix a machine one day and then throw in the proverbial monkey wrench the next. I thought of Cronos and chronology and time, but Julio said it has nothing to do with that. He said that a person knows if he is a cronopio simply by being one, no explanation needed, jeito or jeitinho at work. It is my great honor to have been dubbed cronopio by Julio Cortázar and I bear the title with the pride of a knight, comrade in arms of the Knight of the Woeful Countenance. The idea of the cronopio has much to do with how I translate Julio. I sometimes think that while I was doing his stuff I myself was his paredros, doing what he had done in a different time and place. I like to think that I still am.

I did a few other books by Julio, short stories, sketches, and another novel. This last is rather different from the ones we have been considering. Cortázar wrote it at the start of the military dictatorship in Argentina, as the tin-plate generals went about their pathological war of attrition against the young and the forlorn with no fear of any opposition from tanks or trained infantry (the British would teach them later what war was really like). As un-Argentine as Julio has looked to his shallow-minded accusers (born in Belgium, living in Paris), he felt more Argentine than any of that pack and, like Borges under similar accusation, proved it with his writings. In order to present a picture of the expatriate opposition, Cortázar wrote his Libro de Manuel (Manuel’s book or Book of Manuel). The possible titles in English were troublesome for us, too bland or too biblical. We finally settled on my own hesitant suggestion of A Manual for Manuel. I still wonder if we might not have done better, perhaps in this case a title a little more far-removed from the original. Julio, ever the cronopio, however, was intrigued by the play on words, even though he could have done the same in Spanish but hadn’t. For some reason related to all this perhaps, although there is one fine scene of a turquoise penguin ambling along the streets of Paris on its way back to Antarctica. Maybe it’s because the dictatorship hovering over the book is not a fit matter for Julio’s humor. Black as it can be, it might just not be apt for that grim Argentine reality so close to his heart. García Márquez and Demetrio Aguilera-Malta could have had what we might call “fun” with brutal dictators, but Cortázar is evidently on a different bent; his inner child perhaps.

I did quite a few of Julio’s stories and found that they adapted rather well to English. That weary old debate over the term “magic realism” gets livened up when Cortázar’s stories are considered. In so many cases we have the smooth metamorphosis of what we deem reality into something that’s really there but shouldn’t be according to our lights. Sometimes an inexplicable act or object is defined by an equally inexplicable word. The mystery lies in the fact that an object can be inexplicable and yet exist in front of our eyes. We can go into a dream like Sor Juana Inés de la Cruz as she sought after her own “theory of everything” or we can bring it into our own existence by giving it a name, a word. Is an object described in Gliglish any less real than when described in English or Spanish? In moments like these the translator must delve after the writer’s genius, as Harold Bloom does, and

descritto in gliglish di uno descritto in inglese o spagnolo? In momenti del genere il traduttore deve investigare dietro il genio dello scrittore, come fa Harold Bloom, e cercare di farlo proprio, diventando un vero paredros. Ho notato che mentre avevo dovuto insistere sulle mie facoltà mentali per risolvere questi problemi con Miguel A’ngel Asturias e con altri scrittori, con Julio Cortázar la miscela è stata armoniosa.

L’ultimo libro di Cortázar che ho tradotto è stato Un tal Lucas. Quando ci ripenso c’è un momento triste o forse allietante in cui mi rendo conto che la traduzione è stata pubblicata nel 1984, l’anno in cui Julio è morto. Dev’esserci qualcosa di più profondo e misterioso in tutto ciò perchè sento che di tutti i suoi libri questo è quello che più lo rappresenta. Questo Lucas dev’essere il suo paredros o come lo avrebbe chiamato lui a quel tempo. La teoria del doppio è descritta in uno dei suoi pezzi saggistici inseriti tra due serie di Lucas, nei quali nota che Dr.Jekyll sapeva di Mr. Hyde ma Hyde non sapeva di Jekyll. Per qualche strana ragione questo dovrebbe essere assegnato alla relazione autore-traduttore nell’ordine contrario. L’autore (Jekyll) scrive le sue parole ma in quel momento non sa che il traduttore (Hyde) sta per subentrare e in un certo senso diventare l’autore trasformando il testo. Speriamo che il finale sia più felice di quello dell’eroe di Stevenson e del suo paredros.

Ho già raccontato come ho iniziato il mio lavoro di traduttore professionale con Il gioco del mondo e come ho scoperto che io e Julio avevamo così tante idee in comune. Questo deve aver aiutato la mia traduzione perchè in tutti i suoi lavori a seguire che ho fatto c’era una sorta di flusso di espressione naturale  che trovo solo quando scrivo qualcosa di personale senza nessuna restrizione legata a fattori come obiettivi accademici. Questo flusso sarebbe continuato sia nei giri di frase più normali sia in quelli contorti. Anche mia moglie Clementine si è messa alla prova traducendo Julio. Ha lavorato al suo racconto Summer da A Change of Lighs and Other Stories. Il suo approccio e la sua visione della traduzione sono diversi dai miei, com’è giusto che sia. Non guardiamo mai al lavoro dell’altro come farebbero i critici e invece, spesso, offriamo volontariamente suggerimenti che sono accolti con gioia dato che migliorano il lavoro. Finita questa esperienza Clem ha portato il suo romanzo breve intitolato Summer II, alquanto diverso nell’intento ma con una specie di affinità mistica anche se ovvia nel titolo. Ha anche ammesso che Edith Wharton possa averci messo mano, anche se il racconto è davvero molto Julio.

L’ipotesi che ho avanzato che il traduttore non si deve sacrificare, non deve tradirsi diventando chi sta traducendo non va davvero contro quello che ho scritto qua sopra. Questo mi avvicina all’opinione di Miguel de Unamuno che Don Chisciotte e il suo cavaliere sono sempre stati lì ma che Cervantes ci è semplicemente arrivato per primo. Unanumo non ha mai perdonato il suo omonimo, dicendo che aveva proprio intenzione di scrivere il libro. Possiamo percepirlo nel modo in cui ha scritto il suo romanzo, o nivola come lui lo chiama, Niebla, e può anche spiegare perchè negli anni ci sono state così tante buone traduzioni di Don Chisciotte, ognuna creazione di Cervantes e ognuna creazione personale del traduttore e quindi un buon lavoro, anche quando il montone viene reso come agnello.

Sento che essendo stato Julio Cortázar il primo autore, sono stato messo nel

try to fir it into his own, become true paredros. I found that while I would have to belabor my wits to solve such problems with Miguel Ángel Asturias and other writers, with Julio Cortázar the blend was smooth.

The last book by Cortázar that I translated was A Certain Lucas. As I look back there is a saddening or maybe a gladdening moment when I realize that the translation came out in 1984, the year Julio died. There must be something deeper and more mysterious to all this because I feel that of all his books this is the most Julio one. This Lucas has to be his paredros or whatever he would have called him at the time. The idea of the double is described in one of his essayistic pieces put in between two batches of Lucas, wherein he notes that Dr. Jekyll knew about Mr. Hyde but that Hyde didn’t know about Jekyll. In some odd way this might be applied to the author-translator relationship in reverse order. As the author (Jekyll) writes his words he doesn’t know at the time that the translator (Hyde) is to take over in a sense and become the author as he transforms the text. Let us hope that the outcome, will be happier than it was for Stevenson’s hero and his paredros.

I have explained above how I began my work as a professional translator with Hopscotch and how I found that Julio and I had so many in common. This must have aided my translation because in all the subsequent things of his I did there was a kind of natural flow of expression that I only find when I am writing something personal without any restraints from matters like academic purposes. This flow would continue along through both standard and quirky turns of expression. My wife Clementine also essayed her hand at translating Julio. She did his story “Summer” from A Change of Light and Other Stories. Her approach and her views on translating are different from mine, as they should be. We never go over each other’s work as critics would and instead, more often than not, offer voluntary suggestions that are apt to be joyfull accepted as they improve the work at hand. Out of this experience Clem brought her own novella entitled Summer II, quite different in intent but with some sort of mystic kinship if only obvious in the title. She also allows that Edith Wharton might have had a hand in it, although the story is really very Julio.

The idea I have broached that the translator must not sacrifice himself, must not betray himself by becoming someone else as he translates does not really run counter to what I have been saying above. This brings me to Miguel de Unamuno’s notion that the Quijote and its knight were there all the time but that Cervantes just got it first. Unamuno never forgave his namesake, saying that he had really been meant to write the book. We can sense this in the way he wrote his novel, or nivola as he called it, Niebla (Mist), and it also might explain why there have been ever so many good translations of Don Quixote done over the years, each one Cervantes’s creation and each one also the personal creation of the translator and therefore a fine piece of work, even when mutton is rendered into lamb.

It is my feeling that by having Julio Cortázar as my first author I was put into just

giusto stato d’animo e modalità per tradurre gli altri. Fondendo le mie parole con le sue devo essere caduto nel ruolo del paredros e facevo in inglese quello che lui aveva fatto in spagnolo, completamente incosciente ma in qualche modo istintivamente consapevole. Hyde stava conoscendo Jekyll. Stavano iniziando a somigliarsi ma non avrebbero mai potuto essere la stessa persona dato che lavoravano in dimensioni di linguaggio diverse che possono solo portare riflessioni. Non sono sicuro che avrei potuto scrivere Il gioco del mondo arrivandoci prima, ma l’ho portato a una versione inglese che Julio ha approvato e apprezzato come tanti altri. Mi chiedo ora al mio nono decennio a guardare parole svanire e poi riaccendersi in nuovi significati e sfumature se qualcuno in futuro mi seguirà nella riproduzione di quello che Julio ha scritto. Potrebbe andare avanti ancora e ancora, perchè le traduzioni che hanno la strana virtù progressiva letteraria di non essere mai finite. Avendo letto bene Il gioco del mondo si può notare che anche questo non è mai stato davvero finito, e che Cortàzar ci invita a fare quello che non ha fatto lui. Se andrà così, teniamoci bene a mente Avellaneda, chiunque lui fosse, che ha provato a finire il lavoro di Cervantes ma che ci ha lasciato con un racconto piccolo e divertente che ci conduce verso il nulla. In realtà finisce in un manicomio, un posto dove Don Chisciotte non sarebbe mai andato (e infatti non ci andò). L’integrità di un lavoro è portata a termine meglio nella traduzione, dove il traduttore può lavorare a cose negate all’autore dalla sua linguaggio, allo stesso modo in cui San Gerolamo ha erroneamente capito che Mosè fosse cornuto come Michelangelo ha poi inciso sulla pietra immortale. Per portare ciò a una conlusione adeguatamente inconcludente, suggerisco che nel suo senso o nonsenso, ciascuna traduzione che ho fatto da Il gioco del mondo in poi è stata in un modo o nell’altro la sua continuazione

the proper mood and mode for translating others to come. As I blended my words with his I must have slipped into the role of paredros and was doing in English what he had been doing in Spanish, largely unaware but somehow instinctively knowing. Hyde was getting to know Jekyll. They were beginning to resemble each other but could never become one another as they worked in different dimensions of language that could only produce reflections. I am not sure that I could have written Hopscotch had I got there first, but I did get it into an English version that Julio approved and liked as did some others. I wonder now in my ninth decade as I watch words fade and then glimmer back into new meanings and nuances if someone will be following me at some future time into a reproduction of what Julio wrote. It could go on and on, translations have the strange progressive literary virtue of never being finished. If we have read Hopscotch properly we can see that it, too, was never really finished that Cortázar is inviting us to do what he had not done. If that is to be the case, let us keep Avellaneda, whoever he was, in mind as he tried to finish Cervantes’s work but left us with an amusing little tale that trips along to nowhere. As a matter of fact it ends up in the booby hatch, a place where Don Quixote wouldn’t be caught dead (and wasn’t). The completion of a work is best done in translation, where the translator can work at things denied the author in his own language, even the way Saint Jerome mistakenly implied the cuckoldry of Moses which Michelangelo then wrought in enduring stone. To carry this to a fittingly inconclusive conclusion, I suggest that in the sense or nonsense of it, every translation I have done since Hopscotch has in some way or another been its continuation.

ANALISI

La particolarità del processo di traduzione di Gregory Rabassa è la modalità con cui si approccia al libro. Come scrive in Rayuela:

“Come ho già detto, ho letto tutto il romanzo solo mentre lo traducevo. Questa strana e inusuale procedura in qualche modo seguiva la natura del libro stesso e penso non sia stata per niente nociva alla traduzione. Anzi, può averne assicurato il successo.”

Questo procedimento all’apparenza insolito risulta per Rabassa il modo migliore per comprendere la mente di Cortázar, che compone i suoi libri secondo complicati schemi spesso non approvati dai critici più legati alla tradizione. Cortázar utilizza l’invenzione di nuovi elementi per i suoi romanzi, e quindi questa risulta essere una particolarità costante della sua scrittura che coinvolge indirettamente il traduttore.

A mio parere, l’invenzione è un flusso di pensieri che si concretizza in un nuovo codice. Inventare un nuovo codice (processo talmente elementare che viene spesso compiuto dai bambini con la creazione di alfabeti segreti) consiste nell’associare una serie di nozioni già esistenti in una sequenza completamente diversa. Come Clara, figlia di Rabassa, inventa il Vermaciano seguendo uno schema a metà tra l’inglese e lo slavo:

“Sono stato aiutato in questa avventura dall’ascolto di ogni tipo di frase in una lingua chiamata Vermaciano, inventata da mia figlia Clara da piccola per parlare con il suo peluche di Snoopy. Era folle quel tanto che basta per corrispondere alla natura folle della quale lo aveva dotato. Come il Gliglish, ha una base inglese che potrebbe portare qualcuno a definirla dialetto. Snoopy direbbe semplicemente di se stesso che ha uno “speech defeck” (“defetto di pronuncia”), un termine che oggi non è molto accettabile, meglio se lasciato in Vermaciano. Per misteriose ragioni si avvicina allo Slavo nelle sue desinenze, con elementi che sembrano genitivi come Snoopev, Momev, Dadev. Il fenomeno non è stato spiegato da nessuno e ha richiesto la consulenza di uno psicolinguista.”

Questo Vermaciano ha quindi aiutato Rabassa a comprendere la natura del Gliglish, lingua con cui comunicano Calac e Polanco, due personaggi comici inventati da Cortázar. Una volta compresa la natura di questa lingua si è adoperato per ricostruirla sostituendo la cultura emittente con quella ricevente:

“Per esempio, Calac e Polanco si scambiano insulti di continuo, uno chiama l’altro petiforro e  di rimando viene chiamato cronco. Questi li ho resi con pettifor e cronk e sembrano mantenere il loro tono di denigrazione senza senso secondo lo spirito della prosa inglese.”

Il lavoro di Rabassa è dovuto andare più a fondo della semplice traduzione, costringendolo a diventare egli stesso creatore di un nuovo codice.

La creazione di nuovi codici non si limita alla semplice invenzione di nuovi linguaggi, ma si estende a tutto il campo artistico: pittura, scrittura, cinema, etc.

Il 20 febbraio 1909 a Parigi Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) pubblica sul “Figaro” il Manifesto ( “Le Futurisme”) di un nuovo movimento letterario e artistico, il Futurismo, caratterizzato dalla celebrazione della tecnologia moderna.

Marinetti intende dare voce alle frustrazioni di una generazione che si sente imprigionata dal peso delle tradizioni artistiche occidentali.

I futuristi propugnano una nuova estetica e una nuova concezione della vita, fondate sul dinamismo come principio base della moderna civiltà delle macchine. Il Manifesto si articola in 11 provocatori punti.

Per i futuristi quindi, inventare un nuovo tipo di scrittura era un modo per liberarsi dalle limitazioni della società di allora. Allo stesso modo Boccioni (1882 – 1916) e Balla (1871-1958) hanno interpretato questa ribellione con i colori per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. È un atto di ribellione dell’arte contro la tradizione che riprende nozioni già esistenti in una sequenza completamente diversa.

 

Marinetti – Il bombardamento di Adrianopoli (1912-13)

Ogni

5  secondi   cannoni  da    assedio  sventrare

spazio  con  un  accordo  tam-tuuumb

ammutinamento  di   500    echi   per   azzannarlo

sminuzzarlo   sparpagliarlo   all´infinito

nel  centro  di  quei  tam-tuuumb

spiaccicati  (ampiezza  50  chilometri  quadrati)

(…)

 

 

Boccioni – Dinamismo di un giocatore di calcio (1913)

 

 

 

 

 

Balla – La Guerra (1916)

Ma senza andare troppo a fondo negli schemi del futurismo, l’invenzione nella scrittura non riguarda solo ribellioni contro una cultura stagnante. Ne si trova un esempio in Le città invisibili di Calvino:

“Nelle Città invisibili non si trovano città riconoscibili. Sono tutte città inventate, le ho chiamate ognuna con un nome di donna; il libro è fatto di brevi capitoli, ognuno dei quali dovrebbe offrire uno spunto di riflessione che vale per ogni città o per la città in generale. (…) Così mi sono portato dietro questo libro delle città negli ultimi anni, scrivendo saltuariamente, un pezzetto per volta, passando attraverso fasi diverse. Per qualche tempo mi veniva da immaginare solo città tristi e per qualche tempo solo città contente; c’è stato un periodo in cui paragonavo le città al cielo stellato, e in un altro periodo invece mi veniva sempre da parlare della spazzatura che dilaga fuori dalle città ogni giorno. Era diventato un po’ come un diario che seguiva i miei umori e le mie riflessioni; tutto finiva per trasformarsi in immagini di città: i libri che leggevo, le esposizioni d’arte che visitavo, le discussioni con gli amici.”[3]

In questo caso Calvino non sta cercando di andare contro una tradizione ostile, piuttosto cerca di descrivere la realtà che lo circonda. Una realtà che sta andando verso la standarizzazione degli stili di vita e verso la crisi della città urbana. Scrive il suo ultimo poema d’amore alla città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverla come tale. Nei suoi viaggi raccoglie il materiale necessario alla composizione del romanzo (anche se non è un romanzo in senso stretto): raccoglie cartelle per oggetti, animali, persone, mitologia, stagioni, città e paesaggi, reali o immaginari. La sua creatività si focalizza quindi su una domanda principale:

“Che cosa è oggi la città, per noi?”

Raccogliendo informazioni dal mondo, Calvino da vita a una discussione sulla città moderna. Vuole scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi. Anche l’invenzione di Calvino scaturisce da un insieme di nozioni già esistenti in una sequenza completamente diversa.

 

In sintesi, l’invenzione sembra essere una via di fuga, un rifugio dove si cerca di comprendere (o combattere) le ragioni di ciò che ci circonda. Per un traduttore, secondo me, ciò che per altri è una via di fuga è la base del processo intuitivo che porta alla comprensione del testo su cui lavorare.

Lingue, città e forme immaginarie contribuiscono alla comprensione dell’ordinario. L’ordinario forma l’essere umano per poter collocarsi all’interno di uno schema sociale, l’immaginazione stimola l’essere umano a evadere da questo schema.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(…) Dr.Jekyll sapeva di Mr. Hyde ma Hyde non sapeva di Jekyll. Per qualche strana ragione questo dovrebbe essere assegnato alla relazione autore-traduttore nell’ordine contrario. L’autore (Jekyll) scrive le sue parole ma in quel momento non sa che il traduttore (Hyde) sta per subentrare e in un certo senso diventare l’autore trasformando il testo.

Riferimenti bibliografici

–                RABASSA GREGORY, 2005 If this be treason. Translation and its dyscontents. A memoir. New York: New Directions

 

–                ITALO CALVINO, 2006 Le città invisibili. Milano: Mondadori

RINGRAZIAMENTI

 

La strada che mi ha portato fin qui è stata tortuosa, fatta di alti e bassi.

 

Innanzitutto ringrazio il Professor Osimo per l’aiuto e il supporto (tecnico e morale) che mi ha dato.

Ringrazio la mia mamma e il mio papà, che sono sempre pazienti con la loro ultima figlia combina guai.

Ringrazio Marzia, Pamela e Arianna, che nonostante la lontananza mi sono state vicine e hanno ascoltato i miei dubbi e le mie ansie.

Ringrazio Alessio per la semplice muta vicinanza che mi fa compagnia nei periodi difficili.

Ringrazio il Professor Ribatti, mio insegnante del liceo, per avermi insegnato l’attenzione a ciò che circonda e a tutte le sue sfaccettature e la passione per la traduzione, partendo dal latino.

E ringrazio tutti coloro che sono stati d’aiuto volontariamente e non con una frase, un’espressione o qualsiasi altro che mi abbia ispirato a voler perseverare in ciò che più sogno per il mio futuro.

 

Vorrei dedicare una parte di questi ringraziamenti a Roberto, spirato quest’autunno. Lui più di altri mi ha comunicato la pacata passione per la letteratura e la traduzione, con lui nel cuore continuerò a leggere e, si spera, a tradurre.



[1]           Iperromanzo: Italo Calvino, inventore della parola, descrive l‘iperromanzo, durante le lezioni che avrebbe dovuto tenere all’università di Harvard (Lezioni Americane), come luogo “d’infiniti universi contemporanei in cui tutte le possibilità vengono realizzate in tutte le combinazioni possibili”; dove può valere “un’idea di tempo puntuale, quasi un assoluto presente soggettivo”; dove le sue parti “sviluppano nei modi più diversi un nucleo comune, e che agiscono su una cornice che li determina e ne è determinata”; che funziona come “macchina per moltiplicare le narrazioni”; “costruito da molte storie che si intersecano”.

[2] Hopscotch, Gregory Rabassa – Il gioco del mondo – Flaviarosa Nicoletti Rossini

 

[3] ITALO CALVINO, 2006 Le città invisibili. Milano: Mondadori.

 

Hermans: produzione e riproduzione della traduzione

Hermans: produzione e riproduzione della traduzione

Valeria Tunesi

 Fondazione Milano

Milano Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

Relatore: professor Bruno OSIMO

Diploma in Mediazione linguistica

Dicembre 2012

© Theo Hermans, «Produzione e riproduzione della traduzione», 2002

© Valeria Tunesi per l’edizione italiana 2012

Hermans: produzione e riproduzione della traduzione

 

 

Abstract italiano:

Qui si analizza l’articolo The production and reproduction of translation di Theo Hermans nella versione italiana. L’autore parte da un problema molto comune quando ci si trova ad affrontare testi tradotti, ovvero come mai ci si sente autorizzati a contestare alcune scelte compiute dal traduttore. Nell’articolo si analizza il problema tramite i concetti di norma e comunicazione per giungere poi alla teoria sistemica di Luhmann e fornire l’adeguata spiegazione teorica a un problema di natura pratica. L’esempio finale mira ad applicare i concetti illustrati da una prospettiva storica.

 

English abstract:

Here I’m going to analyze the Italian version of the article The production and reproduction of translation by Theo Hermans. The author begins with a very common problem regarding translated texts, i. e. why we feel authorized to question some of the choices the translator has made. This article analyzes the problem through the concepts of norm and communication and introduces Luhmann’s system theory, in order to provide and adequate theoretical explanation to a practical problem. The final example aims to apply these concepts from a historical perspective.

 

Samenvatting:

Hier wordt de Italiaanse versie van het artikel The production and reproduction of translation van Theo Hermans geanaliseerd. De auteur gaat uit van een vaak voorkomend probleem bij vertaalde teksten, ofwel hoe komt het dat men zichzelf het recht geeft om bepaalde vertalingskeuzes van de vertaler in twijfel te trekken. In het artikel wordt dit probleem geanaliseerd met behulp van norm- en communicatiebegrippen, om dan verder in te gaan op de systematische theorie van Luhmann en er wordt een theoretische uitleg gegeven voor een praktisch probleem. Tot slot volgt er een voorbeeld dat de betreffende concepten toepast vanuit een historisch perspectief.

 

Sommario:

 

  1. Prefazione
  2. Traduzione

 

1. Prefazione

 

1.1La presente tesi ha come oggetto la traduzione dell’articolo The producion and reproduction of translation (Produzione e riproduzione della traduzione). L’articolo è stato scritto da Theo Hermans nel 2002 per il libro Translations: (Re) shaping of Literature and Culture (curato da Saliha Parker, Bogaziçi University Press, Istanbul, 2002).

 

Theo Hermans è docente di Nederlandese e Letteratura Comparata all’University College of London e nella sua carriera si è occupato più volte dello studio e dell’analisi della traduzione, con numerose pubblicazioni, lezioni e articoli redatti in varie lingue, inglese e nederlandese soprattutto. L’articolo tradotto in questa tesi fa parte di una serie di saggi che vogliono sfidare l’idea delle traduzioni come prodotto derivato di poca importanza letteraria o culturale. Per raggiungere questo scopo, vengono selezionati e presentati una serie di concetti nati dal moderno studio della traduzione e applicati a un contesto storico, per dimostrare la validità di tali idee e la forza delle traduzioni e delle scelte traduttive come un importante mezzo per studiare e comprendere contesti storici e culturali passati.

 

Hermans approccia il problema tramite tre diverse fasi. In primo luogo presenta un problema comune quando si ha a che fare con testi tradotti di qualunque tipo, da romanzi a testi tecnici, ovvero perché ci si sente autorizzati a criticare una scelta traduttiva. L’autore, dunque, si sposta dal piano pratico a quello teorico presentando il concetto di «aspettativa normativa» o «norma», che nel caso della traduzione non è un semplice legame di causa-effetto, bensì l’interazione tra gli individui che devono comunicare tramite la traduzione e, quindi, coordinarsi dal punto di vista del contatto interpersonale, tempo e spazio. Le norme servono a sottolineare che, per ogni situazione, c’è una gamma di opzioni disponibili, dove il traduttore ha cercato e trovato la parola di cui aveva bisogno e alla quale ci si rifà quando si critica questa scelta traduttiva.

 

Prima di approdare alla teoria sistemica di Luhmann, Hermans si sofferma ulteriormente sul significato della traduzione come «comunicazione» e sull’importanza, spesso trascurata, che anche la scelta del testo stesso, quello che poi viene tradotto, è suggerita da una serie di situazioni e decisioni, che si concludono con la scelta di quel determinato testo rispetto ad altri. La traduzione, secondo Hermans, è un sistema composto da comunicazioni e affermazioni riguardo la traduzione: è un sistema che si auto-riproduce all’infinito e non esiste per sé, ma si lega ad altri sistemi e ad altri interessi.

L’esempio storico conclusivo scelto da Hermans è la traduzione dal latino di Consolazione della filosofia di Boezio da parte del prete fiammingo Adrianus de Buck. Il lavoro di de Buck si inserisce in un contesto complesso e allo stesso tempo delicato, che spiega le scelte, talvolta bizzarre, compiute dal prete, che hanno poi influenzato i successivi lavori di traduzione di quell’area culturale.

 

1.2  Di seguito l’analisi dei problemi di traduzione più significativi riscontrati.

 

  • · Various other scholars, mostly in Germany and in the Low Countries, have used Luhmann’s concepts and terminology.

 

In questa frase la difficoltà è dovuta alla traduzione della parola Low Countries, perché indica una realtà storica che attualmente non esiste più. Partiamo dalla definizione:

 

Territorio di estensione variabile, posto nell’Europa nordoccidentale tra le Ardenne e il mare, e che per più di tre secoli coincise con le diciassette province:vi appartennero, per periodi più o meno brevi, anche il Lussemburgo, la Francia settentrionale (Artois, Fiandra, Hainaut) e alcuni territori renani (Colonia) o bassotedeschi (Münster).

(Atlante Enciclopedico Touring, Storia moderna e contemporanea, 1990)

Vediamo quindi che la traduzione letterale, ovvero «Paesi Bassi», non solo è riduttiva, ma anche errata, così come «Paesi Bassi storici» non è di immediata comprensione. «Low Countries» («Lage Landen» in nederlandese) indica un territorio che storicamente corrispondeva agli attuali Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, più alcune regioni francesi e tedesche. In assenza di un termine che definisca questa unità territoriale in modo immediato e senza utilizzare descrizioni eccessive, ho scelto di tradurre «Low Countries» con «Benelux».

Nonostante il contesto storico tra le due entità sia ben diverso, la delimitazione geografica di «Benelux» è quella che più si avvicina al concetto di «Low Countries». Questo concetto, inoltre, viene presentato nell’introduzione dell’articolo, al di fuori dell’esempio storico conclusivo: la mancanza di una precisa indicazione temporale e la complessità della definizione di «Low Countries» rende piuttosto difficile la comprensione. L’autore ha probabilmente voluto introdurre presto questo concetto per poi rifarsi all’esempio storico successivo, ambientato proprio nel Seicento, quando i «Low Countries» erano una realtà.

 

La frase in italiano risulterà:

  • · Numerosi altri studiosi, la maggior parte in Germania e Benelux, hanno utilizzato i concetti e la terminologia di Luhmann.

 

 

  • · De Buck’s translation appeared in Bruges, i.e., in the Southern Netherlands then still under Catholic Spanish rule. The mainly Protestant (more particular, Calvinist) Northern Netherlands had, after a prolonged war with Spain, become an independent and astonishingly prosperous republic. Spain formally recognized the Dutch Republic as an independent state in 1648.

 

Di nuovo ci vengono introdotte entità territoriali storiche non più esistenti. La differenza dal passaggio precedente è che, però, qui l’autore sta illustrando l’esempio storico a cui aveva accennato in precedenza e fornisce numerosi riferimenti temporali (poco prima ha infatti citato l’anno preciso della pubblicazione del lavoro di De Buck, il 1653). Ci troviamo, quindi, davanti a un contesto in cui i riferimenti storici sono ben chiariti oltre a parlare di entità più note dei precedenti «Low Countries».

 

Ho scelto quindi di mantenere le traduzioni letterali per «Southern Netherlands» (Paesi Bassi meridionali) e «Northern Netherlands» (Paesi Bassi settentrionali): i primi corrispondono a gran parte del Belgio moderno e al Lussemburgo, mentre gli altri corrispondono agli attuali Paesi Bassi. «Northern Netherlands» in questo contesto storico corrisponde inoltre a«Dutch Republic», «Province Unite»: ho però deciso di mantenere Paesi Bassi settentrionali in tutto il testo del testo per rispecchiare la voluta contraddizione tra Nord e Sud che l’autore sottolinea in tutto l’esempio.

La frase in italiano risulterà:

 

  • La traduzione di de Buck venne pubblicata a Brugge, ovvero nei Paesi Bassi meridionali quando ancora erano dominati dagli spagnoli, cattolici. I Paesi Bassi settentrionali, per lo più protestanti (calvinisti, per essere precisi) erano diventati una ricca repubblica indipendente, dopo una lunga guerra contro la Spagna, che riconobbe l’indipendenza della Repubblica delle Sette Province Unite nel 1648.

 

 

ñ . Its only durability and stability, as a concept and a practice, comes from its constant autopoiesis as a system.

 

Così come all’inizio del paragrafo avevamo incontrato l’aggettivo «autopoietic», qui ci viene riproposto in forma sostantivata, «autopoiesis». La parola, che in italiano è resa semplicemente con «autopoiesi», si è rivelata particolarmente difficile da contestualizzare, poiché definizioni di questo concetto si trovano in numerose discipline.

Consultando numerosi dizionari monolingua di italiano, le uniche informazioni che ho ottenuto sono state l’origine della parola e una definizione scarna:

 

Autopoiesi

n.f. invar. capacità di un sistema di autoriprodursi, conservando invariate le sue caratteristiche 
Comp. di αὐτo- (auto-) e ποίησις (poiesis, produzione).

(Treccani, dizionario della lingua italiana, 2010)

 

Questa definizione non è però sufficiente per capire come mai Luhmann stesso aveva fatto uso di questo termine nella sua teoria sistemica. È stata utile invece la consultazione di un dizionario tecnico:

 

Autopoièsi [Comp. di auto- e poiesi] La capacità di riprodurre sé stessi che caratterizza i sistemi viventi in quanto dotati di un particolare tipo di organizzazione, i cui elementi sono collegati tra loro mediante una rete di processi di produzione, atta a ricostruire gli elementi stessi e, soprattutto, a conservare invariata l’organizzazione del sistema (spec. di fronte a mutamenti che possono intervenire nello spazio fisico in cui esso opera). ◆ Più in generale, il termine è riferito a ogni sistema la cui organizzazione si riproduce in forma invariata e in modo essenzialmente indipendente dalle modificazioni dello spazio fisico in cui esso opera.

(Treccani, dizionario tecnico, 2012)

Inoltre:

Autopoiesi è un termine coniato intorno al 1972 dai biologi cileni Humberto Maturana e Francisco Varela, unendo le parole greche auto- (se stesso) e poiesis (creazione, produzione).Un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente sé stesso ed al proprio interno si sostiene e si riproduce. Maturana e Varela sono i primi a riconoscere l’autorganizzazione quale discriminante tra vivente e non vivente.

(Louis W. Sander, Pensare differentemente. Per una concettualizzazione dei processi di base dei sistemi viventi. La specificità del riconoscimento, 2005)

Hermans vuole sottolineare che la scelta di Luhmann del termine «autopoiesi» non è solo dettata dalla volontà di indicare la traduzione come un sistema che contiene in sé gli elementi necessari per la sua auto-riproduzione, ma che la traduzione è un sistema vivente, in continuo movimento, e non qualcosa di immobile, passivo.

 

2. Traduzione

Production and reproduction of translation

Introduction

 

Imagine that we are happily reading a translation, let’s say a translated novel, and suddenly we stumble upon a real howler, a glaring anomaly, something irreconcilable with our idea – our expectation – of what a translated text should be, of what constitutes a ‘proper translation’? What do we do?

The least likely response is one of relaxed acceptance, of the kind ‘Oh well, this must be another way of doing it, one I had never considered as coming within the purview of translation, but there you are.’ No, the common response is that, having looked twice to make sure we are not dealing with a printing error, we grow indignant. We say: ‘Wrong!’, ‘Incompetent!’, ‘Unacceptable!’. We say: ‘Do they call this translation?’ – meaning: I don’t, therefore it isn’t, and everyone who knows anything about translation is bound to agree with me – which makes it very hard for any self-respecting witness to disagree. And if the fancy takes us we set to work on the text with a red pencil, or write to the publisher, or phone the translation agency. In doing so we are emphatically upholding and reaffirming our idea of ‘translation’, what it is, and what in our view it evidently is not. At the same time we appeal

to a publicly recognized and acknowledged category, both a concept and a practice, to which, in our view, this translation must be made to correspond if it is to be accepted as a valid translation.

Consider our starting point again. How to respond when our expectations are disappointed by a flagrant transgression?

 

 

Produzione e riproduzione della traduzione

Introduzione

Immaginiamo di essere felicemente intenti a leggere una traduzione, un romanzo tradotto per esempio, e di inciampare all’improvviso in un vero strafalcione, una lampante e inaccettabile anomalia, qualcosa di completamente inconciliabile con la nostra idea, con la nostra aspettativa, di ciò che dovrebbe essere un testo tradotto o di ciò che costituisce una «traduzione vera e propria». Cosa facciamo?
Potemmo essere tranquilli a riguardo e dire «Oh bé, dev’essere un altro modo di tradurlo, un modo che non avevo mai pensato fosse accettabile in una traduzione, ma eccolo qui». Come tutti noi sappiamo, una risposta del genere è improbabile. Al contrario, la reazione comune è, dopo aver letto due volte per accertarsi di non aver a che fare con un errore di stampa, uno scoppio di indignazione e condanna. Diciamo «Che errore!», «Inaccettabile!», «Stupido!». Diciamo: «E la chiamano traduzione, questa?» intendendo: io no, perciò non lo è, e chiunque sappia qualcosa di traduzione sarà d’accordo con me (il che tronca sul nascere le obiezioni di un qualsiasi testimone con un minimo di amor proprio). E se ci gira ci mettiamo a lavorare sul testo con una penna rossa, o scriviamo all’editore, o chiamiamo l’agenzia di traduzione. E così facendo stiamo sostenendo e riaffermando in modo energico la nostra idea di «traduzione», cos’è, cosa dal nostro punto di vista chiaramente non è e, nel contempo, ci appelliamo a una categoria pubblicamente riconosciuta, in teoria che una pratica, a cui questa traduzione in particolare deve adeguarsi perché essa sia accettata come valida.

Riprendiamo in considerazione il nostro punto di partenza. La domanda era: come si affronta un’anomalia lampante?

Broadly speaking we have a choice between two alternatives: we can be flexible, and adjust our mental picture of the world to the empirical reality we observe; or we can keep our world view intact by dismissing the anomaly or by correcting it (that is, undoing it) in one way or another.

In the first case we may be said to adopt a learning attitude. This means it is we who change, in that we seek to incorporate the new experience into our world picture by adjusting the picture so as to accommodate the new reality. In this case we adjust our expectations

about the world and the range of likely occurrences in it to the possibility of another occurrence like the apparently anomalous one we just observed. In our example this would mean accepting the apparent breach as a possible alternative way of translating.  By adjusting our expectation we build in the possibility that we may encounter similar cases in the future.

In the second case we refuse to let our experience affect our idea of the nature of things. Having censured the anomalous fact, we either erase it or force it back into line with our mental picture. At best we let it pass, this once, and hope it will not happen again. This

allows us to stick to our existing beliefs and to carry on as we were, despite the occurrence of an incongruous fact, which, we decide, should not have happened in the first place.

The first attitude, the adaptive, learning one, is a matter of having cognitive expectations. This is an attitude which will try to build and amend and forever rebuild hypotheses about the world. If our mental scheme of things falls out with the world, we adjust the scheme. This mode of  expectation tends towards the world of science. Science seeks to understand the world as it is, and remains prepared to redesign its models of the world. The other attitude, which is unwilling to learn, corresponds to a normative expectation. It provides more peace of mind to the individual because it is more stable. It is ‘counterfactually stable’ in that disappointments, anomalous occurrences, even flagrant breaches do not really upset it. It carries on regardless.

 

In linea di massima, possiamo affermare che la scelta ricade tra due alternative: essere flessibili e adattare la nostra immagine mentale del mondo alla realtà empirica che osserviamo, oppure mantenere intatta la nostra concezione del mondo, accantonando l’anomalia o correggendola, per esempio annullandola in un modo o nell’altro.
Nel primo caso assumiamo un atteggiamento teso all’apprendimento. Cerchiamo di incorporare la nuova esperienza nella nostra immagine del mondo modificandola così che si adatti alla nuova realtà. Così facendo, cambiamo noi, adattiamo le nostre aspettative sul mondo e la gamma di possibili occorrenze all’eventualità dell’insorgere di un’occorrenza simile a quella appena osservata. Nel nostro esempio significherebbe accettare l’ovvia anomalia come un modo radicalmente diverso di tradurre. Per quel che riguarda le reazioni alle traduzioni, questo comportamento può essere assunto in alcuni casi, forse nella traduzione di poesie, ma è raro.
Nel secondo caso, non permettiamo che la nostra esperienza influisca sulla nostra idea di «natura delle cose». Dopo aver condannato il fatto anomalo, la nostra linea d’azione si sposterà sul cancellarlo o rimetterlo forzatamente in linea con la nostra immagine mentale. Nella migliore delle ipotesi lasciamo correre e speriamo non si ripresenti più. Questo ci permette di attenerci alle nostre attuali opinioni e andare avanti a essere quelli che siamo, malgrado il fatto incongruente che, decidiamo, in primo luogo non si sarebbe dovuto verificare.

Il primo atteggiamento, quello adattivo, di apprendimento, è questione di avere aspettative cognitive. Questo tipo di comportamento proverà a costruire e rivedere e ricostruire in continuazione ipotesi sul mondo. Adattiamo il nostro schema mentale delle cose, se questo si scontra con il mondo. Questa modalità di aspettativa propende verso il mondo della scienza. L’altro atteggiamento, quello non intenzionato ad apprendere, corrisponde a un’aspettativa normativa. In realtà da più serenità perché è più stabile. È controfattualmente stabile (termine di Luhmann) per il motivo che delusioni, occorrenze anomale, violazioni evidenti non la sconvolgono davvero. Va avanti malgrado tutto.

 

More than that: following disappointment it may emphatically and publicly reaffirm the validity of its model of the world. This mode of expectation leans towards the law, which, as we know, remains intact despite frequent crimes being committed.

In the case of our renegade translation, we condemned the transgression, invoked the law and reached for the rule-book – which we reckoned the translator also knew or should have known, as everyone else connected with the profession does or should do. In

essence, most translation criticism and reviewing, and a good deal of translation teaching, is of this nature, and is necessarily so: in weighing and evaluating, it apportions blame or praise against the background of a shared, known category.

It is in this sense, it seems to me, that we can speak of a social entity called ‘translation’ and a form of behaviour called ‘translating’ with which, give or take a few nuances, we assume we are all familiar with in our own language and culture. This is what allows us, for example, to expect of translators that, as they go about their task, they select certain appropriate options from among an available array of permissible options. The set of permissible options constitutes ‘translation’. The meaning of the term ‘translation’ – or of that term or cluster of terms in another language which, rightly or wrongly, we translate as ‘translation’ – is codified in both monolingual and multilingual dictionaries. There are professional activities called translation, we have organisations representing professional and other kinds of translators, institutes for translator training, and so on. In other words: in our own respective cultures at the present moment, in other contemporary cultures, and in past cultures, we encounter terms which, rightly or wrongly, we interpret as denoting that concept and that activity that we recognize for ourselves as constituting ‘translation’. There is an extraordinary complication built into this idea to which I will return, but let us ignore it for the moment and retain that – again, rightly or wrongly – we assume that, when we use the term ‘translation’ or its counterpart in another language, it indicates a socially recognizable and recognized category, both a known concept and a socially acknowledged practice. The category called ‘translation’, that is, of the production of utterances recognized as communcation of a certain kind (the practice), and of statements about translation (the concept, insofar as it is explicitated).

È più di tutto questo, come ha mostrato il nostro esempio: in seguito alla delusione può riaffermare la sua validità categoricamente e pubblicamente. Questo tipo di modalità di aspettativa propende verso la legge, che, come sappiamo, rimane integra nonostante crimini vengano commessi quotidianamente.

Nel caso della nostra traduzione ribelle, abbiamo condannato la trasgressione, ci siamo appellati alla legge e preso il “libro delle regole” – che pensavamo conoscesse o avrebbe dovuto conoscere anche il traduttore, come chiunque collegato alla professione fa o dovrebbe fare. In sostanza, tutta la critica e la revisione, e l’insegnamento, della traduzione è di questa natura e lo è per forza: soppesando e valutando traduzioni individuali, critici e insegnanti distribuiscono colpe o elogi sullo sfondo della categoria condivisa e riconosciuta.

È in questo senso, quindi, che possiamo parlare di un’entità sociale chiamata «traduzione» e di una forma comportamentale chiamata «tradurre» che noi tutti crediamo di conoscere nella nostra lingua e cultura. E’ per questo che ci aspettiamo dai traduttori, per esempio, quando si mettono al lavoro  che scelgano determinate opzioni appropriate da una gamma di opzioni accettabili. L’insieme di opzioni accettabili costituisce la «traduzione». Il significato del termine «traduzione», o di quel termine o insieme di termini in un’altra lingua che, correttamente o erroneamente, pensiamo traduca «traduzione» è codificato nei dizionari, ci sono attività professionali chiamate traduzione, abbiamo organizzazioni che rappresentano traduttori, istituti per la formazione di traduttori, ecc. In altre parole: attualmente nelle nostre rispettive culture, così come in altre culture contemporanee e passate, ci imbattiamo in termini che -di nuovo: correttamente o erroneamente- interpretiamo come indicatori del concetto e dell’attività che riconosciamo come parti costitutive della «traduzione». C’è un’allarmante complicazione incorporata in quest’idea di «tradurre la traduzione», sia interlinguistica che intralinguistica, ma lasciamola da parte, ci ritornerò solo alla fine dell’articolo. Per il momento mi basta tenere fermo un punto, che quando usiamo il termine «traduzione» o la sua traducente in un’altra lingua ci appelliamo a una categoria socialmente «riconoscibile» e «riconosciuta», sia un concetto che una pratica socialmente noti. La categoria «traduzione», in altre parole, consiste nella produzione di enunciati riconosciuti come comunicazioni di un certo tipo (la pratica) e di affermazioni a proposito della traduzione (il concetto, per quanto è reso esplicito).

The two, production and discourse about it, practice and concept, are held together by the fact that whenever we come across an instance of ‘translation’ (a translated text, an occurrence of the term ‘translation’, a statement about it), we activate a certain disposition, a set of expectations, which we assume others will share. Our expectations may be fulfilled or disappointed on some occasions, and in the latter case we tend – we don’t have to, and we don’t always, but we tend – to respond by branding the offending occurrence as a transgression, thus outlawing it and reaffirming the boundaries of the existing concept and the permissible practices and statements within its sphere.

There is nothing very new in this. However, approaching the matter in this way allows me to stress, firstly, that translation, as a social category, is circumscribed by expectations, which are partly cognitive but also, and even primarily, normative in nature;secondly, that, if we regard translation as consisting not only of the production and circulation of translated texts but also of the exchange of communications about translation, then there is nothing to stop us from speaking of translation in terms of a ‘social system’ – more about this below; thirdly, that our expectations about translation also structure the ‘domain’, the ‘field’, indeed the ‘system’ of translation, in a sense I will also try to explain; and fourthly, that with key operational terms like ‘communication’, ‘system’, ‘expectations’ and a few more that I shall introduce below, we can begin to develop a conceptual and methodological  framework for considering translation as a social and historical phenomenon, a framework which I think is more promising than most existing approaches.

Before I go on, let me make it clear that when I speak of translation as constituting a social system, I have in mind the concept of ‘system’ as it is used by the German sociologist Niklas Luhmann. Luhmann himself applied systems theory to every subject under the sun, including education, religion, politics, law and justice, love, ecological discourse, contemporary art and art history, science, everything except translation. Other researchers, in Germany and in the Low Countries, have used Luhmann’s concepts and terminology as tools to approach literature and various other fields (see, for instance, De Berg 1995 for a general account and a bibliography).

I due, concetto e pratica, sono legati tra di loro dal fatto che ogni volta che ci imbattiamo in un esempio di «traduzione» (un testo tradotto, un’occorrenza del termine «traduzione», un’affermazione in proposito), attiviamo una certa disposizione, certe aspettative, che supponiamo gli altri condividano. Queste aspettative possono, poi, essere soddisfatte o deluse e in quest’ultimo caso tendiamo (non dobbiamo, e non sempre, ma tendiamo) a reagire bollando l’occorrenza colpevole come trasgressione e, così facendo, riaffermiamo i confini del concetto pre-esistente di traduzione e le pratiche e le affermazioni ammesse nel suo ambito.

Non c’è niente di nuovo in questo. Quello che voglio sottolineare, comunque, è, in primo luogo, che la traduzione, come categoria sociale, è limitata dalle aspettative di tipo cognitivo, ma anche, addirittura in modo prevalente, da quelle di tipo normativo. In secondo luogo che, se consideriamo la traduzione  non solo come produzione e circolazione di testi tradotti ma anche scambio di comunicazioni riguardo la traduzione stessa, allora niente ci impedisce di parlare della traduzione in termini di un “sistema” (approfondirò questo tema più avanti). In terzo luogo che le nostre aspettative a proposito della traduzione compongono la struttura del «dominio», del «campo», del «sistema» della traduzione, in un modo che cercherò di spiegare anch’esso più avanti. E infine che, con termini chiave come «comunicazione», «sistemi», «aspettative» e un paio di altri che devo ancora introdurre, possiamo iniziare a sviluppare una cornice metodologica per lo studio della traduzione in quanto fenomeno sociale e storico, una cornice che credo sia più promettente della gran parte degli approcci esistenti.

Prima di andare avanti, permettetemi di fare ora una precisazione per puntualizzare che quando parlo di traduzione in quanto parte integrante di un sistema, un sistema sociale, mi riferisco  al concetto di sistema così come viene usato da Niklas Luhmann, sociologo tedesco contemporaneo. Lo stesso Luhmann ha applicato la teoria moderna dei sistemi a qualsiasi argomento esistente, inclusi istruzione, religione, politica, legge, amore, dissertazioni sull’ecologia, arte contemporanea e storia dell’arte, scienza, tutto tranne la traduzione. Diversi altri studiosi, la maggior parte in Germania e nel Benelux, hanno utilizzato i concetti e la terminologia di Luhmann come strumenti per affrontare letteratura, storia dell’arte e altri campi ( per un resoconto generale e un indice bibliografico, De Berg 1995).

To my knowledge, Andreas Poltermann is the only translation scholar to have applied Luhmann’s ideas to issues of translation (Poltermann 1992). It seems to me that, if we want to understand translation in its social and historical context, we could do worse than to explore the ideas of someone like Luhmann. Moreover, an approach along these lines is, I think, perfectly compatible with existing empirical and historicizing approaches such as polysystem theory and the work of  Pierre Bourdieu, and it has some additional features to recommend it.

 

Norms

 

In what follows I should like to do three things. First, I want to return to the issue of normative expectations, since they are important for the social and historical functioning of translation and its relative stability over time. Then I need to explain briefly some aspects of Luhmann’s concept of social systems and indicate its relevance for the study of translation. Finally I will take up a single example, in an attempt to demonstrate the usefulness and productivity of this approach.

Let me begin by returning to normative expectations, or norms for short. Please bear in mind that, when I speak of a ‘norm’, I do not mean some abstract, static, formal or mechanical rule which relates to the practice of translation as cause to effect, of the type: if this is the feature displayed in a text under study, then that must have been the norm that triggered it. By a ‘norm’  I mean, rather, a particular kind of expectation. The term implies, in the case of translation, structured interaction between individuals, as clients, patrons, producers, consumers, teachers or critics of translation.

A quanto ne so , Adreas Poltermann è l’unico studioso di traduzione ad aver applicato le idee di Luhmann a problemi traduttivi (Poltermann 1992). Mi sembra che, se vogliamo capire la traduzione come fenomeno sociale e storico, dovremmo fare peggio ancora che indagare le idee di qualcuno come Luhmann. Inoltre, un approccio che segue queste direttive, è, penso, perfettamente compatibile con gli approcci empirici, sociologici e storicizzanti  (teoria del polisistema; Bordieu), e ci sono altre caratteristiche a sostegno di questo approccio aggiuntivo per suggerirlo.

 

Norme

 

Nel paragrafo che segue vorrei fare tre cose: prima di tutto, voglio ritornare al problema delle aspettative normative, poiché sono importanti per il funzionamento sociale e storica della traduzione. Poi sarà necessario che spieghi brevemente il concetto Luhmaniano di sistemi sociali  e indichi la sua pertinenza con i nostri scopi. Infine sceglierò un esempio nel tentativo di consigliare l’utilità e la produttività di questo approccio.

Per prima cosa, quindi, torniamo al concetto di aspettative normative, o “norme”, per abbreviare. Tenete a mente, comunque, che quando parlo di “norma” non intendo una regola astratta, statica, formale o meccanica collegata alla pratica della traduzione come la causa all’effetto, del tipo: se questa è la caratteristica che si manifesta nel nostro testo, allora quella dev’essere la norma che l’ha innescata. Piuttosto, quello che intendo con “norma” non è nient’altro che un tipo particolare di aspettativa. Il termine implica, nel caso della traduzione, un’interazione strutturata tra individui, come per esempio clienti, committenti, produttori, consumatori, insegnanti, critici o studenti della traduzione.

My basic assumption in all this is that translation, like other types of language use, is a matter of communication, that is, a form of social behaviour which requires a degree of cooperation among those involved. For communication to take place, the participants need to coordinate their actions to a certain extent. This can be done on the level of immediate interpersonal contact in face-to-face interaction, but it also applies across time and space. Norms, like conventions, arise as answers to interpersonal coordination problems of this kind.

The classic definition of convention (by David Lewis, 1969) hinges on exactly this point. Conventions, as Lewis defines them, imply the expectation, shared by all, that in a given situation one member of the group is likely to do one thing rather than another. The convention thus has a regulatory function. It restricts the number of practically available options in recurrent situations of a given type by offering a particular option as the one known to be preferred by everyone involved.

The main difference between a norm and a convention lies in the modality of the expectation. A convention is a purely probabilistic expectation. Norms tell individual members of a community not just how everyone else reckons they are probably going to behave in a given situation, but how they ought to behave. e. Norms imply that there is, among the range of possible options that present themselves, a particular course of action which isgenerally accepted as ‘proper’, or ‘correct’, or ‘appropriate’. That course of action, it is

agreed, should therefore be adopted by all who find themselves in that type of situation. And each time a norm is observed, its validity is confirmed and reinforced.

It will be obvious that norms can and will be broken. Which norms are observed or boken by whom, where and when, will depend on such things as the nature and the strength of the norm, the kind of sanction that might apply, the individual’s status in a given community and other such factors.

Il mio presupposto di base in tutto questo è che la traduzione, come qualsiasi altro uso della lingua, è una questione di comunicazione, ovvero una forma di comportamento sociale che richiede un livello di interazione, di collaborazione, tra chi viene coinvolto. Perché abbia luogo la comunicazione, i partecipanti devono coordinare le loro azioni, non solo a livello di contatto interpersonale immediato, ma anche attraverso tempo e spazio, se la situazione lo richiede. Le norme, come le convenzioni, nascono come risposte a problemi di coordinazione come questo.

La definizione classica di convenzione (Lewis 1969) si basa esattamente su questo punto: le convenzioni, come definite da Lewis, implicano l’aspettativa, condivisa da tutti, che in una data situazione un membro del gruppo sia più propenso a compiere un’azione rispetto a un’altra. Le convenzioni hanno funzione regolatrice, restringono il numero delle opzioni disponibili nella pratica in situazioni ricorrenti di un certo tipo, offrendo una particolare opzione che viene riconosciuta come la privilegiata da tutti gli interessati.

La differenza principale tra una norma e una convenzione sta nella modalità dell’aspettativa. Le norme indicano all’interno di una comunità come il singolo dovrebbe comportarsi, non solo come chiunque altro pensa si comporterebbe in una data situazione. Le norme implicano che, nella gamma di opzioni che si presentano, c’è una particolare linea di azione, generalmente considerata come «giusta», o «corretta» o «appropriata». Questa linea di azione, su cui ci si trova d’accordo, dovrebbe perciò essere scelta da chiunque si trovi in quel tipo di situazione. E ogni volta che la norma viene osservata, la sua validità viene confermata e rafforzata.

È ovvio che le norme possono essere infrante e qualcuno lo farà di sicuro. Quali vengono osservate o infrante da chi, dove e quando dipenderà da fattori come la natura e la forza della norma, il tipo di sanzione che può essere applicato, lo status dell’individuo in una data comunità e altri motivi del genere.

When, in the 1960s, Louis and Celia Zukofsky rendered Latin poetry into English mimicking the sound of the words and playing down everything else including the meaning of the Latin words, it is relevant to know that this was done in a literary context, that even in that domain it was generally interpreted as a provocative and norm-breaking gesture, and that already at this time Louis Zukofsky was widely recognized as a prominent poet in his own right The newly graduated translator who has just been given a job in the United Nations headquarters in New York and wants to make a career there would be ill-advised to follow the Zukovskys’example.

Norms can be strong or weak, limited or extensive in scope, more or less enduring over time. They take the form of obligations or prohibitions, and exert different kinds of pressure on the choices which individuals make. At the same time, because in an irreversible

temporal sequence no two situations are exactly the same, every instance of compliance ornon-compliance with a norm changes the norm, however slightly. Whether the expectation is fulfilled or disappointed in a given instance, it incorporates that experience and becomes

stronger or weaker. Norms therefore change continually.

Norms are not innate. They are inculcated as part of the process of socialization. Just as learning to speak is learning to speak ‘properly’, in accordance with the linguistic norms of the relevant community (the family, the circle of friends, the school, the workplace), so learning to translate means learning to operate the norms of translation, to operate, that is, with them and within them, anticipating, accommodating, calculating, negotiating the expectations of others concerning the social institution called translation. In the same way readers, too, learn what they can and cannot expect when they pick up a book labelled ‘translation’. On both sides of the equation, in fact on all sides since the production and consumption of translation involves more than two parties, certain expectations are activated, certain bonds and contracts entered into. They may be clearly stated and understood by all concerned, or remain vague and unspoken. The question of who controls whom in this respect depends on power and position. In other words, norms are not independent of local conditions and of the social relations within communities, whether these relations are material (economic, legal, financial) or what Pierre Bourdieu calls ‘symbolic’ and bear on status and legitimacy.

Negli anni Sessanta, Louis e Celia Zukofsky tradussero poesie latine in inglese imitando solo il suono delle parole ed escludendo tutto il resto, compreso il significato delle parole latine: è importante sapere che ciò è stato fatto in un contesto letterario, che è stato generalmente interpretato, persino in quell’ambito, come un gesto provocatorio, per infrangere le norme, che già allora Louis Zukofsky era conosciuto come poeta ecc. Se al traduttore neolaureato, appena assunto alla sede delle Nazioni Unite a New York, venisse suggerito di seguire l’esempio degli Zukofsky per fare carriera, sarebbe un pessimo consiglio.

Le norme possono essere forti o deboli, dalla portata limitata o estesa, più o meno durature nel tempo. Prendono la forma di obblighi o divieti ed esercitano diversi tipi di influenze sulle scelte compiute dagli individui. Allo stesso tempo, poiché in una sequenza temporale irreversibile nessuna situazione è esattamente uguale a un’altra, ogni caso di rispetto o non rispetto di una norma cambia la norma stessa, seppur lievemente. Che l’aspettativa sia confermata o delusa in un dato caso, incorpora quell’esperienza e che la rafforza o la indebolisce. Di conseguenza le norme cambiano continuamente.

Le norme non sono innate, ma insegnate nel processo di socializzazione. Proprio come imparare a parlare è imparare a parlare «correttamente», in conformità con le norme linguistiche di una certa comunità  (la famiglia, il gruppo di amici, la scuola, l’ambiente di lavoro), imparare a tradurre significa dunque imparare ad agire con e all’interno delle norme di traduzione, anticipando, adattando, calcolando, negoziando le aspettative degli altri nei confronti della categoria sociale – l’istituzione- chiamata traduzione. Allo stesso modo i lettori sono sanno cosa possono e non possono aspettarsi quando prendono un libro classificato come «traduzione». A entrambi i lati dell’equazione, in realtà a tutti i lati dato che la produzione e il consumo della traduzione coinvolge più di due parti, certe aspettative vengono attivate, e si entra nel merito di certi vincoli e contratti. Possono essere dichiarati apertamente e compresi da tutti gli interessati, o rimanere vaghi e inespressi. La questione di chi controlli chi dipende dal potere e dalla posizione. Le norme non sono indipendenti dalle condizioni locali, e dalle relazioni sociali tra comunità, siano queste relazioni materiali (economiche, legali, finanziarie) o quelle che Pierre Bourdieu chiama z«simboliche», ovvero relazioni che hanno a che fare con lo status e la legittimità, e con chi conferisce questa legittimità.

Large, complex and differentiated societies accommodate a multiplicity of different, overlapping and often conflicting norms. The translator’s work is inevitably entangled in several of these networks at once, if only because the product of the translator’s labour is never a ‘translation per se’ but a specific kind of translated text, say a translated computer manual, a translated novel or a translated medical record. In each case the translator enters an existing network of discourses and social relations. The translational discourse comes to occupy a place in this network. It is part of the ambivalence of translated texts that they are expected to comply with both the translational and the textual norms regarded as pertinent by a given community in a given domain. If translations manage to do this, as a consequence of the translator having made the requisite choices, they will be deemed‘legitimate’ translations.

Learning to translate correctly, then, means precisely the acquisition of this competence, which consists of the skills required to select and apply the norms that will help to produce legitimate translations, that is, translations socially recognized as legitimate within a certain community and its concept of translation. Furthermore, just as one of the main functions of the educational system is that of transmitting the requisite social skills, expectations and ‘dispositions’ (in Bourdieu’s sense), continually reproducing and reaffirming the community’s dominant values and models in the process, so, in the field of translation, one of the roles of the translator training institute consists in transmitting the skills and dispositions that we associate with professional translating. To do this, the traininginstitute reproduces within itself the social institution called translation, which in turn contributes to the very process of the institutionalization of translation. Let me add immediately that other discourses about translation, including so-called descriptive and historicizing discourses, do very much the same thing, if perhaps more covertly. They all contribute to the ongoing self-reproduction of translation, and to its self-description.

Ovviamente in società grandi, complesse e diversificate coesiste un’ampia varietà di norme differenti, sovrapposte e spesso in conflitto tra loro. È inevitabile che il lavoro del traduttore sia intrecciato in molte di queste reti nello stesso momento, perché il prodotto della sua fatica non è mai una «traduzione per sé», ma la traduzione di un manuale per un computer, di un romanzo, di una cartella clinica ecc. In ogni caso il traduttore entra in una rete di discorsi e relazioni sociali esistenti, il suo discorso traduttivo si pone all’interno o almeno in rapporto a quella rete. Fa parte dell’ambivalenza del testo tradotto che ci si aspetta si attenga sia alle norme traduttive, sia a quelle testuali considerate importanti da una determinata comunità in un determinato campo. Se la traduzione riesce a rispettare questo criterio, perché il traduttore ha compiuto le scelte necessarie, sarà considerata una traduzione «valida».

Imparare a tradurre correttamente, quindi, significa proprio acquisire quella competenza, ovvero le abilità necessarie per scegliere e applicare quelle norme che contribuiscono a produrre traduzioni valide, cioè traduzioni socialmente riconosciute come valide all’interno di una certa comunità e del relativo concetto di traduzione. Inoltre, proprio come una delle funzioni primarie del sistema educativo nel complesso è trasmettere abilità sociali necessarie, aspettative e «disposizioni» (nel senso inteso da Bourdieu), mentre si riproducono e si riaffermano in continuazione valori e modelli dominanti della comunità, nel campo della traduzione uno dei compiti di un istituto per la formazione di traduttori è proprio riprodurre al suo interno la categoria sociale, il sistema sociale chiamato traduzione. Permettetemi subito di aggiungere che altri discorsi riguardo la traduzione, inclusi quelli cosiddetti descrittivi e storicizzanti fanno esattamente lo stesso, forse meno apertamente. Contribuiscono tutti alla continua auto-riproduzione della traduzione e, peraltro, alla sua auto-descrizione.

Communication

 

Terms like ‘self-reproduction’ and ‘self-description’ bring us close to the vocabulary of modern systems theory. In what follows I would like to sketch an approach to translation based on Niklas Luhmann’s theorizing about social systems. It will be a very rough sketch, but I hope to be able to suggest that the approach has research potential.

Systems, in this context, are conceived as composite, adaptive, self-reproducing wholes that have differentiated themselves from what lies outside them, from their environment. Social systems are self-reproducing systems in that they continually produce and reproduce the elements of which they consist. These elements – and this is crucial – are communications, communicative acts. In other words, social systems consist, not of individuals or of groups of people, but of communications, and of specific types of communication. These communications have not only to be produced and processed by means of signs, they also have to be linked and connected in a temporal sequence for the system to continue to exist. There are no social systems without communication, but at the same time communications are momentary, fleeting phenomena, here one moment and gone the next. This explains the need for connectivity, for structures that can endure over time.

Another important point is that Luhmann does not conceive of communication in terms of the transmission of a pre-given message. Rather, meaning is construed by the recipient as a result of recognizing selectivity. What is offered acquires meaning against the background of the possibilities that were available in principle but have been excluded. The element of selection concerns both the utterance, the intentional act of producing a communication, and the information, the referential level of what the communication is about.

Comunicazione

 

Parole come «auto-riproduzione» e «auto-descrizione» ci avvicinano al vocabolario di cui abbiamo bisogno se vogliamo parlare della traduzione in termini di teoria sistemica moderna. Per illustrare questo approccio, devo dare qualche informazione sulla teoria di Luhmann riguardo ai sistemi sociali.

In questa teoria i sistemi sono pensati come un insieme composto, adattivo, che si auto-riproduce: è quello che si trova al di fuori che li rende diversi, il loro ambiente. I sistemi sociali sono sistemi auto-riproduttivi in quanto producono e riproducono continuamente gli elementi di cui sono composti. Questi elementi – ed ecco il punto cruciale – sono comunicazioni, ovvero atti comunicativi. In altre parole, i sistemi sociali non sono composti né da individui, né da gruppi di persone, ma da comunicazioni e da tipi specifici di comunicazioni. Queste non devono solo essere prodotte e trasformate tramite segni (o da quello che il destinatario interpreta come segno), devono anche essere collegate e connesse in sequenza temporale perché il sistema continui ad esistere. Non esistono sistemi sociali senza comunicazione, ma allo stesso tempo le comunicazioni sono fenomeni temporanei, sfuggenti, un attimo sono qui, l’attimo dopo sono scomparse. Questa caratteristica spiega il bisogno di connettività, di strutture che resistano allo scorrere del tempo. Approfondirò questo aspetto più avanti.

Un’altra questione importante è che Luhmann non concepisce la comunicazione in termini di trasmissione di un messaggio dato a priori. Piuttosto, il significato è costruito dal destinatario ed è il risultato di una selezione di ciò che viene riconosciuto: ciò che viene offerto acquisisce significato sullo sfondo delle possibilità disponibili inizialmente, che sono però state poi escluse. La selezione riguarda sia l’affermazione, ovvero l’atto intenzionale (i significati attribuiti, il momento scelto) sia l’informazione, ovvero il livello referenziale (i «temi» e i «dati» evidenziati, cioè quelli selezionati in modo diverso).

Because communication takes place in a certain context and at a certain moment in time, understanding a communication means being alive not only to the difference between utterance and information, but also to the communication’s selective aspects, its negative foil, the difference between what has been included (that is, selected) and what has been excluded (left aside, negated). One Luhmann commentator speaks of the “temporalization of semantics” (De Berg 1993: 50), a useful phrase, especially when we want to engage in historical study.

It follows from this that texts have no fixed meaning in themselves. They are invested with meaning as communications in a selective, differential context. When we look at texts (or other communications) in this way, through their ‘temporalized semantics’, we may be able to glimpse the speaker’s agenda. How likely was this communication in these particular circumstances? Why were this theme, and this mode of transmission, selected at this moment, against which set of potential alternatives? What issue or problem has it chosen to address, and what other issues are being obscured as a result? How did this particular communication  ‘connect’ and how does it, in turn, contribute to the establishment of a new context, a new range of possibilities?

If this is true of texts, it is true also of translations. Their ‘meaning’, their ‘sense’, their ‘point’ as communications does not reside in ‘the words on the page’, decipherable by means of linguistic and other codes in a social or historical vacuum. Nor can it be reduced to some semantic or other relation with a source text. Such reductions ignore the selectivity of communication. It is part of the meaning of a translated text as communication that this and no other foreign-language text was selected from among a range of potential candidates, that it was selected for translation and not for some alternative form of transmission or importation, and that a particular ‘translational mode’ was selected, one particular style of representing the original against the possibility of other available and permissible styles.

Poiché la comunicazione avviene in un certo momento nella sequenza temporale, in un dato contesto, «comprendere» o «dare un senso» allo scambio comunicativo significa non solo essere consapevoli dei suoi «temi» o del suo «modo di espressione», ma anche del suo aspetto selettivo, del suo negativo, della differenza tra ciò che è stato incluso, cioè selezionato, e ciò che è stato escluso, cioè negato. Inoltre, dipende dalla comprensione della differenza tra l’espressione e l’informazione. Uno dei critici di Luhmann (De Berg, 1993:50) parla della «temporalizzazione della semantica», una locuzione utile, specialmente quando vogliamo pensare a uno studio con prospettiva storica.

Ne consegue che le comunicazioni, e quindi testi, non hanno un significato fisso in sé, ma ne assumono uno quando si trasformano in comunicazioni inserite in un contesto selettivo e differenziale. Quando guardiamo dei testi (o altre comunicazioni) in questo modo, attraverso la loro «temporalizzazione semantica», potremmo essere in grado di sbirciare nell’agenda del parlante: quanto era probabile questo scambio in quelle circostanze particolari, perché quel tema, quel modo di trasmissione, scelto in quel momento, preferito a quale gamma di potenziali alternative. A quale problema si rivolge – in modo mirato? E come, a sua volta, questa particolare comunicazione si «connette», ovvero come contribuisce alla creazione di un nuovo contesto, di una nuova gamma di possibilità?

Se tutto ciò vale per i testi, vale anche per le traduzioni. Il loro «significato», «senso» e «scopo» in quanto comunicazioni non risiede nelle «parole scritte sulla pagina», decifrabili tramite strumenti linguistici e altri codici, in un ambito sociale e storico. E la traduzione stessa non può neppure ridotta a un rapporto semantico di altro tipo con un originale. In entrambi i casi, quello che viene trascurato è proprio l’aspetto della selettività, della differenza selettiva. È parte del «significato» del testo tradotto in quanto comunicazione che questo testo in una lingua straniera è stato selezionato da una gamma di potenziali candidati, che era stato scelto per la traduzione e non per altre forme di trasmissione, importazione o riciclaggio e che la è stata scelta la «modalità traduttiva» , una modalità particolare per rappresentare l’originale rispetto ad altre possibili, cioè rispetto alle alternative scartate dalla gamma di candidati più o meno probabili e modalità più o meno permissibili.

Invoking the array of available and permissible styles take us straight back to the cognitive and normative expectations governing translation, and hence to translation as institution. It is  clear that we are talking about expectations within a limited range of options. The domain of translation, of that which is termed ‘translation’, has its limits, a socially acknowledged boundary differentiating it, sometimes sharply, sometimes only diffusely, from other modes of representing anterior discourses such as paraphrase, adaptation, plagiarism, summary, quotation, imitation, and so on. The expectations which police the boundaries of translation as institution are usually referred to as the ‘constitutive norms’ of translation. If you breach them you are perceived as doing something which will no longer be called ‘translation’, at least not by the group that sees itself as being addressed and as having a legitimate claim to the definition of ‘translation’. In that sense we can speak of these expectations as circumscribing the domain of translation. Within the perimeter of the constitutive norms it is customary to speak of ‘regulatory norms’. The term refers to expectations concerning what is appropriate in certain cases, regarding certain types or areas of discourse. These expectations constitute the structure of the translation system, in a sense compatible with Luhmann’s terminology. Luhmann holds that whereas social systems consist of communications in that communications are the elements the system is made of, expectations about communications build the structure of a social system. Social structures are structures of expectation (Luhmann 1984:139, 377ff.). Structure here means precisely that some occurrences and some combinations are more likely than others. If all occurrences and all combinations were all equally likely, this would produce entropy in the system.

Frasi come «la gamma di candidati più o meno probabili e modalità più o meno permissibili» meritano di essere sottolineate, ci riportano direttamente indietro alle aspettative («più o meno probabili») e alle aspettative normative («più o meno permissibili»). Perché è chiaro che stiamo parlando di aspettative contenute in una gamma di opzioni limitata. L’ambito della traduzione, ovvero quello che il termine «traduzione» copre, ha dei limiti, un confine socialmente riconosciuto che lo differenzia, talvolta in modo netto, talvolta diffusivo, da altre modalità di rappresentazione di discorsi precedenti – modalità come parafrasi, adattamento, plagio, riassunto, citazione, traslitterazione e via dicendo. Le aspettative, che sorvegliano i confini della traduzione, vengono di solito riconosciute come «norme costitutive» della traduzione. Se le infrangi, il tuo lavoro non verrà percepito come un qualcosa che si può definire «traduzione», almeno dal gruppo a cui è indirizzato e che ha una rivendicazione legittima su questa definizione. In questo senso possiamo dire che le aspettative delimitano il campo della traduzione. All’interno di questo ambito si parla di solito di «norme regolatrici» intendendo aspettative normative riguardo a ciò che è appropriato in alcuni casi, circa determinati tipi o aree di discorso. Queste aspettative formano la struttura del sistema traduttivo, inteso compatibilmente con la terminologia di Luhmann. Luhmann sostiene che, siccome i sistemi sociali sono composti da comunicazioni, nel senso che nelle comunicazioni ci sono gli elementi di cui è fatto il sistema, le aspettative riguardo alle comunicazioni costituiscono la struttura dei sistemi sociali. Le strutture sociali sono strutture di aspettativa (Luhman 1984). Struttura qui significa precisamente che alcune occorrenze e alcune combinazioni ritornano più facilmente di altre.

System

 

Both constitutive and regulatory expectations and their respective normative loads are continually negotiated and confirmed by practising translators and by all who are recognized as having a legitimate claim to discourse about translation. In that sense we can speak of translation as a social system, that is, a self-regulating, self-reflexive and selfreproducing (or ‘autopoietic’) system. The elements of the translation system are translations and discourses about translation. The system’s temporal dimension lies in the fact that communication generates communication. We can translate because there are translations and because, when we translate or speak about translation, we routinely take account of the conditioning factors which govern the concepts and practices we call ‘translation’ in our respective cultures. This creates the necessary connectivity and a sufficient ‘horizon of expectations’ to produce further translations and statements about translation. These expectations constitute the structure of the translation system. The system’s function consists in supplying representations of existing communications across semiotic boundaries. Its identity as a differentiated functional system, its ‘guiding difference’ (Luhmann speaks of a ‘code’), is based on this specific role. In the course of history the terms of this basic code can be, and have been, fleshed out in very different ways, in the form of ‘programmes’, the various poetics of translation, in the way specific legal traditions, for example, can be understood as ‘programmes’ of the legal system.

Now, translation does not operate in and for itself. It caters for other interests, other systems. The normal mode of existence of a translation, as we saw, is not as a translation per se but as a translated legal document, a translated philosophical treatise, and so on.

Sistema

 

Entrambi gli insiemi di aspettative, e i rispettivi carichi normativi, vengono continuamente messi in discussione, confermati, sistemati e modificati da traduttori di professione e da tutti coloro che partecipano alla discussione riguardo la traduzione. In questo senso – e qui è dove voglio arrivare – possiamo parlare di traduzione come sistema, un sistema che si auto-regola, risponde automaticamente e si auto-riproduce o («autopoietico»). Gli elementi del sistema traduttivo sono traduzioni, in quanto comunicazioni, e affermazioni riguardo la traduzione. La dimensione temporale del sistema, ovvero la dimensione storica, risiede nel fatto che la comunicazione genera comunicazione, in determinate condizioni. Possiamo tradurre perché ci sono traduzioni e perché, quando traduciamo o parliamo della traduzione, teniamo sempre in considerazione i fattori in grado di condizionarla, che governano i concetti e le pratiche chiamate «traduzione» nella nostra cultura. Tutto ciò crea la connettività necessaria e un «orizzonte d’attesa» sufficiente a produrre altre traduzioni e affermazioni riguardo la traduzione. Queste aspettative formano quello che Luhmann chiama la «struttura» del sistema.

La funzione del sistema consiste nel produrre rappresentazioni di comunicazioni esistenti tra sistemi semiotici diversi. La sua identità di sistema funzionale differenziato, la sua «differenza fondamentale» è basata su questo specifico ruolo rappresentativo e le sue conseguenze – per esempio, il fatto che il traduttore, nel rendere un’altra espressione, non parla a suo nome e questo porta la traduzione ad avere un soggetto discorsivo ibrido. Il primo mezzo di differenziazione e auto-organizzazione del sistema è un «codice» binario, una distinzione operativa tra «adeguato» e «non adeguato» in termini di rappresentazione. Ovviamente, nel corso dei secoli i termini di questo «codice» di base possono essere – e sono stati – arricchiti in molti modi, sotto forma di «programmi», poetiche della traduzione, nello stesso modo in cui, per esempio, diversi gruppi di leggi concrete possono essere concepite in quanto «programmi» del sistema legale.

Ora, come sappiamo, la traduzione non opera in sé e per sé, ma tiene conto di altri interessi, altri sistemi. In condizioni normali la traduzione non è un «testo tradotto» in sé, ma un testo legale tradotto, un trattato di filosofia tradotto, un romanzo tradotto.

Translations integrate into existing discursive forms and text types. In this sense translation can be said to be overdetermined: they normally defer, and are expected to defer, to the prevailing discourse of the client system. A systems-theoretical account of this form of entanglement or complicity can be found in the notions of ‘structural coupling’ and ‘interpenetration.’ The terms mean that the system may adjust it structures to the demands of another system, and even, in the stronger case of interpenetration, that the norms, criteria and resources of one system are largely internalized by another system. Since translation is on the whole much less clearly differentiated and hence much less autonomous than, say, modern art or religion, it is particularly prone to this kind of internal modification.

To the extent however that the translation system has its own momentum, it identity and relative stability as a system, it continually reproduces itself. This means that whatever its entanglement in other systems, it interprets its environment in terms of its own interests and priorities. In doing so, it reflects and builds on its own experience and maintains its own distinctive difference. Without such an independent and self-reflexive momentum it would not be a system. Nevertheless it is important to realize that in this perspective the term ‘translation’ has no fixed, inherent or immanent meaning. Rather, the category ‘translation’, including what I called its representational function, is constantly being reproduced by means of communication. Its semantics changes in the process of reproduction, just as historically its basic code is occupied by a succession of different terms, oppositions and values, that is, by different programmes. Its only durability and stability, as a concept and a practice, comes from its constant autopoiesis as a system.

Le traduzioni sono inserite in pratiche e forme discorsive già esistenti. In questo senso si può dire che la traduzione è sopradeterminata: le traduzioni si attengono al discorso prevalente del sistema cliente e ci si aspetta che lo facciano. Una spiegazione teorica-sistemica di questo tipo di legame o complicità può essere rintracciata nei concetti di «interpenetrazione» o «associazione strutturale» tra sistemi, per cui le norme, i criteri e le risorse di un sistema sono messe a disposizione o imposte a un altro sistema. Poiché la traduzione è, nel suo insieme,  molto meno differenziata, ovvero molto meno «autonoma» di, per esempio, l’arte moderna o la religione, è piuttosto portata a questo tipo di interferenza.

Nella misura in cui, comunque, il sistema traduttivo ha il suo momento, la sua identità e la relativa stabilità in quanto sistema, si auto-riproduce di continuo. Il modo in cui la traduzione si conserva e cambia in continuazione in quanto sistema sociale, quindi un sistema comunicativo governato da un particolare insieme di aspettative, determina il modo in cui produciamo, riceviamo le traduzioni e ne parliamo. È pero importante capire che in questa prospettiva il termine «traduzione» non ha un significato stabile, insito e immanente. Piuttosto la categoria «traduzione», inclusa quella che definisco la sua funzione rappresentativa, viene costantemente riprodotta attraverso/mediante la comunicazione. La sua semantica cambia nel processo di riproduzione, proprio come il suo codice di base storico («adeguato/non adeguato come rappresentazione») è occupato da termini, opposizioni e valori differenti, ovvero da «diversi programmi». La sua durevolezza o stabilità, come concetto e pratica, viene dalla sua autopoiesi in quanto sistema, ovvero da operazioni ricorsive di auto-riproduzione e auto-riflessione. Al giorno d’oggi, le nostre discussioni, tra cui anche quelle in Scienza della Traduzione e questo mio articolo, sono parte di questo processo.

Illustration

 

Let me try to illustrate some of these points with a brief historical example. It concerns a seventeenth-century Flemish Catholic priest, one Adrianus de Buck, a now totally forgotten figure who lived in the town of Veurne (Furnes), close to the French border. We know of only two publications by him: a book of prayers, and his translation, in 1653, of Boethius’ Consolation of Philosophy, from Latin into Dutch (De Buck 1653; Hermans 1996). Just two copies of De Buck’s Boethius have dome down to us. The book was printed and published in Bruges, in what was known at the time as the Southern Netherlands, a region then still under Catholic Spanish rule. The mainly Protestant – more particularly, Calvinist – Northern Netherlands had, after a prolonged war with Spain, become an independent and extremely prosperous republic. Spain formally recognized the Dutch Republic as an independent state in 1648.

De Buck dedicated his translation to a number of local dignitaries. The dedication leaves the reader in no doubt that the translator is green with envy at the miracle of Dutch culture in the Northern Netherlands, not least because, as he observes, they have appropriated the learning of every other language in the world, including Hebrew, Turkish and Arabic. Clearly, De Buck was acutely aware of living in what, by comparison with the Northern republic, was rapidly becoming a cultural backwater. Not only that, the Southern Netherlands were also a vulnerable region that had already felt the effects of the expansionism of its powerful neighbour, France.

And so he translates Boethius. As is well known, Boethius (lived 480-526) wrote his Consolation of Philosophy when he was in prison, awaiting his execution.

Illustrazione

 

Fatemi spiegare alcuni di questi punti con un solo, breve esempio storico: riguarda un prete cattolico di origine fiamminga vissuto nel diciassettesimo secolo, Adrianus de Buck, una figura storica oggi totalmente dimenticata. Ci sono arrivate solo due pubblicazioni sue: un libro di preghiere e la traduzione dal latino all’olandese, risalente al 1653, di Consolazione della filosofia, scritto da Boezio (De Buck 1653; Hermans 1996). La traduzione di de Buck venne pubblicata a Brugge, ovvero nei Paesi Bassi meridionali quando ancora erano dominati dagli spagnoli, cattolici. I Paesi Bassi settentrionali, per lo più protestanti (calvinisti, per essere precisi) erano diventati una ricca repubblica indipendente, dopo una lunga guerra contro la Spagna, che riconobbe la Repubblica delle Sette Province Unite come stato indipendente nel 1648.

Esistono solo due copie della traduzione di De Buck, che dedicò il suo lavoro a dei dignitari locali: leggendo la dedica, il lettore non ha dubbi sul fatto che il traduttore stava morendo d’invidia per il miracolo culturale dei Paesi Bassi settentrionali, non ultimo perché, come sottolinea, hanno fatto in modo di avere a disposizione strumenti per imparare tutte le altre lingue del mondo, tra cui l’ebraico, il turco e l’arabo. È chiaro che De Buck fosse estremamente conscio di vivere in uno stato in cui, confrontato con la repubblica settentrionale, la cultura stava sempre più stagnando. E non solo, i Paesi Bassi meridionali erano anche una regione vulnerabile, che già aveva risentito degli effetti dell’espansionismo del suo potente vicino, la Francia. La città natale di De Buck, Vernue, era stata invasa dalle truppe di Luigi XIV pochi anni prima.

E allora ha deciso di tradurre Boezio. Come tutti sanno, Boezio (vissuto tra il 480 e il 560) scrisse la sua Consolazione della filosofia in prigione, in attesa della sua esecuzione.

The book consists of both verse and prose. De Buck has translated it, he tells us in his dedication, partly to offer consolation to his compatriots who have suffered at the hands of the French, partly because he reckons that the Protestant heretics in the North have left Boethius untranslated on account of the references to free will and purgatory in the Consolation (both concepts are unacceptable to Calvinist theology), and partly because he wants to prove that, as he puts it, “the sun also shines on our Flemish land and there is fire in our souls too.” This last point may well be the reason why in his translation De Buck renders every one of the poems in

Boethius not once, but twice, in two different metres.

Through his decision to translate, through his selection of a particular text to translate, through opting for a particular mode of translating, and through his reflection on his own work and motivation, De Buck offers us a cultural self-description, a selfpositioning which is religious and political as well a cultural and, more narrowly, literary. An interpretation – or, if you like, a translation – of De Buck’s Boethius in systems terms cannot alter the material facts. It can, however, put things in a new light, which, I hope, will prove

illuminating. What such a reading might draw attention to are aspects like the following.

(1) In De Buck’s choice of a particular source text for translation, various systemic relations come together. They are all part of the translation’s “temporalized semantics.”  In this sense we can view the choice in relation to the function of the translation, as De Buck explains it in his dedication. He wants to render a service to the community as a whole, that is, to his compatriots as citizens. Just as Boethius drew comfortfrom philosophical speculation at a time when he was facing imminent death, so the hardpressed citizens of Flanders will find consolation by reading Boethius in their hour of need. That is what makes Boethius an apt choice for De Buck, in preference to an unspecified number of alternative texts he could have translated instead. In providing comfort and a morale-booster, the translation constitutes an answer to a problem, or at least to a perceived problem.

Il libro comprende sia prosa che poesia. De Buck l’ha tradotto, ci dice nella sua dedica, in parte per consolare i suoi compatrioti che hanno sofferto sotto il dominio francese, in parte perché pensa che gli eretici protestanti del nord non abbiano tradotto Boezio per i riferimenti al libero arbitrio e al purgatorio contenuti nella Consolazione (entrambi i concetti sono inaccettabili nella teologia calvinista). E un po’ anche perché voleva dimostrare che, come scrive lui stesso: «Il sole splende anche sulle nostre Fiandre e c’è del fuoco anche nella nostra anima». Quest’ultimo punto potrebbe essere la ragione per cui, nella sua traduzione, De Buck traduce ogni poesia di Boezio non una volta, ma due, in due metri differenti.

Tramite la sua decisione di tradurre, la scelta di un testo in particolare, la scelta di una traduzione seguendo una modalità traduttiva ben precisa e la sua riflessione sul lavoro svolto e la motivazione, De Buck ci offre un’auto-descrizione culturale, un’auto-definizione e posizionamento che è sia religioso che politico, così come culturale e, più prettamente, letterario. Un’interpretazione – o, se preferite, una traduzione – del Boezio di De Buck in termini di sistema non può alterare i fatti materiali: può, comunque, dare una nuova prospettiva che, spero, si dimostrerà illuminante. Una lettura del genere può attirare l’attenzione su alcuni aspetti come i seguenti.

(1) Nella scelta di De Buck di un particolare prototesto su cui concentrarsi rientrano numerose relazioni sistemiche, tutte facenti parti della «temporalizzazione semantica». In questo senso possiamo vedere la scelta in relazione alla funzione della traduzione, come De Buck spiega nella sua dedica: vuole rendere un servizio alla comunità nella sua interezza, ovvero ai suoi compatrioti in quanto cittadini. Come Boezio trovò conforto dalle speculazioni filosofiche quando si trovò ad attendere la sua morte, così i fiamminghi oppressi dagli stranieri troveranno consolazione dalla lettura di Boezio nel momento del bisogno. Questo fa di Boezio la scelta adatta per De Buck rispetto a un indefinito numero di testi alternativi che avrebbe potuto tradurre al suo posto. Nel fornire conforto e richiamo morale, la traduzione è una risposta a un problema o, perlomeno, a quello che viene percepito come tale.

But we can also consider De Buck’s choice of Boethius in relation to the cultural system in the Northern Netherlands. De Buck notes that Boethius is not selected fortranslation there, for religious reasons. In this respect his own choice becomes both oppositional and differential. It challenges the North politically and ideologically, and it contributes to the differentiation of the Southern cultural system vis-à-vis that of the North. More particularly, De Buck’s choice of Boethius feeds into the ongoing redefinition and repositioning of Southern culture in the broader context of the deployment of translation – as of other cultural resources – in support of the Catholic Counter-Reformation.

The alignment and subordination of culture to religion, politics and ideology can readily be described in terms of structural coupling. In this case it means that, in De Buck’s Southern Netherlands, the criteria for source text selection prevalent in one system are imposed on another system. In addition, it is clear that De Buck’s selection of a particular source text is governed by normative constraints which are more like those of Catholic Spain than those of the more tolerant Northern Netherlands. De Buck’s compliance with the Catholic norm will in turn influence the issue of source text selection for subsequent translators. In other words, in pinpointing religion as a significant point of difference between North and South, and in placing translation, as a cultural activity, under the aegis of the Counter-Reformation, De Buck’s choice signals the emergence of translation in the Spanish Netherlands as a system separate from the Northern Netherlands and emphatically allied with Catholic Europe.

(2) If translation is viewed as representation, as the production of a text that resembles a source text in such a way that it can act as its representative, it can be understood as also observing its source text. The translation points to its original, brings the original into view and thus observes this original. It also makes a statement about it. In claiming to represent Boethius’ Latin text, De Buck’s translation presents us with a communication

about it, and puts it in a certain light. As representation, moreover, it offers a selection of a particular mode of representation from among a range of available, permissible modes. This selection determines the translation’s specific modulation, what we may call its style.

Ma possiamo considerare la scelta di De Buck in relazione al sistema culturale e traduttivo dei Paesi Bassi settentrionali: De Buck osserva che Boezio non rientra tra gli autori tradotti delle Provincie Unite per motivi religiosi. Rispetto a questo punto di vista, la sua traduzione diventa un modo di opporsi e di differenziarsi: sfida politicamente e ideologicamente il Nord e contribuisce alla differenziazione del sistema traduttivo del Sud rispetto a quello del Nord. Ancora più nel dettaglio, la scelta di Boezio alimenta la ridefinizione e riposizionamento in corso della cultura meridionale nel contesto più ampio della diffusione della traduzione – così come di altre risorse culturali – a supporto della Controriforma.

L’allineamento e la subordinazione della cultura alla religione, politica e ideologia, può essere prontamente descritto in termini di accoppiamento strutturale. In questo caso vuol dire che nei Paesi Bassi meridionali di De Buck i criteri per la selezione del prototesto prevalgono in un sistema e sono imposti in un altro. Inoltre, è chiaro che la selezione di De Buck per un particolare testo è dominata da costrizioni normative più simili a quelle della Spagna cattolica che dei più tolleranti Paesi Bassi settentrionali. La conformità di De Buck alla norma cattolica influenzerà, a sua volta, il problema della scelta del prototesto per traduttori successivi. In altre parole, indicando con precisione la religione come punto di differenza significativo tra Nord e Sud e la traduzione, come attività culturale, sotto l’egida della Controriforma, la scelta di De Buck segnala la progressiva affermazione della traduzione nei Paesi Bassi spagnoli come un sistema separato dalle Province Unite e empaticamente alleato con l’Europa cattolica.

(2) Se la traduzione è vista come rappresentazione, in quanto testo che offre un riflesso completo di un prototesto, può essere concepita come parte integrante di un tipo di osservazione sul prototesto. La traduzione punta a un originale, rende visibile il testo originale e, quindi, osserva il testo originale. Fa anche una dichiarazione a riguardo: nel dire di rappresentare il testo latino di Boezio, la traduzione di De Buck si presenta con una comunicazione sul testo. Come rappresentazione, però, offre una scelta di un particolare modalità da una gamma di modalità disponibili e permissibili. Questa selezione determina l’orchestrazione traduttiva specifica rispetto alla loro funzione, che possiamo chiamare il suo «stile».

Style, understood here as the orchestration of a translation in respect of its intended function, allows us to see two things at once: firstly, how a translation relates to a certain tradition, to prevailing expectations regarding the ‘adequacy’ of the representation, and, secondly, what it contributes to the subsequent strengthening or modification of these expectations. In this way style organizes the contribution that an individual text makes to the self-reproduction or autopoiesis of the system (Luhmann 1986; 1990).

The choice of a particular style amounts to a self-reflexive statement about stylistic choice. Assuming that more than one mode of representation is available, the selection of one mode rather than another highlights the exclusions. Selecting a particular mode thus points in two directions are once. It highlights both the existence of alternative possibilities, of paths not chosen, and the stylistic allegiances that align this translation with similar choices made by previous translators. In De Buck’s Boethius this is made explicit. It is thematized in the translator’s unusual decision to render the Latin poems not once, as we might expect, but twice, in two different forms. The ‘double’ translation does not really serve the translation’s function as representation at all. Translation normally makes do with just one target text to representing the source.

In one way, the double rendering dramatizes the fact that there are alternative possibilities, and in that sense it provides an emphatic comment on permissible modes of translating, and therefore on the very structure of the translation system itself. In addition, it underlines the fact that the system’s basic function, that of supplying representations of existing texts, can be fulfilled in more ways than one, in accordance with different programmes or poetics, and that the two different ways which the translator is illustrating here are both valid – and there is no suggestion that they exhaust the range of valid modes.  In that sense De Buck’s dramatization, or thematization, of modes of translating shows him observing his ownpractice as a translator, his own mode of treating the original together with potential other modes. Through his double translation he presents an observation on the ways in which translations observe originals and their own relations to them. It is a supremely self-reflexive moment.

Stile, inteso qui come l’orchestrazione di traduzioni rispetto alla loro funzione, ci permette di vedere due cose nello stesso momento: prima di tutto come una traduzione si lega a una certa tradizione, a aspettative prevalenti riguardo l’«adeguatezza» della rappresentazione e, in secondo luogo, come contribuisce al conseguente rafforzamento o modifica di queste aspettative. In questo modo lo stile organizza il contributo che il singolo testo da all’auto-riproduzione o autopoiesi del sistema (cf. Luhmann 1986;1990).

Eppure, la scelta di uno stile particolare è allo stesso tempo un’affermazione auto-riflessiva riguardo la scelta stilistica. Partendo dal presupposto che esiste più di una modalità di rappresentazione disponibile, la scelta di un determinato tipo sottolinea nello stesso momento l’esclusione di altri e quindi indica altre possibilità, o percorsi non scelti, così come fedeltà stilistiche, scelte simili fatte da traduttori precedenti. Nel Boezio di De Buck ciò è reso più esplicito. È tematizzato nella curiosa scelta dell’autore di tradurre le poesie latine due volte, in due forme diverse. La «doppia» traduzione in realtà non è funzionale alla traduzione come rappresentazione, dato che alla traduzione basta di solito una versione per rappresentare il protesto. Piuttosto, la «doppia» traduzione esagera il fatto che esistono alternative possibili e in quel senso rappresenta un commento empatico sui modi di traduzione possibili, ovvero sulla struttura vera e propria del sistema. Sottolinea, inoltre, che il codice di base del sistema, quella «rappresentazione adeguata versus rappresentazione non adeguata» può in pratica essere completata in più di un modo, rispetto diversi programmi o poetiche, e che i due diversi modi che qui De Buck presenta sono entrambi validi – e non è scritto da nessuna parte che siano i due soli modi esistenti. In questo senso la drammatizzazione, o tematizzazione, di De Buck dei modi traduttivi mostra lui stesso che osserva il suo lavoro come traduttore, come guarda all’originale e insieme a altri modi possibili.

At the same time, on a different level, the ‘double’ translation supports a conspicuous claim to legitimacy by a Southern translator vis-à-vis what he evidently perceives as the stronger system in the North. The South may be a backwater, he appears tobe saying, but it is not devoid of talent. By demonstrating competence and even virtuosity, he claims professional equality as a practitioner, but he still distances himself ideologically from the North. The ideological distance is highlighted at the level of the mode of translation by De Buck’s emphatically Catholic rendering of the passages on divine providence and free will. In these passages his vocabulary borrows directly from the terminological and discursive resources of the Catholic Church. But it is worth noting that what is alignment in one direction – the Catholic Church –  is polemic in another – the Protestant North.

(3) If De Buck’s self-reflexive comment on his own mode or style of translation, in which the system can be said to observe itself from within, is called secondorder observation (the observation of observation,Luhmann 1990), then ‘third-order’ observation would be a matter of observing second-order observation, that is, the observation of self-reflexive behaviour. This is what happens when we comment on De Buck as I have been doing. Here we can raise issues like the relative strength of the normative and other expectations that structure a system and the place De Buck seems to accord himself in this network, the way its organizing codes are fleshed out by particular programmes, the manner in which the system marks its boundaries and the relations it entertains with other systems. To do this properly we would need to put De Buck’s theory and practice of translation in a broader historical context. The endeavour would have to include other translations and prevailing ideas about translation, other modes of writing and of representation by means of writing, and a fuller picture of the temporal sequence of which De Buck’s work forms part, showing how his work connects with earlier translations and with discourses about translation, and how it affects the spectrum of connectivity for subsequent translations. Needless to say, this line of inquiry would lead us further afield than I can take it here.

Attraverso la sua traduzione doppia presenta un’osservazione sui modi di osservazione, ovvero una meta-osservazione.

Nello stesso momento, e su un livello diverso, la «doppia» traduzione sostiene una richiesta di legittimazione non indifferente di un traduttore meridionale rispetto a ciò che a quanto pare percepisce come il sistema più forte nel Nord. Dimostrando questa competenza, anche in modo virtuoso, rivendica uguaglianza «traduttiva» e professionale come professionista, mentre si distanzia dal punto di vista ideologico. Questa distanza ideologica è enfatizzata a livello di modalità traduttive nella resa cattolica dei passaggi riguardo la divina provvidenza e il libero arbitrio dove, in un caso ovvio di «accoppiamento strutturale», il vocabolario di De Buck pesca direttamente dalle risorse terminologiche e discorsiali della Chiesa cattolica. Ma vale la pena sottolineare che quello che è sostegno da un lato (la Chiesa cattolica) è polemica dall’altro (il Nord protestante).

(3) Se il commento auto-riflessivo di De Buck sulla sua modalità o stile di traduzione, nel quale il sistema si guarda al suo interno, è chiamato meta-osservazione o osservazione di secondo grado (un osservatore che osserva il suo comportamento, cf. Luhman 1990), un’osservazione «terzo grado»  quindi riguarda l’osservare il secondo livello di osservazione, ovvero si tratta di un’osservazione   auto-riflessiva. È quello che noi facciamo commentando il lavoro di De Buck come sto facendo io ora. Possiamo scovare problemi come la forza relativa o aspettative normative e di altro tipo che formano il sistema e il posto che De Buck si assegna in questo sistema, il modo in cui i suoi codici di organizzazione contengono programmi particolari, la demarcazione dei confini del sistema e i collegamenti con altri sistemi. Per fare un bel lavoro dovremmo inquadrare la teoria e il lavoro di De Buck in un contesto storico più ampio, che includa altre traduzioni e idee prevalenti riguardo la traduzione, altri modi di scrittura e rappresentazione tramite mezzi di scrittura e un quadro più completo del contesto temporale di cui il lavoro di De Buck è un tassello, mostrando come la sua comunicazione traduttiva si leghi alle comunicazioni precedenti (traduzioni e discorsi sulla traduzione) e l’effetto che ha sullo spettro della connettività delle successive comunicazioni. Questa indagine ci porterebbe però al di là di quello che voglio analizzare qui.

Let me end on an altogether different note, by drawing attention to a particularly unsettling actor which affects – perhaps I should say: which infects, or afflicts – all our attempts to speak about translation. I remarked in passing, above, that we could interpret, “or translate,” De Buck’s Boethius in system-theoretical terms. The description of the case itself constitutes a representation of it across semiotic boundaries. The transposition of this description into a different conceptual scheme amounts to another translation, at least if we accept Roman Jakobson’s view that translation comprises not only interlingual but also intralingual and intersemiotic representations (Jakobson 1959). In speaking about De Buck’s Boethius I am also translating that translation. Communication about translation means translating translation: the discourse about translation translates the practice of translation. But this entails that we translate according to our contemporary, culture-bound concept of translation, and into this concept of translation. Once we realize this, the neat distinction between objectlevel and meta-level which descriptive studies have cherished, collapses, and we are reminded of the uncomfortable fact that the study of translation  is likely to rebound on our own categories and assumptions, our own disciplinary modes of translating translation. There is no escape form this dilemma. But by conceptualizing it in terms of the selfreproducing and self-reflexive operations of a system, we can at least become aware of it – as we must, since it is a fundamental problem that affects, infects and afflicts all our work.

Permettetemi di concludere con un tipo di riflessione del tutto diversa, attirando l’attenzione su un fattore preoccupante che riguarda – forse dovrei dire: che infetta o affligge – tutti i nostri tentativi di parlare di traduzione. Quando qui sopra ho casualmente notato che possiamo interpretare «o tradurre» il Boezio di De Buck in termini di teoria del sistema, ero serio riguardo questo utilizzo di «tradurre». La descrizione del caso stesso costituisce una rappresentazione di ciò attraverso i confini semiotici. La trasposizione di questa descrizione in uno schema concettuale diverso è un’ulteriore traduzione, non contestata, in una disciplina che ha abbracciato la visione di Jakobson che la traduzione comprende rappresentazioni non solo interlinguistiche, ma anche intralinguistiche e intersemiotiche. Quindi, parlando del Boezio di De Buck sto traducendo quella traduzione. La comunicazione riguardo alla traduzione è a sua volta la traduzione di una traduzione: i discorsi sulla traduzione traducono la pratica della traduzione. Ma ciò significa, inevitabilmente, che traduciamo secondo il nostro concetto di traduzione che si lega alla nostra cultura e all’interno del nostro concetto di traduzione. Una volta che ci accorgiamo di ciò, la distinzione netta tra tra livello-oggettivo e meta-livello, così caro agli studi descrittivi, scompare e ci viene ricordato del fatto poco piacevole che lo studio della traduzione si ripercuote sulle nostre categorie e affermazioni, sulle nostre modalità disciplinari di tradurre la traduzione.

Non c’è scampo da questo dilemma, ma contestualizzandolo in termini di operazioni auto-riproduttive e auto-riflessive di un sistema possiamo almeno rendercene conto – come dobbiamo, in quanto è un problema fondamentale che infligge e affligge tutto il nostro lavoro.

 

Note bibliografiche

Berg, Henk de. 1993. Die Ereignishaftigkeit des Textes. Kommunikation und Differenz, ed. Henk de Berg and Matthias Prangel.

Berg, Henk de.  1995.  A Systems-theoretical Perspective on Communication. Poetics Today 16, 4: 709-41.

Buck, Adrianus de. 1653. Troost-Medecijne-wynckel der zedighe wysheyt, Voormaels in den kercker beschreven in’t latijne … Door Severinus Manlius Torquatus Boetius … Nu vertaelt tot yghelijcks Troost ende Leeringhe door F.D. Adrianus de Buck Canonick

Norbertijn der vermaerde Abdye van Sint’ Niclays binnen Veurne…. Bruges: Lucas vanden Kerchove.

Hermans, Theo, ed. 1996a. Door eenen engen hals. Nederlandse beschouwingen over vertalen 1550-1670. The Hague: Stichting Bibliographia Neerlandica.

Hermans, Theo. 1996b. Norms and the Determination of Translation: A Theoretical Framework. Translation, Power, Subversion, ed. Román Álvarez and Carmen-África Vidal, Clevedon: Multilingual Matters. 25-51.

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Jakobson, Roman. 1959. On Linguistic Aspects of Translation. On Translation, ed. Reuben Brower, Cambridge (Mass.): Harvard University Press. 232-9.

Lewis, David, 1969. Convention. A Philosophical Study. Cambridge (Mass.): Harvard University Press.

Luhmann, Niklas. 1984. Soziale Systeme. Grundriß einer allgemeinen Theorie. Frankfurt: Suhrkamp. (English: Social Systems, transl. John Bednarz Jr. Stanford: Stanford University Press, 1995).

Luhmann, Niklas.  1986. Das Kunstwerk und die Selbstreproduktion der Kunst. Stil. Geschichte und Funktionen eines kulturwissenschaftlichen Diskurselements, ed. H.U. Gumpert  and K.L. Pfeiffer, Frankfurt: Suhrkamp. 620-72.

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Poltermann, Andreas. 1992. ‘Normen des literarischen Übersetzens im System der Literatur.’ Geschichte, System, Literarische Übersetzung / Histories, Systems, Literary Translations, ed. Harald Kittel, Berlin: 5-31.

Toury, Gideon. 1995. Descriptive Translation Studies and Beyond. Amsterdam and Philadelphia: John Benjamins.

Henrik Gottlieb: Subtitles and International Anglification

Henrik Gottlieb: Subtitles and International Anglification

 

ALESSANDRA MERISIO

 

 

 

Fondazione Milano

Milano Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

 

 

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Luglio 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Henrik Gottlieb 2004

© Alessandra Merisio per l’edizione italiana 2011

 

 

 


ABSTRACT

Questa tesi consiste nella traduzione in italiano dell’articolo «Subtitles and International Anglification» dello studioso e  sottotitolatore danese Henrik Gottlieb, pubblicato nel 2004 sull’accademico Nordic Journal of English Studies. Gli argomenti e le tesi avanzati dall’autore sono commentati e approfonditi nella prefazione: il sottotitolaggio come forma di traduzione intersemiotica diagonale, l’evolversi e il ruolo della figura del traduttore audiovisivo in seguito all’introduzione di corsi universitari specializzati, la trasformazione diamesica, gli anglicismi e la funzione istruttiva dei sottotitoli.

ENGLISH ABSTRACT

This thesis consists of the translation into Italian of the article «Subtitles and International Anglification», published in 2004 in the academic Nordic Journal of English Studies by the Danish scholar and subtitler Henrik Gottlieb. A comment and in-depth study on the topics and his thesis are present in the preface: subtitling as a diagonal intersemiotic translation form, the development and role of the screen translator after the introduction of specialised university courses, the diamesic process, anglicisms and the instructive function of subtitling.

 

DEUTSCHE ZUSAMMENFASSUNG

Diese Diplomarbeit besteht aus der italienischen  Übersetzung des Artikels «Subtitles and International Anglification», der im akademischen Nordic Journal of English Studies vom dänischen Akademiker und Untertitel-Übersetzer Henrik Gottlieb im Jahr 2004 veröffentlicht wurde. Die Themen und Thesen des Autors werden im Vorwort kommentiert und vertieft: die Untertitelung als diagonale intersemiotische Übersetzung, die Entwicklung und Rolle des audiovisuellen Übersetzers nach der Einführung spezieller Studiengänge, der diamesische Verlauf, die Anglizismen und die belehrende Funktion der Untertitel.

 

 

 

 

 

 

 

Sommario

 

1. Prefazione……….. 4

2. Riferimenti bibliografici……….. 14

3. Traduzione con testo a fronte……….. 16

Subtitles and International Anglification……….. 17

I sottotitoli e l’anglicizzazione internazionale……….. 18

4. References……….. 42

 

 

 

 

 

 


1. Prefazione


L’articolo «Subtitles and International Anglification» è stato pubblicato nel 2004 sulla rivista accademica Nordic Journal of English Studies, Vol 3, N° 1 dallo studioso e sottotitolatore danese Henrik Gottlieb, esponente di spicco nonché pioniere del settore della traduzione audiovisiva.

La traduzione audiovisiva ha iniziato ad affermarsi come vera e propria disciplina universitaria a cavallo tra gli anni ottanta e novanta con l’attivazione di corsi pre e postuniversitari (Gottlieb, 1992). Dal 1991 il Centre for Translation Studies and Lexicography dell’università di Copenhagen, di cui Gottlieb è direttore, è stato tra i primi in Europa ad offrire un corso post-laurea di traduzione audiovisiva con un modulo specifico dedicato alla sottotitolazione. La nascita di questi corsi universitari testimonia la necessità di riconoscere la scientificità e la ricchezza teorica della traduzione audiovisiva come campo di ricerca e al contempo di formare delle figure professionali che svolgano il compito di sottotitolatori in modo brillante e funzionale e non più arbitrario (Perego 2005).

La domanda che pone Gottlieb nella prima parte dell’articolo è se il sottotitolaggio possa essere considerato vera e propria traduzione. Per rispondere a questa domanda è necessario chiarire il significato dei termini «traduzione» e «testo». Secondo la concezione di traduzione totale di Torop, con il termine «traduzione» si intende «qualsiasi processo che trasformi un prototesto (primo testo) in un metatesto (testo modificato)» (Osimo 2001), mentre un «testo» può essere costituito non solo da parole, ma anche dai linguaggi extraverbali. Grazie al modello della traduzione totale è quindi possibile descrivere qualsiasi tipo di attività traduttiva (Torop 2010). Partendo dal presupposto che un testo non è fatto di sole parole, in un articolo del 2005 lo stesso Gottlieb ha dato una sua definizione del termine traduzione:

any process, or product hereof, in which a combination of sensory signs carrying communicative intention is replaced by another combination reflecting, or inspired by, the original entity[1].

Considerando questi presupposti, la risposta alla domanda non può che essere positiva. Il sottotitolaggio è una forma di traduzione intersemiotica, poiché utilizza diversi canali semiotici, spaziando dall’oralità del discorso del prototesto (il prodotto audiovisivo) allo scritto del metatesto, i sottotitoli. Nel caso di sottotitolazione interlinguistica, il sottotitolaggio diventa un processo diagonale, perché oltre alla trasmissione del messaggio da un testo orale a un testo scritto, avviene anche il passaggio dalla cultura emittente alla cultura ricevente. In particolare, il sottotitolaggio è una forma traduttiva specifica che si distingue da altri tipi di traduzione per i parametri individuati da Gottlieb.  Il sottotitolaggio è:

prepared communication using written language acting as an additive and synchronous semiotic channel, as part of a transient and polysemiotic text[2].

Si tratta di comunicazione: scritta (written), perché delle parole vengono riportate sullo schermo; aggiuntiva (additive), poiché i sottotitoli convivono con il testo originale formato da battute, immagini e suoni che non possono essere modificati; immediata (immediate) e sincronica (synchronous), poiché i sottotitoli appaiono sullo schermo di pari passo al dialogo originale; multimediale (polymedial), perché costituisce uno dei tanti canali di trasmissione del messaggio; e transitoria (transient), perché di passaggio sullo schermo (Perego 2005:47).

Personalmente ho sempre considerato il sottotitolaggio una vera forma di traduzione, ancora prima di iniziare questo percorso universitario e quindi di venire a conoscenza delle nozioni basilari della scienza della traduzione. Ma solo negli ultimi mesi ho iniziato a considerare il sottotitolaggio in modo più critico. Io stessa posso notare la differenza di qualità tra i sottotitoli di film in DVD e dei filmati in televisione rispetto ai sottotitoli di materiale audiovisivo reperibile in siti di streaming in internet. Infatti, mentre i primi sono  preparati da professionisti, i secondi possono essere preparati da qualsiasi utente che dimostri di avere un po’ di competenza linguistica, ma che non è necessariamente un traduttore. Nonostante ciò, come avviene in tutti i campi della traduzione, non basta sapere una lingua straniera per improvvisarsi sottotitolatori: è necessario aver conseguito la specializzazione adeguata. Il ruolo del traduttore audiovisivo, che in questo caso chiameremo sottotitolatore, è infatti fondamentale al fine di trasmettere in modo corretto tutte le informazioni del testo originale mantenendo il dovuto dinamismo comunicativo (Perego 2005). Oggi sembra scontato che un sottotitolatore debba essere in primo luogo un traduttore, ma non è sempre stato così: la figura del sottotitolatore si è infatti evoluta notevolmente. L’esigenza di formare del personale specializzato è nata negli anni novanta:

The 1990s have witnessed the emergence of a well-defined job profile for the subtitler. This has lead to the development in recent times of special training courses for this profession. Broadcasting stations and subtitling companies are recruiting language graduates and training them in-house; universities and specialised translation schools are setting up subtitling classes as part of their media translation courses. The media industry has realised that trained professionals are needed for the job[3].

Se in passato era frequente che i sottotitoli fossero preparati da personale inesperto, oggi è più raro che questo avvenga. L’evoluzione della figura del sottotitolatore è a mio parere una grande conquista nel campo della traduzione.

Come già accennato, il sottotitolaggio comporta una trasformazione diamesica, cioè un cambiamento di codice. Il dialogo della lingua parlata, apparentemente priva di regole, come la definisce Gottlieb, deve essere “trasformato” in un altro codice, quello della lingua scritta, più rigida. Nonostante questo, ossia che avvenga un passaggio da un sottocodice all’altro, io credo che il sottotitolatore debba conferire ai sottotitoli la naturalezza del dialogo parlato, rispettando sì le regole della lingua scritta (punteggiatura, ortografia, sintassi e grammatica), ma al tempo stesso cercando di evitare  l’utilizzo di forme e strutture rigide, più tipiche della lingua scritta che renderebbero i sottotitoli del tutto non naturali e “forzati”. A tal proposito in un articolo in Internet sul sottotitolaggio, anche Osimo ritiene che negare la realtà del parlato nei romanzi o nei film sottotitolati, renda gli stessi ridicoli e lontani dalla realtà. Prendiamo il seguente esempio: se in una scena di un film in cui due amiche vogliono bere un caffè insieme, una dicesse all’altra: «Propongo di bere un caffè insieme» la battuta sarebbe sì corretta da un punto di vista ortografico e grammaticale, ma suonerebbe troppo “finta” e poco naturale. Sarebbe molto più opportuno sostituirla con la seguente battuta: «Ti va un caffè?», molto più naturale e spontanea.

Il sottotitolaggio è definito da Gottlieb un lavoro che richiede talenti diversi:

apart from being an excellent translator of foreign-language lines, a good subtitler needs the musical ears of an interpreter, the no-nonsense judgement of a news editor, and a designer’s sense of esthetics. In addition, as most subtitlers do the electronic time-cueing themselves, the subtitler must also have the steady hand of a surgeon and the timing of a percussionist[4].

Oltre a un diploma in traduzione audiovisiva, per essere un bravo sottotitolatore è necessario possedere e affinare questi talenti. Uno degli aspetti più importanti del lavoro del sottotitolatore è il montaggio dei sottotitoli chiamato «timing». Esso consiste nel definire i tempi di «entrata» e «uscita» di ciascun sottotitolo e nel trovare il miglior equilibrio tra il ritmo del film, il ritmo di parlata dei personaggi o del narratore e il ritmo di lettura dello spettatore. Vanno inoltre considerati i tagli e i collegamenti sonori tra due scene, al fine di raggiungere al tempo stesso il più alto livello di sincronizzazione possibile tra la parola pronunciata e l’effettivo sottotitolo (Ivarsson, Carrol 1998:82). Quando Gottlieb parla di «tempismo di un percussionista», si riferisce molto probabilmente a questo difficile compito.

Un’altra sfida particolarmente ardua che deve affrontare un sottotitolatore è la strategia di condensazione del dialogo (Gottlieb) o di riduzione parziale, secondo Kovačič. La strategia di condensazione ripropone il messaggio in una forma più sintetica, senza comportare la perdita totale di informazioni: cambia solo la forma del messaggio, ma non il suo contenuto. Per attuare questa strategia il sottotitolatore deve dimostrare una grande abilità  di analisi, sintesi e congettura.

Credo quindi che sia importante che un sottotitolatore concili la teoria (il fatto che abbia studiato per diventare sottotitolatore) con la pratica, l’insieme delle abilità e dei talenti. Questo pensiero può essere riassunto nelle parole di  Luyken secondo il quale «il traduttore audiovisivo è una figura professionale determinante che necessita di un’adeguata preparazione per soddisfare le esigenze qualitative richieste. Solide basi teoriche unite ad abilità ed esperienza sul versante pratico sono attributi imprescindibili» (Luyken 1990).

 

Gottlieb ritiene che «finché la gran parte dello scambio internazionale di film e produzioni televisive rimane anglofona, sarà molto probabile che sia il sottotitolaggio che il doppiaggio continueranno a proiettare aspetti tipici della lingua inglese dal dialogo originale al discorso tradotto. Così come stanno le cose, si trova un’alta frequenza di anglicismi in entrambi i tipi di traduzione[…]». Egli definisce quello degli anglicismi un problema da ridurre al minimo e spera che in futuro le importazioni di programmi da paesi anglofoni siano ridotte nel bene della diversità linguistica e culturale. Credo che il termine «problema» utilizzato da Gottlieb sia esagerato, soprattutto se applicato a un paese come l’Italia che ha alle spalle un passato di nazionalismo linguistico, causato dalla chiusura del regime fascista verso le altre lingue e culture. Il 22 ottobre 1930 l’ufficio di revisione fece infatti emettere la seguente disposizione:

il ministero dell’interno ha disposto che da oggi non venga accordato il nullaosta alla rappresentazione di pellicole cinematografiche che contengano del parlato in lingua straniera sia pure in misura minima. Di conseguenza, tutti indistintamente i film sonori, ad approvazione ottenuta, porteranno sul visto la condizione della soppressione di ogni scelta dialogata o comunque parlata in lingua straniera[5].

È da questo momento che in Italia inizia a svilupparsi l’industria del doppiaggio che ha ormai raggiunto un livello di qualità esemplare. È interessante notare come oggi l’Italia sia più positiva e aperta verso gli anglicismi. Se è vero che durante gli anni del regime fascista ci fu una chiusura verso le lingue straniere, è anche vero che con gli sbarchi in Sicilia e ad Anzio delle truppe americane, in molte regioni d’Italia i soldati americani e la lingua inglese divennero molto familiari con una naturale apertura dei più giovani verso questa lingua. Oggi in Italia gli anglicismi sono utilizzati molto spesso nel linguaggio quotidiano, molte volte senza rendersene conto. Si pensi ai lemmi «manager», «smog», «week-end» ormai affermati e presenti sul vocabolario della lingua italiana. Non sono contraria all’utilizzo degli anglicismi, purché moderato e a patto che si sia consapevoli di utilizzare un termine preso in prestito da un’altra lingua, nonostante esista la possibilità di dire la stessa cosa in italiano.

L’Italia fa parte dei «dubbing countries», ossia dei paesi che si avvalgono principalmente della tecnica del doppiaggio. Ciò significa che il pubblico italiano è sempre stato abituato a vedere programmi doppiati importati da altri paesi ed è raro che vengano trasmessi in tv programmi o film in lingua straniera sottotitolati. Uno dei modi per accedere a materiale audiovisivo sottotitolato è utilizzare i DVD (Digital Versatile Disk) che possono contenere fino a 32 versioni sottotitolate in lingue diverse (Ivarsson, Carrol 1998). Personalmente ritengo molto utile la visione di film in lingua originale sottotitolati per favorire l’apprendimento di una lingua straniera. Questo metodo dovrebbe essere promosso non solo nelle scuole, ma anche alla televisione al fine di trarne il massimo vantaggio per tutti. La televisione dovrebbe dare al pubblico la possibilità di scegliere tra la versione originale di un film sottotitolata e la versione doppiata, come avviene in molti altri Paesi. Credo che la programmazione di film in lingua inglese sottotitolati andrebbe a vantaggio di molti, soprattutto dei più giovani:

In Europe children start to learn foreign languages, especially English, at a young age. Watching television makes a substancial contribution to their understanding of spoken English and to improving their pronunciation[6].

La funzione istruttiva dei sottotitoli è riconosciuta anche da Gottlieb che però vorrebbe limitare notevolmente le importazioni di materiale anglofono a favore di produzioni locali nell’interesse della diversità linguistica e culturale.

 

Al termine della mia analisi ritengo doveroso rivolgere una critica circa lo stile e la struttura dell’articolo. Infatti, Il Nordic Journal of English Studies, nel quale è pubblicato l’articolo in questione, è una rivista accademica, ossia un «periodico a revisione paritaria  in cui vengono pubblicati contributi di scienziati ed esperti di una disciplina accademica» (Wikipedia 2011). Le riviste accademiche fungono da forum per l’introduzione e la presentazione di nuova ricerca e per la critica di ricerca esistente. In quanto tale, Subtitles and International Anglification dovrebbe rispondere a determinati criteri di stesura di un articolo accademico. Nella comunità scientifica internazionale un articolo deve essere organizzato nell’ordine suggerito dall’acronimo IMRAD: Introduction, Methods, Results and Discussion[7]. Tuttavia, Gottlieb non rispetta appieno questi criteri. Più che presentare nuovi dati di ricerca, egli fa trasparire più volte la sua opinione personale: limitare le importazioni anglofone e favorire le produzioni locali e importazioni da paesi non anglofoni per promuovere la diversità culturale. Le considerazioni personali abbassano il livello di scientificità di un articolo, soprattutto se non supportate da dati. La scarsa scientificità dell’articolo in questione è a mio parere evidente nella conclusione, dove Gottlieb espone per l’ennesima volta il suo desiderio sopra citato. Oltre a essere una ripetizione, che è sempre bene evitare in un articolo scientifico, lo stile in cui Gottlieb si esprime non è del tutto scientifico. Si veda per esempio l’esclamazione «ahimè» e la conclusione «questo circolo, vizioso o no, deve essere interrotto, almeno nell’interesse della diversità linguistica e culturale».


2. Riferimenti bibliografici

De Linde Zoè 1999. The Semiotics of Subtitling. Manchester: St.Jerome.

De Mauro Tullio 2008. «Gli anglicismi? No problem, my dear», disponibile in internet all’indirizzo http://www.treccani.it/site/lingua_linguaggi/archivio_speciale/demauro, consultato nel giugno 2011.

Gottlieb Henrik 1992. Subtitling – A  New University Discipline, «Teaching Translation and Interpreting», Dollerup, Cay e Anne Loddegaard.

Gottlieb Henrik 2004. «Subtitles and International Anglification». Nordic Journal of English Studies, Vol III-1: 219-230,  disponibile in internet all’indirizzo http://ojs.ub.gu.se/ojs/index.php/njes/issue/view/11, consultato nel marzo 2011.

Gottlieb Henrik 2005. «Multidimensional Translation: Semantics turned Semiotics». Proceeding of the Marie Curie Euroconferences MuTra Challenges of Multidimensional Translation, disponibile in internet all’indirizzo http://www.euroconferences.info/proceedings/2005_Proceedings/2005_proceedings.html, consultato nel maggio 2011.

Ivarsson Jan e Carrol Mary 1998. Subtitling. Simrishamn: TransEdit HB.

Kotzé Theuns 2007. «Guidelines on Writing a First Quantitative Academic Article», disponibile in internet all’indirizzo web.up.ac.za/sitefiles/file/40/753/writing_an_academic_journal_article.pdf, consultato nel giugno 2011.

Luyken Georg-Michael 1990. Language Conversion in Audiovisual Media, «Proceeding of a conference» P. Mayorcas, Londra: Aslib.

Osimo Bruno 2001. Propedeutica della traduzione. Milano: Hoepli.

Osimo Bruno 2000-2004. «Sottotitolaggio», disponibile in internet all’indirizzo http://courses.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_4_19?lang=it, consultato nel giugno 2011.

Perego Elisa 2005. La traduzione audiovisiva. Roma: Carocci.

Torop Peeter 2010. La traduzione totale, a cura di Bruno Osimo. Milano: Hoepli.

Wikipedia 2011. «Academic Journal» in Wikipedia, disponibile in internet all’indirizzo http://en.wikipedia.org/wiki/Academic_journal, consultato nel giugno 2011.

 

 

3. Traduzione con testo a fronte


Subtitles and International Anglification

Is subtitling translation?

Language professionals tend to disagree as to whether subtitling is indeed translation, and even the subtitling industry is often reluctant to grant this type of language transfer the status of ‘real’ translation. This is mainly due to two things:

1) The famous and infamous time-and-space constraints of subtitling, which mean that no more than some 70 (alphanumeric) characters can be fitted into one subtitle, and that – in order to give viewers enough reading time – subtitles should be exposed at a pace not exceeding 12 characters per second. This normally implies some measure of condensation of the original dialogue, something that is often not expected in translated texts.

2) The fact that to most people the term ‘translation’ – or the equivalents ‘traduction’, ‘Übersetzung’, ‘oversættelse’, etc. – means ‘the transfer of written text in one language into written text in another’.

I will suggest labeling all types of interlingual transfer ‘translation’, as they all share one basic quality: verbal messages are recreated in another language. However, a watershed runs between what I will call isosemiotic translation on the one hand, and diasemiotic translation on the other. Isosemiotic translation uses the same semiotic channel – i.e. channel of expression – as the original, and thus renders speech as speech and writing as writing. This means that processes as diverse as conference interpreting, post-synchronization (= dubbing), technical translation and literary translation are all examples of isosemiotic translation.

 

 

 

I sottotitoli e l’anglicizzazione internazionale

Il sottotitolaggio è traduzione?

I professionisti della lingua tendono a dissentire sulla questione se il sottotitolaggio si possa considerare proprio traduzione e spesso anche l’industria del sottotitolaggio è riluttante a conferire a questo tipo di trasferimento linguistico lo status di “vera” traduzione. Ciò è dovuto principalmente a due fattori:

1) I tristemente famosi limiti spazio-temporali dei sottotitoli, che implicano che non possono essere inseriti in un sottotitolo più di circa settanta caratteri (alfanumerici)  e che, per dare agli spettatori il tempo di lettura sufficiente, i sottotitoli dovrebbero essere esposti a una velocità non superiore ai 12 caratteri al secondo. Questo in genere implica delle misure di condensazione del dialogo originale, espediente che non è previsto spesso nei testi tradotti.

2) Il fatto che per la maggior parte delle persone il termine “traduzione”, o gli equivalenti «traduction», «Übersetzung», «oversættelse», ecc, significa «il trasferimento di un testo scritto in una lingua in un testo scritto in un’altra».

Propongo di classificare tutti i tipi di trasferimento interlinguistico con il termine «traduzione», poiché essi condividono tutti una qualità essenziale: i messaggi verbali sono ricreati in un’altra lingua. Tuttavia, esiste uno spartiacque tra ciò che chiamerò «traduzione isosemiotica» da una parte e «traduzione diasemiotica» dall’altra. La traduzione isosemiotica utilizza lo stesso canale semiotico (il canale di espressione) dell’originale e quindi rende il discorso orale con un discorso orale e il testo scritto con un testo scritto. Ciò significa che processi così diversi come l’interpretariato di conferenza, la post-sincronizzazione (doppiaggio), la traduzione tecnica e la traduzione letteraria sono tutti esempi di traduzione isosemiotica.

 

In contrast, diasemiotic translation crosses over from writing to speech, or – as in the case of subtitling – from speech to writing.

As is seen below, the process of diasemiotic translation is diagonal. Thus, subtitling – the only type of diasemiotic translation found in the mass media – ‘jaywalks’ from source-language speech to target-language writing:

 

 

 

 

The realm of subtitling

 

Subtitling can be defined as “diasemiotic translation in polysemiotic media (including films, TV, video and DVD), in the form of one or more lines of written text presented on the screen in sync with the original dialogue[8]“.

Per contro, la traduzione diasemiotica spazia dallo scritto al discorso, oppure, come nel caso del sottotitolaggio, dal discorso al testo scritto.

Come si vede sotto, il processo di traduzione diasemiotica è diagonale. Quindi il sottotitolaggio, l’unico tipo di traduzione diasemiotica dei mass media, si avventura dal discorso della cultura emittente al testo scritto della cultura ricevente:

 

 

 

Il campo del sottotitolaggio

 

Il sottotitolaggio può essere definito come «traduzione diasemiotica nei media polisemiotici (inclusi film, tv, video e DVD), sotto forma di una o più righe di testo scritto, presentato sullo schermo contemporanemente al dialogo originale». [9]

In most European speech communities with less than 25 million speakers, subtitling – costing only a fraction of lip-sync dubbing – has been the preferred type of screen translation ever since the introduction of sound film in the late 1920s[10].Internationally, at least six different patterns of subtitling are found, with most subtitling countries adhering to only one of them:

1) Subtitling from a foreign language into the domestic majority language: Denmark, Sweden, Norway, Iceland, the Faroe Islands, the Netherlands, Portugal, Estonia, Slovenia, Croatia, Romania, Greece, Cyprus, Argentina, Brazil, etc.

2) Bilingual subtitling (in cinemas) from a foreign language into two domestic languages: Finland (Finnish and Swedish), Belgium (Flemish and French), Israel (Hebrew and Arabic).

3) Subtitling from national minority languages into the majority language: Ireland, Wales (English).

4) Subtitling from the majority language into an immigrant language: Israel (Russian).

5) Subtitling from non-favored languages to the favored language: South Africa and India (English).

6) Revoicing foreign-language dialogue in the favored language, with subtitles in a non-favored domestic language: Latvia (voice-over in Latvian, subtitles in Russian).

 

Nella maggior parte delle comunità discorsuali europee con meno di venticinque milioni di parlanti, il sottotitolaggio, essendo molto più economico del doppiaggio con sincronizzazione labiale, è il tipo di traduzione audiovisiva preferito fin dall’introduzione del film sonoro alla fine degli anni ’20[11].

A livello internazionale si identificano almeno sei diversi modelli di sottotitolaggio. La maggior parte dei paesi che si avvalgono del sottotitolaggio  adottano soltanto uno di essi:

1) Sottotitolaggio da una lingua straniera alla lingua nazionale maggioritaria:

Danimarca, Svezia, Norvegia, Islanda, Isole Faroe, Paesi Bassi, Portogallo, Estonia, Slovenia, Croazia, Romania, Grecia, Cipro, Argentina, Brasile ecc.

2) Sottotitolaggio bilingue (al cinema) da una lingua straniera alle due lingue nazionali: Finlandia, (finlandese e svedese), Belgio (fiammingo e francese), Israele (ebraico e arabo).

3) Sottotitolaggio dalle lingue nazionali minoritarie alla lingua maggioritaria: Irlanda, Galles (inglese).

4) Sottotitolaggio dalla lingua principale in una lingua di immigrazione: Israele (russo).

5) Sottotitolaggio da lingue non preferite alla lingua preferita: Sud Africa e India (inglese).

6) Risonorizzazione del dialogo in una lingua straniera nella lingua preferita, con sottotitoli in una lingua nazionale non preferita: Lettonia (voice-over in lettone, sottotitoli in russo).

 

Dubbing vs. subtitling

 

Dubbing, the traditional rival of subtitling, long ago established itself as the dominant type of screen translation in all non-Anglophone major speech communities in Western Europe, i.e. Spain, Germany, Italy and France. Without entering the never-ending ‘dubbing vs. subtitling’ discussion[12],two central – and slightly paradoxical – facts need mentioning here:

a) Subtitling, often considered the more authentic of the two methods, constitutes a fundamental break with the semiotic structure of sound film by re-introducing the translation mode of the silent movies, i.e. written signs.

b) Dubbing, a “natural”, isosemiotic type of translation, generates a conglomerate expression in which the voices heard, severed as they are from the faces and gestures seen on screen, will never create a fully natural impression. Only total remakes will be able to supplant the original film.

 

All in all, the two methods of screen translation differ in the following respects:

1. In semiotic terms, i.e. with regard to

(a) written vs. spoken language mode, and

(b) supplementary mode (subtitling) vs. substitutional mode (dubbing).

 

 

 

 

 

Doppiaggio versus sottotitolaggio

 

Il doppiaggio, rivale tradizionale del sottotitolaggio, si affermò tempo fa come tipo dominante di traduzione audiovisiva in tutte le grandi comunità discorsuali non anglofone dell’Europa occidentale ossia Spagna, Germania, Italia e Francia. Senza addentrarci nell’infinita discussione «doppiaggio versus sottotitolaggio»[13], è necessario menzionare due fatti fondamentali, leggermente paradossali:

a)             Il sottotitolaggio, spesso considerato il più autentico dei due metodi, crea una rottura fondamentale con la struttura semiotica del film sonoro, reintroducendo la modalità traduttiva dei film muti, cioè i segni scritti.

b)             Il doppiaggio, un tipo di traduzione isosemiotica “naturale” crea un’espressione conglomerata nella quale le voci sentite, talmente separate dai volti e dai gesti visti sullo schermo, non potranno mai creare un effetto totalmente naturale. Soltanto girando di nuovo l’intero film si potrà soppiantare l’originario.

Complessivamente, i due metodi di traduzione audiovisiva si distinguono per i seguenti aspetti:

  1. in termini semiotici, in particolare considerando

a) la modalità scritta versus la modalità parlata e

b) la modalità integrativa (sottotitolaggio) versus la modalità sostitutiva (doppiaggio).

 

2. In wording, where

(c) to a great extent, subtitling is governed by the norms of the written language[14],and

(d) unlike dubbing, subtitling tends to condense the original dialogue by roughly one third[15],partly as a result of point 2c above, partly to provide enough reading time for the audience (cf. the constraints mentioned in the introduction).

 

Subtitling, a multi-talent task

 

Apart from being an excellent translator of foreign-language lines, a good subtitler needs the musical ears of an interpreter, the no-nonsense judgment of a news editor, and a designer’s sense of esthetics. In addition, as most subtitlers do the electronic time-cueing themselves, the subtitler must also have the steady hand of a surgeon and the timing of a percussionist.

Furthermore, due to the diasemiotic nature of subtitling, the subtitler must, on top of translating spoken utterances from one language to another, transfer the dialogue from one sub-code (the seemingly unruly spoken language) to another (the more rigid written language). If this shift of sub-code were not performed as a fundamental part of the subtitling process, the audience would be taken aback by reading the oddities of spoken discourse.

 

2.   nella formulazione verbale, dove

c) il sottotitolaggio è governato in gran misura dalle regole della lingua scritta[16] e

d) diversamente dal doppiaggio, il sottotitolaggio tende a ridurre il dialogo originale di circa un terzo[17], in parte come risultato del punto 2c sopra, in parte per dare al pubblico tempo di lettura sufficiente (si vedano i limiti menzionati nell’introduzione).

 

Il sottotitolaggio, compito che richiede talenti diversi.

 

Oltre a essere un traduttore eccellente di dialoghi, un buon sottotitolatore necessita dell’orecchio musicale di un interprete, del giudizio pratico di un redattore giornalistico e del senso estetico di un designer. Per di più, dato che molti sottotitolatori svolgono loro stessi il montaggio delle battute, il sottotitolatore deve anche avere la mano ferma di un chirurgo e il tempismo di un percussionista.

Inoltre, a causa della natura diasemiotica del sottotitolaggio, il sottotitolatore, oltre a tradurre il discorso da una lingua a un’altra, deve trasferire il dialogo da un sottocodice (la lingua parlata apparentemente priva di regole) a un altro (la lingua scritta, più rigida).

Se questo mutamento di sottocodice non avvenisse come parte fondamentale del processo di sottotitolaggio, il pubblico sarebbe sorpreso nel leggere le stranezze del discorso parlato.

 

But as the dialogue is always re-coded en route to the bottom of the screen, viewers only react if the other dimension of diagonal subtitling – the translation proper – seems imperfect.

 

But this happens often enough; double-guessing subtitlers is almost a national sport in semi-bilingual subtitling countries, and several websites are now dedicated to onscreen translation bloopers (see for instance the Danish “Bøfsiden” and “Avigsidan” from Sweden).

 

Naturally, many of the errors reported are inexcusably stupid – albeit very amusing. But at a more sophisticated level, the complex and polysemiotic nature of filmic media renders a simple textual comparison between subtitles and original dialogue insufficient for making quality judgments.

 

Instead, the synthesis of the four parallel semiotic channels – image, (non-verbal) sound, dialogue and subtitles – should be compared with the original three-channel discourse. Only then will it be possible to determine to which extent the subtitled version as a whole manages to convey the semantic gestalt of the original.

 

 

 

 

 

 

 

Ma dato che il dialogo è sempre simultaneamente ricodificato nella parte bassa dello schermo, il pubblico reagisce soltanto se sembra imperfetta l’altra dimensione del sottotitolaggio diagonale, la vera e propria traduzione.

 

Ma questo capita abbastanza spesso; in molti paesi semi bilingue che si avvalgono dei sottotitoli, essere sottotitolatori sospettosi è quasi uno sport nazionale e molti siti internet sono ormai dedicati alle “perle” della traduzione audiovisiva (si vedano per esempio il sito danese  «Bøfsiden» (titlevision 2008-2011) e lo svedese «Avigsidan» (avigsidan)).

 

Naturalmente molti degli errori riportati sono imperdonabilmente stupidi, benché molto divertenti. Ma a un livello più sofisticato, la natura complessa e polisemiotica dei media filmici rende un semplice paragone testuale tra i sottotitoli e il dialogo originale insufficiente per giudicarne la qualità.

 

Al contrario, la sintesi dei quattro canali semiotici paralleli – immagine, suono (non verbale), dialogo e sottotitoli – dovrebbe essere paragonata al discorso originale nei tre canali. Solo così sarà possibile determinare in che misura la versione sottotitolata riesce a trasferire nell’insieme la struttura semantica complessiva dell’originale.

 

Anglophone programing, anglified subtitles?

 

Film, TV and video are presently being digitized, leading to formats much better suited for special translation needs than the traditional one-translation-per-film entity. Already today, films on DVD are marketed in multi-language versions, with (in theory) up to 8 dubbed and 32 subtitled versions on one disc – although on most DVDs far less than half of these options are offered[18].

With Digital Video Broadcasting (DVB), new standards for TV translation may (still) be expected (Karamitroglou 1999), making ‘personal subtitling’ – i.e. remote control selection of the preferred language version – a matter of course to most audiences worldwide.

However, as long as the bulk of the international exchange of films and TV productions remains anglophone, both subtitling and dubbing will very likely keep projecting English language features from the original dialogue to the translated discourse[19].As things are, high frequencies of Anglicisms are found in both types of translation, as shown in recent German and Danish studies (Herbst 1994 & 1995, Gottlieb 1999 & 2001).

 

Programmi anglofoni, sottotitoli anglicizzati?

 

I film, la tv e i video sono attualmente in fase di digitalizzazione, introducendo dei formati molto più appropriati per delle esigenze particolari di traduzione rispetto al tipo “una traduzione a film”. Già oggi i film sui DVD sono distribuiti in versioni multilingui con (in teoria) fino a otto versioni doppiate e trentadue sottotitolate su un unico disco, anche se nella maggior parte dei DVD sono disponibili molto meno della metà di queste opzioni.[20]

Con il Digital Video Broadcasting si attendono (ancora) dei nuovi criteri per la traduzione televisiva (Karamitroglou 1999), che rendano «i sottotitoli personalizzati», per esempio la selezione col telecomando della versione nella lingua preferita, una procedura normale per la maggior parte del pubblico in tutto il mondo.

Tuttavia, finché la gran parte dello scambio internazionale di film e produzioni televisive rimane anglofona, sarà molto probabile che sia il sottotitolaggio che il doppiaggio continueranno a proiettare aspetti tipici della lingua inglese dal dialogo originale al discorso tradotto[21]. Così come stanno le cose, si trova un’alta frequenza di anglicismi in entrambi i tipi di traduzione, come mostrato in recenti studi tedeschi e danesi (Herbst 1994 & 1995, Gottlieb 1999 & 2001).

 

And indeed, with the largely unchallenged power of Hollywood, although many subtitlers and language authorities may be critical to linguistic echoes of English in translated media, film companies, broadcasters and audiences worldwide tend to be more positive in this respect – one example being the increasing number of American film titles remaining untranslated in non-anglophone countries.

Interestingly, even when Anglicisms are concerned, subtitling differs from dubbing – in terms of which grammatical level is mainly affected. Dubbing tends to introduce syntactic ‘Trojan horses’ in target languages, primarily because the actors’ lip movements force dubbing translators to copy English speech patterns. Subtitling, on the other hand, typically promotes lexical innovation, i.e. loanwords, a more transparent Anglicism category. This is partly because viewers expect terminological similarity between what they hear and what they read on the screen (Gottlieb 2001).

For those concerned by these facts, there is little consolation in the alternatives:

a) Voice-over, where the original soundtrack is overlayed with impassion-ate, sometimes English-flavored narration in the target language (Griga-raviciúté & Gottlieb 1999), with no way of checking the translation against the original,

b) No translation, where the domestic language is not ‘contaminated’, but the audience is forced to make the best of their knowledge of English – a sink-or-swim strategy used in, for instance, several countries in Southern Africa (Kruger & Kruger 2001) – and, finally

 

E infatti, con il potere ampiamente incontestato di Hollywood, sebbene molti sottotitolatori e autorità della lingua potrebbero criticare le eco linguistiche dell’inglese nei media tradotti, le società di produzione, le emittenti e il pubblico in tutto il mondo tendono a essere più positivi su questo aspetto – un esempio è il crescente numero di titoli di film americani che non vengono tradotti nei paesi non anglofoni.

Anche quando si tratta di anglicismi, è interessante notare come il sottotitolaggio si distingua dal doppiaggio, in termini di quale livello grammaticale è principalmente implicato.

Il doppiaggio tende a introdurre dei «cavalli di troia» sintattici nelle lingue riceventi, principalmente perché i movimenti labiali degli attori obbligano gli adattatori a fare dei calchi sul discorso inglese. Dall’altra parte il sottotitolaggio promuove tipicamente l’innovazione lessicale,  ossia i prestiti dalla lingua, una categoria più trasparente di anglicismi. Ciò avviene anche perché il pubblico si aspetta una somiglianza terminologica tra quello che sente e quello che legge sullo schermo (Gottlieb 2001).

Gli interessati traggono gran poca consolazione dalle alternative:

a)             Voice-over, dove la colonna sonora originale è coperta da una piatta narrazione nella lingua ricevente, a volte anglicizzata (Grigraviciute & Gottlieb 1999), senza possibilità di confrontare la traduzione con l’originale,

b)             Nessuna traduzione, dove la lingua interna non è “contaminata”, ma il pubblico è obbligato a sfruttare al massimo la propria conoscenza dell’inglese – una strategia di sopravvivenza utilizzata per esempio in molti paesi dell’Africa meridionale (Kruger & Kruger 2001) – e infine,

 

c) English intralingual subtitles, a method which may help viewers make sense of the spoken English lines, but still offers no interlingual aid.

 

At the end of the day, boosting domestic productions is the only way to ‘minimize the Anglicism problem’ – and produce dialogue with only those Anglicisms that are already firmly established[22].Avoiding all imports is as unrealistic as it is undesirable. Instead, more imports from non-anglophone speech communities would be beneficial to all parties involved.

 

Language politics and choice of screen translation method

 

Regarding program exchange and translation choices on television, six scenarios can be outlined, four of which exist today[23].The two supplementary ones, ‘Utopia’ and ‘Dystopia’, should be seen as opposite extremes establishing the cline on which all present and future realities are bound to be found:

 

 

 

 

 

c)              Sottotitoli inglesi intralinguistici, metodo che può aiutare il pubblico a seguire le battute di inglese parlato, ma che però non dà aiuto interlinguistico.

 

In fin dei conti, promuovere la produzione interna è l’unico modo di “ridurre al minimo il problema degli anglicismi” e di produrre dialoghi con solo quegli anglicismi che si sono già saldamente affermati[24]. Evitare qualsiasi importazione è tanto irrealistico quanto non auspicabile. Più importazioni da comunità discorsuali non anglofone andrebbero invece a favore di tutte le parti in causa.

 

Politica linguistica e scelta di metodo di traduzione audiovisiva

 

Per quanto riguarda lo scambio di programmi e le scelte di traduzione in televisione, possono essere individuati sei scenari, quattro dei quali esistenti[25]. Gli altri due scenari, «utopia» e «distopia» dovrebbero essere considerati due estremi opposti che fissano una scala di gradazione in cui tutte le realtà presenti e future sono destinate a trovarsi:

 

Scenario 1: Utopia

The cosmopolitan situation:

Flourishing international program exchange,

less than 50% English programing,

less than 50% national programing,

a wide range of non-English imports,

standard imports subtitled in all domestic languages,

children’s imports dubbed or voiced-over.

 

Scenario 2: Scandinavia

The monolingual anglophile situation:

Substantial program imports,

around 50% English programing,

almost 50% national programing,

very few non-English imports,

standard imports subtitled in the dominant domestic language,

children’s imports subtitled, dubbed or voiced-over.

 

Scenario 3: South Africa

The multilingual anglophile situation:

Massive program imports,

more than 50% English programing,

less than 50% national programing,

very few non-English imports,

standard imports not translated,

children’s imports either not translated or dubbed / voiced-over,

indigenous programs subtitled in English.


Scenario 1: Utopia

La situazione cosmopolita:

fiorente scambio di programmi internazionali;

meno del 50% di programmazione inglese;

meno del 50% di programmazione nazionale;

un’ampia gamma di importazioni non-anglofone;

importazioni standard sottotitolate in tutte le lingue interne;

importazioni per bambini doppiate o con voice-over.

 

Scenario 2: Scandinavia

La situazione monolingue anglofila:

notevoli importazioni di progammi;

circa il 50% della programmazione inglese;

quasi il 50% della programmazione nazionale;

pochissime importazioni non-anglofone;

importazioni standard sottotitolate nella lingua interna principale;

importazioni per bambini sottotitolate, doppiate o con voice-over.

 

Scenario 3: Sud Africa

La situazione multilingue anglofila:

massicce importazioni di programmi;

più del 50% di programmi inglesi;

meno del 50% di programmi nazionali;

pochissime importazioni non-anglofone;

importazioni standard non tradotte;

importazioni per bambini sia non tradotte che doppiate/con voice-over;

programmi indigeni sottotitolati in inglese.

 

Scenario 4: France

The monolingual nationalist situation:

Limited program imports,

less than 50% English programing,

more than 50% national programing,

very few non-English imports,

niche imports subtitled,

all other imports dubbed or voiced-over.

 

Scenario 5: ‘Anglostan’ (the native English-speaking countries)

The anglophone situation:

Very few non-English imports,

almost 100% English programing,

niche imports subtitled,

all other imports dubbed or voiced-over.

 

Scenario 6: Dystopia

The anglified situation:

Very few non-English imports,

domestic and regional production mainly in English,

standard imports not translated,

programs for the elderly subtitled or dubbed.

 

Scenario 4: Francia

La situazione monolingue nazionalista:

limitate importazioni di programmi;

meno del 50% di programmi inglesi;

più del 50% di programmi nazionali;

pochissime importazioni non-anglofone;

importazioni di nicchia sottotitolate,

tutte le altre importazioni doppiate o con voice-over.

 

Scenario 5: “Anglostan” (i paesi anglofoni nativi)

La situazione anglofona:

pochissime importazioni non anglofone;

quasi il 100% di programmi inglesi;

importazioni di nicchia sottotitolate,

tutte le altre importazioni doppiate o con voice-over.

 

Scenario 6: Distopia

La situazione anglicizzata:

pochissime importazioni non anglofone;

produzione domestica e regionale principalmente in inglese;

importazioni standard non tradotte;

programmi per anziani sottotitolati o doppiati.

 

Judged from a global perspective, the only sustainable scenario seems to be the Utopian one, in which neither national nor anglophone productions dominate, and where different segments among viewers may select different language versions of imported programs.

If we want to, we have an all-win situation on our hands:

a) Subtitling anglophone imports enhances the learning of English, still unchallenged as a global lingua franca[26].

b) Importing more programs from non-anglophone countries will raise viewers’ linguistic and cultural awareness and help keep the dominance of English in check.

c) Offering subtitles in all major indigenous languages will improve the status of so-called lesser-used languages and make program production in these languages viable.

Alas, as with so many other choices in life, consensus is easier reached than action, especially when money is concerned. Today, American, British and Australian imports are so much more affordable to TV stations worldwide than domestic productions – as long as these remain difficult to export because neighboring countries keep filling their shelves with anglophone imports.

Vicious or not, this circle needs to be broken, at least for the sake of linguistic and cultural diversity.

 

Considerato da un punto di vista globale, l’unico scenario sostenibile sembra essere l’utopico, in cui non domina né la produzione nazionale né quella anglofona e dove diverse porzioni di pubblico potrebbero selezionare versioni di lingue diverse di programmi importati.

Volendo, si ha a disposizione una situazione win-win:

a)             sottotitolare le importazioni anglofone promuove l’apprendimento dell’inglese, la lingua franca globale[27] tuttoggi indiscussa.

b)             Importare più programmi dai paesi non anglofoni aumenterà la consapevolezza linguistica e culturale del pubblico e contribuirà a limitare la prevalenza dell’inglese.

c)              Proporre sottotitoli in tutte le lingue indigene principali migliorerà lo status delle cosiddette lingue meno usate e renderà possibile la produzione di programmi in queste lingue.

Ahimè, come succede con molte altre scelte nella vita, è più facile ottenere il consenso che l’azione, specialmente quando si tratta di soldi. Oggi le importazioni americane, britanniche e australiane sono molto più accessibili economicamente per le emittenti televisive in tutto il modo che le produzioni interne; finché queste rimangono difficili da esportare perché i paesi vicini continuano a riempirsi gli scaffali di importazioni anglofone.

Questo circolo, vizioso o no, deve essere interrotto, almeno nell’interesse della diversità linguistica e culturale.



4. References

 

References

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[1] Qualsiasi processo, o prodotto di questo, nel quale una combinazione di segni sensoriali con un’intenzione comunicativa è sostituita da un’altra combinazione che riflette o è ispirata all’entità originaria (Gottlieb 2005).

[2] Comunicazione preparata che utilizza un linguaggio scritto che funge da canale semiotico aggiuntivo e sincronico nell’ambito di un testo transitorio e polisemiotico (Gottlieb 2005).

[3] Gli anni novanta hanno visto la nascita di un profilo professionale ben definito per il sottotitolatore. Ciò ha recentemente portato allo sviluppo di speciali corsi di formazione per questa professione.  Le emittenti televisive e le agenzie di sottotitolazione stanno assumendo laureati in lingue e li stanno formando al loro interno; le università e le scuole di traduzione specializzate stanno organizzando lezioni di sottotitolaggio nell’ambito dei loro corsi di traduzione per i media. L’industria dei media ha capito che per  questo lavoro sono necessari dei professionisti formati (Ivarsson, Carrol 1998).

[4] Oltre a essere un traduttore eccellente di dialoghi, un buon sottotitolatore necessita dell’orecchio musicale di un interprete, del giudizio pratico di un redattore giornalistico e del senso estetico di un designer. Per di più, dato che molti sottotitolatori svolgono loro stessi il montaggio delle battute, il sottotitolatore deve anche avere la mano ferma di un chirurgo e il tempismo di un percussionista (Gottlieb 2004).

[5] Perego 2005.

 

[6] In Europa i bambini iniziano a studiare presto le lingue straniere, soprattutto l’inglese. Guardare la televisione contribuisce notevolmente alla loro comprensione dell’inglese parlato e al miglioramento della pronuncia (Ivarsson, Carrol 1998).

[7] Introduzione, metodi, risultati e discussione.

[8] The term ‘polysemiotic’ refers to the presence of two or more parallel channels of discourse constituting the text in question. In a film, up to four semiotic channels are in operation simultaneously: non-verbal picture, written pictorial elements, dialogue, and music & effects.

[9] Il temine «polisemiotico» si riferisce alla presenza di due o più canali paralleli del discorso che costituiscono il testo in questione. In un film funzionano contemporaneamente fino a quattro canali semiotici: l’immagine non verbale, gli elementi pittorici scritti, il dialogo, la musica e gli effetti sonori.

[10] On the history of subtitling, see Ivarsson & Carroll (1998: 9-32) and Gottlieb (2003, 25-34).

[11] Sulla storia del sottotitolaggio consultare Ivarsson & Carrol (1998:9-32) e Gottlieb (2003: 25-34).

 

[12] This issue is thoroughly dealt with in Koolstra et al. (2002). For a state-of-the-art survey of screen translation, see Diaz Cintas (2003).

[13] Questo argomento è approfondito in Koolstra et al. (2002).  Per una panoramica sul grado di avanzamento della traduzione audiovisiva consultare Diaz Cintas (2003).

[14] The problems of rendering ‘meaningful’ deviations from standard speech in subtitling are discussed in Assis Rosa (2001).

[15] Several European studies, most of them unpublished, point to a typical (quantitative) condensation rate of between 20 and 40 per cent, see for instance Lomheim (1999).

[16] I problemi di rendere “sensate” le deviazioni dal discorso standard nel sottotitolaggio sono affrontati in Assis Rosa (2001).

[17] Molti studi europei, la maggior parte dei quali non pubblicati, indicano una riduzione (quantitativa) tipica del 20-40%, si veda per esempio Lomheim (1999).

[18] In Denmark, anglophone DVD productions with subtitles commissioned in the USA – although offering a wider variety of language versions – generally display a poorer subtitling quality than those commissioned in Denmark (with subtitles in the Nordic languages only), both in terms of idiomaticy, translational equivalence, reading times, and technical perfection (Witting Estrup 2002).

[19] One of the earliest scholarly discussions of this problem referred to Finnish TV (Sa-javaara 1991), thus demonstrating that the influence of English via screen translation is by no means limited to Indo-European languages.

[20] In Danimarca le produzioni anglofone di DVD con sottotitoli commissionate negli Stati Uniti, nonostante offrano una più ampia scelta di versioni in lingua, rivelano normalmente una qualità di sottotitolaggio inferiore rispetto a quelle commissionate in Danimarca (con sottotitoli solo nelle lingue nordiche), sia per quanto riguarda le espressioni idiomatiche, che per l’equivalenza traduttiva, i tempi di lettura e la perfezione tecnica (Witting Estrup 2002).

[21] Una delle prime discussioni accademiche di questo problema riguardava la tv finlandese (Sajavaara 1991), che dimostrava che l’influenza dell’inglese attraverso la traduzione audiovisiva non è affatto limitata alle lingue indoeuropee.

[22] Impressive documentation of the present European situation regarding English linguistic influence is found in Görlach (ed.) 2001, 2002a and 2002b.

[23] Scenarios 2-5 are based on, among other sources, Danan (1995), Gottlieb (1996), and Kruger & Kruger (2001).

[24] Una notevole documentazione dell’attuale situazione europea riguardo all’influenza linguistica inglese si trova in Görlach 2001, 2002a e 2002b.

[25] Gli scenari dal due al cinque sono basati, tra le altre fonti, su Danan (1995), Gottlieb (1996) e Kruger & Kruger (2001).

[26]  Even scholars adamantly against the international dominance of English recognize the need for improved English skills the world over (Phillipson 2003).

[27] Persino gli studiosi inflessibilmente contrari alla prevalenza internazionale dell’inglese riconoscono la necessità di migliorare le competenze relative alla lingua inglese in tutto il mondo (Phillipson 2003).

Doris Bachmann: the anthropology of translation

Doris Bachmann: the anthropology of translation

 

MARTA GALLI

 

 

Fondazione Milano

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18  20151 MILANO

 

 

Relatore: Professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Luglio 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Marta Galli 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se non tutti i traduttori si affidano alla teoria,

ciò non significa che questa sia inutile.

 Il traduttore creativo l’accoglie

perché se ne sente arricchito

e aiutato in modo affidabile.

Popovič

 

 

ABSTRACT

Dall’articolo della Bachmann, introdotto da Rubel e Rosman, si evince la stretta interrelazione che esiste tra antropologia e traduzione. Ciò non viene analizzato dalla comparatistica secondo cui la traduzione è un prodotto letterario messo a confronto con altri testi letterari, bensì in un’ottica etnografica che analizza le scelte dell’autore-traduttore come membro di una società la cui funzione è quella di intermediare tra culture. La traduzione contribuisce all’evoluzione e all’arricchimento delle culture, di pari passo con l’antropologia. Tuttavia, soprattutto durante il periodo delle colonizzazioni, la questione culturale rimane spesso nascosta in funzione dell’affermazione del potere egemonico. Né l’addomesticamento, né l’estraniazione sono possibili. Il primo implica il quasi totale annullamento della cultura emittente, mentre la seconda sfavorisce la comprensione dell’altrui nella cultura ricevente. È necessario trovare un punto di equilibrio affinché avvenga un reale scambio e arricchimento di saperi. La tesi percorre alcune tappe storiche che hanno contribuito alla formazione della moderna teoria della traduzione.

 

ENGLISH ABSTRACT

Bachmann’s article, introduced by Rubel and Rosman, shows the close relationship that exists between anthropology and translation. This is not analyzed by the comparative as being a literary product compared to other literary texts, but on an ethnographic basis that analyzes the choices of the author-translator as a member of a society whose function is to mediate between cultures. Translation contributes to the evolution and enrichment of cultures, alongside anthropology. However, especially during the period of colonization, the cultural question often remains hidden because of the affirmation of hegemonic power. Neither domestication, nor foreignization are possible. The first implies the almost total annihilation of the source culture, while the second hinders the understanding of the other among the target culture. It is necessary to find a balance which allows a real exchange of knowledge and cultural enrichment. This paper covers some historical milestones that contributed to the formation of the modern theory of translation.

 

DEUTSCHE ZUSAMMENFASSUNG

Der Artikel von Bachmann, den Rubel und Rosman vorgestellt haben, zeigt die enge Beziehung zwischen Anthropologie und Übersetzung. Er analysiert nicht die Komparatistik, nach der die Übersetzung ein literarisches Produkt, entstanden aus dem Vergleich mit anderen literarischen Texten, ist, sondern er behandelt die ethnographische Sicht, welche die Entscheidungen des Autor-Übersetzers als Mitglied einer Gesellschaft analysiert, deren Funktion es ist, Vermittler zwischen Kulturen zu sein. Die Übersetzung trägt, zusammen mit der Anthropologie, zur Entwicklung und Bereicherung der Kulturen bei. Allerdings bleibt, vor allem während der Zeit der Kolonisation, die kulturelle Funktion wegen der Bestätigung der hegemonialen Macht, im Verborgenen. Weder die Adaption noch die Entfremdung sind möglich. Ersteres hat die fast völlige Vernichtung der Ausgangskultur zur Folge, während die Entfremdung das Verständnis anderer Menschen in der Zielkultur erschwert. Man muss ein Gleichgewicht finden, das einen echten Austausch von Wissen und Kulturbereicherung ermöglicht. Die Arbeit verfolgt einige historische Etappen​​, die zur Bildung der modernen Theorie der Übersetzung beigetragen.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sommario

 

1. Introduzione ………………………………………………………………………………………………..…6

2. La poliedricità della traduzione……………………………………………………………………….7

2.1 Le prime teorie……………………………………………………………………………………………..9

2.2 Traduzione: fusione tra due culture con Boas e Malinowsky…………………………10

2.3 Nida e la traduzione biblica……………..……………………………………………………………12

2.4 Venuti: riformulando la traduzione………………………………………………………….……14

2.5 Gli ultimi trent’anni del XXI secolo………………..………………………………………………18

2.6 Decostruzione e Derrida…………………………………………………………………………….…20

2.7 Traduzione postcoloniale…………………………………………………………………………….21

2.8 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………………………..26

3. Traduzione con testo a fronte…………………………………………………………….………….28

 

 

 

 

 

 

 

  1. 1.    Introduzione

L’articolo della Bachmann è un articolo di analisi antropologica, ma ci pone davanti a un quesito estremamente interessante, soprattutto per gli studiosi di traduzione. Leggendo l’articolo risulta chiaro come le due discipline si fondono in un’analisi congiunta, con l’obbiettivo principale di descrivere una nuova cultura e di diffonderla. Nel suo articolo vengono spesso citati personaggi che hanno contribuito all’evoluzione della teoria della traduzione.

Partendo da questi spunti storici, la tesi vuole essere un supporto all’articolo della Bachmann che possa servire sia agli studiosi di antropologia, sia agli studiosi di traduzione.

Nell’immenso panorama degli studi sulla traduzione, ci dedicheremo solo ad alcuni dei personaggi citati nell’articolo. Si tratta di personaggi che durante l’ultimo trentennio hanno indagato la scienza della traduzione con l’obbiettivo di formulare una teoria della traduzione, di cui si sentiva la necessità. Trattandosi però di una teoria la cui formazione si è solidificata sostanzialmente nel decennio del 1990, la traduzione rimane costantemente aperta a nuovi e svariati contributi teorici.

Definendo la teoria della traduzione inserendola in un panorama storico viene creata una coscienza in tutti coloro che lavorano con la traduzione, la letteratura e la critica della traduzione e soprattutto nei lettori che potranno ricevere un lavoro, un testo, un romanzo tradotto in modo più consapevole:

La traduttologia si sviluppa in modo squilibrato, le interrelazioni tra storia, critica e teoria della traduzione sono sproporzionate. […] la letteratura tradotta viene recepita in modo generico, non si percepiscono le specificità del testo tradotto. (Torop 1995:32)

 

 

 

  1. 2.    La poliedricità della traduzione

Lo studio dell’uomo è uno studio complesso e affascinante. Si tratta di un soggetto che può e dev’esser studiato nella sua totalità: oltre alle sue caratteristiche fisiche, genetiche, le caratteristiche comportamentali sono essenziali. Dobbiamo sapere e saper riconoscere come l’uomo si comporta da solo, in gruppo, quali sono le decisioni che prende se influenzato da altri comportamenti oppure se lasciato agire indipendentemente.

Una delle principali necessità dell’uomo è comunicare. Basta pensare alle incisioni rupestri dei tempi preistorici; indirettamente, si trattava di una forma di trasmettere a altri gruppi indigeni al principio e successivamente anche ai posteri ciò che veniva fatto quotidianamente. Si trattava di messaggi scritti anche se non immediatamente comprensibili per l’uomo moderno. D’altra parte si tratta di una cultura antichissima, dagli usi e costumi completamente diversi da quelli attuali, ma che sono stati debitamente tradotti e che sono diventati patrimonio storico.

Il passaggio dalla pietra scalpita al papiro e poi alla carta prima scritta manualmente e dopo attraverso la stampa, è stato un processo lungo e soddisfacente. Un processo che ci permette di accedere ad una quantità quasi infinita di informazioni. Tuttavia queste informazioni dipendono dalle culture di appartenenza, che producono determinati testi e evidenziano gli aspetti principali della loro cultura: chi nutre interesse verso quella cultura potrà più facilmente accedere al materiale. Questo nostro interesse non implica che noi conosciamo tutti gli aspetti di quella determinata cultura. Il fatto, per esempio, che consideriamo le incisioni rupestri affascinanti, non significa che ne sappiamo tradurre tutti i significati. Abbiamo bisogno di intermediari. Quando si tratta di intermediare tra due lingue diverse e implicitamente due culture diverse, la figura alla quale dovremmo far riferimento è quella del traduttore, che sarà anche un po’ antropologo nella sua funzione di studio della cultura di riferimento della lingua in esame. Non basta conoscere una lingua per dirsi traduttori; è essenziale conoscere la cultura in questione. Tuttavia non è sempre così. Inoltre non finisce qui. È essenziale che si conosca la scienza che ci permetterà di realizzare appieno il processo traduttivo. La traduzione è infatti una vera e propria scienza, che si basa sia sulla pratica, ma anche e soprattutto sulla teoria che deriva da un lungo processo storico. La traduzione è una scienza interdisciplinare, legata ad altre discipline di studio, come la linguistica, la semiotica, la letteratura, la storia in generale (sappiamo che gli avvenimenti storici influenzano direttamente l’andamento di altri eventi e avvenimenti: nuovi momenti portano a nuove scoperte), l’arte.

La poliedricità della storia della traduzione è legata al fatto che, pur essendo una disciplina a sé stante, è tuttavia inscindibile dalla storia della filosofia, dalla storia della semiotica, dalla storia della psicologia, dagli sviluppi della linguistica, dalla testologia, dai cultural studies e da altre discipline affini (Osimo 2003: 1). Come ogni cosa però, prima di arrivare ai risultati finali si vive un processo di idee, supposizioni, confermazione delle supposizioni, diffusione e consolidamento delle idee. Lo stesso avviene con la traduzione che andava di pari passo con l’antropologia, ossia lo studio di una cultura o di culture diverse dalla propria. Ci si rese conto che la traduzione permetteva di avere una visione più ampia delle culture prese in esame. In particolar modo quando venne scoperto il “Nuovo Mondo” e di conseguenza gli esploratori si imbattevano in estranei, parlanti una lingua sconosciuta e senza possibilità di comunicazione. Sorgono così traduttori e interpreti che, attraverso lo studio delle lingue franche e dei pidgin, veicolano il nuovo universo scoperto dagli Europei e costituiscono un ponte di comunicazione tra la cultura nuova e l’Europeo e viceversa. Si tratta però di un processo duraturo e molto più complesso e dettagliato di quanto sembri.

Procediamo con ordine. Se consideriamo Peirce e la semiotica, possiamo dire che «ogni cosa può essere compresa o più rigorosamente tradotta da qualcosa: ossia ha qualcosa capace di una tale determinazione da stare per qualcosa attraverso questa cosa […]» (Peirce in Osimo 2002: 67). Analizzando questo concetto, non si hanno dubbi sul fatto che la traduzione sia sempre esistita, visto che ogni processo si compone di una azione, interpretazione e reazione. In questo senso tutti i processi sono degni di significazione e sono definibili come processi traduttivi.

Quando esattamente la storia della traduzione comincia ad essere studiata? Quando, insomma, sorgono le prime indagini sull’universo della traduzione?

 

2.1 Le prime teorie

È difficile definire una data precisa in cui nacque la scienza o teoria della traduzione. Possiamo però vedere che fin dall’antichità vennero elaborati dei concetti legati al panorama traduttivo, direttamente o indirettamente.

Platone ad esempio, nel 360 a.C., si interroga sul rapporto tra segni linguistici intesi come parole e oggetti. Si chiedeva quale fosse la vera origine del processo di significazione degli oggetti.

Un altro grande filosofo, Socrate, giunge alla conclusione che i segni, ovvero le parole, assomigliano agli oggetti che rappresentano, oggetti questi non statici, ma dinamici allo stesso modo del mondo in movimento. Nelle sue ricerche, Aristotele rivela che «ogni parola deve essere intelligibile e indicare qualcosa, e non molte cose ma solo una, e se significa più di una cosa, deve essere messo in chiaro a quale di queste la parola è applicata nel caso specifico» (Aristotele in Osimo 2002:12). E poi via via con molti altri contribuiti dai greci filosofi, oratori, agli umanisti, ai semiotici, agli psicologi.

Due grandi autori il cui pensiero è fondamentale anche per la teoria della traduzione sono Peirce e Freud, che nonostante fossero di due aree diverse, quelle della logica e della psicologia, contribuirono in modo determinante al processo di formazione della scienza della traduzione.

La traduzione è un vero e proprio sapere che rende possibile la comunicazione non solo tra due persone di due lingue diverse, ma soprattutto tra due culture diverse. Si tratta di un ponte tra due mondi, ma anche di un mezzo di diffusione di una cultura straniera e dei modi di agire e pensare dei componenti di questa cultura. Ma da quale punto di vista vengono tradotti i testi, dal punto di vista del testo originale o del testo tradotto? Come avviene il processo traduttivo? Su quali basi teoriche si sostiene? La storia ha dimostrato che le teorie sviluppatesi nel corso dei secoli si sono integrate tra di loro con il passar del tempo, completandosi e arricchendosi reciprocamente. Prima di dedicarci a questo percorso storico, soffermiamoci sul rapporto tra antropologia e traduzione, tema dell’articolo di Doris Bachmann preso in esame.

 

2.2 Traduzione: fusione tra due culture con Boas e Malinowki

La traduzione è una scienza interdisciplinare. Da questo punto di vista è normale che abbia un ruolo fondamentale nella ricerca antropologica, nonostante al suo interno non sia sempre stata analizzata approfonditamente.

L’obiettivo dell’antropologia è raccogliere dati e indagare manifestazioni comportamentali e culturali dei gruppi presi in esame. E come è possibile veicolare questa conoscenza se non attraverso uno studio attento e un’immersione totale nella nuova realtà? Non riesco ad immaginare altro modo, se non attraverso l’aiuto di traduttori specializzati. Si trattava però di popoli appena scoperti e era quasi impossibile che già esistessero dei traduttori pronti ad accogliere i nuovi colonizzatori o viaggiatori. Ecco che vengono create delle lingue franche e pidgin. Chi le imparava, diventava traduttore e interprete di quella cultura. Importante per quest’epoca non era lo studio della scienza traduttiva utilizzata, bensì delle informazioni che si potevano raccogliere sulla cultura del gruppo e sui modelli evolutivi al suo interno. Non era importante sapere come queste informazioni venissero raccolte o catalogate, quali fossero i processi per i quali si passava prima di giungere ad una osservazione compiuta. L’importante era raccogliere l’informazione e diffonderla, in modo che i colonizzatori venissero a conoscenza del comportamento dei colonizzati.

Prima di Boas, le ricerche condotte in Asia, America, Africa, avevano carattere descrittivo, potremmo dire quantitativo: si analizzavano singoli aspetti comportamentali per giungere a una generalizzazione del fenomeno rilevato nella cultura, attraverso una comparazione dei dati acquisiti osservando. Con Boas si comincia ad analizzare l’aspetto culturale e non solo quello evolutivo: ogni gruppo sociale è infatti caratterizzato da una cultura propria, intrinseca. Boas sente la necessità di esaminare più approfonditamente la cultura e in particolar modo gli aspetti linguistici dei nuovi popoli. Mandando i suoi studenti a una analisi di campo specifica per registrare informazioni di carattere linguistico, Boas si rende conto che le nuove lingue sono strutturate diversamente dal punto di vista grammaticale. Tra questi allievi di Boas, alcuni si orientano verso l’etnolinguistica sostenendo che le lingue, indipendentemente dalle loro strutture grammaticali e lessicali, comunicano la visione del mondo dei suoi parlanti.

Malinowski è uno di quelli che si rendono conto dell’imprecisione delle lingue franche e dell’inglese pidgin usati per raccogliere informazioni. Si rende conto della necessità di parlare la lingua in esame per fornire informazioni che siano precise e dettagliate. Molti altri accolgono l’idea di Malinowski che deriva dalla necessità di parlare la lingua indigena immergendosi nella cultura scoperta e facendo intensi lavori di raccolta dati sul campo. Tuttavia non si sente ancora la necessità di indagare l’importanza della traduzione all’interno del lavoro degli antropologi.

Quella della traduzione e interpretazione della cultura indigena non è una questione da sottovalutare, tutt’altro: come si può scrivere o rappresentare una cultura in un linguaggio che conosciamo, senza alterare ciò che dev’esser rappresentato (che per noi è estraneo)? Come si può ricorrere a determinati comportamenti senza ricorrere alle nostre conoscenze soggettive, al nostro mondo? Secondo Niranjana, studioso della teoria della traduzione postcoloniale, ciò che era effettivamente rilevante non era tanto la scelta di un modo di traduzione fluente o esotizzante, usando le parole di Venuti, bensì era necessario investigare tutta la problematica legata al proprio modo di interpretare il testo.

L’importanza della traduzione è dovuta al fatto di non ritrarre un “Altro” astratto, esotico, bensì introdurre ciò che è straniero in un contesto storico preciso con lo scopo ultimo di mostrare le vere differenze culturali esistenti. Di questo si occupa Spivak, altra studiosa della teoria della traduzione postcoloniale. Analizzeremo questi punti di vista più avanti.

 

2.3 Nida e la traduzione biblica

Il lavoro di Nida di traduzione biblica è stato, in un primo momento, di carattere pratico e poi ha assunto valore teorico. Secondo Nida la parola doveva essere accessibile a tutti, visto che lo scopo principale del suo lavoro era convertire al Cristianesimo. Per questo non accetta forme eccessivamente erudite di traduzione (come lo erano ad esempio quelle di Matthew Arnold all’inizio del XX secolo). Nida preferisce una traduzione “falsificante”, dove il testo deve essere spostato verso il lettore, e non viceversa. Nonostante sia palese la falsificazione, bisogna ammettere che la traduzione biblica contribuisce in modo non indifferente all’ampliamento dello studio della teoria traduttiva visto che raggiunge lettori modello di culture diverse, include contributi di traduttori di pensiero diverso e include tipi letterari diversi: prosa, poesia, parabola, narrativa e discorso, ecc. Nida sente la necessità di porre una base scientifica al suo metodo traduttivo.

Nida modifica parzialmente la concezione di Chomsky ponendo alla base della linguistica un messaggio divino originario, ignorando che esiste una differenza tra le strutture alla base degli enunciati.

Nel suo “Message and Mission” (1960) Nida osserva che molto spesso il messaggio religioso veniva tralasciato quando non si inseriva nel contesto culturale di determinato pubblico. Concluse che il messaggio «doveva essere modificato» per riuscire a inserirsi nel panorama culturale ricevente, nonostante la differenza di contesto (Nida 1960:87 in Gentzler 2009:80). Il contesto culturale ricevente doveva entrare nell’opera tradotta, aspetto questo opposto alla teoria di Chomsky. Si trattava di stabilire un dialogo tra un lettore empirico e Dio e non tra un lettore e un testo-simbolo. Quello che Nida fa è introdurre un’esperienza universale tra i principi di base. Diversamente da Chomsky, Nida non rispetta la corrispondenza formale, bensì l’equivalenza funzionale; non riporta il significato denotativo, bensì l’equivalenza dinamica. Anche Lûdskanov definisce nel 1958 il concetto di equivalenza funzionale:

Eppure, nonostante le differenze formali più o meno grandi rispetto al prototesto, i diversi tipi di corrispondenza hanno in linea teorica qualcosa in comune: il fatto di veicolare la stessa informazione dei rispettivi elementi immessi, di avere la stessa funzionalità… (Lûdskanov 1967:59)

 

Secondo Nida non è importante «quello» che la lingua comunica, ma «come» si comunica. Il suo obiettivo era riprodurre un testo che, come l’originale nella cultura antica, producesse una reazione uguale nei lettori moderni. Se ciò non si verificava, allora era necessario «apportare delle modifiche» (Nida e Taber 1969:202 in Gentzler 82):

In una traduzione non c’è tanto l’interesse di conciliare il messaggio della lingua ricevente con il messaggio della lingua emittente, bensì di relazione dinamica; che la relazione tra il ricevente e il messaggio sia fondamentalmente la stessa che esisteva tra i riceventi originari e il messaggio (Nida, 1964: 159 in Gentzler 82).

 

Il potere della parola sui riceventi sembrava molto più importante della filologia. Per il resto, Nida riformula gli stessi concetti di Chomsky:

Si può dire che […] le lingue mostrano alcune similitudini sorprendenti, incluso, in particolare (1) strutture centrali di similitudine notevole dalle quali tutte le altre strutture si sviluppano attraverso di permutazioni, sostituzioni, aggiunte e perdite, e (2) nei suoi livelli strutturali più semplici, un alto grado di parallelo tra classi di formazione delle parole (es.: sostantivi, verbi, aggettivi, ecc.) […] (Nida, 1964: 68 in Gentzler 83)

 

Nida tuttavia non teorizza il suo personale concetto di «struttura profonda», ma afferma che il traduttore, oltre a conoscere con precisione la lingua, deve conoscere con precisione l’argomento trattato e nutrire ammirazione per l’autore del testo, confondendo, sembrerebbe, la figura del traduttore con quella del missionario. Conoscendo bene l’argomento, il traduttore non lascerà ambiguità. Nida non credeva nella capacità di interpretazione dei suoi lettori. L’unico che può cambiare, semplificare il testo nella lingua ricevente è il traduttore.

 

2.4 Venuti: riformulando la traduzione

Dopo aver analizzato le teorie di Nida è importante fare un collegamento storico con le teorie di Venuti, come la stessa Bachmann evidenzia nell’articolo.

Studioso di traduzione più influente dell’ultimo decennio, nell’America del Nord, Venuti vede la traduzione letteraria come qualcosa che indaga le forme letterarie dei testi e che contribuisce a un’evoluzione linguistica, letteraria e culturale. Venuti critica la base umanistica di gran parte della traduzione letteraria negli Stati Uniti; offre nuovi metodi per esaminare le traduzioni; presenta delle strategie alternative e invita i traduttori ad usarle.

La principale critica di Venuti è legata all’invisibilità del traduttore (negli Stati Uniti). In questo modo gli studiosi di testi letterari ignorano le difficoltà affrontate dai traduttori nel rendere un testo “fluente” visto che questo era l’unico aspetto che sembrava interessare ai lettori della cultura ricevente. È come se si pensasse che il traduttore accedeva ad un conoscimento universale nel processo di significazione e fosse capace di produrre un testo tradotto chiaro e leggibile, che rispecchiasse l’originale.

Secondo Venuti, sorgono a questo punto due problemi: il lavoro del traduttore viene considerato inferiore alla scrittura letteraria e non sarebbe meritevole di analisi critica (come anche Torop risalta); conseguenza del primo problema è il fatto che in questo modo non vengono considerate le differenze culturali del testo straniero visto che esiste un lavoro di adattamento alla cultura ricevente.

Da un lato il traduttore non viene accettato come scrittore propriamente detto e non viene visto come parte del mondo letterario. D’altro lato il traduttore è soggetto ad adeguarsi alla cultura ricevente dovendo adattare immagini, metafore, linguaggio del testo straniero al sistema di conoscenze e percezioni della cultura ricevente con la stessa abilità dello scrittore. Si tratta di una sorta di egemonia culturale dove, nonostante si stiano leggendo testi di origine straniera, si mantengono i concetti religiosi, politici ed economici della cultura ricevente. Come Venuti afferma all’inizio del suo Scandals of Translation (1998):

Gli scandali della traduzione sono culturali, economici e politici. Questi si rivelano quando ci si chiede perché oggi la traduzione rimane ai margini della ricerca, dei commenti e del dibattito, specialmente (anche se non esclusivamente) in inglese.

 

Si preferisce lavorare con un addomesticamento della traduzione, attraverso l’adattamento di ciò che è estraneo in qualcosa di familiare. Da qui sorge la critica di Venuti:

Spesso la traduzione è guardata con sospetto perché inevitabilmente addomestica i testi stranieri attribuendo loro valore culturali e linguistici intelligibili a specifiche comunità locali (Venuti 1998:67 in Osimo 2002:246).

 

Venuti critica inoltre l’equivalenza tra parole, dato che possiamo considerare qualsiasi testo come complesso, con connotazioni intertestuali multiple, varie allusioni, materiale linguistico diverso. Tutto ciò apre un ventaglio di possibilità di scelta sintattiche e semantiche differenti. Sarà il traduttore colui che sceglierà se seguire o meno le ideologie letterarie predominanti.

Venuti suggerisce che venga adottato un processo di traduzione più visibile, per il quale sarebbe necessario fare delle scelte interpretative che si pongano l’obbiettivo di perseguire la costruzione di una cultura. Nel suo Translator’s Invisibility, Venuti riporta un esempio di analisi sintomatica, detto di testi che subirono una «violent rewriting». L’esempio scaturisce dall’analisi delle traduzioni di Freud per lo Standard Edition in cui i traduttori riscrivono il testo usando un discorso medico canonico, mentre il testo originale di Freud era stato scritto con una semplicità a tratti addirittura colloquiale. Mentre per alcuni, come Bruno Bettleheim, questo può esser visto come un «tradimento», per Venuti si tratta semplicemente di addomesticamento degli scritti di Freud resi con un linguaggio medico specifico in un’epoca in cui emerge la psicanalisi negli Stati Uniti.

Il punto è piuttosto quello di sviluppare una teoria e pratica della traduzione che resista ai valori culturali dominanti della cultura ricevente e allo stesso modo attribuire importanza alla differenza linguistica e culturale del testo straniero.

 

E più avanti continua, sostenendo che:

 

Il concetto di esotizzazione può alterare il modo in cui le traduzioni vengono lette e realizzate perché presuppone un concetto di soggettività umana che è molto differente dai presupposti umanistici che risaltano l’addomesticamento.

 

Questo concetto di esotizzazione di Venuti era già presente in alcuni autori dell’inizio Ottocento come Schleiermacher e Humboldt. Secondo Scheleiermacher non è assolutamente possibile scrivere una traduzione usando le stesse parole, visto che i pensieri di autore e traduttore non saranno mai «gli stessi in due lingue diverse».

[…] l’obiettivo di tradurre in modo tale come l’autore avrebbe scritto originariamente nella lingua della traduzione è non solo irraggiungibile ma è anche futile e vuoto in sé (Schleiermacher in Osimo 2002: 45).

 

Non è inoltre possibile intendere la traduzione come parafrasi visto che altrimenti si «abbandona completamente l’impressione prodotta dall’originale». L’obbiettivo della traduzione è quello di ricreare le stesse impressioni e sensazione prodotte dall’autore empirico sui suoi lettori «altrimenti una parte estremamente significativa di ciò che è inteso per loro [i lettori della traduzione] va spesso perduta».

Allo stesso modo di Venuti, Humboldt riconosce l’impossibilità di trovare espressioni equivalenti tra due lingue o culture differenti e come Schleichermacher, conferma che:

[…] una traduzione deve sì avere un gusto estraneo, ma solo in una certa misura; è facile tracciare la linea al di là della quale ciò diventa palesemente un errore. Finché una persona non sente l’estraneità [Fremdheit] ma sente l’estraneo [Fremde], la traduzione ha raggiunto la sua meta più alta […]

 

Secondo Venuti il successo di una traduzione dipendeva dalle «strategie discorsive» del traduttore, ma anche da «un’alleanza tra l’accademia e l’industria editoriale […] dato che entrambi possiedono autorevolezza culturale» (Venuti in Osimo 2002: 247).

Si percepisce che Venuti attribuisce molta responsabilità innanzitutto al traduttore e poi anche al mondo accademico e editoriale. Tuttavia non menziona l’importanza del contesto esclusivamente letterario dentro il quale si inserisce la traduzione o delle influenze reciproche tra questi due tipi di testo. Inoltre non analizza la traduzione nemmeno all’interno di un contesto storico, come avviene con i formalisti russi prima e la teoria dei polisistemi successivamente.

 

2.5 Gli ultimi trent’anni del XXI secolo

Nel decennio del 1970 due furono i metodi predominanti nell’area di investigazione della scienza della traduzione: da un lato coloro che fondavano la loro ricerca su degli interessi di carattere letterario e dall’altro lato coloro che invece si concentravano su interessi di tipo linguistico e in modo più “scientifico”. Gli uni vedevano il lavoro degli altri con scetticismo. Si tratta di due punti di vista che uniti ci offrono un panorama completo dell’analisi traduttiva dell’epoca. Integrando questi due percorsi di studio si compie un grande passo avanti nella teoria della traduzione. Chi compie questo primo passo verso la formalizzazione di una teoria della traduzione sono gli studiosi dei Paesi Bassi (fiamminghi e olandesi), i formalisti russi, cechi e slovacchi e infine i circoli di studio israeliani della teoria polisistemica.

Se in un primo momento la ricerca per la definizione di una teoria esatta della traduzione venne sospesa, successivamente gli studiosi ripresero l’idea, ma la analizzarono da un altro punto di vista.

Non ci si pone più il problema di definire la traduzione come scienza letteraria o meno, visto che si percepisce che è una scienza che coinvolge entrambe le aree e che inoltre si rivela aperta verso un approccio multi- e interdisciplinare. L’importante non è più analizzare la «struttura profonda» del testo tradotto, ma il testo in sé: partendo dal testo tradotto vi ci si poteva applicare le conoscenze teoriche letterarie e linguistiche. Si trattava di applicare il procedimento contrario a quanto fatto finora.

Il testo tradotto non è più solo un prodotto finale, ma è un elemento a sua volta produttivo: svolge una funzione di mediazione sincronica, ovvero di ricezione dove «i metatesti, in quanto testi attualizzati in determinati periodi e condizioni, dicono molto sulle particolarità di un dato autore, di una tradizione e della cultura testuale dell’autore» (La traduzione totale, Torop 2010). Il testo tradotto svolge inoltre una funzione di mediazione diacronica di evoluzione nel tempo storico e nel tempo storico-culturale, dove per quest’ultimo, secondo la definizione di Torop, s’intende il «fatto che la storia della cultura si sviluppa nei vari paesi in modo analogo, ma con ritmi diversi. Certe culture si sviluppano più rapidamente di altre oppure sono prive di un certo fenomeno eccetera».

L’aspetto culturale viene evidenziato ora più che mai. Da un lato si studia più approfonditamente la costruzione intertestuale del contenuto della traduzione (che si rivelerà pieno di “tensioni” a livello linguistico) e d’altro lato si valorizza l’arricchimento delle culture in questione. Secondo Levý, il traduttore

arricchisce la propria letteratura nazionale con nuovi valori linguistici, non soltanto creando nuovi mezzi espressivi (neologismi), ma anche assimilando nel proprio ambiente espressioni di paesi altri (esotismi).

 

Sempre secondo Levý, per mantenere la “bellezza estetica” di un testo e costruire con il testo una vera e propria opera d’arte (mantenendone l’aspetto estetico), le contraddizioni interne al testo dovrebbero essere risolte attraverso la sostituzione oggettiva delle equivalenze. Basandosi su Jakobson, secondo il quale «la poeticità è appena parte di una struttura complessa, ma che trasforma gli altri elementi e determina, insieme a loro, la natura dell’insieme» (Jakobson 1976: 174), la traduzione doveva rispondere a due esigenze: da un lato quella di fedeltà, sfociando a volte nell’esplicitazione quando «il traduttore chiarifica del tutto i nessi nascosti tra pensieri che nell’originale sono solo accennati», e d’altro lato la traduzione doveva rispondere a canoni estetici, di bellezza, come se fosse un’opera d’arte:

La bellezza e la fedeltà vengono spesso messe a confronto come se fossero incompatibili tra di loro. Forse possono essere incompatibili tra di loro solo quando l’estetica è intesa come ricercatezza e la fedeltà come letterarietà (Levý 1998: 93).

 

A volte però, la tendenza all’esplicitazione del traduttore può andare a discapito dell’aspetto estetico, a favore invece dell’aspetto meramente informativo.

 

2.6 Decostruzione e Derrida

Cosa succederebbe se il testo originale dipendesse dalla traduzione? Se qualcuno dicesse che il testo originale non potrebbe esistere senza la traduzione, ossia che l’autorevolezza dell’originale dipendesse dalle qualità risaltate nella traduzione? E se il significato del testo non dipendesse dall’originale ma dalla traduzione? E cosa succederebbe se l’originale si trasformasse dal punto di vista estetico e scientifico (contenutismo) a ogni nuova traduzione?

I decostruzionisti usano la traduzione per interrogare la natura della lingua e per suggerire che quando traduciamo testi ci avviciniamo al massimo di quella “différance” di Derrida (termine coniato per rappresentare la dicotomia traducibile/intraducibile) che è parte del suo studio.

Fino ad allora il concetto di teoria della traduzione si era evoluto come se esistesse un significato determinabile che poteva esser trasferito da una cultura all’altra.

La teoria della decostruzione critica questa analisi e dimostra la realtà instabile della struttura teorica della traduzione.

I decostruzionisti, allo stesso modo dei traduttori, analizzano differenze, mancanze, cambiamenti e elisioni del testo. Come i formalisti, si concentrano sul testo in sé. Però rispetto ai formalisti russi, che si basavano su distinzioni forma/contenuto, significato/significante, tentando assegnare alla lingua un significato determinato, i decostruzionisti vogliono separare la lingua da questo tipo di struttura.

Uno dei maggiori esponenti di questa corrente fu Derrida secondo il quale, per quanto riguarda la traduzione, non è necessario concentrarsi sul messaggio originale né sulla sua decodificazione, ma bisogna far attenzione alle multiple forme e agli interventi che il testo soffre.

Derrida adotta il concetto di Walter Benjamin di «Überleben» della lingua per spiegare come la traduzione modifica o completa l’originale, in questo senso, la sua lettura dell’opera di Benjamin è di fondamentale importanza:

[…] la traduzione deriva dall’originale, e, per le opere importanti che mai incontrarono il loro traduttore predestinato all’epoca della loro nascita, caratterizza […] (la) loro sopravvivenza (Derrida, 1985a: 178 in Gentzler 203).

 

Per entrambi quindi, la traduzione rappresenta la «continuazione della vita dell’originale». Sempre secondo l’ottica di Derrida, il testo cede alle modificazioni che verranno fatte con la traduzione, il che non è un fatto negativo visto che subisce una modifica che lo rende più maturo, più completo. Un nuovo testo che ha il potere di parlare una lingua propria. Da un punto di vista più profondo, la traduzione ci mette in contatto non solamente con il significato originale, bensì con una pluralità di lingue e di significati. Esiste uno scambio continuo di significati attraverso lingue che sono in constante interrelazione.

 

2.7 Traduzione postcoloniale

I traduttori postcoloniali usano la traduzione come strategia di resistenza che altera, trasforma l’immagine delle culture non occidentali. Vengono ripresi i concetti tradizionali secondo i quali la traduzione deve essere trasparente, oggettiva e fedele permettendo in questo modo ai colonizzatori di costruire un’immagine immutabile di “altro” esotico. Questa immagine di “altro” che viene diffusa, non solo trasmette un’immagine alterata di queste culture, ma contribuisce anche a creare nelle culture emergenti una percezione alterata della propria identità.

Niranjana, che difende l’uso della decostruzione nelle traduzioni postcoloniali, critica il concetto di traduzione vista come fedele o libera, da un metatesto a un prototesto. Secondo l’autrice si dovrebbe trattare di uno scambio reciproco, bidirezionale che dovrebbe apportare delle modifiche nell’intendimento di culture o identità altre. Ribadisce inoltre che non è possibile, nel contesto della traduzione postcoloniale, ottenere uno «scambio senza perdite» (After Babel, Steiner 1975: 302 in Gentzler 218). Questo scambio trasparente non è possibile visto che le relazioni di potere tra le due culture sono ben differenti. L’egemonia e la superiorità esercitata dai colonizzatori implica inevitabilmente che la storia della cultura colonizzata venga oscurata. Vengono inoltre alterate le strutture e norme linguistiche e testuali dei metatesti anche se, secondo Toury «dal punto di vista del metatesto e del sistema emittente, le traduzioni quasi non hanno alcun significato» (Toury 1985: 19 in Niranjana 1992: 59-60). Questa visione erronea nasconde la realtà: senza dubbio esiste una modificazione nella relazione tra le lingue. L’immagine stereotipata di indigeno/selvaggio trasmessa, non solo conferma la superiorità dei colonizzatori nella cultura ricevente, ma porta ad una modifica nelle culture emergenti a partire dal momento che, attraverso le traduzioni, vengono esportati modelli di educazione, prestito di idee e valori europei. Secondo Niranjana una teoria della traduzione non può ignorare tali conseguenze.

A questo punto Niranjana fa una comparazione con gli studi antropologici e etnografici che dal suo punto di vista, progredirono maggiormente rispetto agli studi della traduzione della stessa epoca. Le scienze citate hanno l’obiettivo comune di trasferire, trasmettere e tradurre tutto un sistema di ideologie, modi di pensare e agire da un sistema culturale totalmente estraneo verso il proprio sistema culturale. Ma per affrontare questa grande responsabilità, incontrano lo stesso problema che i traduttori incontrano.

Nel panorama traduttivo post-coloniale, spiccano Susan Bassnet e Roman Jakobson che sono tra i pochi studiosi di traduzione che intendono profondamente le complessità intersemiotiche e i fattori interculturali in gioco nella traduzione.

Esistono comunque antropologi come Clifford che criticano l’illusione di trasparenza delle traduzioni ma che tuttavia non indagano le relazioni di potere e gli effetti della traduzione.

Le strategie della decostruzione, il cui maggior rappresentante è Derrida, teorizzano il concetto di doppia scrittura, intesa esattamente come scambio tra culture e arricchimento reciproco. Attraverso questa ottica i traduttori postcoloniali possono sfidare la pratica egemonica e proporre modelli di evoluzione culturale.

Questo è molto chiaro in Walter Benjamin secondo il quale la propria lingua dev’essere influenzata, espansa, approfondita e trasformata dalla lingua straniera. Una visione quasi storica dell’evoluzione di una cultura che, affettata da un nuovo avvenimento, se ne esce appunto trasformata.

Come i frammenti di un vaso, per lasciarsi riunire e ricomporre, devono susseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invece di assimilarsi al significato dell’originale, la traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli, ricreare nella propria lingua il suo modo d’intendere, per far apparire così entrambe – come i cocci frammenti di uno stesso vaso – frammenti di una lingua più grande (W.Benjamin 1962: 49 in Osimo 2002: 155)

 

Interpretando questa citazione capiamo che si forma un nuovo testo in una nuova lingua che porta con sé i segni, meglio dire, le influenze indelebili di un’altra lingua e un’altra cultura.

Niranjana inoltre concorda con le teorie di Venuti, ma oltre a riconoscere l’importanza di esotizzare o meno, la sua ottica tratta di questionare a fondo le differenze intendendole come evoluzione culturale e formazione di identità affinché il traduttore postcoloniale, l’antropologo o l’etnografo si distacchino e distacchino l’importanza del proprio ruolo nel contesto della traduzione postcoloniale. Ponendosi questo obiettivo sorge un dubbio. Cosa fare con quei testi che vennero tradotti da un punto di vista prettamente egemonico, di imposizione delle proprie ideologie sulle culture altre?

Chi contribuisce a rispondere a queste domande è Gayatri Spivak che analizza il soggetto postcoloniale che vive in una cultura ibrida – intendendo per cultura la storia, politica, arte e letteratura del nuovo popolo – frutto di una penetrazione da parte della lingua e delle istituzioni egemoniche.

Un’opera emblematica di quest’analisi è il suo saggio Can the Subaltern Speak? (1988). Ciò che Spivak rivela è che in realtà gli studiosi, traduttori, antropologi non avevano libero accesso alla cultura “altra”. Gli studiosi facevano una lettura tra le righe piena di silenzi e contraddizioni. L’idea che Spivak sviluppa è che i traduttori, anziché usare la traduzione per diffonderne un testo “originale”, avrebbero dovuto analizzare i soggetti della cultura in differenti situazioni. In questo modo se ne sarebbe rivelato il comportamento: se la sua condizione fosse di “subalterno” alienato, si sarebbe inquadrato nell’ambito linguistico del colonizzatore.

Uno tra i passi avanti della teoria elaborata dalla Spivak è quello di includere prefazioni, interviste e informazioni contestuali nelle sue traduzioni. Una tecnica di estrema importanza nella traduzione postcoloniale per fornire un contesto storico e culturale al lettore del testo tradotto. In questo modo affiorano nuove strutture linguistiche e nuovi contesti che non verranno più descritti come esotici.

Il traduttore è rivestito di una grande responsabilità: quella cioè di essere un ponte culturale e che non può permettersi di sapere la lingua straniera fluentemente, ma che deve conoscere anche l’epoca, l’ambientazione storica, il luogo, la traduzione e le politiche della cultura o almeno del testo emittente. Due saperi, quello della lingua e del contesto culturale, che sono essenziali ma che non sembrano avere lo stesso peso per tutti: queste idee sono per esempio estranee a chi si occupa esclusivamente di studi strettamente culturali. Da questa analisi si rivela la figura di un traduttore assente, nel senso di “invisibile”, ma allo stesso modo sempre presente visto che fornisce al lettore un apparato di contestualizzazione e intendimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.8 Riferimenti bibliografici

ECO, UMBERTO (2005) Come si fa una tesi di laurea, Milano: Tascabili Bompiani

ECO, UMBERTO (2010) Dire quasi la stessa cosa, Milano: Tascabili Bompiani.

GENTZLER, EDWIN (2009) Teorias contemporâneas da tradução, São Paulo: Madras.

JAKOBSON, ROMAN (1959) On linguistic aspects of translation, disponibilie in internet all’indirizzo isg.urv.es/library/papers/jakobson_linguistic.doc, consultato nel settembre 2010.

LUDSAKANOV, ALEKSANDAR (1967) Un approccio semiotico alla traduzione; edizione italiana a cura di Bruno Osimo, 2008, Milano: Hoepli .

OSIMO, BRUNO (2002) Storia della traduzione, Milano: Hoepli .

OSIMO, BRUNO (2004) Manuale del traduttore, Milano: Hoepli .

OSIMO, BRUNO (20101) Propedeutica della traduzione, Milano: Hoepli .

PICCHI, FERNANDO (2007) Grande dizionario inglese, Milano: Hoepli.

SPIVAK, GAYATRI CHAKRAVORTY (1988) «Can the subaltern speak?» disponibile in internet all’indirizzo http://www.maldura.unipd.it/dllags/docentianglo/materiali_oboe_lm/2581_001.pdf, consultato nel settembre 2010

 


 

 

 

 

 

 

2. Traduzione con testo a fronte

 


Panel 6: Translation and Ethnography – Modes of Representation

The Anthropology of Translation: Cultural Concepts and Intercultural Practice

 

Doris Bachmann-Medick

Independent scholar, Göttingen

 

Introduction: Translation and Anthropology Paula Rubel and Abraham Rosman

 

The central aim of the anthropological enterprise has always been to understand and comprehend a culture or cultures other than one’ own.

This inevitably involves either the translation of words, ideas and meanings from one culture to another, or the translation to a set of analytical concepts.

Translation is central to “writing about culture”.

However, curiously, the role that translation has played in anthropology has not been systematically addressed by practitioners, even though translation has been so central to data-gathering procedures, and to the search for meanings and understandings, which is the goal of anthropology. One of the reasons for this has been the ongoing internal dialogue about the nature of the discipline.

There are those who feel that anthropology is a social science, with the emphasis on science, whose methodology, which usually involves analytical concepts, sampling and quantification, must be spelled out in detail.

On the other side are those who emphasize the humanistic face of the field, and who feel that the way to do fieldwork cannot be taught. Still others, who focus on achieving understanding of another culture, think it can only be achieved by “total immersion” and empathy.

 


Panel 6: Traduzione ed etnografia – modalità di rappresentazione

L’antropologia della traduzione: concetti culturali e pratica interculturale

 

Doris Bachmann-Medick

ricercatrice indipendente

 

Introduzione: Traduzione e antropologia Paula Rubel e Abraham Rosman

 

Il principale obiettivo dell’attività antropologica è sempre stato quello di capire e comprendere una cultura o altre culture diverse dalla propria. Questo implica inevitabilmente o la traduzione di parole, idee e significati da una cultura all’altra o la traduzione di una serie di concetti analitici. Tradurre è il principale aspetto dello «scrivere di una cultura». Comunque, curioso è che il ruolo che la traduzione ha avuto nell’antropologia non è stato indagato sistematicamente dagli studiosi, anche se la traduzione è stata così importante nelle procedure di raccolta dati e nella ricerca di significati e intenzioni, che è l’obiettivo dell’antropologia. Uno dei motivi di ciò è stato il dialogo interno in corso sulla natura della disciplina. Alcuni percepiscono l’antropologia come una scienza sociale, dando enfasi alla parola «scienza», la cui metodologia, che solitamente implica concetti analitici, campionatura e quantificazione, dev’essere spiegata dettagliatamente. D’altra parte c’è chi percepisce che il modo di fare raccolta dati sul campo non può essere insegnato. Ci sono altri ancora che si concentrano sul raggiungere la comprensione della cultura altrui e pensano che ciò si possa realizzare solo con una «immersione totale» e con empatia.

 

 

Since its inception as a discipline and even in the “prehistory” of anthropology, translation has played a singularly important role. In its broadest sense, translation means cross-cultural understanding.

The European explorers and travellers to Asia and later the New World were always being confronted with the problem of understanding the people whom they were encountering.

Gesture and sign language, used in the first instance, were soon replaced by lingua francas and pidgins, and individuals who learned these lingua francas and pidgins became the translators and interpreters. These pioneers in cross-cultural communication not only brought back the words of the newly encountered people but also became the translators and communicators of all kinds of information about these people, and the interpreters of their very differing ways of life, for European intellectuals, and the European public at large.

They were also the individuals who were the basis for the conceptions which the Others had of Europeans.

With the development of anthropology as a formal academic discipline in the mid-nineteenth century, and later as a social science, translation of course continued to play a significant role. At this point in time, anthropologists such as Edward Tylor, Lewis Henry Morgan and Johann Bachofen remained in their offices and libraries at home, while they theorized about the development of human society and the evolution of culture. But their theories depended upon ethnographic information collected by missionaries, travelers, traders and colonial government officials. These were the individuals who were in first-hand contact with the “primitive peoples”, who were very different from themselves. Their descriptions of the ways of life of the people they were encountering were being published in the various professional journals and monographs, which were established during this period.

 

Fin dal suo inizio come disciplina e persino durante la “preistoria” dell’antropologia, la traduzione ha occupato un ruolo singolarmente importante. Nel suo significato più ampio, «traduzione» significa comprensione multiculturale.

Gli esploratori europei e i viaggiatori dell’Asia e più tardi del Nuovo Mondo hanno sempre dovuto affrontare il problema di capire le persone in cui s’imbattevano. La lingua dei gesti e dei segni, usata in un primo momento, venne presto sostituita dalle lingue franche e dai pidgin e quelli che imparavano queste lingue franche e pidgin divennero i traduttori e gli interpreti. Questi pionieri della comunicazione multiculturale non solo riportavano le parole della nuova gente, ma divennero anche i traduttori e comunicatori di ogni genere di informazione riguardo a queste persone e gli interpreti dei loro modi di vivere ben differenti per gli intellettuali europei e il pubblico europeo in generale. Loro furono anche quelli che rappresentarono le basi delle concezioni che gli Altri avevano degli Europei.

Con l’affermarsi dell’antropologia come disciplina formale accademica prima, nella metà dell’Ottocento e più tardi come scienza sociale, la traduzione continuò evidentemente ad avere un ruolo significativo. In questo momento, antropologi come Edward Tylor, Lewis Henry Morgan e Johann Bachofen, restavano nelle proprie case, nei propri studi e in biblioteca, mentre teorizzavano sugli sviluppi della società umana e sull’evoluzione della cultura. Solo che le loro teorie erano basate su informazioni etnografiche raccolte da missionari, viaggiatori, commercianti e rappresentanti dei governi coloniali.

Erano questi il contatto, di prima mano, con i “primitivi”, ben diversi da loro. Le loro descrizioni dei modi di vivere delle persone che avevano incontrato venivano pubblicati nelle riviste e nelle monografie scientifiche, che si affermarono durante questo periodo.

 

 

 

At this point in time, the sources of this data were not questioned, nor was there concern with, or any evaluation of this information in terms of how it was collected, whether it was based on actual observations or casual conversations, which languages were used, who was doing the translations and what were the methods used. The degree of expertise of these Europeans in the local languages or whether they used interpreters, and who these interpreters were, was also not considered.

Translation was the modus vivendi; however, the anthropologists of the time were not concerned with questions of translation but only with the information itself, and the ways in which it could be used to buttress the evolutionary schemas and theories which they were hypothesizing.

Even when anthropologists themselves began to do fieldwork and gather ethnographic data at the end of the nineteenth and beginning of the twentieth century, field methodology and the role translation would play in the data-gathering enterprise were not really addressed. Though Boas, the founding father of professional anthropology in the United States, emphasized the importance of linguistics and the central role that language played in culture, he did not deal with the question of translation. In the training of his students he emphasized the necessity of learning the native language. The students were to collect information about the various aspects of a culture by recording texts in the native language. He himself published the results of his research with the Kwakiutl in the form of texts as, for example, in the two-volume Ethnology of the Kwakiutl, with the Kwakiutl version of the text transcribed in phonetics on the bottom half of the page and the English translation on the top half. There was a brief note about transcription at the beginning of the work entitled Explanation of Alphabet Used in Rendering Indian Sounds (Boas 1921: 47).

 

 

A quel tempo, le fonti di questi dati non venivano messe in discussione e non c’erano nemmeno dubbi o alcun tipo di valutazione su come queste informazioni fossero state raccolte, se fossero basate su una vera osservazione o su una conversazione casuale, su quali lingue venissero usate, su chi facesse le traduzioni e su quali fossero i metodi utilizzati. Il grado di pratica di questi europei nelle lingue locali o se ci fosse l’intermediazione di interpreti, e chi fossero questi interpreti, erano ulteriori fattori che non venivano presi in considerazione.

La traduzione era il modus vivendi. In ogni caso, gli antropologi di quel tempo non erano concentrati sulla traduzione in sé, ma solo sull’informazione stessa e sul modo in cui questa potesse essere usata per confermare i modelli evolutivi e le teorie che loro postulavano.

Anche quando gli stessi antropologi cominciarono a fare ricerche sul campo e a raccogliere dati etnografici verso la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, non si studiava la metodologia sul campo né il ruolo che la traduzione avrebbe avuto nell’impresa di raccolta dati.

Nonostante Boas, padre fondatore dell’antropologia professionale negli Stati Uniti, enfatizzasse l’importanza della linguistica e il ruolo centrale che la lingua occupava nella cultura, lui non si occupò molto della questione della traduzione. Durante la formazione degli studenti, Boas insisteva sul bisogno di imparare la lingua indigena. Gli studenti dovevano raccogliere informazioni sui diversi aspetti della cultura, registrando testi nella lingua originale. Lui stesso pubblicò i risultati di una ricerca sul Kwakiutl sotto forma di testi, come per esempio nel volume doppio Ethnology of the Kwakiutl [Etnologia del Kwakiutl], dove la versione Kwakiutl del testo era trascritta foneticamente nella metà inferiore della pagina e la traduzione inglese nella metà superiore. È stata scritta una breve nota riguardo alla trascrizione, all’inizio del lavoro intitolato Explanation of Alphabet Used in rendering Indian Sounds [Spiegazione dell’alfabeto usato per rendere suoni indiani, Boas 1921:47].

 

He sent his Columbia University students to various American Indian tribes, whose languages were in danger of disappearing because of the shift to the use of English.

This was to record valuable linguistic information about these languages, using phonetic transcription, before knowledge of them was lost. Though he did not deal with translation in general, Boas recognized that the languages of the New World were organized in a totally different manner than European languages and Latin. Such differences in grammatical categories are central to problems of translation. The fact that grammatically, a speaker of the Kwakiutl language indicates how he knows about an action a particular individual is performing, whether he saw the action himself, or heard about it from someone else, while the speaker of English does not, surely plays a role in the translation of Kwakiutl to English or English to Kwakiutl.

Malinowski, in his Introduction to Argonauts of the Western Pacific, was the first anthropologist to systematically address the topic of the procedures which one should use to conduct fieldwork. Acquiring the local language was essential since it was to be used as the “instrument of inquiry”. Malinowski noted the necessity of drawing a line between, “… on the one hand, the results of direct observation and of native statements and interpretations, and on the other hand the insights of the author…” (1961 [1922]: 3). He noted that “pidgin English” was a very imperfect instrument for gaining information. He recognized the importance of acquiring a knowledge of the native language to use it as an instrument of inquiry. He talked about the way in which he himself shifted from taking notes in translation which, as he noted, “… robbed the text of all its significant characteristics – rubbed off all its points … at last I found myself writing exclusively in that language [Kiriwinian], rapidly taking note, word for word of each statement” (Malinowski 1961 [1922]: 23–4).

 

Boas mandò i suoi studenti della Columbia University in varie tribù indio-americane, le cui lingue erano in pericolo di estinzione a causa del passaggio all’uso dell’inglese. Questo serviva per registrare informazioni di carattere linguistico preziose su queste lingue, prima che se ne perdesse la conoscenza. Nonostante in generale Boas non si fosse occupato di traduzione, si rese conto che le lingue del Nuovo Mondo erano strutturate in un modo completamente diverso dalle lingue europee e dal latino. Tali differenze di categorie grammaticali rappresentano una parte rilevante dei problemi della traduzione. Grammaticalmente, chi parla Kwakiutl specifica come fa sapere di un’azione fatta da un dato individuo, se l’ha vista di persona o ne ha sentito parlare da qualcun altro; chi parla inglese invece non lo specifica. Tutto ciò sicuramente influisce sulla traduzione dal Kwakiutl verso l’inglese o dall’inglese verso il Kwakiutl.

Malinowsky, nell’introduzione ad Argonauts of the Western Pacific [Argonauti del Pacifico Occidentale], è stato il primo antropologo a indagare metodicamente le procedure da seguire per condurre una ricerca sul campo. Acquisire la lingua locale è essenziale dal momento che la si usa come «strumento di ricerca». Malinowski notò il bisogno di tracciare una linea tra, «… da un lato, il risultato dell’osservazione diretta e degli enunciati e delle interpretazioni dei nativi, e dall’altro le intuizioni dell’autore…» (1961 [1922]:3). Lui notò che l’«inglese pidgin» era uno strumento estremamente imperfetto per ricavare informazioni. Si rendeva conto dell’importanza di acquisire conoscenze sulla lingua nativa per usarla come strumento di ricerca. Parla di come lui stesso sia passato dal prendere appunti in traduzione che, come scrisse «[…] depreda il testo di tutte le sue caratteristiche significative, cancellandone tutti i punti essenziali […] alla fine mi sono ritrovato a scrivere esclusivamente in quella lingua [Kiriwiniano], annotando rapidamente, parola per parola, di ogni enunciato» (Malinowski 1961 [1922] 23:4).

 

By and large, though, anthropologists trained during the period of the ascendancy of British social anthropology and the functionalist paradigm–such as Radcliffe-Brown, Evans-Pritchard, Fortes, Leach, Shapera, et al.–always considered it important to learn the language or languages being used in the areas in which they worked. They did long periods of intensive fieldwork during which translation was constantly involved, but they did not formally consider translation’s impact on their work or their theorizing. They recognized that it was important to use the languages spoken locally and not pidgins, lingua francas, interpreters or the languages in use by the hegemonic colonial governments, in order to understand the nature of the local culture and its meanings. More recently, the authors of Ethnographic Research: A Guide to General Conduct, a text devoted to an explication of research methods written for British social anthropologists, note that fieldwork “… requires some systematic understanding of it [the local language] and an accurate transcription. In the absence of a local writing system (which, in any case would have to be learned) one must make one’s own phonemic one, using a recognized system like the International Phonetic Alphabet” (Tonkin in Ellen 1984: 181). In addition, learning the lingua franca of the wider area, be it a pidgin or Creole, is also deemed essential. During the postwar period in America and Britain–despite the turn in interest toward symbolic and later interpretive anthropology with its primary focus on cultural understandings–translation, such a central part of the search for meaning, was never a subject of discussion and seems to have been of minimal importance. The same point can be made with respect to structuralism. Cultural meanings and understandings were significant for the structuralist enterprise, which was also important in the postwar era, since the data being analyzed were the products of translation, yet translation issues were never directly confronted by structuralists.

 

Nonostante tutto comunque, gli antropologi formati nel periodo del predominio dell’antropologia sociale britannica e del paradigma funzionalista, come Radcliffe-Brown, Evans-Pritchard, Fortes, Leach, Shapera e altri, hanno sempre ritenuto importante imparare la lingua o le lingue usate nelle zone nelle quali lavoravano. Affrontarono lunghi periodi di intensa raccolta dati sul campo, nei quali la traduzione era sempre necessaria, ma non hanno mai dato riconoscimento formale all’impatto della traduzione sul loro lavoro o sulle loro teorie. Si rendevano conto che era importante usare le lingue parlate localmente anziché usare pidgins, lingue franche, interpreti o le lingue in uso presso i governi colonizzatori egemonici, al fine di comprendere la natura della cultura locale e i suoi significati. Più recentemente, gli autori di Ethnographic Research: A Guide to General Conduct [Ricerca etnografica: guida di condotta generale], testo dedicato a una spiegazione dei metodi di ricerca scritto per gli antropologi sociali britannici, afferma che la ricerca sul campo «[…] richiede una comprensione sistematica [della lingua locale] e una trascrizione accurata. In caso di inesistenza di un sistema di scrittura locale [che va imparato se esiste] se ne deve creare uno proprio sulla base della fonemica, usando un sistema riconosciuto come l’Alfabeto fonetico internazionale» (Tonkin in Ellen 1984:181). Inoltre, imparare la lingua franca di un’area più estesa è ritenuto essenziale. Nel dopoguerra, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, nonostante la svolta degli interessi verso l’antropologia simbolica e successivamente interpretativa con la sua attenzione rivolta primariamente alla comprensione culturale, la traduzione, parte così importante della ricerca di senso, non è mai stata oggetto di discussione sembra sia stata d’importanza minima. Si può osservare lo stesso riguardo allo strutturalismo. I significati e le interpretazioni culturali sono importanti per l’impostazione strutturalista, pure importante nel dopoguerra, poiché i dati analizzati erano prodotti della traduzione, tuttavia le questioni traduttive non vennero mai affrontate dagli strutturalisti.

 

Postmodernism has been the subject of continuing debate and controversy among American cultural anthropologists. James Clifford and other postmodernists have forced us to reconsider the anthropological enterprise, from fieldwork and data gathering to the production of the ethnographic text. Since cultural understanding is based on the premise that translation is possible, translation and all its aspects should be a primary focus in this discussion, but this has not been the case. Clifford in a recent work finally confronts the issue of translation. He supports the idea embodied in the crucial term traduttore traditore, that is “the translator is a traitor”. He notes further that one should have an appreciation of the reality of what is missed and what is distorted in the very act of understanding, appreciating and describing another culture (Clifford 1997).

In the United States, cultural anthropology is still going through a period of assessment and the rethinking of its goals, procedures and raison dêtre. Thus, this is an excellent time to consider a series of issues arising from the fact that for anthropology, translation is and must be a central concern. Is translation from one culture to another possible and if so under what conditions? Can an anthropological researcher control another language adequately enough to carry out a translation? How should a researcher deal with the presence of class dialects, multilingualism and special-outsider language use? What constitutes an acceptable translation, one which contains more of the original or source language or one which focuses on the target language and the reader’s understanding? What is the relationship between translation and the conceptual framework of anthropology?

At the outset we should explore where translation fits in terms of what anthropologists do during fieldwork, the analysis of the data and the writing of the ethnographic text.

 

 

Il post-modernismo è stato oggetto di una discussione duratura e controversa tra gli antropologi culturali statunitensi. James Clifford e altri posto modernisti ci hanno obbligato a riconsiderare l’attività antropologica, dalla ricerca sul campo e dalla raccolta dati fino alla produzione di testi etnografici. Dato che la comprensione culturale si basa sulla premessa che la traduzione è possibile, la traduzione e tutti i suoi aspetti dovrebbero essere il centro di questa discussione, ma non è stato così. In un suo recente lavoro, Clifford ha finalmente affrontato il problema della traduzione. Lui difende l’idea contenuta nel detto popolare traduttore traditore. Clifford nota inoltre che si deve riconoscere la realtà da ciò che si perde e ciò che si manipola nell’atto di comprensione, apprezzamento e descrizione di un’altra cultura (Clifford 1997).

Negli Stati Uniti, l’antropologia sta ancora affrontando un periodo di valutazione e riconsiderazione dei propri obiettivi, procedimenti e raison d’être. È un eccellente momento per valutare una serie di problemi che sorgono dal fatto che secondo l’antropologia, la traduzione è e deve rappresentare una preoccupazione fondamentale. È possibile la traduzione da una cultura all’altra e, se sì, quali sono le condizioni? Un antropologo è in grado di padroneggiare un’altra lingua in modo sufficientemente adeguato da fare una traduzione? Come deve comportarsi un ricercatore in presenza di dialetti di classe, multilinguismo e uso di lingue speciali da outsider? Com’è una traduzione accettabile: quella che contiene più elementi della lingua originale o emittente oppure quella che si incentra sulla lingua ricevente e sulla comprensione del lettore? Qual è il rapporto tra la traduzione e la struttura concettuale dell’antropologia? Per cominciare dobbiamo valutare dove la traduzione si inserisce per ciò che riguarda quello che fanno gli antropologi nella ricerca sul campo, nell’analisi dei dati e nella stesura del testo etnografico.

 

 

 

Anthropologists, going to do fieldwork in a culture foreign to their own, usually try to ascertain which language or languages are spoken in the area of their interest and to begin to learn these before they leave their home base or immediately upon arriving at the field site. Field assistants or interpreters may need to be used at first, and it is their translations upon which the anthropologist relies. Data that the fieldworker records, what people recount to him or her, words associated with rituals or conversations and observations may initially be written in the native language to be translated into their own language–English, German, etc.–soon after or in a procedure which combines both, which Malinowski used, as his field notes reveal. The phonetic recording of the material in the native language is essential, but often this is not the procedure used.

We might call this translation in the first instance. How does one approximate as closely as possible the original words and ideas of the culture being studied in the translation? Glossing and contextualizing is one of the methods used, which we will discuss later in greater detail. Clifford has made us very aware of the constructed nature of the ethnographic text and the various messages such texts convey. The ethnographic texts, which anthropologists publish today, never consist of the data exactly as collected in the field. Only Boas frequently did publish texts in the same form as they were received from his primary field assistant, George Hunt. Taking the postmodern message of subjectivity to heart, some postmodernist anthropologists publish their ethnographic material in very self-reflexive accounts, which describe what happened to them in the field, and the understandings of the other society which they themselves gained. They usually do not deal with the question of translation. This emphasizes the humanistic, hermeneutic focus on how the self constructs understandings of the Other.

 

 

Di solito gli antropologi, facendo ricerca sul campo in una cultura estranea alla propria, indagano quale lingua o quali lingue vengono parlate nell’area di loro interesse per iniziare ad impararle prima di partire o no non appena arrivano al sito di ricerca. Forse, all’inizio, è necessario coinvolgere assistenti di ricerca e interpreti: sono le loro traduzioni quelle su cui si basano gli antropologi . i dati raccolti, ciò che le persone raccontano loro, le parole legate a rituali o conversazioni e osservazioni, all’inizio magari vanno scritte nella lingua nativa per essere poi tradotte nella loro lingua: inglese, tedesco, ecc. poco dopo o con una procedura mista, come faceva Malinowski, secondo quanto rivelano le sue note. Registrare foneticamente il materiale della lingua nativa è fondamentale, ma non sempre è questa la procedura usata.

Ciò può essere subito chiamato traduzione. Come si fa ad avvicinare il più possibile le parole e le idee originali di una cultura studiata in traduzione? La chiosatura e la contestualizzazione sono uno dei metodi usati, dei quali parleremo dettagliatamente più avanti.

Clifford ci ha fatto prendere coscienza della natura costruita del testo etnografico e dei vari messaggi che tali testi trasmettono. I testi etnografici, che gli antropologi pubblicano oggi, non rispecchiano mai i dati esattamente come vengono raccolti sul campo. Solo Boas, spesso, pubblicava testi nella stessa forma in cui li riceveva dal suo primo assistente di ricerca, George Hunt. Prendendo alla lettera il messaggio postmoderno della soggettività, alcuni antropologi postmoderni pubblicano il materiale etnografico da una prospettiva autoriflessiva, descrivendo ciò che succedeva loro sul campo e il riconoscimento che si guadagnava all’intero dell’altra società. Loro di solito non affrontavano la questione traduttiva. Questo dà enfasi al focus umanistico, ermeneutico su come il proprio costruisce la comprensione dell’Altrui.

 

 

Other anthropologists, after doing their translations from the source language, chose to examine their data in terms of reoccurring patterns of behaviour and ideas and present their understandings of the culture in a series of generalizations.

At this level, the translation is in terms of the analytical concepts developed in anthropology, which permit the possibility of considering cross-cultural similarities if such are relevant. The question of the fit between the cultural understandings of one group and the level of analytical constructs is a very important issue. The development of analytical concepts in anthropology was based upon the premise of cross-cultural similarities at a higher analytical level than the generalizations formed about a single culture. At this level of generalization, some of the individuality and specificity of cultural phenomena which translation has revealed “falls by the wayside”. This last step is one which some younger American anthropologists today do not wish to take, precisely because they feel that analytical concepts do not cognitively resonate sufficiently with the meanings of the particular culture they have studied. More importantly, some see these analytical concepts as emanating from the hegemonic West to be imposed upon the Third World Others compromising the specificity of their cultural concepts.

Though translation in anthropology clearly involves a more complex procedure than literary translation, Translation Studies, which has recently emerged in the United States as a distinct discipline dealing not only with the historical and cultural context of translation, but also with the problems associated with translating texts, may offer some assistance to anthropologists confronting similar problems in their own work. The work of translation specialists has revealed that at different historic periods in the Western world, there were different translation paradigms. These varied in terms of the degree to which translations were oriented toward the target language or to the source language.

 

Altri antropologi, dopo aver redatto le loro traduzioni dalla lingua emittente hanno scelto di esaminare i loro dati sulla base di modelli ripetitivi di comportamento e idee e hanno presentato le proprie opinioni sulla cultura attraverso una serie di generalizzazioni.

A questo livello, la traduzione avviene in base ai concetti analitici sviluppati in antropologia, che permettono di prendere in considerazione somiglianze tra culture, qualora siano rilevanti. Il problema della comprensione culturale di un gruppo e il livello dei costrutti analitici è un tema molto importante. Lo sviluppo di concetti analitici in antropologia si basava sulla premessa di similitudini tra culture a un livello analitico superiore alle generalizzazioni su una singola cultura. E proprio a causa di queste generalizzazioni, si perdono alcune delle individualità e specificità dei fenomeni culturali che la traduzione ha scoperto. Quest’ultimo passo è quello che alcuni antropologi americani più giovani non vorrebbero fare, proprio perché capiscono che i concetti analitici non hanno risonanza sufficiente a livello cognitivo con i significati della cultura specifica che hanno studiato. Ma la cosa più importante è che alcuni antropologi hanno preso questi concetti analitici come provenienti dall’Occidente egemonico e imposti al Terzo Mondo Altrui, compromettendo le specificità dei loro concetti culturali.

Nonostante la traduzione in antropologia comporti una procedura più complessa rispetto alla traduzione letteraria, la scienza della traduzione, disciplina nata recentemente negli Stati Uniti che tratta non solo del contesto storico e culturale della traduzione, ma affronta anche i problemi connessi al tradurre testi, può essere d’aiuto agli antropologi che affrontano difficoltà simili durante il lavoro. Il lavoro dei professionisti della traduzione ha rivelato che a periodi storici distinti nel mondo occidentale, corrispondevano paradigmi traduttivi distinti. Questi variavano a seconda del grado di orientamento delle traduzioni verso la cultura emittente o ricevente.

 

What kind of connection should there be between the original text and the translation? Is the role of the translator, as it is imprinted on the translation, parallel to the role of the anthropologist as the interpreter of a culture not his own (though some anthropologists today study their own cultures)?

Translation theory rests on two different assumptions about language use. The instrumental concept of language, which sees it as a mode of communication of objective information, expressive of thought and meanings where meanings refer to an empirical reality or encompass a pragmatic situation.

The hermeneutic concept of language emphasizes interpretation, consisting of thought and meanings, where the latter shape reality and the interpretation of creative values is privileged (Venuti 2000: 5).

Competing models of translation have also developed. There are those who see translation as a natural act, being the basis for the intercultural communication which has always characterized human existence. This approach emphasizes the commonality and universality of human experience and the similarities in what appear, at first, to be disparate languages and cultures. In contrast, there is the view that translation, seen as the uprooting and transplanting of the fragile meanings of the source language, is unnatural. Translating is seen as a “traitorous act”. Cultural differences are emphasized and translation is seen as coming to terms with “Otherness” by “resistive” or “foreignizing” translations which emphasize the difference and the foreignness of the text. The foreignized translation is one that engages “… readers in domestic terms that have been defamiliarized to some extent” (Venuti 1998: 5) These models clearly reveal the ideological implications of translation, one of the features which translation-studies specialists have strongly emphasized.

 

 

Che tipo di legame deve instaurarsi tra prototesto e metatesto? Il ruolo del traduttore, la cui azione è indelebile sulla traduzione, è di pari passo al ruolo dell’antropologo come interprete di una cultura altrui (anche se alcuni antropologi attualmente studiano le proprie culture)?

La teoria della traduzione si basa su due presupposti diversi dell’uso della lingua. Il concetto strumentale di «lingua», che la vede come modalità di comunicazione, di informazione oggettiva, espressione del pensiero e di significati i quali si riferiscono a una realtà empiria o includono una situazione pragmatica.

Il concetto ermeneutico di «lingua» è incentrato sull’interpretazione, costituita da pensiero e significati dove i significati danno forma alla realtà e si privilegia l’interpretazione dei valori creativi (Venuti 2000:5).

Si sono inoltre sviluppati modelli competitivi della traduzione. Alcuni vedono la traduzione come un atto naturale, alla base della comunicazione interculturale che ha sempre caratterizzato la cultura umana. Questo approccio fa risaltare la comunanza e universalità dell’esperienza umana e le somiglianze di quelle che sembrano, in un primo momento, lingue e culture diverse. Di contro, esiste l’opinione che la traduzione è innaturale, vista come lo sradicamento e il trapianto dei fragili significati della cultura emittente. La traduzione è vista come «atto proditorio». Vengono messe in evidenza le differenze culturali e la traduzione affronta l’«altrui», attraverso traduzioni «resistenti» o «estranianti» che mettono in risalto la diversità e l’estraneità del testo. La traduzione estraniante è quella che impegna «… i lettori con termini locali che in una certa misura sono stati resi meno familiari». Questi modelli rivelano chiaramente le implicazioni ideologiche della traduzione, una delle caratteristiche che gli studiosi della traduzione hanno vivamente messo in risalto.

 

 

 

 

As Basnett notes, “All rewritings, whatever their intention reflect a certain ideology and a poetics and as such manipulate literature to function in a society in a given way. Rewriting is manipulation, undertaken in the service of power and in its positive aspect can help in the evolution of a literature and a society” (Basnett in Venuti 1995: vii). Hierarchy, hegemony and cultural dominance are often said to be reflected in translations, especially those which were done during the colonial period. These features are also said to be present in translations, which are being done now in the postcolonial period. The translation of foreign texts may also reflect the ideological and political agendas of the target culture. As Cronin notes, “Translation relationships between minority and majority languages are rarely divorced from issues of power and identity, that in turn destabilize universalist theoretical prescriptions on the translation process” (Cronin 1996: 4). The values of the culture of the source language may be different from those of the target language and this difference must be dealt with in any kind of translation.

It is clear that the translations done by anthropologists cannot help but have ideological implications. How does one preserve the cultural values of the source language in the translation into the target language, which is usually the aim of the translation. The values of the local culture are a central aspect of most of the cultural phenomena which anthropologists try to describe, and these may differ from and be in conflict with the values of the target culture. How to make that difference comprehensible to audiences is the major question at issue.

What constitutes “fidelity” to the original text? Walter Benjamin, in his famous essay entitled “The Task of the Translator”, notes that “The task of the translator consists of finding that intended effect [intention] into which he is translating, which produces in it the echo of the original” (Benjamin 1923 in Venuti 2000).

 

 

Come nota Basnett, «tutte le riscritture, qualsiasi sia la loro intenzione, rispecchiano una certa ideologia e poetica e come tali manipolano la letteratura per funzionare in un certo modo in una società. Riscrittura è manipolazione, al servizio del potere e nel suo aspetto positivo può aiutare l’evoluzione della letteratura e della società» (Basnett in Venuti 1995: vii). Gerarchia, egemonia e dominanza culturale spesso si riflettono nelle traduzioni, in particolare in quelle del periodo coloniale. Queste caratteristiche sarebbero presenti anche nelle traduzioni attuali, del periodo post-coloniale. La traduzione di testi stranieri a volte rispecchia anche i programmi ideologici e politici della cultura ricevente. Come rileva Cronin: «I rapporti traduttivi tra lingue minoritarie e maggioritarie, raramente sono separati da questioni di potere e identità, che a loro volta destabilizzano i principi teorici universalisti del processo traduttivo» (Cronin 1996: 4). I valori della cultura emittente sono diversi da quelli della cultura ricevente e in ogni tipo di traduzione la differenza va affrontata.

È chiaro che le traduzioni fatte dagli antropologi non possono non avere implicazioni ideologiche. Come si mantengono i valori della cultura emittente durante la traduzione nella cultura ricevente, che di solito è lo scopo della traduzione. I valori della cultura locale sono l’aspetto centrale della maggior parte dei fenomeni culturali che gli antropologi provano a descrivere e questi possono essere diversi dai valori della cultura ricevente ed entrare in conflitto con loro. Il problema maggiore in discussione è come rendere questa differenza comprensibile al pubblico.

Cosa significa essere “fedeli” al prototesto? Walter Benjamin, nel suo noto saggio intitolato «Il compito del traduttore», specifica che «il compito del traduttore consiste nel trovare quell’effetto intenzionale verso il quale sta traducendo, che produce l’eco dell’originale» (Benjamin 1923 in Venuti 2000).

 

 

 

To him, a translation constituted the continued life of the original. Benjamin is seen by translation specialists as espousing what is referred to as “foreignizing translation”. Benjamin sees the basic error of the translator as preserving the state “… in which his own language happens to be, instead of allowing his language to be powerfully affected by the foreign tongue. He must expand and deepen his language by means of the foreign language. It is not generally realized to what extent this is possible, to what extent any language may be transformed” (Benjamin in Venuti 2000: 22). The nineteenth-century German theorist Schleiermacher, who wrote “On the Different Methods of Translating” in 1813, thought that a translation could move in either of two directions: either the author is brought to the language of the reader or the reader is carried to the language of the author. In the latter case, when the reader is forced from his linguistic habits and obligations to move within those of the author, there is actual translation (Venuti 2000: 60). Foreignizing a text means that one must disrupt the cultural codes of the target language in the course of the translation. This method seeks to “… restrain the ethnocentric violence of translation and is an intervention … pitted against hegemonic English language nations and the unequal cultural exchanges in which they engage their global others” (Venuti 1995: 20). This approach would seem to be compatible with the goals of anthropology. Moving in the direction of the reader is referred to as the domestication of translation. The position of Venuti, and others, is that in this way translation has served the global purposes of the Western modernized industrial nations, at the expense of the subaltern nations and peoples around the world. Foreignizing translation is a way of rectifying the power imbalance by allowing the voice of these latter nations to be heard in their own terms.

 

 

 

 

Secondo l’autore, una traduzione rappresenta la continuazione della vita dell’originale. Benjamin è visto dagli specialisti in traduzione come fautore della «traduzione esotizzante». Benjamin considera errore basilare del traduttore quello di mantenere la situazione «…nella quale la sua lingua si trova, anziché permetterle di farsi influenzare energicamente dalla lingua straniera. Il traduttore deve espandere e approfondire la sua lingua per mezzo della lingua straniera. In generale non si sa fino a che punto questo sia possibile, fino a che punto una lingua possa esser trasformata» (Benjamin in Venuti 2000: 22). Schleichermacher, teorico tedesco dell’Ottocento che scrisse Metodi del tradurre nel 1813, pensava che la traduzione potesse muoversi in due direzioni: o lo scrittore viene portato alla lingua del lettore oppure il lettore viene portato alla lingua dello scrittore. [Manuale, 5: “O il traduttore lascia stare il più possibile lo scrittore e sposta il lettore verso lo scrittore, oppure lascia stare il più possibile il lettore e sposta lo scrittore verso il lettore”] Nel secondo caso si ha una vera traduzione, quando il lettore è costretto a trasferire le sue abitudini e obblighi linguistici verso quelli dello scrittore (Venuti 2000:60). Estraniare un testo significa ostacolare la lettura dei codici della cultura ricevente durante la traduzione. Questo metodo cerca di «… impedire la violenza etnocentrica della traduzione ed è un intervento … che mette in contrapposizione le nazioni egemoniche di lingua inglese e gli scambi culturali impari nei quali vengono coinvolti gli altri globali» (Venuti 995:20). Questo approccio è compatibile con gli obiettivi dell’antropologia. Lo spostamento verso il lettore è chiamato addomesticamento della traduzione. In questo modo, secondo Venuti e altri, la traduzione era al servizio degli obiettivi globali delle moderne nazioni occidentali industrializzate, a spese delle nazioni e dei popoli sottomessi di tutto il mondo. L’estraniazione è un modo di rettificare lo squilibrio di potere permettendo che la voce di queste ultime nazioni sia udita con parole proprie.

 

 

Minoritizing translation which relies on discursive heterogeneity contrasts with fluency which is assimilationist, according to Venuti (1998: 12).

In the 1970s in the United States, notions of cultural and linguistic relativity began to come to the fore. This direction, in anthropology, led to the postmodernist position, discussed above, that all cultures are unique and different and that cultural translation is a difficult if not impossible task but that cultural translation into a Western language should be attempted since cross-cultural understanding is an important goal. However, there are also some who support the position that at some level of generalization there are universals of language and culture. Given this perspective, foreign texts are seen as entities with invariants, capable of reduction to precisely defined units, levels and categories of language and textuality.

Jakobson, whose research has had significance for both linguists and anthropologists, takes his perspective from Pierce, the semiotician, and points out that “… the meaning of a linguistic sign is its translation into some further alternative sign, especially one which is more fully developed” (Jakobson 1959 in Venuti 2000). Jakobson distinguishes between intra-lingual translation – the rewording or interpretation of verbal signs by other signs of the same language; inter-lingual translation–translation proper, the interpretation of verbal signs by means of some other language; and inter-semiotic translation – the interpretation of verbal signs by signs of a non-verbal sign system. He recognized, as did Boas before him, that the grammatical pattern of a language determines those aspects of experience which must be expressed and that translations often require supplementary information since languages are different in what they must convey, and in what they may convey (Jakobson 1959 in Venuti 2000: 114). He cites an excellent example of the kind of supplementary information, which must be provided, in his discussion of inanimate nouns which are personified by gender.

 

 

Secondo Venuti, la traduzione minoritaria, basata sull’eterogeneità discorsiva, si oppone alla scorrevolezza assimilazionista (1998:12).

Negli anni Settanta, i concetti di «relativismo culturale e linguistico» divennero importanti negli Stati Uniti. Questa direzione, in antropologia, condusse alla posizione post-modernista, di cui si è già parlato, secondo cui tutte le culture sono uniche e diverse e la traduzione culturale è un compito difficile, se non impossibile, ma è necessaria questa traduzione culturale verso una lingua occidentale, visto che la comprensione multiculturale è un obiettivo importante. C’è tuttavia anche chi sostiene che, generalizzando, esistano universali delle lingue e delle culture. Da questo punto di vista i testi stranieri sono visti come entità con invarianti, riducibili a unità, livelli e categorie linguistiche e testuali definite precisamente.

Jakobson, le cui ricerche sono state significative sia per i linguisti che per gli antropologi, si basa su Peirce, semiotico, e specifica che «… il significato di qualsiasi segno linguistico è la sua traduzione in un segno ulteriore, alternativo, specialmente un segno in cui è ancor più pienamente sviluppato» (Jakobson 1959 in Venuti 2000). Jakobson distingue tra la traduzione intralinguistica che è la riformulazione o interpretazione di segni verbali per mezzo di altri segni della stessa lingua; la traduzione interlinguistica, la traduzione vera e propria, che è l’interpretazione di segni verbali per mezzo di un’altra lingua; la traduzione intersemiotica che è l’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di sistemi segnici non verbali. Così come Boas, riconobbe che la struttura grammaticale di una lingua determina quegli aspetti dell’esperienza che si devono esprimere e che le traduzioni spesso richiedono informazioni aggiuntive dato che le lingue si distinguono per ciò che devono esprimere non in ciò che possono esprimere (Jakobson 1959 in Venuti 2000:114). Jakobson cita un eccellente esempio del tipo di informazione aggiuntiva, che dev’essere fornita, nella discussione sui nomi inanimati, personificati per mezzo del genere.

 

 

In Russian, the word death is feminine, represented as a woman, while in German, the word is masculine and therefore represented as a man (Jakobson 1959 in Venuti 2000: 117). Clearly, distinctions of this sort are significant when one does any type of translation. The cultural context of the translation must always be presented.

How close can any translation come to the original text or statement? Nida notes that “Since no two languages are identical either in meanings given to corresponding symbols, or in ways in which such symbols are arranged in phrases and sentences, it stands to reason that there can be no absolute correspondence between languages … no fully exact translation … the impact may be reasonably close to the original but no identity in detail” (Nida 1964 in Venuti 2000: 126). Therefore, the process of translation must involve a certain degree of interpretation on the part of the translator. As Nida describes it, the message in the receptor language should match as closely as possible the different elements of the source language; constant comparison of the two is necessary to determine accuracy and correspondence. Phillips’ method of back translation in which equivalencies are constantly checked is one way to achieve as exact a correspondence as possible. One must reproduce as literally and meaningfully the form and content of the original, and make as close an approximation as possible. One should identify with the person in the source language, understand his or her customs, manner of thought, and means of expression. A good translation should fulfil the same purpose in the new language as the original did in the source language. It should have the feel of the original. This would seem to be a prescription which most anthropologists should follow in their own fieldwork. But Nida also attends to the needs of the reader, noting that the translation should be characterized by “naturalness of expression” in the translation and that it should relate to the culture of the “receptor”.

 

 

In russo, la parola «morte» è femminile e rappresentata come una donna mentre in tedesco è maschile e rappresentata come un uomo (Jakobson 1959 in Venuti 2000:117). Chiaramente, distinzioni di questo tipo sono significative per qualsiasi traduzione. Il contesto culturale della traduzione dev’essere sempre illustrato.

Fino a che punto una traduzione riproduce il testo o gli enunciati originali? Nida afferma che «Dato che non esistono due lingue identiche nei significati dei simboli corrispondenti né nei modi in cui questi simboli sono organizzati in frasi e enunciati, è corretto affermare che non può esserci corrispondenza esatta tra le lingue … né una traduzione totalmente esatta … ragionevolmente l’impatto può essere simile all’originale, ma non identico nei dettagli» (Nida 1964 in Venuti 2000:16). Inoltre il processo traduttivo richiede un certo grado di interpretazione da parte del traduttore. Secondo Nida, nella lingua ricevente il messaggio deve corrispondere il più possibile ai diversi elementi della lingua emittente; la comparazione costante tra le lingue è necessaria per definire accuratezza e corrispondenza. Il metodo di Philips della back translation, dove le equivalenze sono verificate costantemente, è un mezzo per ottenere una corrispondenza più esatta possibile. Bisogna riprodurre il più letteralmente possibile la forma e il contenuto dell’originale e produrre un’approssimazione più simile possibile. Bisogna identificarsi con una persona della lingua emittente, capire le sue abitudini, il modo di pensare, le modalità espressive. Nella lingua ricevente, una buona traduzione deve prefiggersi lo stesso obiettivo del testo originale nella lingua emittente. Deve creare la stessa impressione dell’originale. Questa sembrerebbe una norma che gli antropologi devono rispettare durante il lavoro sul campo. Nida però si occupa anche delle esigenze del lettore, notando che la traduzione deve dimostrare «naturalità espressiva» e deve far riferimento alla cultura «ricevente».

 

 

For this reason, he is seen as being in the camp of those who advocate the “domestication” of translation. In Nida’s eyes, the translation must make sense and convey the spirit and manner of the original, being sensitive to the style of the original, and should have the same effect upon the receiving audience as the original had on its audience (Nida in Venuti 2000: 134).

The solution, as he sees it, is some sort of dynamic equivalence that balances both concerns. Though the equivalence should be source-oriented, at the same time it must conform to and be comprehensible in the receptor language and culture. Nida goes into details in his volume, The Science of Translation, regarding the methods the translator should use to get the closest approximation of the source language, including using footnotes to illuminate cultural differences when close approximations cannot be found. This is what has been referred to above as glossing. He also talks about problems of translating the emotional content of the original, and the need to convey the sarcasm, irony, whimsy, and emotive elements of meaning of the original (Nida in Venuti 2000: 139–40). Nida’s theories are based on a transcendental concept of humanity as an essence unchanged by time and space, since “that which unites mankind is greater than that which divides, hence even in cases of very disparate languages and cultures there is a basis for communication” (Nida in Venuti 2000: 24). However, one must keep in mind that Nida’s work, in general, is informed by missionary values since he developed his science of translation with the express purpose of being used by missionaries in their task of translating biblical and religious texts for use by people speaking languages in remote parts of the world.

Venuti sees people like Nida as emphasizing semantic unity while those who emphasize foreignization stress discontinuities and the diversity of cultural and linguistic formations, translation being seen as the “…violent rewriting of the foreign text” (Venuti 1995: 24).

 

Per questo motivo, Nida è visto come colui che difende l’«addomesticamento» della traduzione.

Secondo la visione di Nida, la traduzione deve avere un senso e trasmettere lo spirito e il modo dell’originale, e deve produrre sul pubblico ricevente gli stessi effetti che l’originale ha prodotto sul suo pubblico (Nida in Venuti 2000:134).

La soluzione, secondo lui, è una specie di equivalenza dinamica che mette in equilibrio le due questioni. Sebbene l’equivalenza debba essere orientata verso l’emittente, allo stesso tempo deve adeguarsi alla lingua e alla cultura ricevente e essere comprensibile. Nida entra più in dettagli nel suo The Science of Translation [La scienza della traduzione], sui metodi che il traduttore deve usare per avvicinare il testo il più possibile alla lingua emittente, includendo note a piè di pagina per chiarire le differenze culturali, laddove non esista una similitudine stretta. Questa è la chiosatura, di cui abbiamo già parlato. Nida spiega inoltre i problemi del tradurre il contenuto emotivo dell’originale e la necessità di riprodurre sarcasmo, ironia, stravaganze e emozioni significative dell’originale (Nida in Venuti 2000: 139-40). Le teorie di Nida si basano su un concetto trascendentale dell’umanità come un’essenza immutabile nel tempo e nello spazio, dato che «ciò che unisce l’umanità è più forte di ciò che la divide, anche in caso di lingue e culture diverse esiste una base per comunicare» (Nida in Venuti 2000:24). Bisogna a ogni modo ricordare che il lavoro di Nida nasce da valori missionari, visto che lui ha sviluppato la sua scienza traduttiva con il chiaro obiettivo di essere usata dai missionari nei loro compiti di traduzione biblica e di testi religiosi a disposizione di persone che parlano lingue diverse in varie parti del mondo. Venuti osserva che persone come Nida danno importanza all’unità semantica mentre chi enfatizza l’estraniazione dà importanza alle discontinuità, alla diversità di formazione culturale e linguistica, e la traduzione è vista come «…violenta riscrittura del testo straniero» (Venuti 1995:24).

 

 

The differences of the foreign text are to be stressed. A foreignized translation is one which reflects and emphasizes the cultural differences between source and target languages. In anthropology, the goal is to present the different aspects of the culture or society being examined in a “translation” which is as true to the original as possible. No concessions should be made to make the description more acceptable and palatable to the target audience except for intelligibility.

Venuti also talks about “the illusion of transparency”, meaning that the translation must be characterized by easy readability, making the translator and the conditions under which the translation was made invisible. Different societies have different traditions regarding translation.

Fluency is the dominant idea for the English. This means that there is a preference for the use of current English usage in translation, rather than colloquial and archaic language though the translator may see the latter as more suitable in conveying the meanings and genre of the original. The importance of immediate intelligibility is associated with the purely instrumental use of language and the emphasis on facts (Venuti 1995: 1-5). Since domesticating the text is said to exclude and conceal the cultural and social conditions of the original text to provide the illusion of transparency and immediate intelligibility, this is referred to as “the ethnocentric violence of translation”. The “canonization of fluency in English language translations”, developed during the early modern period, dominated and limited the translator’s options (Venuti 1995: 810). Other translation specialists talk about the need to seek functional equivalence even if one must make explicit in the target language what is implicit in the source language (Levý in Venuti 2000: 167). One must realize in the target language the textual relations of the source language with no breach of the target language basic linguistic system.

 

 

Le differenze del testo straniero devono essere accentuate. La traduzione estraniante riflette e accentua le differenze culturali tra lingua emittente e lingua ricevente. L’obiettivo in antropologia, è presentare gli aspetti diversi della cultura o della società esaminata in una «traduzione» che è più fedele possibile all’originale. Non si possono fare concessioni, eccetto per motivi di intelligibilità, per rendere la descrizione più accettabile e gradevole al pubblico ricevente.

Venuti parla anche dell’«illusione della trasparenza»: la traduzione dev’essere facilmente leggibile, rendendo invisibili il traduttore e le condizioni sulle quali si è basata. Società diverse hanno tradizioni traduttive diverse.

La scorrevolezza è la dominante principale per l’inglese. Questo significa che si preferiscono forme dell’inglese corrente nella traduzione, e non un linguaggio colloquiale e arcaico anche se il traduttore può considerare questi ultimi più adatti per rendere i significati e il genere testuale dell’originale. L’importanza dell’intelligibilità immediata è associata al puro uso strumentale della lingua e all’enfasi sui fatti (Venuti 1995: 1-5).

Visto che l’addomesticamento esclude e nasconde le condizioni culturali e sociali del testo originale a favore dell’illusione della trasparenza e dell’intelligibilità immediata, ci si riferisce a ciò come «violenza etnocentrica della traduzione».

La «canonizzazione della scorrevolezza nelle traduzioni in inglese», sviluppata all’inizio del periodo contemporaneo, ha dominato e limitato le opzioni del traduttore (Venuti 1995:810). Altri specialisti della traduzione rivelano il bisogno di cercare equivalenze funzionali anche nel caso in cui si debba rendere esplicito nella lingua ricevente ciò che è implicito nella lingua emittente (Levý in Venuti 2000:167). Nella lingua ricevente si devono rendere le relazioni testuali della lingua emittente senza violare il sistema linguistico basilare della lingua ricevente.

 

 

However, incompatibilities will always be present which must be dealt with by additional discussion and contextualization, what we called glossing above.

Clearly, anthropologists need to deal with these different aspects of translation and to concern themselves with which kind of balance should be achieved in the work that they do.

An important point raised, which relates more directly to translations by anthropologists, is that the foreign text depends upon its own culture for intelligibility. It is therefore usually necessary to supply supplementary information, annotations and the like to anthropological translations. This is what is referred to as glossing. This is especially necessary when the source language and its culture have no exact linguistic and cultural equivalent in the target language. Quine suggests that one “…steep oneself in the language disdainful of English parallels to speak it like a native, eventually becoming like a bilingual” (Quine 1959 in Venuti 2000: 108). The turn toward thinking, which emphasizes cultural relativity, revived “…the theme of untranslatability in translation theory” (Venuti 2000: 218).

Irreducible differences in language and culture, the inherent indeterminacy of language, as well as the unavoidable instability of the signifying process, are seen as problems which must be overcome if one is to do a translation. The polysemy of languages and the heterogeneous and diverse nature of linguistic and cultural materials which “destabilize signification” and make meaning plural and divided, are now seen as complicating factors in translation (Venuti 2000: 219).

Translation is doomed to inadequacy because of irreducible differences not only between languages and cultures, but within them as well. The view that language itself is indeterminate and the signifying process unstable would seem to preclude the possibility of any kind of adequate translation.

 

 

Ad ogni modo, esisteranno sempre incompatibilità che bisognerà affrontare attraverso una discussione e contestualizzazione aggiuntiva, che abbiamo precedentemente denominato di chiosatura. Chiaramente, gli antropologi devono affrontare questi differenti aspetti della traduzione e devono preoccuparsi del tipo di equilibrio da conferire al lavoro che stanno facendo.

Un’importante questione sollevata, legata più direttamente alle traduzioni degli antropologi, è che il testo estraneo dipende dalla sua cultura per essere intelligibile. A volte è necessario fornire informazioni aggiuntive, annotazioni e simili alla traduzione in antropologia. Ciò è detto «chiosatura». Questa si rivela particolarmente necessaria quando la lingua emittente e la sua cultura non hanno un equivalente linguistico e culturale nella lingua ricevente. Quine afferma che ci «…si immergerà nella lingua, rifuggendo i parallelismi inglesi, al punto che la si parlerà come un nativo, diventando alla fine bilingue» (Quine 1959 in Venuti 2000:108).

La svolta del pensiero, che accentua la relatività culturale, ha fatto rivivere «…il tema dell’intraducibilità nella teoria traduttiva» (Venuti 2000:218).

Le irriducibili differenze nella lingua e cultura, l’intrinseca indeterminatezza della lingua, così come l’inevitabile instabilità del processo di significazione, sono visti come problemi che devono essere superati quando si traduce. La polisemia delle lingue e l’eterogeneità e la diversa natura del materiale linguistico e culturale che «destabilizza la significazione» e rende il significato plurale e diviso, adesso vengono visti come fattori che rendono la traduzione più difficoltosa (Venuti 2000:219).

La traduzione è destinata all’inadeguatezza a causa di differenze irriducibili non solo tra lingue e culture, ma anche al loro interno. L’idea che la lingua sia indeterminata e il processo di significazione instabile, sembrerebbe impedire qualsiasi tipo di traduzione adeguata.

 

 

Interestingly, Venuti sees the foreign text itself as the site of “many different semantic possibilities” which any one translation only fixes in a provisional sense. Meaning itself is seen as a “… plural and contingent relation, not an unchanging unified essence” (Venuti 1995: 18). When a text is retranslated at a latter period in time, it frequently differs from the first translation because of the changes in the historical and cultural context.

However, many subscribe to the counter-argument, holding that translation is possible if it “…seeks to match [the] polyvalences or plurivocatives or [the] expressive stress of the original…, [resisting the] constraints of the translating language and interrogates the structure of the foreign text” (Lewis in Venuti 2000: 218). Translation is a re-codification, a transfer of codes. Synonymy is not necessarily possible, but a form of translation can still take place. As Frawley notes, “Translation when it occurs has to move whatever meanings it captures from the original into a framework that tends to impose a different set of discursive relations and a different construction of reality” (Frawley in Venuti 2000: 268). The inadequacies of the translation must be dealt with in an accompanying commentary. The transformations, which a translation embodies, should take place on the semantic, syntactic and discursive levels.

As Venuti notes, “Translation is a process that involves looking for similarities between language and culture–particularly similar messages and formal techniques–but it does this because it is constantly confronting dissimilarities. It can never and should never aim to remove these dissimilarities entirely. A translated text should be the site at which a different culture emerges, where a reader gets a glimpse of a cultural other and resistency.

 

 

È interessante che Venuti veda il testo estraneo come luogo di «molte combinazioni semantiche diverse» che una traduzione fissa provvisoriamente. Il significato di per sé è visto come «relazione plurale e contingente, non un’essenza unificata immutabile» (Venuti 1995:18). Quando un testo viene ritradotto in un secondo tempo, normalmente è diverso dalla prima traduzione a causa dei cambiamenti del contesto storico e culturale.

Ad ogni modo, molti sostengono la contro-argomentazione secondo la quale la traduzione è possibile se «… prova a unire le polivalenze o plurivocità o l’accento espressivo dell’originale…, [opponendosi alle] restrizioni della lingua traducente e interroga la struttura del testo estraneo» (Lewis in Venuti 2000:218). La traduzione è una ricodifica, un trasferimento di codici. La sinonimia non è necessariamente possibile, ma una forma di traduzione può comunque essere realizzata. Come nota Frawley, «la traduzione, quando si verifica, deve trasferire qualsiasi significato colto dall’originale in una struttura che tende a imporre un quadro diverso di relazioni discorsive e una costruzione diversa della realtà (Frawley in Venuti 2000:268). Le inadeguatezze della traduzione vanno affrontate con commentari aggiuntivi. La trasformazione, incorporata nella traduzione, deve verificarsi a livello semantico, sintattico e discorsuale.

Come nota Venuti, «la traduzione è un processo che richiede di osservare le similitudini tra lingua e cultura, particolarmente messaggi simili e tecniche formali, ma lo fa perché affronta costantemente differenze. Non può e non deve mai rimuovere queste differenze completamente. Un testo tradotto dev’essere il luogo in cui emergono culture diverse, dove il lettore ottiene una visione di una cultura diversa e di una resistenza.

 

 

A translation strategy based on an aesthetic of discontinuity can best preserve that difference, that otherness, by reminding the reader of the gains and losses in the translation process and the unbridgeable gaps between cultures” (Venuti 1995: 305).

To Venuti, translation has become a battleground between the hegemonic forces – the target culture and language, and the formerly subjugated non-Western world. The nature of translation must be shifted to emphasize the resistance of the latter to the domination of the former. Where does translation in anthropology stand in this ongoing dialogue in Translation Studies? Certainly, anthropology tries to preserve as much as possible of the source culture and language (the object of investigation) in the “translation” or ethnography. This begins in the field, in the recording of information, and continues in the analysis of data and in decisions as to the nature of the ethnographic text which will be produced. In this respect, Venuti’s remarks parallel the position of most anthropologists. On the other hand, the text must be comprehensible to the readership of that text, professional or non-professional. In some ways, writing a popular version of one’s ethnographic text is itself a translation from the ethnographic text, which is oriented toward the professional anthropologist. In the final analysis, it is a matter of the balance or trade-off between the need to be comprehensible to the particular readership of the text and the need to convey as much of the original as is possible. The question at issue is how to achieve this balance. Translations should, in the final analysis, negotiate the linguistic and cultural differences between the source language and culture and that of the target audience for the translation.

 

 

Una strategia traduttiva basata sull’estetica della discontinuità conserva meglio quelle differenze, quella altruità, ricordando al lettore i guadagni e le perdite del processo traduttivo e l’incolmabile gap tra culture» (Venuti 1995:305).

Secondo Venuti, la traduzione è diventata un campo di battaglia tra le forze egemoniche, la lingua e cultura riceventi e il mondo non occidentale un tempo sottomesso. La natura della traduzione va spostata in modo da enfatizzare la resistenza di queste ultime alla dominazione delle prime. Dove si colloca l’antropologia in questa discussione in corso nella scienza della traduzione? Chiaramente, l’antropologia cerca di mantenere il più possibile della cultura e lingua emittente (oggetto dell’investigazione) nella “traduzione” o etnografia. Questo comincia sul campo, registrando informazioni, continua nell’analisi dei dati e nelle decisioni riguardo alla natura del testo etnografico che verrà prodotto. A questo proposito, le osservazioni di Venuti sono simili alla posizione della maggior parte degli antropologi. D’altro canto, il testo dev’essere comprensibile ai lettori di quel testo, professionisti oppure no. In un certo modo, redigere una versione divulgativa di un testo etnografico, quest’ultimo rivolto all’antropologo professionale. In ultima analisi, è una questione di equilibrio o compromesso tra il bisogno di comprensione del testo per certi lettori e il bisogno di riportare il più possibile dell’originale. Il punto in questione è come raggiungere questo equilibrio. In definitiva, la traduzione deve negoziare le differenze linguistiche e culturali tra la lingua e la cultura emittente e quella del pubblico ricevente.

 

 

 

Peeter Torop: Translation as Communication and Auto-communication

Peeter Torop:

Translation as Communication and Auto-communication

La traduzione come comunicazione e autocomunicazione

FRANCESCA MACCIONI

 

 

Fondazione Milano

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

 

 

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Ottobre 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Peeter Torop 2010

© Francesca Maccioni per l’edizione italiana 2011

 


ABSTRACT

 


Sommario

 


 


Translation as Communication and Auto-Communication

 

Peeter Torop

University of Tartu

 

IF ONE WANTS to understand translation, it is necessary to look at all its aspects from the psychological to the ideological. And it is necessary to see the process of translation, on the one hand, as a complex of interlinguistic, intralinguistic, and intersemiotic translations, and on the other hand, as a complex of linguistic, cultural, economic, and ideological activity.

Translators work at the boundaries of languages, cultures, and societies. They position themselves between the poles of specificity and adaptation in accordance with the strategies of their translational behaviour. They either preserve the otherness of the other or they transform the other into self. By the same token, they cease to be simple mediators, because in a semiotic sense they are capable of generating new languages for the description of a foreign language, text, or culture, and of renewing a culture or of having an influence on the dialogic capacity of a culture with other cultures as well as with itself. In this way, translators work not only with natural languages but also with metalanguages, languages of description. One of the missions of the translator is to increase the receptivity and dialogic capability of a culture, and through these also the internal variety of that culture. As mediators between languages, translators are important creators of new metalanguages.

 

La traduzione come comunicazione e autocomunicazione

 

Peeter Torop

Università di Tartu

 

Se si vuole comprendere in pieno la traduzione, è necessario osservare tutti i suoi aspetti, da quelli psicologici a quelli ideologici. Inoltre è necessario osservare il processo traduttivo, da un lato come complesso di traduzioni interlinguistiche, intralinguistiche e intersemiotiche, dall’altro come complesso di attività linguistiche, culturali, economiche e ideologiche.

I traduttori lavorano ai confini delle lingue, delle culture e delle società. Si pongono infatti tra i poli della specificità e dell’adattamento in conformità con le strategie previste dal loro comportamento traduttivo. I traduttori mantengono l’«altruità» dell’altro oppure trasformano l’altrui in proprio. Per la stessa ragione, non possono più essere considerati semplici mediatori, poiché, sotto l’aspetto semiotico, sono in grado di dare vita a nuovi linguaggi per descrivere una lingua, un testo o una cultura altrui e di rinnovare una cultura, o anche influenzare la capacità di dialogo di una cultura con altre culture così come con sé stessa. In questo modo lavorano non solo con le lingue naturali, ma anche con i «metalinguaggi», linguaggi descrittivi. Una delle missioni del traduttore è quella di aumentare la ricettività e la capacità dialogica di una cultura e, con queste, la varietà interna della cultura stessa. In quanto mediatori tra lingue, i traduttori sono importanti creatori di metalinguaggi.

 

The status of translation and the translator have changed from one historical era to the next, and at the beginning of the 21st century we are confronting the need for a complex understanding of them both. At the core of this complex understanding is the universality of translation. The universality of translation comes from its connections with thought processes. As Yurii Lotman affirms, “the elementary act of thinking is translation” (Lotman 2000:143). And he stresses in the same place that “the elementary mechanism of translating is dialogue” (Lotman 2000:143). The irreducibility of dialogue to mere communication in a language common to the dialogue’s participants is very important. For Lotman everything begins with the need for dialogue: “…the need for dialogue, the dialogic situation, precedes both real dialogue and even the existence of a language in which to conduct it” (Lotman 2000:143-144).

The need for dialogue can be viewed either at the level of a comprehensive theoretical understanding or at the level of the deep-seated mechanism of individual behavior. The need for dialogue is tied in a complementary way both to the needs of an audience, which can be studied in the theory of mass communication (McQuail 2000), and to various personal needs (self-understanding, enjoyment, escapism) and social needs (knowledge about the world, self-confidence, stability, self-esteem, the strengthening of connections with family and friends) in the theory of communication (Fiske 2000:20). Any form of identity also depends on the need for dialogue. At the core of personal, national, or social identity is recognition of the boundary between self and other. The boundary not only divides but also unites and thus participates in dialogic processes. To a large extent dialogue within the boundaries depends on dialogue at the boundaries.

Lo status della traduzione e la figura del traduttore sono mutati tra un’epoca e l’altra, così all’inizio del ventunesimo secolo ci ritroviamo ad affrontare il bisogno di una concezione complessa di entrambi. Al centro di questa concezione complessa si trova l’universalità della traduzione. Questa deriva dai legami della traduzione stessa con i processi di pensiero. Come afferma Jurij Lotman: «L’atto elementare di pensiero è traduzione» (Lotman 2000:143). Inoltre nello stesso punto sottolinea che «Il meccanismo elementare del tradurre è dialogo» (Lotman 2000:143). È molto importante capire che il dialogo non è riducibile a mera comunicazione in un linguaggio comune a entrambi i partecipanti al dialogo. Per Lotman tutto parte dalla necessità di dialogare: «la necessità di dialogare, una situazione dialogica, precede sia il dialogo reale sia l’esistenza di una lingua con cui condurlo» (Lotman 2000: 143-144).

La necessità di avere un dialogo può essere considerata a livello di concezione teorica globale oppure a livello di meccanismo radicato di un comportamento individuale. La necessità di avere un dialogo è legata in modo complementare alle necessità di un pubblico, che possono essere studiate all’interno della teoria della comunicazione di massa (McQuail 2000), a diverse necessità personali (comprensione di sé, piacere, evasione dalla realtà) e a necessità sociali (conoscenza del mondo, sicurezza di sé, stabilità, autostima, consolidamento dei rapporti con la famiglia e gli amici) all’interno della teoria della comunicazione (Fiske 2000:20). Qualunque forma di identità dipende inoltre dalla necessità di dialogare. Al centro dell’identità personale, nazionale o sociale si trova la consapevolezza del «confine» tra proprio e altrui. Questo confine oltre a dividere unisce, e in questo modo prende parte ai processi dialogici. In larga misura, il dialogo entro i confini dipende dal dialogo ai confini.

That’s why a contemporary understanding of translation activity presupposes not merely a complex approach – the science of translation also has a need for innovation in the methodology for understanding the translation process.

What does translation process mean from the methodological viewpoint? It is a process that takes place within a translator’s mind, but also within language, culture, and society. A cognitive, linguistic, cultural or social process can take place between minds, languages, cultures and societies, but it can also take place within a single mind, language, culture or society. Inevitably, all these processes have to be described in very different description languages (metalanguages), and it would be very difficult to create disciplinary unity in these analyses and descriptions. Therefore, the translation process has to be brought closer to its beginning and to its end. The process of translation happens between two messages or two texts. In the beginning there is the original and at the end there is the translation. The original and the translation are simultaneously both the beginning and the end of the process as well as the cause and the result of the process. (Torop 2007:353).

Focusing on the process of translation as the main object of research in a science of translation makes it possible to typologize translations as the principle means of transmission of one set of languages-texts-cultures by another. But it does not negate the necessity of also seeing other parameters in the process of translation, in the first place economic and ideological aspects of translation that are in turn associated with professional ethics or with the professional ethics of the translator. The practice of translation is even more complex, and the behaviour of the translator and the quality of his work do not depend solely on his linguistic or literary abilities.

 

Ecco perché una concezione moderna dell’attività traduttiva non presuppone semplicemente un approccio complesso: per comprendere il processo traduttivo, la scienza della traduzione ha bisogno anche di un’innovazione nella metodologia.

Cosa significa «processo traduttivo» da un punto di vista metodologico? È un processo che si svolge nella mente del traduttore, ma non solo, anche all’interno della lingua, della cultura e della società. Un processo cognitivo, linguistico, culturale o sociale può avvenire non solo tra diverse menti, lingue, culture e società, ma anche in una singola mente, lingua, cultura o società. È inevitabile che tutti questi processi debbano essere descritti in linguaggi descrittivi (metalinguaggi) molto diversi tra loro, e creare un’unità disciplinare in queste analisi e descrizioni sarebbe molto difficile. Il processo traduttivo deve essere quindi avvicinato maggiormente al suo inizio e alla sua fine. Il processo traduttivo avviene tra due messaggi o due testi. All’inizio troviamo l’originale e alla fine la traduzione. L’originale e la traduzione sono entrambi simultaneamente l’inizio e la fine del processo, così come la causa e il risultato del processo (Torop 2007:353).

Concentrandosi sul processo traduttivo come oggetto principale di ricerca all’interno della scienza della traduzione, è possibile tipologizzare le traduzioni come mezzo principale per trasmettere da un gruppo di linguaggi-testi-culture a un altro. Ma questo non nega la necessità di osservare altri parametri nel processo traduttivo, primi fra tutti gli aspetti economici e ideologici della traduzione che a loro volta sono collegati all’etica professionale in generale o all’etica professionale del traduttore. L’attività traduttiva è ancora più complessa, inoltre il comportamento del traduttore e la qualità del suo lavoro non dipendono esclusivamente dalle sue capacità linguistiche o letterarie.

The translator is simultaneously a mediator, creator, producer, manager, critic, and sometimes ideologue. All of these roles make up various aspects of cultural behaviour and can be correlated to the entire textual corpus of a culture. An actualization of the various cultural and social roles of the translator reflects the general effort of analysts toward a complex understanding of the phenomenon of translation in the processes of culture.

Each culture develops in its own way, has its own technological environment and its own traditions of analyzing culture texts. A culture’s capacity for analysis reflects its ability to describe and to understand itself. In the process of description and understanding, an important role is played by the multiplicity of texts, by the interrelatedness of communication with metacommunication.

The multiplicity of texts makes it possible to view communication processes as translation processes. But besides immediate textual transformations, the analysis of these transformations — that is, their translation into various metalanguages — has a strong significance in culture. Both in the case of textual transformations and their translations into metalanguages, an important role is performed by the addressees, their ability to recognize the nature of the text at hand, and their readiness to communicate. Just as in translation culture, there is also an infinite retranslation and variation taking place in translation studies. In order to understand different aspects of translation activity, new description languages are constantly being created in translation studies, and the same phenomena are at different times described in different metalanguages. And just as in culture, also in disciplines studying cultural phenomena, variance has its limits and at some point an invariant is needed in order to organize the variance (Sütiste, Torop 2007: 189-190).

 

Il traduttore è simultaneamente mediatore, ideatore, produttore, amministratore, critico e in certi casi ideologo. Tutti questi ruoli costituiscono diversi aspetti del comportamento culturale e possono essere correlati all’intero corpus testuale di una cultura. L’attualizzazione dei diversi ruoli culturali e sociali del traduttore rispecchia lo sforzo generale da parte degli analisti di comprendere in modo complesso il fenomeno della traduzione all’interno dei processi culturali.

Ogni cultura si sviluppa in un modo tutto suo, ha il suo ambiente tecnologico e le sue tradizioni nell’analizzare testi culturali. La capacità di analisi di una cultura rispecchia la sua capacità di descrivere e comprendere sé stessa. Nel processo descrittivo e di comprensione assume un ruolo importante la molteplicità dei testi, la correlazione della comunicazione con la «metacomunicazione».

La molteplicità dei testi permette di considerare i processi comunicativi processi traduttivi. Ma oltre a trasformazioni testuali immediate, l’analisi di queste trasformazioni (cioè la loro traduzione in metalinguaggi diversi) è particolarmente significativa all’interno della cultura. Sia nel caso di trasformazioni testuali, sia nelle loro traduzioni in metalinguaggi, i destinatari hanno una grande importanza, così come la loro capacità di riconoscere la natura del testo in questione e quanto sono pronti a comunicare. Come nella cultura traduttiva, anche nella scienza della traduzione troviamo una ritraduzione e una variazione infinita. Per comprendere i vari aspetti dell’attività traduttiva nella scienza della traduzione vengono costantemente creati nuovi linguaggi descrittivi, e gli stessi fenomeni vengono descritti in momenti diversi con metalinguaggi diversi. E come nella cultura, anche nelle discipline che si occupano dei fenomeni culturali, la varianza ha i suoi limiti e a un certo punto è necessaria un’invariante per organizzare la varianza (Sütiste, Torop 2007: 189-190).

 

 

Diversity and methodology

When the diversity of actual translation activity takes a form different from the diversity of scientific approaches to that activity, then one can speak of a methodological crisis, of the hybridization or creolization of scientific languages. A new, comprehensive approach in the science can provide one way out of the given situation. Another way is a review of the history of the discipline and a search there for the lost unity within that discipline. The works of Roman Jacobson provide such a critical point for the history of translation science. Although Jacobson wrote about translation, he was not a translation theorist. He saw translation within the framework of his understanding of the processes of communication, and without this background it is difficult to understand correctly his specific meditations on translation activity.

Jacobson first demonstrated his model of verbal communication in 1956 in his article, “Metalanguage as a linguistic problem”:

 

Diversità e metodologia

Quando la diversità dell’attività traduttiva effettiva assume una forma differente dalla diversità degli approcci scientifici riguardo all’attività stessa, si può parlare di crisi metodologica, dell’ibridazione o creolizzazione dei linguaggi scientifici. Un approccio nuovo e completo nella scienza può costituire una via d’uscita dalla situazione. Oppure si può ripassare in rassegna la storia della disciplina o ricercarvi l’unità perduta all’interno della disciplina. Le opere di Roman Jakobson offrono uno spunto nella storia della scienza della traduzione. Sebbene Jakobson abbia scritto sulla traduzione, non era un teorico della traduzione. Egli considerava la traduzione nell’ambito della sua concezione dei processi comunicativi, e senza questo contesto è difficile capire correttamente le sue riflessioni specifiche sull’attività traduttiva.

Jakobson illustrò per la prima volta il suo modello di comunicazione verbale nel 1956 nel suo articolo «Metalanguage as a linguistic problem» [Metalinguaggio come problema linguistico]:

 

 

On the one hand, the given model ties its components to various functions of language: “Language must be investigated in all the variety of its functions” (Jakobson 1956:113). On the other hand, along with the various functions of language, it is also important for Jakobson to distinguish two principle levels of language – the level of objective language and the level of metalanguage: “On these two different levels of language the same verbal stock may be used; thus we may speak in English (as metalanguage) about English (as object language) and interpret English words and sentences by means of English synonyms and circumlocutions” (Jakobson 1956:117).

The actualization of the concept of metalanguage as “an innermost linguistic problem” (Jakobson 1956:121), which emerges from Jakobson’s logic, is important for an understanding of the psychological as well as linguistic and cultural aspects of the functionality of language.

He begins from the metalinguistic aspect of the linguistic development of a child: “Metalanguage is the vital factor of any verbal development. The interpretation of one linguistic sign through other, in some respects homogeneous, signs of the same language, is a metalingual operation which plays an essential role in child language learning” (Jakobson 1956:120). But the development of a child corresponds to the development of an entire culture. For the development of a culture, it is important that the natural language of this culture satisfy all the demands for the description of foreign or of new phenomena and by the same token ensure not only the dialogic capacity but also the creativity and integrity of the culture, its cultural identity: “A constant recourse to metalanguage is indispensable both for a creative assimilation of the mother tongue and for its final mastery” (Jakobson 1956:121).

Da un lato il modello dato collega i suoi componenti a varie funzioni del linguaggio: «Il linguaggio deve essere indagato in tutta la varietà delle sue funzioni» (Jakobson 1956:113). Dall’altro però insieme alle varie funzioni del linguaggio è importante per Jakobson distinguere due livelli principali di linguaggio, ossia il «livello del linguaggio oggettivo» e il «livello del metalinguaggio»: «A questi due diversi livelli di linguaggio si userebbe lo stesso bagaglio verbale; in questo modo parleremmo in inglese (come metalinguaggio) dell’inglese (come linguaggio oggetto) e interpreteremmo le parole e le frasi inglesi per mezzo dei sinonimi e delle circonlocuzioni inglesi» (Jakobson 1956:117).

L’attualizzazione del concetto di metalinguaggio come «un problema linguistico profondissimo» (Jakobson 1956:121), che emerge dalla logica di Jakobson è importante per comprendere gli aspetti psicologici, linguistici e culturali della funzionalità della lingua.

Egli parte dall’aspetto metalinguistico dello sviluppo linguistico di un bambino: «Il metalinguaggio è il fattore vitale di ogni sviluppo verbale. L’interpretazione di un segno linguistico attraverso altri segni, che per certi versi sono omogenei, dello stesso linguaggio, è un’operazione metalinguistica che assume un ruolo essenziale nell’apprendimento linguistico di un bambino» (Jakobson 1956:120). Ma lo sviluppo di un bambino corrisponde allo sviluppo di un’intera cultura. Per quanto riguarda lo sviluppo di una cultura, è importante che la lingua naturale di questa cultura soddisfi tutte le richieste di descrizione di fenomeni estranei o nuovi e nello stesso tempo non assicuri solo la capacità dialogica, ma anche la creatività e l’integrità della cultura, la sua identità culturale: «Un ricorso costante al metalinguaggio è indispensabile sia per l’assimilazione creativa della madrelingua, sia per la padronanza» (Jakobson 1956:121).

In this way, the above-mentioned role of translators as creators of new metalanguages (languages of description and languages of dialogue) is vitally important for a culture. The very concept of metalanguage turns out to be important both at the level of scientific languages and at the level of everyday communication.

If in his 1956 article Jakobson associates the introduction of the concept of metalanguage with the name of Alfred Tarski, then in his article “On linguistic aspects of translation,” published in 1959, he introduces a new aspect and points to the name of Niels Bohr, who brought out the complementarity of an object-language and its metalanguages. From complementarity comes a more flexible approach to the translatable, since natural language manifests itself as a universal means of communication: “All cognitive experience and its classification is conveyable in any existing language” (Jakobson 1959:263). Complementarity also extends to the definition of types of translation. The concept of interpretation becomes generalized: “We distinguish three ways of interpreting a verbal sign: it may be translated into other signs of the same language, into another language, or into another nonverbal system of symbols” (Jakobson 1959:261). As a result, it is possible to speak of three types of translation: intralingual translation or rewording, interlingual translation or translation proper and intersemiotic translation or transmutation.

If the matter concerns poetic translation or translation of the untranslatable, then Jakobson applies the concept of transposition:

Only creative transposition is possible: either intralingual transposition – from one poetic shape into another, or interlingual transposition – from one language into another, or finally intersemiotic

Il sopracitato ruolo dei traduttori di ideatori di metalinguaggi (linguaggi descrittivi e linguaggi dialogici) è dunque fondamentale per una cultura. Il concetto stesso di «metalinguaggio» risulta importante sia per i linguaggi scientifici, sia per la comunicazione di tutti i giorni.

Se nel suo articolo del 1956 Jakobson associa l’introduzione del concetto di «metalinguaggio» con Alfred Tarski, nel suo articolo «On linguistic aspects of translation» [Gli aspetti linguistici della traduzione], pubblicato nel 1959, introduce un nuovo aspetto e fa riferimento a Niels Bohr, il quale portò alla luce la «complementarità» di un linguaggio oggettivo e dei suoi metalinguaggi. Dalla complementarità proviene un approccio al traducibile più flessibile, dato che il linguaggio naturale si manifesta come mezzo di comunicazione universale: «Tutta l’esperienza cognitiva e la sua classificazione sono trasferibili in ogni linguaggio esistente» (Jakobson 1959:263). La complementarità si estende inoltre alla definizione dei tipi di traduzione. Il concetto di «interpretazione» diventa generalizzato: «Distinguiamo tre modi per interpretare un segno verbale: può essere tradotto in altri segni dello stesso linguaggio, in un altro linguaggio o in un altro sistema di simboli non verbale» (Jakobson 1959:261). Di conseguenza è possibile parlare di tre tipi di traduzione: traduzione «intralinguistica» o «riformulazione», traduzione «interlinguistica» o «traduzione vera e propria» e traduzione «intersemiotica» o «transmutazione».

Se si parla di traduzione poetica o traduzione dell’intraducibile, Jakobson aggiunge il concetto di trasposizione:

È possibile solo la trasposizione creativa: la «trasposizione intralinguistica» (da una forma poetica a un’altra) o la «trasposizione interlinguistica» (da una lingua all’altra), o infine la «trasposizione intersemiotica»

 

transposition – from one system of signs into another, e.g., from verbal art into music, dance, cinema, or painting (Jakobson 1959:266).

In sum, alongside objective language and metalanguage arises the complemetary pair – interpretation and transposition. This complementarity leads to still another – the complementarity of code-units and of the message as a whole. Jakobson stresses that in inter- and intra-linguistic translation it is usually not possible to speak of a full equivalence between code-units, “while messages may serve as adequate interpretations of alien code-units or messages” (Jakobson 1959:261). The translator works simultaneously with the code-units of languages and with complete messages, with a plan of expression and content, with object- and meta-language, and the division not only into three types of translation but also into two simultaneous translation processes comes precisely from an understanding of this:

…translation from one language into another substitutes messages in one language not for separate code-units but for entire messages in some other language. Such a translation is a reported speech: the translator recodes and transmits a message received from another source. Thus translation involves two equivalent messages in two different codes. (Jakobson 1959:261-262)

 

Dominant and integration

The (chrono)logical expression of the next stage in Jakobson’s thought is the 1968 article

 

(da un sistema di segni a un altro, per esempio dall’arte verbale alla musica, alla danza, al cinema o alla pittura) (Jakobson 1959:266).

Insomma, accanto al linguaggio oggetto e al metalinguaggio si presenta la coppia complementare: interpretazione e trasposizione. Questa complementarità porta a un’altra complementarità: complementarità delle unità di codice e del messaggio nel suo insieme. Jakobson sottolinea che solitamente nella traduzione inter- e intralinguistica non è possibile parlare di piena equivalenza tra le unità di codice, «mentre i messaggi potrebbero servire come interpretazioni adeguate delle unità di codice e di messaggi estranei» (Jakobson 1959:261). Il traduttore lavora simultaneamente con le unità di codice dei linguaggi e con i messaggi completi, con un piano dell’espressione e del contenuto, con il metalinguaggio e il linguaggio oggetto. Inoltre la suddivisione non solo in tre tipi di traduzione, bensì anche in due processi traduttivi simultanei deriva precisamente da una comprensione di tutto ciò:

[…] la traduzione da una lingua all’altra sostituisce i messaggi in un linguaggio non a unità di codice distinte, ma a messaggi interi in un’altra lingua. Una traduzione di questo tipo è un discorso riferito: il traduttore ricodifica e trasmette un messaggio ricevuto da un’altra fonte. In questo modo la traduzione coinvolge due messaggi equivalenti in due codici diversi (Jakobson 1959:261-262).

Dominante e integrazione

L’espressione (crono)logica della fase successiva nel pensiero di Jakobson è l’articolo del 1968

 

 

“Language in relation to other communication systems”, two points from which we would like to distinguish in the context of the present article. One of these aspects traces back to an old talk given in 1935 and first published in 1971 – “The dominant”. The concept of the dominant is significant for the description of translation practice, since underlying various descriptions of the method of a translation or a translator is a determination of that element or level of the text considered most important by the translator. The type of textual integrity also depends on the selection of the dominant for translation, since the authorial dominant underlies the integration of elements in the entire text. Jakobson sums up the research in the following way: “The dominant may be defined as the focusing component of a work of art: it rules, determines, and transforms the remaining components. It is the dominant which guarantees the integrity of the structure” (Jakobson 1935:751).

From the point of view of contemporary translation practice and of theoretical or critical thought on this practice, the distinction underlined by Jakobson between communication and information is significant: “…we must consistently take into account the decisive difference between communication, which implies a real or alleged addresser, and  information whose source cannot be viewed as an addresser by the interpreter of the indications obtained” (Jakobson 1968:703). Thus, translations that deprive the original of authorship, age, nationality, or genre become simply information about the original. The same can be observed on the narrative level, when various points of view in the text are not distinguished, or are mixed-up or reconceptualized (for details see: Levenston, Sonnenschein 1986).

 

«Language in relation to other communication systems» [La lingua in relazione ad altri sistemi di comunicazione], due punti che vorremmo distinguere nel contesto di questo articolo. Uno di questi aspetti risale a una relazione avvenuta nel lontano 1935 e pubblicata per la prima volta nel 1971: «La dominante». Il concetto di «dominante» è significativo per descrivere la pratica traduttiva, dato che alla base di diverse descrizioni del metodo di una traduzione o di un traduttore c’è la determinazione di quell’elemento o livello del testo considerati maggiormente importanti dal traduttore. Il tipo di integrità testuale dipende inoltre dalla selezione della dominante per la traduzione, dato che la dominante autoriale sta alla base dell’integrazione degli elementi di tutto il testo. Jakobson riassume questa ricerca come segue: «La dominante può essere definita come la componente sulla quale si focalizza un’opera d’arte: comanda, determina e trasforma le altre componenti. È la dominante a garantire l’integrità della struttura» (Jakobson 1935:751).

Dal punto di vista della pratica traduttiva contemporanea e del pensiero teorico e critico di questa pratica, la distinzione tra comunicazione e informazione messa in evidenza da Jakobson è significativa: «[…] di conseguenza dobbiamo tener conto della determinante differenza tra comunicazione, che indica un mittente reale o presunto, e informazione, la cui fonte non può essere considerata un mittente da parte dell’interprete delle indicazioni ottenute» (Jakobson 1968:703). Perciò le traduzioni che privano l’originale di autorialità, età, nazionalità o genere diventano solo informazioni riguardo all’originale. La stessa cosa vale a livello narrativo, quando diversi punti di vista nel testo non vengono distinti o vengono addirittura mischiati o riconcettualizzati (per informazioni più dettagliate vedere: Levenston, Sonnenschein 1986).

 

The second aspect of the above-mentioned article flows from the first. The integrating dominant presupposes the existence of a hierarchy in the structure of the message (text). But the process of communication is also viewed hierarchically by Jakobson, so that a comprehension of his model of communication has to rest not so much on a statistical, theoretical basis as on a dynamic, empirical one. Jakobson in his article calls for a consideration of the specificity of each act of communication and correspondingly sees in the act of communication an hierarchy not only of linguistic but also of semiotic functions:

The cardinal functions of language – referential, emotive, conative, phatic, poetic, and metalingual – and their different hierarchy in the diverse types of messages have been outlined and repeatedly discussed. This pragmatic approach to language must lead mutatis mutandis to an analogous study of the other semiotic systems: with which of these or other functions are they endowed, in what combinations and in what hierarchical order? (Jakobson 1968:703).

The linguistic and semiotic aspects of communication are interrelated. An integrated science of communication in Jakobson’s opinion contains three disciplinary levels:

1) Study in communication of verbal messages = linguistics; 2) study in communication of any messages = semiotics (communication of verbal messages implied); 3) study in communication = social anthropology jointly with economics (communication of messages implied) (Jakobson 1967:666).

 

 

Il secondo aspetto dell’articolo sopracitato proviene dal primo. La dominante integrante presuppone l’esistenza di una gerarchia all’interno della struttura del messaggio (testo). Ma il processo di comunicazione viene anche considerato in modo gerarchico da Jakobson, così che una comprensione del suo modello di comunicazione deve basarsi non tanto su una base statistica e teorica, quanto su una base dinamica ed empirica. Nell’articolo Jakobson chiede di considerare la specificità di ogni atto comunicativo e di conseguenza vede nell’atto comunicativo una gerarchia di funzioni non solo linguistiche, ma anche semiotiche:

Le funzioni cardinali della lingua (referenziale, emotiva, conativa, fàtica, poetica e metalinguistica) e la loro differente gerarchia nei diversi tipi di messaggio sono state delineate e vengono ripetutamente discusse. Questo approccio pragmatico nei confronti della lingua deve portare mutatis mutandis a uno studio analogo degli altri sistemi semiotici: di quali di queste o altre funzioni sono dotati, in quali combinazioni e in quale ordine gerarchico? (Jakobson 1968:703).

 

Gli aspetti linguistici e semiotici della comunicazione sono correlati tra loro. Secondo Jakobson una scienza della comunicazione integrata comprende tre livelli disciplinari:

1)    Studio della comunicazione di messaggi verbali: linguistica;

2)    Studio della comunicazione di ogni messaggio: semiotica (compresa la comunicazione di messaggi verbali);

3)    Studio della comunicazione: antropologia sociale congiuntamente con economia (compresa la comunicazione di messaggi) (Jakobson 1967:666).

Jakobson in another article distinguishes only two sciences from a semantic point of view – a science of verbal signs or linguistics and a science of all possible signs or semiotics (Jakobson 1974:99). Against this background, it is important to remember the universality of the concept of translation. Many processes in the sphere of contiguity between linguistics and semiotics become prominent precisely in translation. We find a direct comparison in the article, “Linguistics and communication theory”: “The semiotic definition of a symbols meaning as its translation into other symbols finds an effectual application in the linguistic testing of intra- and interlingual translation” (Jakobson 1961:578). But very often Jakobson makes use of the concepts of verbalized, non-verbalized, and verbalizable, whereby verbalizable signifies translatability into verbal messages (see for example Jakobson 1967:663).

 

Models of communication and auto-communication

In respect to the last important aspect for the understanding of the concept of translation in Jakobson’s work, it is necessary to point to the interrelation of internal and external communication:

When speaking of language as a communicative tool, one must remember that its primary role, interpersonal communication, which bridges space, is supplemented by a no less important function which may be characterized as intrapersonal communication. /…/ While interpersonal communication bridges space, intrapersonal communication proves to be the chief vehicle for bridging time (Jakobson 1974:98).

Linguistically, this means that problems of interlinguistic and intralinguistic translation largely coincide; psychologically, it means that

In un altro articolo Jakobson distingue solo due discipline da un punto di vista semantico: una scienza di segni verbali o linguistica e una scienza di tutti i segni possibili o semiotica (Jakobson 1974:99). Su questo sfondo è importante ricordare l’universalità del concetto di «traduzione». Molti processi nella sfera della contiguità tra linguistica e semiotica assumono importanza proprio nella traduzione. Troviamo un confronto diretto nell’articolo, «Linguistics and communication theory» [Linguistica e teoria della comunicazione]: «La definizione semiotica del significato di un simbolo come sua traduzione in altri simboli trova applicazione efficace nel test linguistico della traduzione intra- e interlinguistica» (Jakobson 1961:578). Ma molto spesso Jakobson utilizza i concetti di «verbalizzato», «non verbalizzato» e «verbalizzabile», dove «verbalizzabile» significa traducibilità in messaggi verbali (vedi per esempio Jakobson 1967:663).

 

Modelli di comunicazione e autocomunicazione

Per quanto riguarda l’ultimo aspetto importante per comprendere il concetto di «traduzione» nell’opera di Jakobson, è necessario soffermarsi sull’interrelazione della comunicazione interna ed esterna:

Se si parla di lingua come mezzo comunicativo, bisogna ricordarsi che il suo ruolo primario, «comunicazione interpersonale», che crea un ponte tra gli spazi, è potenziato da una funzione non meno importante, che può essere classificata come «comunicazione intrapersonale». […] Mentre la comunicazione interpersonale crea un ponte tra gli spazi, la comunicazione intrapersonale dimostra di essere il maggior veicolo per creare un ponte nel tempo (Jakobson 1974:98).

Dal punto di vista linguistico, questo significa che i problemi legati alla traduzione inter- e intralinguistica perlopiù coincidono; dal punto di

the mechanisms of communication and auto-communication, or dialogue with other and dialogue with self, also largely coincide. And in the context of Jakobson it follows that we stress once again the homogeneity between internal and external in relation to the person or culture.

It is eminently logical that Jakobson’s model of communication has inspired researchers to apply it even to those fields of communication about which Jakobson himself wrote more rarely and with which social anthropologists and economists, in his opinion, should be occupied. The transformation of Jakobson’s model proposed by I. Even-Zohar appears thus (Even-Zohar 1990:31).

 

 

On the one hand, Even-Zohar was one of the first translation theorists to introduce the concept of the market into the problematic of translation. Along with the market, the publisher as the consumer or as the representative of the consumer of a translation becomes important.

 

vista psicologico significa che anche i meccanismi di comunicazione e autocomunicazione, o dialogo con altri e dialogo con sé stessi, perlopiù coincidono. Quindi nel contesto di Jakobson mettiamo in evidenza ancora una volta l’omogeneità tra interno ed esterno in relazione alla persona o alla cultura.

È quindi logico che il modello di comunicazione di Jakobson abbia ispirato gli studiosi ad applicarlo anche in quegli ambiti della comunicazione sui quali Jakobson stesso non si è soffermato molto e dei quali, secondo lui, dovrebbero occuparsi gli antropologi sociali e gli economisti. La trasformazione del modello di Jakobson proposta da I. Even-Zohar appare come segue (Even-Zohar 1990:31):

CONTESTO

ISTITUZIONE

MITTENTE

PRODUTTORE

AUTORE

DESTINATARIO

CONSUMATORE

LETTORE

MESSAGGIO

PRODOTTO

 

CONTATTO

MERCATO

CODICE

REPERTORIO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da un lato, Even-Zohar è stato uno dei primi teorici della traduzione a introdurre il concetto di «mercato» nella problematica della traduzione. Insieme al mercato, assume una grande importanza l’editore come consumatore o come rappresentante del consumatore di una traduzione.

 

The translation itself from an economic point of view becomes a saleable commodity, and the price of this commodity will play a role in its consumption. But the translation as a new text for the receiving culture is often in need of advertisement, or presentation to future readers. This means that along with the new book as a verbal text, various forms of advertisement also enter the culture. In this way, the verbal text receives its visual or audio-visual image. P.A. Fuertes-Olivera and his co-authors also attempt to understand advertising communication on the basis of Jakobson’s model (Fuertes-Olivera a.o. 2001:1293):

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Both models fit Even-Zohar’s assertion that if Jakobson’s model arises from the speech event, then his own version takes as its basis the socio-semiotic (cultural) event (Even-Zohar 1997:19). Above we showed the special significance for Jakobson of the metalinguistic function.

 

La traduzione stessa da un punto di vista economico diventa un prodotto vendibile, e il prezzo di questo prodotto avrà un ruolo nel suo consumo. Ma la traduzione considerata come testo nuovo per la cultura ricevente ha spesso bisogno di pubblicità o di essere presentata ai lettori futuri. Questo significa che insieme al libro nuovo considerato come testo verbale, entrano nella cultura anche diverse forme di pubblicità. In questo modo il testo verbale riceve la sua immagine visiva e audiovisiva. Anche P. A. Fuertes-Olivera e i suoi coautori cercano di comprendere la comunicazione pubblicitaria sulla base del modello di Jakobson (Fuertes-Olivera 2001:1293):

CONTESTO

REALTÀ

PRODOTTO/SERVIZIO

MITTENTE

PUBBLICITARIO

MESSAGGIO

TESTO

PUBBLICITÀA’ NELL’AMBITO DI UNA CAMPAGNA PUBBLICITARIA

DESTINATARIO

TARGET

PUBBLICO

CONTATTO

CANALE

SCRITTO/ORALE/DIGITALE

CODICE

LINGUAGGIO PUBBLICITARIO + IMMAGINI/SUONI ecc.eccetera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Entrambi i modelli corrispondono all’affermazione di Even-Zohar per cui se il modello di Jakobson deriva dall’evento discorsuale, la sua versione ha come base l’evento sociosemiotico (Even-Zohar 1997:19). Sopra abbiamo mostrato la significatività particolare per Jakobson della funzione metalinguistica.

It’s characteristic that also for Even-Zohar the main function is tied to a code, although he has replaced metalanguage with the concept of repertoire. Repertoire depends on both the institution and the market. That’s why the concepts of addresser and addressee are conjoined in the concept of repertoire: “There may be a repertoire for being a ‘writer’, another for being a ‘reader’, and yet another for ‘behaving as one should expect from a literary agent’, and so on” (Even-Zohar 1990:40). In a revised version, the author distinguishes the concepts of active and passive repertoire: “‘Repertoire’ designates the aggregate of rules and materials which govern both the making and handling, or production and consumption, of any given product. /…/In the case of making, or producing, we can speak of an active operation of a repertoire, or, as an abbreviated term, an active repertoire. In the case of handling, or consuming, on the other hand, we can speak of a passive operation, or a passive repertoire. The terms suggested here are for convenience only; the repertoire is neither ‘active’ nor ‘passive’, but can be used in different modes in two different circumstances, as described above, namely, in an event where a person produces something, in contradistinction to an event where a person ‘deciphers’ what others produce” (Even-Zohar 1997:20).

 

Ideology, economy and translation

  In the repertoire, economic and ideological problems are conjoined, and against the background of Jakobson’s model this means that economic and ideological metalanguages can become actualized in the description of translation. In this case it’s appropriate to speak of the inter-discursivity of metalanguages.

È caratteristico il fatto che anche per Even-Zohar la funzione principale sia legata a un codice, sebbene abbia sostituito il metalinguaggio con il concetto di «repertorio». Il repertorio dipende sia dall’istituzione, sia dal mercato. È il motivo per cui i concetti di «mittente» e «destinatario» sono congiunti nel concetto di «repertorio»: «Può esserci un repertorio per essere un autore, un altro per essere un lettore, e ancora un altro per comportarsi come un altro si aspetta da un agente editoriale e così via» (Even-Zohar 1990:40). In una revisione l’autore distingue i concetti di «repertorio attivo» e «passivo»: «”Repertorio” significa l’insieme di regole e materiali che governano sia il fare che il manipolare, o la produzione e il consumo, di qualsiasi prodotto. […] Nel caso del fare, o del produrre, possiamo parlare di operazione attiva di un repertorio, o, in breve, di repertorio attivo. Nel caso del manipolare, o del consumare, possiamo parlare di operazione passiva, o repertorio passivo. I termini indicati vengono utilizzati solo per comodità; il repertorio non può essere né attivo né passivo, ma può essere utilizzato in modi diversi in due circostanze diverse, come descritto sopra, cioè in un evento in cui una persona produce qualcosa, rispetto a un evento in cui una persona “decifra” quello che producono altri» (Even-Zohar 1997:20).

 

Ideologia, economia e traduzione

All’interno del repertorio, i problemi economici e ideologici sono congiunti, e sullo sfondo del modello di Jakobson ciò significa che nella descrizione della traduzione possono essere attualizzati i metalinguaggi economici e ideologici. In questo caso è giusto parlare di inter-discorsività dei metalinguaggi.

 

From the application of this model for the description of advertising communication comes the problem of the intersemiotic nature of metalanguages, since a verbal text can enter a culture and exist there with the support of non-verbal elements of the texts.

There also exists an interesting attempt to unite these two aspects in the concepts of the exogenic and endogenic parameters of translation (les paramètres exogènes, les paramètres endogènes). Entering into the composition of exogenic parameters are economic (la paramètre économique), cultural (la paramètre culturel), and ideological (la paramètre idéologique) parameters (Guidère 2000:11-30). The composition of endogenic parameters is also three-fold: “d́abord, la différenciation du texte publicitaire au niveau scripturaire; ensuite, sa particularité sur le plan iconographique; enfin, sa spécificité proprement sémiotique” (Guidère 2000:32). The possibility of differentiating three levels of culture – lexiculture (la “lexiculture”), iconoculture, (ĺ“iconoculture”) and ideoculture (ĺ“idéoculture”) – also emerges from the given approach (Guidère 2000:267-276).

Problems of ideology and economics are difficult to view in isolation, since the concept of the market already combines in itself aspects of both the local and the global market (Apter 2001). The confluence of the economic and the ideological is especially characteristic of mass literature. For example, researchers into the translation of mass literature have introduced among other things the concepts of collective translation (team translation), standardization (of theme, language, style, size, weight), the ignoring of authorial ideosyncracies (“Commercial production ignores the so-called sacredness of the author”), commercial calculations (definite market, deadlines, no revision), selection of texts

Dall’applicazione di questo modello per descrivere la comunicazione pubblicitaria deriva il problema della natura intersemiotica dei metalinguaggi, dato che un testo verbale può entrare in una cultura e continuare a esistere in quell’ambito con il sostegno degli elementi non verbali dei testi.

Esiste inoltre un tentativo interessante di unire questi due aspetti nei concetti di «parametri traduttivi esogeni» ed «endogeni» (les paramètres exogènes, les paramètres endogènes). Entrando nella loro composizione, i parametri esogeni sono economici (la paramètre économique), culturali (la paramètre culturel) e ideologici (la paramètre idéologique) (Guidère 2000:11 -30). Anche la composizione dei parametri endogeni è triplice: «dabord, la différenciation du texte publicitaire au niveau scripturaire; ensuite, sa particularité sur le plan iconographique; enfin, sa spécificité proprement sémiotique» (Guidère 2000:32). Emerge dall’approccio descritto anche la possibilità di distinguere tre livelli di cultura, ovvero lessicultura (la «lexiculture»), iconocultura («iconoculture») e idiocultura («idéoculture»), (Guidère 2000:267-276).

I problemi legati all’ideologia e all’economia sono difficili da prendere in considerazione singolarmente, dato che il concetto di «mercato» comprende già aspetti sia del mercato locale sia del mercato globale (Apter 2001). La confluenza dell’economico e dell’ideologico caratterizza in particolare la letteratura di massa. Per esempio, gli studiosi che si occupano della traduzione della letteratura di massa hanno introdotto tra le altre cose i concetti di «traduzione collettiva» (team translation), «standardizzazione» (del tema, del linguaggio, dello stile, della grandezza, del peso), la decisione di ignorare l’idiosincrasie autoriali («La produzione commerciale ignora la cosiddetta sacralità dell’autore»), i calcoli commerciali (mercato definito, scadenze, nessuna revisione), selezione dei

(reuseability), the repeated publication of old translations (the recycling strategy), marketing strategies (special translation as a euphemism for “contains many cuts”), and pseudo-translations (Malmkjær, Milton, Smith 2000:244-247).

Along with neutralized texts in response to the pragmatic laws of mass culture, there are also ideological laws at work in culture. One example of the manifestation of such laws is the emergence within a repertoire (or market) of a particular local culture and a global (mass) culture and the attempt to establish an intermediate market and repertoire, for example, in the European community. M.Cronin associates this with the concepts of micro-cosmopolitanism and of the negentropic translational perspective:

What we would like to propose is precisely a way of thinking about translation and identity which is grounded in cultural negentropy. This negentropic translational perspective is primarily concerned with the ‘emergence of new’ cultural forms through translation practice and the way in which translation contributes to and fosters the persistence and development of diversity (Cronin 2006:129).

The ideological problems of translation activity have become important both on an empirical and on a theoretical level (compare: Pérez 2003). The introduction of an author into a culture is already ideologically and politically colored. The channels through which an author enters a culture by means of translation can be divided into two groups – the channel of authorized discourse and the channel of unauthorized discourse. I. Popa includes in authorized discourses “the exportation channel and the promoted writer, the official channel and the authorised writer, and the patrimonial channel and the canonised writer” (Popa 2006:206).

testi (riusabilità), la pubblicazione ripetuta di traduzioni vecchie (la strategia del riciclaggio), strategie di marketing (traduzione speciale come eufemismo per «contiene molti tagli»), e pseudotraduzione (Malmkjaer, Milton, Smith 2000:244-247).

Insieme a testi neutralizzati in risposta alle leggi pragmatiche della cultura di massa, ci sono inoltre leggi ideologiche che operano nella cultura. Un esempio di manifestazione di queste leggi è l’emergere all’interno del repertorio (o mercato) di una particolare cultura locale e di una cultura globale (di massa) e il tentativo di costituire un mercato e repertorio intermedi, per esempio, nella comunità europea. M. Cronin associa questo con i concetti di «microcosmopolitismo» e di «prospettiva traduttiva negentropica»:

Quello che vorremmo proporre è appunto un modo di pensare alla traduzione e all’identità che si basa sulla negentropia culturale. Questa prospettiva traduttiva negentropica si occupa principalmente dell’”emergenza di nuove” forme culturali attraverso la pratica traduttiva e il modo in cui la traduzione favorisce la persistenza e lo sviluppo della diversità e vi contribuisce (Cronin 2006:129).

I problemi ideologici dell’attività traduttiva hanno assunto importanza sia a livello empirico sia a livello teorico (Pérez 2003). L’introduzione di un autore in una cultura ha già una coloritura ideologica e politica. I canali attraverso i quali un autore entra in una cultura mediante la traduzione possono essere divisi in due gruppi: il canale del discorso autorizzato e il canale del discorso non autorizzato. Tra i discorsi autorizzati I. Popa include «il canale di esportazione e lo scrittore promosso, il canale ufficiale e lo scrittore autorizzato, e il canale patrimoniale e lo scrittore canonizzato» (Popa 2006:206).

Adjoined within unauthorized discourses are “the semi-official channel and the banned writer, the parallel channel and the clandestine writer and, finally, the direct and in transit channels and the exiled writer” (Popa 2006:206).

The image of the author has an effect not only on the audience but also on the text of the translation. And in this sense translations do not only convey the original – “translations construct or produce their originals” (Hermans 1999:95). The ideological aspect of translation activity is one of the factors that includes translation within the process of the autocommunication of a culture. T. Hermans has expanded the boundaries of the understanding of the phenomenon of translation with the help of the concept of ideology:

Paradoxically, this ideological slant is precisely what makes translation interesting as a cultural and historical phenomenon. If it were a matter of technical code-switching only, translation would be as a photocopier. Translation is of interest because it offers first-hand evidence of the prejudice of perception. Cultures, communities and groups construe their sense of self in relation to others and by regulating the channels of contact with the outside world. In other words, the normative apparatus which governs the selection, production and reception of translation, together with the way translations are conceptualized at certain moments, provides us with an index of cultural self-definition. It would be only a mild exaggeration to claim that translations tell us more about those who translate and their clients than about the corresponding source texts (Hermans 1999:95).

 

 

Nei discorsi non autorizzati troviamo «il canale semiufficiale e lo scrittore messo al bando, il canale parallelo e lo scrittore clandestino, e infine i canali diretti e in transito e lo scrittore esiliato» (Popa 2006:206).

L’immagine dell’autore ha effetti non solo sul pubblico, ma anche sul testo della traduzione. E in questo senso le traduzioni non solo esprimono l’originale: «le traduzioni costruiscono o producono i loro originali» (Hermans 1999:95). L’aspetto ideologico dell’attività traduttiva è uno dei fattori che inseriscono la traduzione all’interno del processo di autocomunicazione di una cultura. T. Hermans ha esteso i confini della comprensione e del fenomeno traduttivo con l’aiuto del concetto di «ideologia»:

Paradossalmente, il punto di vista ideologico è precisamente ciò che rende la traduzione interessante come fenomeno culturale e storico. Se fosse solo una questione tecnica di code switching, la traduzione sarebbe come una fotocopiatrice. La traduzione è interessante perché offre una prova diretta del pregiudizio della percezione. Le culture, le comunità e i gruppi costruiscono il loro senso di sé in relazione ad altri regolando i canali di contatto con il mondo esterno. In altre parole, l’apparato normativo che regola la selezione, la produzione e la ricezione della traduzione, insieme al modo in cui le traduzioni sono concettualizzate in determinati momenti, ci dà accesso a un indice di autodefinizione culturale. Non sarebbe una così grande esagerazione affermare che le traduzioni ci dicono più di coloro che traducono e dei loro clienti che dei testi originali corrispondenti (Hermans 1999:95).

 

 

 

 

Translation in conflicts

At the beginning of the present article we wrote about the needs that are satisfied in the process of communication. Translation theory has led in its development to problems of conflict, to problems not only of professional ethics but of the mission of the translator. The mentality of conflict-events for the mass-media audience also depends on translators. On the one hand, translators, like journalists, can turn out to be politically engaged, because they work for a concrete channel of the mass-media, and this also means the representative of a particular position. M. Baker affirms on this point: “Contemporary wars have to be sold to international and not just domestic audiences, and translation is a major variable influencing the circulation and legitimation of the narratives that sustain these activities” (Baker 2006:2). On the other hand, the translator, even in the service of a single channel, can have an influence on the mentality of the process of communication, and it is even possible to say that “translation and interpreting are essential for circulating and resisting the narratives that create the intellectual and moral environment for violent conflict in the first place, even though the narratives in question may not directly depict conflict or war” (Baker 2006:2). The role of the translator becomes even more responsible when he is embedded among information sources about events or among journalists who are writing about these events (Palmer 2007:15). In such a situation of translating an original, the motives and interests both of the source and of the translator come into play.

Of course, it’s possible to distinguish between “hard” and “soft” conflicts. Hard conflicts are public events and immediately attract

 

 

La traduzione nei conflitti

All’inizio di questo articolo abbiamo parlato dei bisogni che vengono soddisfatti nel processo di comunicazione. Durante il suo sviluppo la teoria traduttiva ha portato a problemi di conflitto, a problemi non solo di etica professionale ma della missione del traduttore. La mentalità che il pubblico dei mass-media si forma sugli eventi conflittuali dipende anche dai traduttori. Da un lato i traduttori, così come i giornalisti, possono rivelarsi politicamente impegnati, poiché lavorano per un canale dei mass-media, e questo significa anche essere rappresentanti di una posizione particolare. Su questo punto M. Baker afferma: «Le guerre contemporanee devono arrivare all’orecchio di un pubblico internazionale e non solo nazionale, e la traduzione è una variabile importante che influenza la circolazione e la legittimazione delle narrazioni che sostengono queste attività» (Baker 2006:2). Dall’altro lato, il traduttore, anche al servizio di un singolo canale, può esercitare un’influenza sulla mentalità del processo di comunicazione, ed è anche possibile affermare che «la traduzione e l’interpretazione sono essenziali fin dall’inizio per far circolare le narrazioni che danno vita all’ambiente intellettuale e morale intorno a un conflitto violento e resistervi, sebbene le narrazioni in questione possano non rappresentare direttamente un conflitto né una guerra» (Baker 2006:2). Il ruolo del  traduttore diventa ancora più responsabile quando è inserito tra fonti di informazione riguardanti eventi o tra giornalisti che scrivono su questi eventi (Palmer 2007:15). In una situazione del genere in cui si traduce un originale, entrano in gioco le ragioni e gli interessi sia della fonte sia del traduttore.

Naturalmente è possibile distinguere conflitti «aspri» e «tenui». I conflitti aspri sono eventi pubblici e, se solo il traduttore omette informazioni o fa errori, attraggono immediatamente

attention to themselves as a lack of information or an error by the translator. Soft conflicts are more latent and do not provoke stormy reactions in response:

In a translational context, soft conflicts often derive from cultural differences in value systems, social conventions and ways of thinking. If the target culture is dominant, then the translator will have to handle the target text carefully to minimise potential problems of miscomprehension, cultural discomfort or resistance on the part of the receiver. Notwithstanding the fact that the source text may appear to be purpose-free, the translating act and target text are purpose-bound, and any translation must fulfill specific functions. Cultural discomfort, uneasiness or misunderstandings and unnecessary hatred or enmity are to be minimized in the target version (Tang 2007:141).

In soft conflicts, an interweaving of the ideological and psychological aspects of the translation is unavoidable. For an understanding of the specifics of a translation activity, it is necessary to attempt to discriminate those ideological aspects in the text of the translation that trace back to the editorial board of a particular publication or to the editing of the mass-media. And that makes it appropriate to distinguish the method of the translation from the method of the translator. The method of the translation signifies, on the one hand, the general rules or traditions of translation for a particular type of text, the overall understanding of what makes a high-quality or low-quality translation. It includes on the other hand those social, economic, and ideological norms to which the selection of texts and authors for translation is subordinated in a given society, the editing and the publishing of translations.

l’attenzione. I conflitti tenui sono più latenti e non causano reazioni burrascose:

In un contesto traduttivo, i conflitti tenui derivano spesso da differenze culturali tra sistemi di valori, convenzioni sociali e modi di pensare. Se la cultura ricevente è dominante, il traduttore dovrà gestire il metatesto con cautela così da ridurre al minimo eventuali problemi di incomprensione, disagio culturale o resistenza da parte del ricevente. Nonostante  il testo originale possa sembrare all’inizio senza scopo, l’atto traduttivo e il metatesto hanno uno scopo di sicuro, e ogni traduzione deve adempiere a funzioni specifiche. Il disagio culturale, la preoccupazione o le incomprensioni e le ostilità e le avversioni non necessarie nel metatesto vanno ridotte al minimo (Tang 2007:141).

 

Nei conflitti tenui è inevitabile che s’intreccino gli aspetti ideologici e psicologici della traduzione. Per capire i dettagli di un’attività traduttiva, è necessario tentare di distinguere quegli aspetti ideologici nel testo della traduzione dovuti a scelte redazionali o alla direzione della testata. Questo ci porta a distinguere il metodo della traduzione dal metodo del traduttore. Il metodo della traduzione significa, da un lato, le regole o le tradizioni generali della traduzione per un particolare tipo di testo, la concezione generale di cosa migliora o peggiora la qualità della traduzione. Dall’altro lato ciò comprende quelle norme sociali, economiche e ideologiche alle quali all’interno di una certa società sottostanno la selezione dei testi e degli autori per la traduzione e la revisione e la pubblicazione delle traduzioni.

 

 

The method of the translation and the method of the translator can turn out to be in conflict, but they may also come together when the translator works above all for a customer and not for the author of the original.

For example, depending on the motives of the translator or publisher, one and the same translation text may enter into various repertoires and have various artistic or ideological dominants. D. Robinson writes, for example, about translation in a post-colonial context:

Translation plays three sequential but overlapping roles in postcolonial studies: as a channel of colonization, parallel to and connected with education and the overt or covert control of markets and institutions; as a lightning-rod for cultural inequalities continuing after the collapse of colonialism; and as a channel of decolonization. Thus tabulated, three roles mark separate stages in a utopian narrative that informs much of postcolonial studies: from a colonial past taken as harmful; through a complex and conflicted present in which nothing seems easy or clear-cut; to a decolonized future taken as beneficial (Robinson 1997:31).

In this way, the mentality of a certain historical era is realized in the translation and may depend both on the translator and on the publisher. It’s also possible that the type of publication (book jacket, preface or postscript, illustrations, etc.) is found to be in contradiction with the method of the translator, and in this case it is necessary to speak of the translator’s ambivalence.

It is necessary to speak of ambivalence as well in connection with the prestige of the translator’s profession in the contemporary world. The American view of the translator’s profession is intriguing:

 

Il metodo della traduzione e il metodo del traduttore possono risultare in conflitto, ma possono anche unirsi nel momento in cui il traduttore lavora soprattutto per il cliente e non per l’autore dell’originale.

Per esempio, in base alle ragioni del traduttore o dell’editore, uno stesso testo tradotto può entrare in repertori diversi e avere dominanti artistiche e ideologiche diverse. D. Robinson per esempio scrive sulla traduzione in un contesto postcoloniale:

La traduzione svolge tre ruoli sequenziali, ma anche sovrapposti all’interno dei postcolonial studies: un ruolo di canale della colonizzazione, parallelo e connesso all’istruzione e al controllo aperto o segreto dei mercati e delle istituzioni; un ruolo di parafulmine per disuguaglianze culturali che continuano dopo la fine del colonialismo; infine un ruolo di canale di decolonizzazione. Così catalogati, i tre ruoli segnano fasi distinte di una narrazione utopistica che sta alla base dei postcolonial studies; da un passato coloniale considerato dannoso; attraverso un presente complesso e in conflitto nel quale niente sembra semplice o chiaro; a un futuro decolonizzato considerato positivo (Robinson 1997:31).

La mentalità di una particolare età storica viene dunque realizzata nella traduzione e può dipendere sia dal traduttore sia dall’editore. È possibile anche che il tipo di pubblicazione (sovracopertina, prefazione o postfazione, illustrazioni eccetera) sia in contraddizione con il metodo del traduttore, e in questo caso si può parlare di «ambivalenza del traduttore».

Si può parlare di ambivalenza anche in connessione con il prestigio della professione del traduttore nel mondo contemporaneo. È molto interessante la concezione statunitente della professione del traduttore:

 

 

[…] translation professionals have long had an image problem. The portrait of translators derived from most reference books is not flattering – you might find that the Italians coined the catch-phrase traduttore, traditore (translator, traitor). Purchasers of language services are often unaware of the skill needed to recast text in a foreign tongue – the typical response to a translation request in many US corporations used to be: ‘Get a secretary to do it’. Translation is often thankless; ask a dozen marketing managers for their experience, and their only memories will be of translation errors. A professional translation does not enjoy praise – it merely avoids criticism (Sprung 2000:XII).

But a certain ambivalence is observable as well in attempts to define more precisely the limits of the translator’s professional ethics in the framework of translation theory. It turns out that there is no single, universal ethic comparable to the Hippocratic oath in medicine.

Professional ethics

A. Chesterman has made a very serious attempt at a transition from communication to autocommunication, from various ethical models to a unified understanding of the professional ethics and likewise moral identity of the translator. In his opinion, the concepts of the ethics of translation and the translator that exist in translation theory come down to four basic models. The first model is the ethics of representation, at the core of which lies fidelity to the original: “The ethical imperative is to represent the source text, or the source authoŕs intention, accurately, without adding, omitting or changing anything” (Chesterman 2001:139). The second model is the ethics of service. Here translation is “а commercial service, performed for a client. /…/ A prime quality of good translator-servants is thus loyalty; they are loyal above all to the client, but also to the target readers and to the original writer” (Chesterman 2001:140).

[…] i traduttori professionali hanno avuto per molto tempo un problema d’immagine. Il ritratto dei traduttori che deriva dalla maggior parte dei manuali non è lusinghiero: si scopre che gli italiani hanno coniato il motto “traduttore traditore”. I committenti di un servizio linguistico spesso non si rendono conto delle competenze necessarie per riformulare un testo in una lingua straniera: la classica risposta a una richiesta di traduzione in molte imprese statunitensi era «fallo fare a una segretaria». Spesso la traduzione è ingrata; se chiediamo a diversi dirigenti nel marketing delle loro esperienze, si ricorderanno solo degli errori di traduzione. Un traduttore professionale non riceve elogi, semplicemente evita le critiche (Sprung 2000:XII).

Ma si può osservare una particolare ambivalenza anche nei tentativi di definire in maniera più precisa i limiti dell’etica professionale del traduttore nel quadro della teoria traduttiva. Si nota che non esiste un’etica unica e universale come il Giuramento d’Ippocrate nella medicina.

Etica professionale

A. Chesterman ha fatto un tentativo molto serio di passare dalla comunicazione all’autocomunicazione, da vari modelli etici a una comprensione unica dell’etica professionale così come dell’identità morale del traduttore. Secondo lui i concetti dell’etica della traduzione e del traduttore che esistono nella teoria traduttiva sono a quattro livelli basilari. Il primo modello è l’etica della rappresentazione, al centro della quale troviamo la filologia dell’originale: «L’imperativo etico consiste nel rappresentare il prototesto o l’intenzione originale dell’autore, in modo accurato, senza aggiungere, omettere né cambiare qualcosa» (Chesterman 2001:139). Il secondo modello è l’etica del servizio. Qui la traduzione è «un servizio commerciale, svolto per un cliente. […] La qualità principale di un bravo traduttore di servizio è quindi la lealtà; è leale prima di tutto al cliente, e anche ai lettori previsti e all’autore» (Chesterman 2001:140).

Тhe third model is the ethics of communication, within the framework of which “the ethical translator is a mediator working to achieve cross-cultural understanding” (Chesterman 2001:141). The fourth model is norm-based ethics, the observation of which guarantees the acceptability of the translation. The concept of trust is important here: “…if translators behave in predictable, norm-conforming ways, it is easier to trust them – and the profession as a whole” (Chesterman 2001:142). In the author’s opinion, these models are too heterogeneous and rely too little on the qualitative indicators of translation practice.

By way of compensation, Chesterman proposes an ethics of commitment, which rests on a practical evaluation of translation activity: “It is thus also a virtue, supporting the striving for excellence, the wanting to be a good translator” (Chesterman 2001:147). An awareness of duty is very close to an oath, and Chesterman calls for us to imagine an oath for translators, or a Hieronymic oath. He first proposes nine points for this oath with the following key concepts for the comprehension of the professional ethics of translators: commitment, loyalty to the profession, understanding, truth, clarity, trustworthiness, truthfulness, justice, striving for excellence (Chesterman 2001: 153). Understandably, these keywords are not only bearers of ethical principles – the identity and the self-awareness of translators depend on them as well. Returning to the problem of the dialectical situation, it’s possible to say that the enumerated keywords are important elements of the language of the dialogue in which translators sense a need or demand, a dialogue which takes place between translators and contemporary society and without which it is difficult to find in society a common understanding on questions of the status of the translator’s profession.

Il terzo modello è l’etica della comunicazione, all’interno del cui quadro «il traduttore etico è un mediatore che lavora per ottenere una comprensione interculturale» (Chesterman 2001:141). Il quarto modello è l’etica basata sulle norme, il cui rispetto garantisce l’accettabilità della traduzione. In questo ambito è importante il concetto di «fiducia»: «[…] se i traduttori si comportano in modo prevedibile e conferme alle norme, è più facile avere fiducia in loro e nella loro professione in generale» (Chesterman 2001:142). Secondo l’autore, questi modelli sono troppo eterogenei e dipendono troppo poco dagli indicatori qualitativi della pratica traduttiva.

In compenso Chesterman propone un’etica dell’impegno, che si basa su una valutazione pratica dell’attività traduttiva: «È quindi anche una virtù fare di tutto per eccellere e voler essere un buon traduttore» (Chesterman 2001:147). Una consapevolezza del dovere è molto vicina a un giuramento, e Chesterman ci chiede di immaginare un giuramento per i traduttori, o giuramento di san Girolamo. Per prima cosa propone nove punti per questo giuramento con i seguenti concetti chiave per comprendere l’etica professionale dei traduttori: impegno, lealtà alla professione, comprensione, verità, chiarezza, affidabilità, sincerità, giustizia, mirare all’eccellenza (Chesterman 2001:153). Comprensibilmente, queste parole chiave non sono solo portatrici dei principi etici, da loro dipendono anche l’identità e la consapevolezza di sé dei traduttori. Tornando al problema della situazione dialettica, si può affermare che le parole chiave elencate sono elementi importanti della lingua e del dialogo nei quali i traduttori percepiscono un bisogno o una domanda, un dialogo che avviene tra i traduttori e la società contemporanea, senza il quale è difficile trovare nella società una base comune sulle questioni dello status della professione del traduttore.

 

Self-description and self-modelling

Research in the field of translation ethics well illustrates the efforts of one area of culture toward self-understanding and self-description. Self-description is a process of autocommunication, and its result can be a self-modelling that fixes the dominants, the principles of unification, and the generative language of self-description. Lotman defined self-modelling (aвтомодель) on the basis of a culture as a whole. “Self-modelling is a powerful means for the ‘end-regulation’ of a culture, attributing to it a systematic unity and largely defining its quality as a reservoir of information” (Лотман 1970:420). Lotman sees in culture three types of realization of self-modelling: 1) self-modellings of culture that strive toward a maximal approach to real existing culture; 2) self-modellings that are distinct from the practice of culture and are counted toward the changing of that practice; 3) self-modellings that exist as an ideal self-awareness of the culture distinct from the culture as such (Lotman 1970:420).

The movement in the direction of a Hieronymic oath is the creation of a self-modelling of the second type, counting toward the change of existing practices. But if we return to the problem, not of the translator, but of the translation, then it is possible to observe behind the dynamic of development two parallel self-modellings and correspondingly two types of metalanguage. And the mixture of these metalanguages illustrates the deep internal bond between processes of thought and metacommunicative processes in culture, and an understanding of this unity traces back to the work of Jakobson. His differentiation of interlinguistic, intralinguistic, and intersemiotic translation is an attempt at the modelling of internal speech.

 

Descrizione e automodellizzazione  

Diversi studi nell’ambito dell’etica traduttiva illustrano molto bene i tentativi di un’area della cultura verso la comprensione e la descrizione di sé. La descrizione di sé è un processo di autocomunicazione, e il suo risultato può essere un tentativo di modellizzazione che fissa le dominanti, i princìpi di unificazione e il linguaggio generativo della descrizione di sé. Lotman ha definito la modellizzazione sulla base di una cultura in generale. «La modellizzazione è un mezzo efficace per la regolazione finale di una cultura e le attribuisce un’unità sistematica e definisce soprattutto la sua qualità di bacino d’informazioni» (Lotman 1970:420). Nella cultura Lotman distingue tre tipi di realizzazione della modellizzazione :

1)    la modellizzazione della cultura che affronta una cultura esistente;

2)    la modellizzazione  che si distingue dalla pratica della cultura e che mira al cambiamento di questa pratica;

3)    la modellizzazione come consapevolezza di sé ideale di una cultura distinta dalla cultura in quanto tale (Lotman 1970:420).

Il movimento nella direzione del giuramento di san Girolamo è creazione di una modellizzazione del secondo tipo, che punta al cambiamento delle pratiche esistenti. Ma se torniamo al problema, non del traduttore, ma della traduzione, è possibile osservare dietro la dinamica dello sviluppo due tipi di modellizzazione paralleli e quindi due tipi di metalinguaggio. La mescolanza di questi metalinguaggi mostra il legame interno profondo tra i processi di pensiero e i processi metacomunicativi nella cultura, e una comprensione di questa unità è già presente nell’opera di Jakobson. La sua differenziazione tra traduzione interlinguistica, intralinguistica e intersemiotica è un tentativo di modellizzare il discorso interno.

N. Zhinkin has shown the code-transitions within internal speech and the coexistence of verbal and representational codes. He has also extended the results of the analyis of internal speech to the processes of understanding: “understanding, that is, the reception of messages, should be viewed as translation from one language into another. Moreover, a language of representation must be one of these languages, since the first, perceived step toward the knowledge of reality is made up of them” (Zhinkin 1998:161).

It’s possible to say that the formation of self-modelling of the first type – that is, maximally reflecting reality – takes place in an understanding of the mechanisms of translation. And it’s logically consistent that this model is found still in the process of formation and that translation theory only makes an approach toward this problem. The semiotics of culture clarifies the difficulty of this process, where the comparability of personality and of culture as a collective personality is important. In this way, if the three types of translation outlined by Jakobson reflect the simultaneity of three processes in the psychological process of translation, then the same simultaneous process takes place in culture. Communication is not thinkable without metacommunication, and a translation as a secondary text is only one of many possible metatexts of one and the same original (Popovič 1976). All of these metatexts can be typologized on the basis of Jakobson’s classification. And the result is that the entire culture can be conceived of as a process of translation.

The creative and mediating processes operating in culture can be treated as a communicative, metacommunicative and autocommunicative complex. Any creator, while creating his/her work, communicates both with the audience and with himself/herself.

N. Zhinkin ha mostrato le transizioni dei codici nel discorso interno e la coesistenza dei codici rappresentativi e verbali. Egli ha inoltre esteso i risultati dell’analisi del discorso interno ai processi di comprensione: «la comprensione, ossia la ricezione dei messaggi, va vista come traduzione da un linguaggio a un altro. Inoltre, il linguaggio di rappresentazione deve essere uno di questi linguaggi, dato che il primo passo verso la conoscenza della realtà è costituito da essi» (Zhinkin 1998:161).

Si può affermare che la formazione della modellizzazione del primo tipo, che riflette la realtà al massimo, avviene in una comprensione dei meccanismi della traduzione. Ed è quindi logico che questo modello sia ancora in fase di formazione e che la teoria della traduzione sia solo un approccio a questo problema. La semiotica della cultura spiega la difficoltà di questo processo, dove è importante la comparabilità della personalità, e della cultura come personalità collettiva. In questo modo, se i tre tipi di traduzione delineati da Jakobson riflettono la simultaneità dei tre processi nel processo psicologico della traduzione, lo stesso processo simultaneo avviene nella cultura. Non si può pensare alla comunicazione senza la metacomunicazione, e una traduzione come testo secondario è solo uno dei tanti possibili metatesti dell’originale (Popovič 1976). Tutti questi metatesti possono essere tipologizzati sulla base della classificazione di Jakobson. Di conseguenza tutta la cultura può essere concepita come processo di traduzione.

I processi creativi e mediativi che operano nella cultura possono essere trattati come un complesso comunicativo, metacomunicativo e autocomunicativo. Ogni ideatore, mentre realizza la sua opera, comunica sia con il pubblico sia con sé stesso.

 

The same happens with culture as a collective creator. All the texts of different cultural spheres and all the advertisements, reviews, annotations, translations, studies, screen and stage adaptations, and lectures make up culture as a whole, offering, as an integrated unity, to the society a possibility for self-control and learning, balance between mass and elite culture, but also enforcing certain official or average ways of perception and understanding.

On the one hand, understanding a text means juxtaposing this text’s all possible forms of existence in culture. The intensive growth of audiovisual and hypermedial experience of culture has created a new problem also for the analyst. The sign systems of perceptual processes influence understanding more and more, and even for understanding a novel in culture only verbal experience is not sufficient any more. A computer game, a comic strip or a film created on the basis of one text are all part of this text’s mental whole in culture, and the analyst cannot ignore this fact.

On the other hand, all the metatexts that have emerged in culture form a process of a text’s translation into culture and recognition in culture. From the point of view of culture as a whole, this process is autocommunicative, since in order to explain a phenomenon, culture searches for description languages that are suitable to it. Being autocommunicative, culture tries to increase the quantity of information in itself, to raise its quality and to change itself through this.

The association of problems of translation simultaneously with communication and metacommunication indicates both the naturalness of the complex approach to translation activity and the multi-leveled nature of communication processes in culture.

Lo stesso avviene con la cultura come ideatore collettivo. Tutti i testi di sfere culturali differenti e tutte le pubblicità, le recensioni, le annotazioni, le traduzioni, gli studi, gli adattamenti allo schermo e al palco e le lezioni costituiscono la cultura nel suo insieme, offrendo, come un’unità integrata, alla società una possibilità di autocontrollo e apprendimento, un equilibrio tra cultura di massa e d’elite, ma anche di mettere in pratica particolari modalità di percezione e comprensione ufficiali o diffuse.

Da un lato, comprendere un testo significa giustapporre tutte le forme possibili di esistenza nella cultura di questo testo. La crescita intensa dell’esperienza audiovisiva e ipermediale della cultura ha portato alla nascita di un nuovo problema anche per gli analisti. I sistemi di segni dei processi percettivi influenzano la comprensione sempre di più, e anche per comprendere un romanzo nella cultura non basta più solo l’esperienza verbale. Un gioco al computer, un fumetto o un film realizzati sulla base di uno stesso testo fanno tutti parte di questo insieme mentale del testo nella cultura, e un analista non può ignorare questo fatto.

Dall’altro lato, tutti i metatesti che sono emersi nella cultura formano il processo della traduzione di quel testo nella cultura e di riconoscimento nella cultura. Dal punto di vista della cultura in generale, questo processo è autocomunicativo, dato che, per spiegare un fenomeno, la cultura cerca linguaggi descrittivi adeguati. Essendo autocomunicativa, la cultura cerca di aumentare la quantità delle informazioni, per aumentare la sua qualità e per cambiarsi.

Il fatto che i problemi traduttivi siano sia comunicativi sia autocomunicativi indica sia la naturalezza dell’approccio complesso nei confronti dell’attività traduttiva, sia la natura a più livelli dei processi comunicativi nella cultura.

That which on one level of culture manifests itself as a process of communication and a dialogue between addresser and addressee can be seen on a deeper level as the autocommunication of culture and a dialogue of the culture with itself. It is very important axiologically to see both levels, since autocommunicative processes increase the coherence of a culture, support its identity, and do this with the help of self-modellings. The wealth of a culture is not only in the diversity of texts and events, but also in the diversity of self-modellings of various types in various parts of the culture.

If one wants to understand translation, it is necessary to look at all its aspects from the psychological to the ideological. And it is necessary to see the process of translation, on the one hand, as a complex of interlinguistic, intralinguistic, and intersemiotic translations, and on the other hand, as a complex of linguistic, cultural, economic, and ideological activity. Then it is also easier to approach the translator, perhaps the most important cultural figure of our time. In the logic of the development of translation theory from the concept of fidelity to the original, equivalence, and adequacy, through the concept of acceptability and useability, toward various overarching theories, a communicative understanding of translation has been realized. The analysis of the activity of the translator along with communicative activity and autocommunicative activity opens a new perspective for the understanding of the phenomenon of translation and compels us to study more seriously the axiological and moral problems of translation.

This research was supported by the European Union through the European Regional Development Fund (Center of Excellence CECT) and Estonian Science Foundation (grant 7594).

Il fatto che a un livello la cultura si mostri come processo di comunicazione e di dialogo tra mittente e destinatario può essere visto a un livello più profondo come autocomunicazione della cultura e dialogo della cultura con sé stessa. Assiologicamente è molto importante osservare entrambi i livelli, dato che i processi autocomunicativi aumentano la coerenza di una cultura, sostengono la sua identità, e lo fanno grazie alla modellizzazione. La ricchezza di una cultura non consiste esclusivamente nella diversità dei testi e degli eventi, ma anche nella diversità della modellizzazione di diversi tipi in diverse parti della cultura.

Se si vuole comprendere in pieno la traduzione, è necessario osservare tutti i suoi aspetti, da quelli psicologici a quelli ideologici. Inoltre è necessario osservare il processo traduttivo, da un lato come complesso di traduzioni interlinguistiche, intralinguistiche e intersemiotiche, dall’altro come complesso di attività linguistiche, culturali, economiche e ideologiche. Così è anche più facile affrontare la figura del traduttore, forse la figura culturale più importante dei nostri tempi. Nella logica dello sviluppo della teoria traduttiva dai concetti di fedeltà all’originale, di equivalenza, di adeguatezza, attraverso i concetti di accettabilità e usabilità, verso diverse teorie generali, è stata raggiunta una comprensione comunicativa della traduzione. L’analisi dell’attività del traduttore, insieme all’attività comunicativa e autocomunicativa, dà accesso a una nuova prospettiva per la comprensione del fenomeno della traduzione e ci costringe a studiare più seriamente i problemi assiologici e morali della traduzione.

 

 

 

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